#Lucy di San Germano
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fuad-ramses-73 · 1 year ago
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Lucy Sangermano da Truus, Bob & Jan too! Tramite Flickr: Italian postcard by Ed. G. Vettori, Bologna, no. 13, 1058. Photo: UCI (Unione Cinematografica Italiana). Lucy di San Germano aka Lucy Sangermano (1898-?) was an Italian silent film actress who peeked in the late 1910s and early 1920s.
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mudwerks · 6 years ago
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Lucy Di San Germano
Italian postcard by Unione Cinematografica Italiana, Roma, no. 164. Collection: Marlene Pilaete
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netlex · 8 years ago
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Lucy Sangermano aka Lucy di San Germano
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ziellablog · 8 years ago
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La ferita   A Est, il cielo è più chiaro , sopra la città lontana; di un colore che tende al rosa, ma appesantito da qualcosa di grigio, che non è semplice sfumatura, bensì sostanza di pulviscolo vagante. Tutto intorno, il nero delle montagne è punteggiato dalle cento luci dei villaggi sparsi a mezza costa. Non si sentono ancora, fra i rami del ciliegio, gli uccelli proclamare il loro risveglio dal giardino della vicina. Il gatto dell’altra vicina, lasciato all’addiaccio durante la notte, tenta di intrufolarsi in cucina, strusciandosi contro le mie gambe mentre sto uscendo. Non è buio fitto e solo per questo lo vedo e non inciampo. Risalendo la valle lungo la strada  del paese ancora addormentato, mi vengono incontro i fari delle poche automobili dirette al lavoro e qualche autobus. Gruppi di studenti sono in attesa alle fermate. L’addetto al distributore attesta la sua presenza presso la stazione di servizio appendendo cartelli alle vetrate dell’ufficio; poco più in là, alcune luci brillano sul retro della panetteria dalle serrande abbassate. Tutti i lampioni sono ancora accesi, sottraendo alla vista il paesaggio che sta intorno. Le ultime case, il campo sportivo; bene allineati sul bordo dei fossi, ammassi fangosi di detriti lì trascinati dalla recente alluvione, ammonticchiati e abbandonati in attesa di ulteriori provvedimenti. Oltrepasso il Malanaggio (De Malasorte), piccola borgata sovrastata da grandi rocce, un tempo luogo di imboscate per chi si apprestava ad entrare nell’alta valle, fino a quando non venne costruita da Napoleone l’attuale strada statale numero 23.L’acqua del torrente alla mia sinistra ha ormai perso l’impeto devastante di qualche giorno prima e gorgoglia appena fra i massi e i cumuli di pietrame del suo letto.  Alla base del contrafforte roccioso incombente sulla destra, protetta da un’imponete muraglia, l’ampia curva della strada buca la strettoia all’imbocco della valle del Chisone.  Volendo, puoi proseguire all’infinito lungo il corso del torrente in direzione dei valichi persi nell’oscurità e immaginare di fermarti in una delle più rinomate mete turistiche invernali, oppure di raggiungere paesi esteri dai quali non fare ritorno. Se invece non temi l’estraneità delle valli laterali, puoi imboccarne qualcuna a caso, e saprai di esserti addentrato nelle terre di uno dei tanti mondi che non esistono, perché estranei alla coscienza e alla comprensione dei contemporanei. Terre a volte impietose, quando le popolazioni stremate dalle privazioni e dall’isolamento non avevano altra scelta che di valicare a piedi quei monti per cercare lavoro nell’emigrazione, ma anche sicuro rifugio dai persecutori, proprio per l’inaccessibilità  e per la conformazione selvaggia dei luoghi. Alla seconda rotonda, dal vecchio ponte a volta, che ha resistito immobile sotto l’urto della piena, per un bizzarro fenomeno ottico fatto di luci ed ombre, sembrano condensarsi in presenze quasi corporee figure di visitatori giunti da molto lontano. Perché, se oltrepassi quel ponte, come gli altri sulla desta orografica che incontrerai man mano che procedi, finirai con l’infilarti, che tu lo sappia o no, in una delle tante fenditure verticali che a intervalli non sempre regolari aprono passaggi momentanei nel muro del tempo. Bastano pochi passi in salita verso le montagne che si elevano alte incontro al cielo, basta un’occhiata ai cartelli stradali, o uno sguardo di sfuggita agli edifici laterali, per cadere a capofitto nella Storia, ma se vuoi muoverti a tuo agio in quella dimensione devi per forza andare a piedi. Ti imbatterai in segnalazioni di percorsi guidati, cartelli esplicativi, aree turistiche attrezzate, frecce direzionali che rimandano a decine di piccoli musei, a rocce a strapiombo, a remoti pianori già sede di adunanze, persino a siti preistorici e incisioni rupestri. Quello che non puoi fare, incontrando abitanti di vecchia data, è di scorgere nella loro fisionomia dei richiami a qualche figura della letteratura europea che puoi esserti immaginato grazie alle letture più diverse. Nessuno scrittore, infatti, ha mai reputato le persone che qui vivono o hanno vissuto suscettibili di essere innalzate a protagoniste di storie che seguano una trama, abbiano un loro sviluppo e una loro conclusione. Niente innamoramenti, né triangoli amorosi, né fughe romantiche, né tradimenti sui quali sorvolare, che sono gli ingredienti ritenuti degni di un racconto scritto che ambisca a trovare un suo mercato. Non che siano mancati accoppiamenti di varia natura, suicidi, adulteri, ubriachezza molesta, botte da orbi, persino omicidi, ma tutta roba che fa parte della tragedia della vita, e di cui è bene tacere. Oppure trasfigurarle in racconti di apparizioni, di sogni, di presenze,  narrati a mezza voce a tarda ora, che passino di bocca in bocca a rappresentare un destino comune, e che rimangano impressi nella memoria orale attraverso i nomi dei luoghi e la loro configurazione. Malanaggio; le Garde; il Salto del diavolo; la Roccia delle fate; la Roccia dei folletti; il Lago dell’uomo; la Fontana della peste; il Lago della Malanotte …  La costruzione del ponte di San Germano risale al 1836, quando il re Carlo Alberto volle collegare il Vallone del torrente Risagliardo con la strada di Napoleone. Il Risagliardo, in realtà, ha nome Rûzilhart, vale a dire «colui che rosicchia», con sfumature di significato che potrebbero connotarlo anche come «litigioso» o «attaccabrighe», e confluisce nel Chisone in prossimità dell'ex cotonificio Widemann, impiantato all’entrata del paese dal barone Mazzonis di Pralafera nel 1862.  Correva l’anno  1894 quando il pastore Carlo Alberto Tron (1850 –1934) fondò l’«Asilo Dei Vecchi - Umberto-Margherita» con l’aiuto economico di vari donatori. L’Asilo fu aperto il primo gennaio 1895, proprio per venire incontro alle necessità più impellenti della popolazione valligiana, umiliata dalla povertà e dall’isolamento. Più risali all’indietro nel tempo, e più ti giunge all’orecchio l’eco di nomi altisonanti, dei quali rimane traccia cospicua nei libri e negli opuscoli. L’Ospizio fatto costruire dal pastore Tron, dunque. Ristrutturato nel 1989 con il sostegno finanziario della popolazione e delle Chiese Evangeliche della Germania e della Svizzera, da severo e un po’ tetro edificio qual era (il primo fu edificato «per raccogliere quei vecchi che sono senza casa e senza famiglia dando loro l’opportunità di vivere in pace»), è stato trasformato in una ampia ed accogliente casa di riposo per anziani, inserita nella rete dei Servizi territoriali, che può ospitare fino a 96 persone. Così la pubblicità. Ad ogni buon conto, tutti continuano a chiamarlo «Asilo dei vecchi», ed è innegabile che quella sia la sua funzione: di essere un asilo, un rifugio, un tetto sopra la testa, un boccone di pane, un bicchier d’acqua, un letto. E di ospitare dei vecchi. Attualmente quella è anche la casa della mia amica. Un giorno mi dice: «Me la puoi recitare, quella poesia che racconta della foglia di faggio che il vento divide dal suo ramo? Mi fa piangere, ma è un pianto che fa bene».  E alla fine piange a singhiozzi: «Io sono quella foglia!»  L’ultima volta che l’ho vista, la scorsa settimana, si era appena esaurita l’ondata di piena di fine Novembre; tutto intorno rimanevano le strade comunali ostruite dalle frane, le borgate isolate, gli acquedotti danneggiati, gli alberi divelti. Il Chisone aveva da poco restituito la sua vittima di qualche giorno prima, ghermita alcuni chilometri più a monte, e abbandonata nei pressi del ponte alla compassione di un isolotto appena riemerso. Con  occhi senza lacrime e sbarrati sulla scena del sogno dal quale non riusciva a districarsi, scrutava nelle profondità di mondi paralleli, che lei continuava a vedere davvero. Scenario di sostegno e responsabilità condivise, ma anche di debolezza, di tradimento e di abbandono.   Tre donne ancora giovani, che si conoscono molto bene, si preparano a un incontro importante con altre donne per l’indomani. Tutte le camere dell’albergo che le ospita sono occupate, tranne una. Il letto che la arreda, dalle dimensioni insolite, ne ingombra quasi tutto lo spazio, ma si presta bene ad accoglierle tutte e tre: due dalla parte della testa, una dalla parte dei piedi. «Mi ero appena addormentata, quando un chiodo mi lacera le carni. Dalla coscia all’ascella, tutto il fianco destro. Scendo dal letto per chiedere aiuto, e mi accorgo che la responsabile che riposava accanto a me è andata via. Provo a svegliare la seconda compagna, all’altro capo del letto, ma la vedo infilarsi in modo brusco sotto le coperte, che si spostano piano, segnando l’onda del suo corpo strisciante. Tutta la superficie dove dormiva è bagnata al tatto e lo spazio del suo nascondiglio si fa sempre più profondo. Suona un telefono, dal comodino. È mio fratello, che mi grida: c’è l’alluvione! Vengo a prenderti. Esci da quell’albergo, ché è un posto orribile! Ma mio fratello non è più con noi ormai da molti anni. Mi ha telefonato dall’aldilà! Chi mi ha ferita in questo modo? Provo a scappare dell’albergo. Lunghi corridoi, con tante porte chiuse. Solo una è aperta, e dà sulle scale, ma a quelle scale non ci arrivo. Ti posso far vedere la ferita? Scusa, mi dispiace, devo sollevare la camicia da notte e non ho niente sotto. Non dirmi che non vedi il segno del chiodo!» «Lo vedo, dico. Ma non sanguina più». E mentre, piano piano, lo sguardo le si fa più presente, passi echeggiano nel corridoio, un rotolìo di ruote di carrelli, un tintinnìo di stoviglie. Porte che si aprono dopo il riposo pomeridiano degli ospiti, voci che si rincorrono. Tutto torna al presente, ora,  in questo Asilo.  Dicembre 2016
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1910s pornography
A brief history of pornography until 1910 - The Fulcrum
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tempi-dispari · 8 years ago
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Il progetto Europa INcanto arriva al Parco archeologico di Ostia antica con Il Flauto Magico
Dopo il debutto, nel tempio storico della lirica, il Teatro San Carlo Di Napoli, il 10 giugno arriva al Teatro Romano di Ostia Antica la versione speciale, coloratissima e esplosiva de IL FLAUTO MAGICO di Wolfgang Amadeus Mozart, messa in scena secondo l’innovativo metodo didattico di Scuola InCanto che ha visto protagonisti decina di migliaia di studenti delle scuole dell’infanzia elementari e medie di varie città italiane.
Il progetto, dopo i successi entusiasmanti della Traviata di Giuseppe Verdi (2015) e della Cenerentola di Gioacchino Rossini (2016), quest’anno ha previsto la messa in scena del Il Flauto Magico di Wolfgang Amadeus Mozart tra le opere più originali, fiabesche e adatte a un pubblico di bambini.
Una vera e propria festa della musica e del teatro che dal suo debutto ha coinvolto, ogni giorno, migliaia di studenti, insieme ai loro insegnanti e alle loro famiglie.
Tutti i partecipanti, prendendo parte attivamente allo spettacolo, interpretano insieme ai cantanti e all’ensemble musicale i brani studiati nel corso dell’anno, eseguendo movimenti scenici e coreografici e salendo sul palcoscenico con i costumi e gli elementi di attrezzeria da loro stessi realizzati.
Convinti dell’importanza di formare le nuove generazioni e contemporaneamente di valorizzare i talenti e le professionalità del settore artistico, Europa InCanto ha formato un cast artistico costituito da giovani e giovanissimi cantanti e musicisti, che possono trovare in questo progetto la possibilità di perfezionarsi e di confrontarsi un pubblico ampio e vario. 
Per quanto riguarda l’aspetto musicale il Maestro Germano Neri, direttore artistico del progetto e direttore dell’orchestra di Europa Incanto, si richiama all’origine del Flauto stesso, la “commedia fantastica”. E così scrive nelle sue note: “È un genere popolare e assolutamente non incolto, leggero ma non comico, musicale ma con grande importanza anche della recitazione. Un caratteristica tipica e originale delle composizioni di Mozart. La scelta di un giovane cast per le rappresentazioni ha dato la freschezza musicale finale affinché la rappresentazione diventi di pregio naturale e assolutamente diretta nel sentire, senza convenzioni, che era esattamente quello che voleva Mozart. I personaggi sono in scena per raccontarci in quel momento quello che succede. E sono lì per viverlo”. La regia è curata da Lisa Capaccioli, che da anni si dedica con passione al progetto e che nelle sue note al Flauto pone l’accento sull’importanza del personaggio di Papageno, che si sdoppia e diventa “cantante” e “voce narrante e regista” di ciò che i bambini vedranno sul palcoscenico. Papageno accompagnerà i bambini nel mondo della musica di Mozart, dove – prosegue la regista – “la scena non è mai statica: infatti la scenografia si muove ed è stato richiesto ai cantanti di eseguire una precisa partitura di movimenti che segue l’andamento musicale. In questo continuo divenire il racconto procede diventando nuovamente presente”.
Ideato e realizzato dall’Associazione Musicale Europa InCanto, Scuola InCanto è un progetto didattico di avvicinamento alla lirica pensato per gli allievi e gli insegnanti della scuola dell’obbligo con lo scopo di diffondere la conoscenza e l’amore per la musica, l’opera e il teatro in generale.
Il progetto è stato riconosciuto dal MIUR come progetto di eccellenza nell’ambito de “Il Teatro in Classe”, per “la sua valenza didattica e formativa nel divulgare la conoscenza del teatro e della musica a scuola e nel portare direttamente gli alunni all’interno di prestigiosi teatri di tradizione per far vivere loro l’emozione del teatro da protagonisti”.  E, nel 2017, il progetto Scuola InCanto è risultato selezionato come Buona pratica culturale di eccellenza dalla Regione Lazio e incluso nel Catalogo delle Buone Pratiche, attualmente in corso di realizzazione. Per il prossimo anno l’opera prescelta è l’AIDA di Verdi.
Appassionare le nuove generazioni alla lirica, patrimonio storico-culturale comune e identitario per il nostro Paese, è una vera e propria sfida che Europa InCanto porta avanti anno dopo anno con risultati vincenti come testimoniano la sempre crescente adesione al progetto e la straordinaria energia e l’entusiasmo che tutti i partecipanti mettono nelle attività didattiche e nello spettacolo finale, emozionante momento di condivisione e di fruizione collettiva dell’esperienza maturata. Per rendere davvero accessibile a tutti e, in particolare, ai più giovani il mondo dell’opera, Europa InCanto ha sperimentato un originale ed innovativo metodo didattico, capace di fornire gli strumenti utili a comprendere la lirica in tutte le sue componenti: dalla lingua, al canto, dalla musica, alla recitazione, alle arti visive. Questo metodo, che accompagna insegnanti e allievi nel corso dell’intero anno scolastico, prevede diverse fasi di lavoro nelle classi e in teatro ed è basato sul materiale didattico fornito ad ogni partecipante. Il libro, il cd e il dvd interattivo con il karaoke dell’opera costituiscono un prodotto editoriale e musicale unico capace di coniugare alta qualità tecnica ed artistica al divertimento, trasformando l’apprendimento dell’opera in un gioco piacevole ed aggregante.
Scuola InCanto si prefigge l’obiettivo di andare oltre l’incontro nelle classi e nelle scuole, approfondendo la relazione mirata all’interno del tessuto sociale delle città, entrando nelle case e tra le famiglie: i genitori, i nonni, gli amici non saranno solo il pubblico dello spettacolo finale, ma possono partecipare al percorso formativo dei bambini, cantando e imparando insieme a loro. A compimento del percorso, c’è la messa in scena dello spettacolo finale, dove insieme ad artisti professionisti, i veri protagonisti sono i bambini.
IL FLAUTO MAGICO di Wolfgang Amadeus Mozart
Direttore Artistico e  Direttore d’Orchestra: Germano Neri
Riduzione e Adattamento: Nunzia Nigro
Regia: Lisa Capaccioli
Scenografia: Giulia Breno
Costumi: Francesco Morabito
Luci: Michelangelo Vitullo
Maestro di Palcoscenico: Marco Bosco
Maestro Formatore docenti: Giovanni Mirabile 
Assistente alla Regia: Alessandra De Luca
  CANTANTI
Pamina: Maria Rita Combattelli, Costanza Fontana, Claudia Muschio, Marika Spadafino
Tamino: Joseph Dahdah, Francesco Lucii, Matteo Roma, Antonio Sapio
Papageno: Stefano Cianci, Alfonso Michele Ciulla, Giuseppe Zema
Prima Dama e Papagena: Thais Alessia Berardi, Brigitte Canins, Flavia Colagioia, Beatrice Cresti
Seconda Dama e Papagena: Francesca Cucuzza, Alessia Salerno, Silvia Sammarco
Terza Dama: Irida Dragoti, Eva Maria Ruggieri, Giulia Tenuta
Sarastro: Daniele Cusari, Daniele Panza, Davide Procaccini
Monostatos: Nicola Di Filippo, Arda Erol, Simone Lollobattista
Regina della Notte: Francesca Benitez, Giulia Mazzola, Claudia Sasso
NARRATORI\ Papageno: Daniele Aureli, Domenico Bisazza, Lorenzo Menicucci
  ORCHESTRA Europa InCanto
Violini primi: Ivan Cocchia, Valentina Del Re, Daniel Myskin
Violini Secondi: Adamo Fratarcangeli, Adele Napoli, Francesca Sbaraglia
Viole: Raffaele Cocchia, Stefano Lagatta, Ambra Chiara Michelangeli, Roberta Rosato
Violoncello: Fabrizia Pandimiglio, Alice Romano, Riccardo Viscardi
Contrabbasso: Camillo Calarco, Pasquale Pellegrino, Tommaso Spada
Flauti: Leonardo Grittani, Vincenzo Sartoriello, Marialice Torriero
Fagotto: Edoardo Capparucci, Stefania Ferri, Paolo Lamagna
Pianoforte: Jongrey Kwag, Gariele Mantia, Luca Oddo
DIREZIONE DI PRODUZIONE: Matteo Bonotto,
SEGRETERIA DI PRODUZIONE Ndeye Gnima Manga, Francesca Cricco
MAESTRO FORMATORE DOCENTI: Giovanni Mirabile
  TEAM PREPARATORI STUDENTI
Fabio Carrieri, Guendalina Casa, Dayana D’Aluisio, Irida Dragoti, Francesco Finori, Annalisa Ferraro, 
Myra La Rosa, Simone Lollobattista, Christian Moschettino, Giuseppe Nicodemo, Laura Paolillo,
Andrea Tarantino, Stella Ziino
    REGIA di Lisa Capaccioli
“Quella mattina era per me un giorno uguale a tutti gli altri. Come sempre mi preparavo ad affrontare la giornata canticchiando e fischiettando i miei motivetti”. Questo è l’incipit del libro “il flauto magico” scritto da Nunzia Nigro e consegnato ai bambini appartenenti alle classi che aderiscono al progetto Scuola InCanto, libro su cui possono conoscere, insieme agli insegnanti, la storia dell’opera che poi andranno a vedere e di cui canteranno alcune delle più famose arie a teatro. La voce narrante è quella di Papageno e, traendo un efficace spunto da questa suggestione del libro, proprio sul suo racconto si basa l’idea della messa in scena: guardando attraverso gli occhi del Papageno narratore, interpretato da un attore con le stesse fattezze del Papageno cantante, l’opera ha inizio. Lo troviamo così, in un tempo posteriore alla vicenda, a ricordare le proprie avventure e a consegnarcele attraverso la scrittura delle sue memorie in un grande libro alla cui apertura usciranno, come in un sogno, le ambientazioni e i personaggi.  Grazie al suo ricordo tutto si comporrà sotto gli occhi dei nostri piccoli grandi spettatori. Il narratore Papageno sarà il “regista” di ciò che accade sul palcoscenico e ci condurrà nelle scene più significative dell’opera, mostrandocene l’intreccio. Per sottolineare la musica di Mozart la scena non è mai statica: la scenografia si muove ed è stato richiesto ai cantanti di eseguire una precisa partitura di movimenti che segue l’andamento musicale. In questo continuo divenire il racconto procede diventando nuovamente presente.
  NOTE di Germano Neri – Direttore Artistico e Direttore Musicale
L’idea è di ricreare l’ambiente nel quale è nato IL FLAUTO MAGICO, la Kasperliade, genere tipicamente viennese di quel periodo. Commedia fantastica, un genere popolare ma assolutamente non incolto, leggero ma non comico, musicale ma con grande importanza anche della recitazione, un genere in alcuni momenti sentimentale ma mai patetico, qualcosa che oggi non esiste più se non nel genere del musical anglo-americano, erede diretto. Per fare questo abbiamo lavorato nell’asciugare il suono con orchestra e cantanti da tutte le convenzioni ottocentesche restituendo la semplicità d’esecuzione, tipica e originale delle composizioni di Mozart. La scelta di un giovane cast per le rappresentazioni ha dato la freschezza musicale finale affinché la rappresentazione diventi di pregio naturale e assolutamente diretta nel sentire, senza convenzioni, che era esattamente quello che voleva Mozart. I personaggi sono in scena per raccontarci in quel momento quello che succede. E sono lì per viverlo.
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mhlvnt-blog · 8 years ago
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The magic of TFP
Visite: 1 200 000 – U N M I L I O N E D U E C E N T O M I L A. Titolo, corpo e conclusione in un’unica cifra. Stop, articolo finito: il solo dato spiega il successo dell’evento dell’anno.
Christo ha permesso a tutto il mondo ciò che lui solo s’era immaginato di fare finora: muoversi a piedi seguendo il movimento fluttuante dell’acqua. L’artista bulgaro, naturalizzato statunitense, ha regalato al mondo l’ennesimo colpo di scena che ha generato sguardi sbalorditi, volti attoniti, bocche spalancate per lo stupore. Così, grandi e piccini, animali volatili e non, tutti abbiamo potuto vivere The Floating Piers; anzi eravamo noi stessi l’opera, a cavallo tra ingegneria e land-art, che Christo e sua moglie Jeanne Claude – scomparsa sei anni fa – iniziano a concepire nel 1970.
Da diversi anni sulla scena artistica mondiale, la coppia conosciutasi ed unitasi a Parigi, dopo aver impacchettato oggetti, monumenti, interi edifici, si dimostra intenzionata a ricercare con l’acqua un rapporto innovativo, cui nessun tipo di arte aveva mai aspirato prima. Si apre così la sezione degli Water Projects, in cui figurano la Wrapped Coast: one million square feet di Little bay, Sydney, Australia (1968-69), l’Ocean front di Newport, Rhode Island, U.S.A. (1974), la Running Fence nelle Contee Sonoma e Marin, California, U.S.A. (1972-76), il Pont Neuf wrapped di Paris, France (1975-85; fig.), le Surrounded islands di Biscayne Bay, Greater Miami, Florida, U.S.A. (1980-83), Over the River, lungo il fiume Arkansas, Colorado, U.S.A. (1992-in corso) e proprio The Floating Piers sul Lago d’Iseo, Italia (2014-16).
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Dapprima la foce del Rio de la Plata a Buenos Aires, Argentina, successivamente la baia di Tokyo, Giappone, sono stati seri candidati come sede per ospitare progetti i quali si sono dimostrati solamente il preludio alla lingua di fuoco che ha collegato Sulzano - Peschiera Maraglio – Isola di San Paolo, sul Lago d’Iseo, nelle ultime settimane. Infatti, l’idea di camminare sull’acqua, premessa per The Floating Piers, nasce con 2000 Meters Wrapped, Inflated Pier (1970), ma trovandosi ancora in uno stato embrionale non riesce a tramutarsi in realtà: per i due chilometri di passerella galleggiante pensati per il Rio de la Plata la coppia di artisti non otterrà mai le necessarie autorizzazioni e dopo alcune accurate indagini accantona temporaneamente l’idea. Anni più tardi la loro attrazione per l’acqua, spinta dalla sfida di riuscire ad offrire al mondo l’opportunità di godere di una passerella galleggiante, torna a farsi viva: il risultato è The Daiba Project (1996), all’Odaiba Park, Tokyo Bay, che purtroppo subisce la stessa sorte dei 2000 metri di Buenos Aires e non riesce a vedere la luce. Per la seconda volta Chisto e Jeanne Claude si vedono costretti a riporre nel cassetto questo loro sogno, i tempi ancora non sono maturi; entrambi i progetti presentano evidenti limiti: i luoghi che li hanno ispirati, prima di tutto, non risultano adatti per la tipologia di progetto – effettivamente le forti correnti presenti in mare aperto minerebbero la stabilità dell’opera – inoltre, le tecnologie che i due, con il loro gruppo di lavoro, sono soliti utilizzare non parrebbero le più adatte per far resistere l’installazione, in quanto trattasi di materiali di costruzione gonfiabili, simili a quelli adottati per altre opere precedenti.
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Il 2009 è un anno che segna particolarmente la vita dell’artista, ormai diventato pilastro mondiale nel campo dell’arte; il dolore dovuto alla perdita di Jeanne Claude gli conferisce indirettamente più determinazione per portare a termine quel progetto che lei stessa avrebbe voluto vedere realizzato. Un Christo visibilmente commosso nel discorso iniziale agli addetti ai lavori nel cantiere di Pilzone d’Iseo la ricorda come «una donna eccezionale; se fosse qui con noi sarebbe capace di contagiarci tutti per l’energia che era in grado di sprigionare, con quel suo modo di fare determinato, instancabile [...]». Abbandonata quindi l’idea iniziale di collocare l’installazione in acque salate, egli parte alla ricerca di un lago, luogo indubbiamente più consono per il montaggio, la gestione e la fruibilità dell’opera d’arte in questione. Complice l’amore per l’Italia, dove la coppia si è già ritrovata a lavorare – Wrapped Fountain and Wrapped Medieval Tower, Spoleto (1968; fig.), Wrapped Monuments, Milano (1970; fig.) e The Wall - Wrapped Roman Wall, Roma (1973-74; fig.) – e la presenza dell’isola lacustre, abitata, più grande d’Europa, il paesaggio alpino del Lago d’Iseo si è rivelato ottimo scenario e, tra la primavera e l’estate 2014, ha convinto il genio bulgaro e tutta la sua troupe a decretarlo sede definitiva per l’ultimo lavoro (in ordine temporale).
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Il terzo tentativo sembra essere quello vincente fin dall’inizio; l’estate dello stesso anno l’amico Germano Celant – storico dell’arte e curatore italiano, che tra i tanti vanta incarichi per il Guggenheim Museum di New York, il Centre George Pompidou di Parigi, la Biennale di Venezia, e attualmente direttore della Fondazione Prada a Milano – divenuto Direttore del Progetto, inizia a gettare le basi per ottenere tutte le concessioni necessarie, riscontrando totale disponibilità da parte delle istituzioni locali – nelle persone di Paola Pezzotti (sindaco di Sulzano), Fiorello Turla (sindaco di Monte Isola) e Giuseppe Faccanoni (presidente dell’Autorità di bacino del Lago d’Iseo) – e della famiglia Gussalli Beretta – per l’esclusivo permesso di includere l’Isola di San Paolo, di cui la nota famiglia bresciana è proprietaria, nell’opera. Inizia quindi tutta la fase artistica di stesura del progetto: Chisto, coadiuvato dall’amico nonché fotografo ufficiale e Direttore Tecnico Wolfgang Volz, si mette all’opera nel suo studio di New York per schizzi, bozzetti, disegni, rappresentazioni, dalla cui vendita ricava il denaro utile a finanziare la realizzazione, in quanto, come tutti i progetti dell’artista, anche The Floating Piers è interamente finanziato dai proventi delle opere originali – non esistono biglietti d’ingresso per le sue installazioni.
Il risultato del lavoro con matite, carboncini, pastelli a cera, smalti si rivela già qualcosa di sensazionale; il progetto raffigura due settori a terra, per un totale di 1,5 km e rispettivamente nel centro storico di Sulzano e sul lungolago che collega Peschiera Maraglio e Sensole su Monte Isola, e quattro settori in acqua della lunghezza complessiva di 3 km: uno che porta dalla terra ferma all’isola, due che partono da Ere e da Sensole – due zone su Monte Isola – e che si incontrano in mezzo al lago, e l’ultimo che circonda l’isoletta di San Paolo.
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Nel frattempo Vladimir Yavachev, nipote dell’artista e Direttore Operativo, e Wolfgang Volz, si preoccupano di effettuare tutti i test necessari per la selezione dei materiali, in base a parametri non solo estetici ed economici, come sarebbe logico pensare, ma anche fisici: per poter garantire la fruibilità seppur limitata a 16 giorni le passerelle devono vantare determinati requisiti statici, di resistenza, ergonomici, igienici. Anche l’aspetto ecologico assume notevole importanza: come per tutte le installazioni di Christo e Jeanne Claude, i pezzi dell’opera verranno rimossi e riciclati industrialmente.
Dopo varie prove svoltesi nel 2015 tra Bulgaria, Germania e Italia, la scelta finale per la struttura ricade su 220000 cubi di polietilene che assemblati tramite dei pioli dello medesimo materiale vanno a formare i pontili galleggianti larghi 16 metri, tenuti in sicurezza da 190 blocchi di ancoraggio di calcestruzzo. La conformazione dei fondali del Lago d’Iseo non rendono affatto semplice il lavoro: la profondità massima in alcuni punti è addirittura di 250 metri, ma, grazie a minuziosi studi, per le squadre al lavoro è stato possibile posizionare i sistemi di ancoraggio ad una profondità massima di 90 metri. La finitura invece prevede, al fine di ammorbidire la superficie, la stesura di uno strato di feltro bianco, il quale rende decisamente confortevole l’esperienza a piedi nudi; sopra di esse viene fissato un tessuto di nylon poliammidico di colore “giallo dalia”, prodotto in Germania dall’azienda tessile Setex, che rappresenta la parte più riconoscibile dell’opera. Le increspature, formate grazie ad un’eccedenza di tessuto del 20%, creano, con colori, ombre e luci (del giorno e della notte), effetti scenici emozionanti: contrariamente alla tendenza – molte persone infatti si presentano alle prime luci del mattino per ammirare l’alba – il momento della giornata più adatto per venire sorpresi dalla meraviglia che il genio di Christo ci ha donato è il tramonto – i fotografi lo sanno bene.
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Ciò che rende quest’opera unica non risiede nei singoli suoi componenti. Il tessuto in sé e per sé è solamente stoffa di un colore apprezzabile: numerosi sono i casi di furto, per i quali ogni notte le squadre di manutenzione si ritrovano a porre rimedio riparando i diversi squarci; le parti mancanti puntualmente si ritrovano in vendita su eBay (o piattaforme simili) a cifre spropositate – lo squallore e la stupidità della società non ha limiti – ed è proprio per questo motivo che la volontà dell’artista sia di riciclare ogni singolo pezzo. Il sistema dei cubi di polietilene separato dal contesto altro non è che una distesa di taniche di plastica, che possono sì ispirare un riutilizzo o riciclo creativo, ma non corrispondono all’opera d’arte. Alcuni illusi lavoratori, tra cui il sottoscritto, vengono smentiti dallo stesso artista quando all’inizio di Giugno – la struttura è già pronta, mancano le operazioni di finitura – in massa si precipitano a fotografare i dettagli: «quelli sono solo cubi di plastica, non hanno nulla di speciale; la vera opera d’arte sarà tra il 18 Giugno e il 3 Luglio, quindi fate pure tutti i “selfie” che volete, ma non conteranno nulla.»
The Floating Piers comprende tutto ciò che è coperto di giallo. Sulzano e l’Isola di San Paolo, i pontili galleggianti e Monte Isola; il tessuto di nylon e il feltro, i cubi di polietilene, le funi e i blocchi di ancoraggio, l’acqua del lago e quella nei cubi laterali che conferisce ai piers un aspetto digradato ai lati; le assi di legno, le graffette, le viti, i chiodi, la colla. Ma non è solamente l’insieme di questi materiali. È il sole e la luna e i fari che vengono posizionati ogni notte e rimossi ogni mattina; il paesaggio; i divieti, i parcheggi, i bus navetta e il servizio ferroviario; le forze dell’ordine; i servizi di ristorazione e i negozianti; le persone che arrivano a tutte le ore incuranti delle condizioni metereologiche e climatiche, gli addetti ai lavori; gli articoli di giornale, gli scatti e le condivisioni sui social network; le contrastanti emozioni di stupore, gioia, felicità, noia, rabbia, insoddisfazione, stanchezza, tranquillità, agitazione, paura, entusiasmo. Quest’ultimo colpo da maestro di Christo risulta essere tutto il fermento che si genera durante questi 16 giorni, nella cui limitata durata risiede molto probabilmente la formula magica; molti lamentano «dovrebbero tenerlo per tutta l’estate ‘sto ponte!», «se avessi saputo di tutta questa coda, non sarei venuto», «avrebbero dovuto far pagare l’ingresso, così molta gente che è qui per pura curiosità se ne sarebbe rimasta a casa»: ciò dimostra che ha fatto breccia nel cuore di tutti, ancora una volta. Sì, perché dal suo visionario punto di vista è ben consapevole che ci sono disguidi, disagi, che nulla è perfetto – non è un pischello alle prime armi – ma bisogna pur ricordare che si tratta di un’opera d’arte e come tale va vissuta: queste condizioni vanno tenute in conto; e che lo facciamo o meno, il milione e passa di persone dimostra quanto egli abbia una mente brillante, geniale, dimostra che ha fatto centro, ha colpito ancora.
Partecipare ad un progetto simile, va al di là del mero impiego, significa molto di più. La candidatura per molti, come per chi scrive, è frutto più di un interesse, un desiderio di prendere parte a qualcosa di unico, che di un bisogno lavorativo; per carità, non si vuole condannare tutti coloro che partecipano in quanto bisognosi di un’occupazione e di uno stipendio – sì, veniamo tutti retribuiti, forse non in maniera adeguata al tipo di lavoro, ma, come Christo e Jeanne Claude hanno sempre fatto e com’è logico, corretto ed etico che sia, non si lavora gratuitamente – anzi, fortunatamente il gruppo di lavoro è il più eterogeneo possibile in termini sia di competenze sia di provenienze sia di genere, dallo studente fresco di maturità alla giovane neolaureata, dalla trentenne appena sposata all’adulto cui mancano pochi anni alla pensione, dal manovale all’architetto, dal medico all’avvocato, dal tipico bresciano alla pugliese, dall’albanese alla canadese. Molte sono le figure coinvolte e questo non genera altro che ricchezza: la diversità e la pluralità delle menti con le quali si condivide l’esperienza può solo innalzare il livello del progetto e quindi dell’opera, fornendo anche occasioni di crescita personale. «... diversità significa forza, e monocoltura debolezza. [...] Le persone vogliono la diversità perché porta loro più piacere e diletto [...], lo scontro furioso di diversità culturali può ampliare la prospettiva e ispirare un cambiamento creativo.»
Il primo giorno, così come ci si comporta al primo appuntamento, abbandoniamo le cattive abitudini e facciamo le persone serie: sveglia ore 6,30 – posponi per 10 minuti – posponi per altri 10 minuti – partenza ore 7,15 e arrivo al cantiere di Montecolino, a Pilzone d’Iseo ore 7,35. Si inizia alle 8,00 ma molti arrivano qualche minuto prima per l’inserimento: non si tratta del primo giorno per tutti, alcuni lavorano già da settimane, occupandosi in cantiere dell’assemblaggio e messa in acqua dei cubi di polietilene, che poi verranno trasportati in nelle posizioni prestabilite. Già si percepisce una confusione generale e una certa mancanza di organizzazione e di comunicazione – per gli italiani purtroppo è assai faticoso comunicare in lingua inglese. Piano piano veniamo sommersi di gadgets e ci viene consegnata una completa dotazione per svolgere il lavoro, espletiamo le necessarie procedure burocratiche e poi si parte. In anteprima attraversiamo il lago sulla struttura che diventerà nel giro di due settimane The Floating Piers, nessuno riesce a trattenere l’emozione. Il nostro compito comporta la stesura del tessuto, ma ancor prima della struttura, a terra, sulle strade e nelle piazze di Peschiera Maraglio e Sulzano; è ovviamente richiesta una modesta dimestichezza nel lavoro manuale, ma il lavoro non presenta nulla di complicato e proibitivo: per prima cosa vengono stesi rotoli di feltro che vengono poi fissati a terra attraverso un sistema di assi avvitate o inchiodate ai bordi delle vie – il tutto necessita di una discreta cura dei dettagli poiché le pavimentazioni sulle quali viene applicato l’intero sistema sono delicate o pregiate (ad esempio lastre di porfido, pietra arenaria di Sarnico, sampietrini, marmo).
In pochi giorni si crea tra le squadre all’opera un affiatamento tale da non essere paragonabile a quello del mondo del lavoro che siamo soliti frequentare, dove avremmo bisogno di diversi mesi. Questo aspetto conferma ancora di più la magia dell’evento. Tuttavia, alcuni disagi, piccoli o meno piccoli, si notano, come la difficoltà nell’organizzazione dei turni di lavoro e nel comunicarli agli interessati: è la società italiana The Floating Piers srl, fondata appositamente per rendere esecutivo l’evento e sussidiaria della CVJ Corporation (società di Christo), che si trova a gestire i grattacapi più impegnativi, talvolta con esiti negativi, in quanto è assai improbabile se non impossibile esaudire le richieste di più di mille persone che pretendono di non fare turni notturni, ma nemmeno stare sotto il sole per sei ore consecutive, che preferiscono fare i “Boat captain” sui gommoni di servizio per le operazioni di emergenza, senza avere la capacità di condurre barche a motore, che appena ricevono una radio ricetrasmittente si sentono subito investiti di un potere immenso, senza capire che un leader svolge un ruolo di responsabilità – non comanda, dà l’esempio. Ecco diciamo pure che per lavorare in un contesto del genere c’è bisogno di un grande spirito di adattamento, che a molti manca; ne conseguono tutte le difficoltà che l’Area Risorse Umane e Project Managing, con Izabelle, Ada, Sana, Clementine, Mery si ritrova a fronteggiare, addossandosi spesso ingiustamente le colpe.
Menzione particolare per due persone che realmente si preoccupano di far funzionare tutta la macchina, di mantenere un buon clima, di portare a compimento l’ennesimo progetto: Vince e Jonita Davenport. La straordinaria coppia collabora con Christo da una trent’anni circa, e si nota quanto tra loro e l’artista (senza dubbio anche con Jeanne Claude in passato) si sia creato un legame solido e un’empatia altrettanto forte: si fidano ciecamente gli uni degli gli altri. L’ingegnere è presente ovunque, quando un dubbio ci attanaglia egli arriva per chiarirlo ed immediatamente si trova già dall’altra parte per risolverne un altro: deve avere il dono dell’ubiquità; è instancabile, non riposa mai, i ricercatori dovranno spiegarci come alla sua età, non più giovanissima, sia ancora così arzillo e “sul pezzo”. Colpisce la sua umanità e la continua ricerca della soluzione adatta: non siamo di fronte a un guru che conosce tutte le risposte, ma a un “hard-worker” che non si dà pace finché non è soddisfatto del lavoro. Jonita invece è adorabile, la mamma di tutti, sempre sorridente e pronta a dare un conforto a chi ne abbia bisogno; al primo incontro si percepisce indistintamente la sua maestria nel gestire gruppi di persone, tra le più disparate. Credo fermamente che The Floating Piers non sarebbe lo stesso senza la coppia di New York.
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Sul finire di questa esperienza tanti sono i piacevoli incontri vissuti, altrettanti quelli che purtroppo non si sono verificati, troppi i ringraziamenti da fare: a chi mi ha spinto a inoltrare la candidatura, a chi mi ha supportato e sopportato nell’ultimo mese, ai colleghi matti (molto più di me) che aiutano a sdrammatizzare ogni situazione critica, agli amici ritrovati, alle persone che regalano sorrisi, a tanti altri ancora. Esperienze come questa vanno vissute tutte d’un fiato, intensamente, senza risparmiare nemmeno un briciolo di se stessi, per essere in grado, poi, di affermare orgogliosamente «è stata una gran ficata!», forse senza nemmeno dirlo perché ce lo si legge in viso anche solo quando sentiamo pronunciare la sigla TFP. Sì, questi pontili fluttuanti ci hanno cambiato la vita, eccome, ci hanno aperto gli occhi verso nuove mete, ci hanno insegnato che i sogni possono diventare realtà. Basta crederci. «Non pianifichiamo mai l’impossibile. Può sembrare irrealizzabile ad alcuni, ma noi siamo molto realisti.» (cit. Jeanne-Claude).
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mudwerks · 9 years ago
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Lucy Sangermano aka Lucy di San Germano
Italian postcard. Ed. G.B. Falci, Milano
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