#La voce della quercia
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e-ste-tica · 8 months ago
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“Orsù che dovrei fare? Cercarmi un protettore, eleggermi un signore, e come l’edera, che dell’olmo tutore accarezza il gran tronco e ne lecca la scorza, arrampicarmi, invece di salire per forza? No, grazie!
[…] Sudar per farsi un nome su di un picciol sonetto anziché scriverne altri? Scoprire ingegno eletto agl’incapaci, ai grulli; alle talpe dare ali, lasciarsi sbigottire dal rumor dei giornali? E sempre sospirare, pregare a mani tese: Pur che il mio nome appaia nel Mercurio francese? No, grazie!
Calcolare, tremar tutta la vita, far più tosto una visita che una strofa tornita, scriver suppliche, farsi qua e là presentare? Grazie, no! Grazie, no! Grazie, no!
Ma....cantare, sognar sereno e gaio, libero, indipendente, aver l'occhio sicuro e la voce possente, mettersi quando piaccia il feltro di traverso, per un sì, per un no, battersi o fare un verso! Lavorar, senza cura di gloria o di fortuna, a qual sia più gradito viaggio, nella luna!
Nulla che sia farina d'altri scrivere, e poi modestamente dirsi: ragazzo mio, tu puoi tenerti pago al frutto, pago al fiore, alla foglia purché nel tuo giardino, nel tuo, tu li raccolga! Poi se venga il trionfo, per fortuna o per arte, non dover darne a Cesare la più piccola parte, aver tutta la palma della meta compita, e, disdegnando d'essere l'edera parassita, pur non la quercia essendo, o il gran tiglio fronzuto salir anche non in alto, ma salir senza aiuto!„
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world-of-books31 · 6 months ago
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Ciao a tutti ragazzi/e!
Mi chiamo Bookie e sono un amante dei libri, dei videogiochi e degli horror.
Sono una scrittrice per passione e ho deciso di pubblicare qui su Tumbler il romanzo a cui sto lavorando.
Ma su cosa si basa questo mio romanzo?
Bene, è una specie di... tributo, se vogliamo definirlo così, alla mia band metal preferita: i "Twilight Force".
Il mio romanzo è il primo fi una lunga serie che ho in mente nella quale romanzo le loro canzoni e i loro album e do vita ai luoghi in esse accennati e alle battaglie che vi prendono luogo.
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Ma come ho strutturato la cosa?
Ogni romanzo si basa su una canzone o una track all'interno di un album e le ogni serie si basa sull'album stesso.
Cosa vuol dire?
Vuol dire che:
Se scrivo un romanzo basato su una canzone presente in un determinato album, la serie che ne segue segue l'arco narrativo dell'album scelto.
Esempio pratico:
Il mio primo romanzo è basato sulla canzone "Enchanted Dragon of Wysdom", brano appartenente all'album "Tales of Ancient Profecies", che è il primo album della band, quindi la serie seguirà l'arco narrativo dell'album.
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Ogni serie basa il proprio numero di libri sul numero di brani o track presenti nell'album stesso, ciò vuol dire che se in un album ci sono 8 canzoni/track la serie sarà composta da 8 libri.
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Dato che gli album sono interconessi fra di loro anche le serie lo sono, quindi nasce una collana, ossia (nel mio caso) un insieme di serie che coesistono tra fra loro.
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Ma chi sono i Twilightforce e perché mi hanno ispirato così tanto?
Sono un gruppo che canta di tutto ciò che è fantasy e ogni canzone e album narra una storia nella quale i protagonisti sono interpretati dai membri stessi della band.
Sono la mia fonte di ispirazione perché è grazie a loro che sono stata introdotta al fantasy come genere letterario e al metal come musica e da allora sono sempre nella mia playlist.
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Chi sono i membri della band o meglio, i protagonisti di questo mio romanzo?
I membri principali sono (li chiamo con il nome del loro personaggio):
• Blackwald: un negromante che è stato esiliato da una biblioteca/fortezza magica per eresia.
• Lynd: un mezzo elfo che è stato abbandonato in orfanotrofio dopo essere stato il risultato di una relazione proibita.
• Aerendir: elfo orfano cresciuto in un villaggio di umani che cerca la sua identità perduta.
• Born: un druido appartenente all'Ordine della Quercia, la più influente gilda di druidi esistente.
• De'Azsh: una creatura misteriosa chiamata anche "Cercatore di Anime".
Loro cinque sono rispettivamente:
• Blackwald -> tastierista/voce narrante
• Lynd: 1°a chitarra
• Aerendir: 2°a chitara
• Born: Bassista
• De'Azsh: Batterista.
A loro cinque si aggiungo i due cantanti che la band ha avuto nel corso degli anni.
• Crhileon: un guerriero il cui destino è diventare re di una terra lontana.
• Allyon: uno straniero proveniente da un regno lontano.
Allyon ha sostituito Crhileon ed è l'attuale cantante dei Twilight Force.
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Questo è tutto ciò che volevo dirvi e farvi sapere per quanto riguarda il romanzo.
Se poi siete curiosi di saperne di più commentate e farò del mio meglio per rispondervi.
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Detto questo io vi saluto e ci vedremo nel prossimo post dove pubblicherò il 1° capitolo della storia.
Io sono anche su Wattpad e su Instagram e il mio nome in entrambi i social e il nome del mio profilo qui su Tumbler.
Bookie è un nomignolo così.
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ilregnodellaquercia · 29 days ago
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La Grande Quercia
Ci vollero tre giorni di viaggio per raggiungere i confini della Foresta della Quercia. Edelwen non si era mai addentrata nel Reame di Beriandil, nonostante i suoi secoli di pellegrinaggio. La flora qui era straordinariamente rigogliosa, superando persino quella della Foresta di Manahar. Il sottobosco vibrava di vita, e le fronde degli alberi emanavano una magia unica, la stessa che caratterizzava i luoghi dove gli elfi vivevano. Sembrava che questa foresta fosse il polmone e il cuore del Continente.
Percorrevano uno dei tanti sentieri battuti, noto come "Il Sentiero dei Druidi", secondo quanto spiegato da Ewnel. Sembrava conoscere bene la foresta e il percorso verso Beriandil, il che metteva Edelwen in una posizione insolita: affidarsi all'esperienza di qualcun altro.
Il brutto tempo continuava a seguirli dal loro incontro. Nuvoloni grigi gravavano minacciosi sopra di loro mentre il sole tramontava. Tra i rami nodosi degli alberi, Edelwen rallentò il passo. Davanti a lei si ergeva un Olmo antico, imponente e maestoso. Le radici sembravano vene che affondavano nella terra, e le fronde ondeggiavano leggere al vento. Per un momento, il tempo sembrò fermarsi. Edelwen si concesse una pausa, rara per il suo carattere.
Alle sue spalle, Ewnel la seguì, mantenendo una distanza rispettosa dall'albero. La sua espressione tradiva un misto di curiosità e reverenza. Quando parlò, la sua voce era calma, quasi sommessa. «Edelwen...»
Lei abbassò lo sguardo, incrociando gli occhi di Ewnel. Il silenzio che seguì era carico di significato. Non aveva mai dato molte spiegazioni durante il viaggio e non intendeva farlo ora. Tuttavia, i suoi occhi, come stelle fredde, rivelavano una malinconia che cercava di celare. Posò le dita sul tronco dell'Olmo, sfiorando le rune scolpite. «Ho già visto un albero simile» mormorò, la voce distante.
«È un antico Olmo, spesso usato nei rituali dei druidi» rispose Ewnel, avvicinandosi di un passo. «Era qui ancor prima che Beriandil fosse costruita. Come la Grande Quercia.»
Edelwen annuì, lasciando che le dita seguissero i contorni delle incisioni. «Queste rune...» disse, interrompendosi mentre il vento portava via le sue parole. Per un momento, il suo sguardo si fece distante, intrappolato in ricordi dolci e amari.
Il cielo si scurì ulteriormente, e le prime gocce di pioggia iniziarono a cadere interrompendo i ricordi ed i pensieri. Edelwen sollevò il viso, lasciando che l’acqua le scivolasse sul volto. Con un gesto della mano, indicò di muoversi. «Non possiamo restare qui troppo a lungo» disse, il tono fermo. Ewnel annuì e la seguì verso la Grande Quercia.
La corsa attraverso la foresta fu breve ma intensa. Il terreno era scivoloso, e la pioggia rendeva ogni passo un'impresa. Quando raggiunsero la Grande Quercia, erano fradici e affaticati. Le fronde immense dell'albero offrivano un riparo, attenuando la furia della tempesta. Era come se l’albero volesse proteggerli.
Edelwen osservò il tronco imponente, che sembrava scolpito dagli dei stessi. «Non immaginavo che “Grande Quercia” fosse così... letterale» mormorò.
Ewnel sorrise lievemente. «Questa è la Quercia delle leggende. Protegge chi cerca rifugio sotto le sue fronde» spiegò con reverenza.
Edelwen si inginocchiò accanto al tronco, estraendo l'arco e la faretra per metterli al sicuro. «Non è un riparo perfetto, ma basterà fino all’alba» disse, gettando uno sguardo a Ewnel.
Ewnel si sedette accanto a lei, appoggiandosi al tronco dell'albero. «Sai, non è la prima volta che cerco rifugio sotto un albero come questo. Quando ero piccolo, mio padre mi raccontava storie su questi luoghi.» Fece una pausa, osservando le fronde sopra di loro. «Diceva che la Grande Quercia poteva sentire i nostri pensieri.»
Edelwen alzò un sopracciglio. «E tu ci credi?»
L'elfo esitò, poi scosse la testa con un mezzo sorriso. «Forse no, ma mi piace l'idea che ci sia qualcosa di più grande che veglia su di noi.»
«O forse siamo noi a voler trovare conforto nelle leggende» rispose Edelwen, la sua voce calma, ma con una nota pensierosa.
Sistemarono il poco che avevano. Il terreno, sebbene umido, era abbastanza solido da offrire un po' di comfort. Nessuno dei due sembrava aver intenzione di accendere un fuoco. A quello, pensò Enwel creando una sfera magica che potesse sia rischiarare la notte che riscaldarla. La tempesta infuriava, ma le grandi radici della Quercia riuscivano a tenere i due elfi al riparo. Ewnel frugò nella sua bisaccia, estraendo un fagotto di stoffa. «Qui, mangia qualcosa. Non è molto, ma aiuterà» disse, porgendole delle ciliegie e del pane.
Edelwen prese il cibo, osservandolo per un momento prima di accettare. «Grazie» mormorò, dividendo il pasto con lui. Il silenzio che seguì fu interrotto solo dal rumore della pioggia e del vento tra le fronde.
«Domani dovremmo raggiungere Beriandil» affermò Ewnel.
Edelwen alzò le spalle, lo sguardo fisso sulle fronde sopra di loro. «Forse. Non conosco bene queste terre, ma siamo vicini.»
Ewnel sorrise. «Non mi dispiace il ritmo del viaggio, sai. Anche con questo tempo.»
Edelwen lo guardò di lato, incuriosita. «Davvero? Molti troverebbero queste terre e questo clima insopportabili.»
«È vero» ammise. «Ma ogni passo ha il suo significato. Non è solo la destinazione a contare.»
Edelwen accennò uno sbuffo, la cosa più simile ad un sorriso. «Non ti facevo così filosofico, Ewnel.»
Lui ridacchiò piano, stringendosi nelle spalle. «Forse è colpa della tua compagnia. Non capita spesso di viaggiare accanto a qualcuno che sa apprezzare il silenzio senza sentirsi in obbligo di riempirlo.»
Lei lo guardò, gli occhi chiari che riflettevano il debole bagliore della pioggia. Gli lanciò un'occhiata eloquente, un misto di perplessità e curiosità, ma rimase in silenzio, lasciando che fosse lui a colmare quel vuoto.
Ewnel annuì, osservando il terreno umido davanti a loro. «Dico sul serio... non avrei mai immaginato che un incontro casuale potesse portarmi tanto sollievo. Viaggiare da solo non è mai semplice. Questo viaggio... sarebbe stato molto più difficile senza di te.»
Edelwen inclinò il capo, sorpresa dalla sincerità nelle sue parole. «Non è sempre facile fidarsi di qualcuno che incontri lungo il cammino.»
Quando la notte si fece più buia, Edelwen prese posto accanto a Ewnel, mantenendo la sua attenzione vigile nonostante il peso della stanchezza. Con l'arco posato accanto a lei e le frecce a portata di mano, osservava attentamente l'oscurità che circondava la Grande Quercia. Le fronde sopra di loro continuavano a danzare sotto la spinta del vento, ma Edelwen riusciva a distinguere ogni minimo rumore: il fruscio delle foglie, il battere ritmico della pioggia, il respiro regolare di Ewnel accanto a lei.
Ogni tanto spostava lo sguardo verso il compagno di viaggio, notando come il suo volto, rilassato nel sonno, tradisse una certa vulnerabilità. Edelwen però non indugiò su quella sensazione; la sua concentrazione era rivolta alla protezione del loro rifugio temporaneo.
«Anche questa notte sarà lunga» mormorò tra sé, mentre le sue dita accarezzavano distrattamente la corda dell'arco. Il vento sembrava sussurrare storie antiche tra le fronde sopra di lei. Ogni tanto spostava lo sguardo verso il buio tra gli alberi, pronta a cogliere il minimo movimento. La notte era lunga, e nonostante il senso di sicurezza che la Grande Quercia sembrava emanare, Edelwen sapeva che i pericoli potevano annidarsi anche nei luoghi più sacri. Il suo sguardo rimase fisso sulla foresta, pronta a reagire a qualsiasi segnale di minaccia.
EFP | Wattapad
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lenereidi · 5 months ago
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Il codice dell’anima è il celebre saggio in cui Hillman espone la teoria della ghianda spiegando come essa influisca sulla nostra vita. Dentro ognuno di noi, già alla nascita, vi è un seme unico e distinto che ci chiama a realizzare qualcosa di altrettanto unico e distinto: è la ghianda che racchiude in sé il potenziale destino di quercia. In alcuni la chiamata sembra più forte che in altri, ma anche se non la ricordiamo, anche se la sua voce si è persa nelle maglie della vita adulta, in realtà non ci abbandona mai. È sempre dentro di noi e quando alla domanda “Cosa vorresti fare nella vita?”, rispondiamo “Non lo so”, inconsapevolmente stiamo mentendo.
Per ritrovarla dobbiamo ripercorrere la nostra biografia, la storia vissuta fino a oggi e focalizzarci sull’infanzia perché è lì che per primo il daimon si è manifestato: in ciò che ci piaceva fare, nel tipo di carattere con cui siamo venuti al mondo. Torniamo per un po’ il bambino/a che siamo stati e permettiamoci di esserlo, di ricordare cosa catturava la nostra attenzione, con quale sfumatura facevamo esperienza della vita, quali giochi amavamo e quali evitavamo.
#ilcodicedellanima #JamesHillman
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cinquecolonnemagazine · 10 months ago
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Il Maritozzo
Le intense riprese del film "Il Maritozzo", una produzione di grande respiro internazionale che ripercorre un capitolo storico spesso dimenticato - la deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale - sono giunte al termine. La regia di questa delicata pellicola è stata affidata al talentuoso Nicola Barnaba, mentre il cast vanta la presenza di rinomati professionisti del calibro di Martina Sissi Palladini e Paolo Conticini, accompagnati da un ensemble di eccellenze come Danilo d’Agostino, Francesca Rettondini, Bruno Bilotta, Fabrizio Sabatucci, Francesca della Ragione, Mario D’Amato e Jasmine Volpi. Sinossi Ambientato nella Roma del 1943, "Il Maritozzo" racconta i giorni tumultuosi che precedettero la deportazione degli ebrei dal ghetto. Eva (interpretata da Martina Sissi Palladini), figlia di un sarto ebreo (interpretato da Fabrizio Sabatucci), si trova costretta a superare i blocchi fascisti per una consegna presso la dimora di Antonio Ruggero (Bruno Bilotta), padre del suo amante, Andrea Ruggero (Danilo D’Agostino). Quest'ultimo, intrappolato tra il volere dei genitori e i suoi veri sentimenti per Eva, si ritrova in una situazione senza via d'uscita. Tuttavia, sarà Saverio (interpretato da Paolo Conticini), un militare repubblichino, a innamorarsi follemente di Eva e a tentare disperatamente di proteggerla dalle orrende atrocità naziste. Un importante contributo alla realizzazione del film è giunto dalla città di Bassiano (LT), con il Comune e la Proloco che hanno fornito luoghi fondamentali per le ricostruzioni storiche. Il progetto ha ricevuto il sostegno di rinomate produzioni come Everglades Film, Immagina Film Production, Sileo Productions, Roswell Film e Ipnotica Film, con la distribuzione affidata a Saturnia Pictures. L'opera è stata resa possibile grazie al supporto finanziario del Nuovo Imaie e di diverse aziende che hanno creduto nel progetto, tra cui Campo Marzio Roma 1933, LTF Caffè, Reggiani Srl, Bassiano Reale Srl, Bruschi Srl, La Quercia, La Taverna del Brigante, Caffè Fiorentini, l'Associazione AVIS, La Mola Srl e IG Srl. "Il Maritozzo" mira a sensibilizzare le giovani generazioni e di dar voce alla memoria storica, che continua a mostrare il suo potere di richiamare alla coscienza del presente.  Credits foto: Massimiliano Oliverio (Palladini e Conticini) e Tiziano Fiucci (foto di gruppo e Palladini e D'Agostino). Read the full article
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shambelle97 · 2 years ago
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Il candore della neve adornava ogni angolo della cittadella celeste, donando una magica atmosfera.
Celebrare il Solstizio d’Inverno equivaleva alla rinascita di una nuova luce, scacciandone l’oscurità.
Ogni angolo del regno era circondato da maestosi abeti, decorati da vivacissimi addobbi.
Asgard attendeva spesso con trepidanza l’arrivo del periodo di Yule.
Ovvero una manifestazione carica di valenze simboliche e magiche, dominato da miti e simboli provenienti da un remoto passato.
Valaskjalf avrebbe organizzato un occasionale banchetto in compagnia dei sudditi e i parenti della famiglia reale.
Ossia un modo per festeggiare e riunirsi tutti insieme.
L’odore pungente delle candele riposte sopra il ceppo, invase i vari lati della stanza.
Si trattava di un’antica usanza per allontanare gli spiriti maligni.
Un frammento di quercia decorato da foglie di agrifoglio, edera e betulla.
Sigyn amava festeggiare un simile evento: tuttavia dovette fare i conti che i familiari paterni non sarebbero stati affatto presenti.
Dopo le nozze col Dio dell’Inganno, nessuno di loro osò più rivolgerle la parola.
Neppure colui che un tempo chiamava ‘padre.’
La ripudiarono senza troppi ripensamenti.
Solo la madre accettò tale relazione, infischiandosene dei pareri rivolti.
Desiderava soltanto la sua felicità.
Non avrebbe permesso che l’adorata figlia adempisse allo stesso identico destino.
Gli amari pensieri vennero riscossi dalla profonda voce del moro.
“Cosa ti turba, piccola vanir?”
Chiese il marito, intuendone la preoccupazione nel suo sguardo.
“Avrei preferito che anche la famiglia di mio padre partecipasse ai festeggiamenti, chiedendone la pace.”
Rivelò mesta, assumendo un’espressione cupa.
Loki osò circondarla in una tenera morsa, affondando il volto affilato sulle ciocche bionde.
Le sarebbe rimasto accanto fino alla fine dei tempi.
Per mesi furono costretti a nascondersi come due ladri, finché non architettò un piano per renderla sua moglie.
Un rischioso inganno che costò ad entrambi l’esilio su Midgard.
L’intera corte dovette abituarsi presto all’idea di averla come principessa.
Theoric fu persino esonerato dall’incarico, non prima di aver giurato una mancata vendetta nei confronti dei coniugi.
Costui tentò di picchiarla, venendo infine salvata da colui che amava davvero.
Il carcere si rivelò l’assoluta condanna per l’ex capitano degli Einherjar.
Sigurd si rivelò un ottimo sostituto dopo l'ultima spedizione nella foresta di Járnviðrr.
Si scambiarono un bacio colmo di dolcezza, avviandosi verso la Sala del Trono.
Essa era gremita di gente.
In fondo all’ampio salone intravidero Thor a conversare coi rispettivi compagni d’arme.
Le intimò di rimanere al proprio posto per attenderlo.
“Suppongo non sia ancora arrivato, nevvero?”
Proferì ovvio il Fabbro di Menzogne, riferendosi ad un particolare dono destinato alla moglie.
“Dovrebbe essere qui a momenti.”
Ribatté il maggiore, guardandosi intorno.
Un uomo di medio alta statura avanzò a passi incerti, dirigendosi verso i figli della corona.
Egli era Bjorn in persona.
“Ben arrivato, Lord Davenson.”
Esordì il Tonante, dandogli ufficialmente il benvenuto.
L’anziano ringraziò in tono cordiale, avvicinandosi poi verso la moglie e la figlia.
Costoro assunsero delle espressioni allibite.
“Cosa sei venuto a fare qui? Non ti basta il male che ci hai arrecato?”
Inquisì ostile Sigrid, rivolgendogli uno sguardo truce.
“Voglio solo chiedere il vostro perdono.”
Sentenziò il generale con dispiacere.
Sigyn gli diede la possibilità di spiegarsi pur essendo titubante.
“Mia adorata figlia: colui che hai deciso di sposare ti rende felice?”
Domandò Bjorn in attesa di una sua risposta.
“Sì padre, più di quanto tu possa credere. Desidero che rispetti tale decisione senza mettere in dubbio i nostri sentimenti.”
L’uomo annuì, abbracciando la giovane.
Piansero commossi, felici di essersi ritrovati.
Loki abbozzò un lieve sorriso, compiaciuto dalla buona riuscita della missione.
Il più bel regalo che avesse mai potuto farle.
Presero posto alla tavolata, venendo serviti da squisite pietanze.
Ovvero coi piatti tradizionali della celebre festività.
La Dea della Fedeltà ebbe modo di conversare con alcuni parenti del consorte.
Si rivelarono gente alla mano, manifestando la propria disponibilità.
I due asgardiani furono lieti di rivedere Balder dopo la recente spedizione ad Alfheim.
Stesso discorso valeva per il cugino.
Si persero in piacevoli chiacchiere, rammentando i bei vecchi tempi passati assieme.
Sigyn dimostrò di essere interessata, udendo attentamente il racconto.
Una narrazione basata da divertenti aneddoti che Loki ritenne a dir poco imbarazzanti.
Preferì rimanere impassibile, versandosi dell’idromele su un calice dorato.
Non poté far a meno di pensare quanto Thor e il brioso parente fossero identici a livello caratteriale.
“Qualcosa non va?”
Chiese la dama dalla chioma serica e lucente, denotando preoccupazione nei suoi confronti.
Il Dio degli Inganni dissentì con un solo cenno del capo.
Ella posò le proprie mani sopra le sue in segno di conforto, venendo ricambiata in un istante.
La festa proseguì con canti, balli ed esibizioni circensi di vario genere.
Fu allora che avvenne il fatidico scambio dei doni.
Ognuno ricevette il proprio, mostrandone l’euforia.
Loki decise di consegnarglielo in privato al termine del banchetto.
La graziosa mogliettina avrebbe fatto altrettanto.
Rincasarono a tarda notte dopo aver rivolto il saluto alle rispettive famiglie.
Il Signore della Menzogna era intento a torturarle la parte laterale del collo con le labbra.
L’Amica della Vittoria sorrise a quell’erotico contatto, emettendo intensi sospiri.
Le eleganti mani del mago vagarono alla ricerca dei lacci per sciogliere il corsetto.
La desiderava più del solito quella sera.
“Splendida.”
Mormorò tra un bacio e un altro, beandosi della liscia e candida pelle della giovane.
Costei si voltò per baciarlo avidamente sulla bocca sottile.
Labbra gelide e ammalianti come il ghiaccio.
Entrambi caddero sopra i setosi cuscini, continuando ad amarsi.
Le ciocche bionde gli solleticarono il volto, facendolo ridacchiare sommessamente.
Sigyn era un balsamo per le sue ferite: un meraviglioso angolo di felicità a cui non avrebbe mai rinunciato.
Ottenerla si rivelò parecchio arduo, ma ne era valsa la pena.
Una bellissima ragazza dall’intelligenza acuta quasi quanto lui.
Una donna forte, tenace e tanto testarda da sedurlo inconsapevolmente.
Una fanciulla che riuscì a scorgere la parte migliore di sé in quella mente così contorta, oscura e machiavellica.
Si sarebbe ostinato a proteggerla dai pericoli circostanti.
Consumarono l’amore, travolti da un accecante turbine di passione...fu lesto a stringerla tra le braccia, evitando di liberarla.
L'ultima volta gli era costato un terribile allontanamento a causa di uno spiacevole equivoco.
Una separazione durata circa otto mesi, rischiando di perderla per sempre.
“Come sei riuscito a convincerlo?”
Domandò improvvisamente la bella vanir, riferendosi all’inaspettato ritorno di Bjorn.
Loki assunse un’aria sorpresa, spiegando per filo e per segno i minuziosi dettagli del piano.
Essere convincente era una delle qualità che caratterizzava il modus operandi del famigerato ingannatore di Asgard.
Renderla felice faceva parte dei suoi gloriosi propositi assieme ad altri progetti di varia natura.
“Questo è il miglior regalo che tu potessi mai fare: grazie per avermi ridato la felicità.”
Sussurrò Sigyn, tracciando alcune linee immaginarie sul torace alabastrino dell’ase.
Il cadetto osò baciarle dolcemente la fronte, ricorrendo all’uso del Seiðr.
Attorno al collo della dama apparve una splendida collana di smeraldi.
Uno dei tanti pegni d’amore che amava donarle in segreto.
“Oh, Loki: è meravigliosa!”
Commentò estasiata, poggiandosi alla testiera del letto per ammirarla.
Eseguì l’identica azione, evocando un pugnale intarsiato da pietre preziose.
Un’arma di pregiata fattura che il marito prediligeva spesso in battaglia oltre la magia.
Lo scrutò incantato, riservandole un sorriso colmo di gratitudine.
“Grazie, piccola: proprio ciò che mi serviva.”
Ringraziò il principe, riponendolo sopra il comodino con delicatezza.
Ripresero a baciarsi, mugolando di estremo piacere.
Una fiamma destinata ad ardere in eterno.
“God Jul, min lille datter av Vanaheim.”
Le augurò nell’antica lingua degli Æsir, perdendosi nelle gemme celesti della sua adorabile sposa.
Uno sguardo penetrante a al contempo avvolgente.
“God Jul, min utspekulerte og forførende trollmann.”
Replicò nello stesso accento, dedicandosi i rispettivi nomignoli.
Dormirono abbracciati e coi cuori colmi di gioia.
Il mattino seguente, Sigyn si svegliò di buon’ora per ammirarne lo splendido panorama.
Esso era ricoperto da singoli strati di neve, donandogli un’aura ancora più fiabesca.
Loki fu il secondo a ridestarsi dal sonno, raggiungendola in pochi attimi.
Le circondò i morbidi e sinuosi fianchi, dandole il buongiorno.
Notò quanto fosse attraente con indosso la vestaglia di seta d’oro.
Tra loro scattò un dolce bacio, guardando infine il bianco paesaggio dalla finestra.
Un magnifico spettacolo che solo la cittadella celeste poteva offrire.
A Vanaheim la neve non esisteva essendo rivolta verso il Sud.
Nientemeno che un regno rigoglioso e florido, costituito da estati perenni.
“Ho sempre sognato di vedere la neve.”
Confessò lei, nonostante vivesse all’interno delle sontuose mura di Valaskjalf da quasi due anni.
Un sogno coltivato sin dalla più tenera età.
“Ed io ho sempre sognato qualcosa di decisamente prezioso.”
Ribatté fiero, indicandola con quegli occhi di lupo che la fecero innamorare.
Iridi sagaci e taglienti da stregarla totalmente.
“E se ci concedessimo un bagno?”
Propose lasciva e maliziosa, lasciando scivolare la veste dorata ai piedi del pavimento.
Il bellissimo corpo nudo della moglie si prospettò dinnanzi alla sua vista, permettendogli di far nascere un nuovo e accecante desiderio.
“Idea alquanto allettante, mia cara.”
Concordò l’astuta divinità, trascinandola dentro l’ampia toeletta con una certa fretta.
Si immersero nella vasca, pronti a consumarne l’amplesso.
Una lussuria impossibile da placare, costituita dal più potente dei sentimenti.
                                                𝑭𝒊𝒏𝒆
One Shot:
  ~ Mischief And Fidelity ~
Name Chapter:
~ God Jul ~
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valesempretanto46 · 3 years ago
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Apollo e Dafne, Gian Lorenzo Bernini (Galleria Borghese, Roma)
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“«Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi avete qualche potere, dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui». Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra, il petto morbido si fascia di fibre sottili, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; i piedi, così veloci un tempo, s'inchiodano in pigre radici, il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva. Anche così Febo l'ama e, poggiata la mano sul tronco, sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo, ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae. E allora il dio: «Se non puoi essere la sposa mia, sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno, o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra; e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultante intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei. Fedelissimo custode della porta d'Augusto, starai appeso ai suoi battenti per difendere la quercia in mezzo. E come il mio capo si mantiene giovane con la chioma intonsa, anche tu porterai il vanto perpetuo delle fronde!». Qui Febo tacque; e l'alloro annuì con i suoi rami appena spuntati e agitò la cima, quasi assentisse col capo.”
Metamorfosi, Ovidio
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sogninpausa · 2 years ago
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Sulla strada esco solo
Sulla strada esco solo.
Nella nebbia è chiaro il cammino sassoso.
Calma è la notte.
Il deserto volge l'orecchio a Dio
e le stelle parlano tra loro.
Meraviglioso e solenne il cielo!
Dorme la terra in un azzurro nembo.
Cosa dunque mi turba e mi fa male?
Che cosa aspetto, che cosa rimpiango?
Nulla più aspetto dalla vita
e nulla rimpiango del passato,
cerco solo libertà e pace!
Vorrei abbandonarmi, addormentarmi!
Ma non nel freddo sonno della tomba.
Addormentarmi, con il cuore
placato e il respiro sollevato.
E poi notte e dì sentire
la dolce voce dell'amore
cantare carezzevole al mio orecchio
e sopra di me vedere sempre verde
una bruna quercia piegarsi e stormire.
(Michail Lermontov)
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ambrenoir · 3 years ago
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Le persone non si accorgono che ti perdono.
Non si accorgono che avevi bisogno anche di parole che non sono state dette, di attenzioni che non ti sono state rivolte, oppure di un gesto che, in un momento speciale, sentivi indispensabile ma non è stato fatto.
Le persone non si accorgono che ti perdono quando ti rinviano a dopo, ad un altro momento, a quando avranno più tempo, o avranno meno impegni. E ti perdono quando non ascoltano la voce dei tuoi silenzi che non sentono eppure dovrebbero fare rumore, quando non capiscono che ci sono momenti che avresti bisogno della sua presenza e che, per riserbo, non hai chiesto.
Le persone non si accorgono che ti perdono quando tradiscono la tua fiducia, ti lasciano in panchina, ti mettono in coda ad altre cose ritenute più urgenti, dietro a persone che non contano, poi, tanto; quando non mostrano interesse o non danno importanza a ciò che dici o alle cose che tu ritieni essenziali, e quando non si preoccupano per te, e non ti chiedono mai come stai, dando per scontato che tu sei forte come una quercia, e che ce la farai, qualunque cosa di brutto ti accada.
Le persone non si accorgono che ti perdono quando non sono capaci di mostrare quel po’ di affetto che per tutti noi è un diritto ricevere, non rendendosi conto di quanto sia importante sentirsi dire che ti vogliono bene e che sei davvero importante per loro. Quando inequivocabilmente percepisci che, ci sei o non ci sei, in fondo, potresti anche non far parte della loro vita,
Le persone non si accorgono che ti perdono soprattutto per le piccole mancanze, per le disattenzioni che sembrano insignificanti, ma non lo sono proprio per niente, mostrando di dimenticarsi di te. E il tempo passa, così senza di me, senza essere riuscito nemmeno a spiegare che non è il tuo modo di fare che mi ha allontanato, ma è perché sento che qualcosa sta cambiando dentro di me, e che sono diverso ogni volta che stiamo insieme. E, ogni giorno che passa, ti senti più solo.
Le persone si accorgono di averti perso solo quando già è successo.
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passaggioalboscoedizioni · 3 years ago
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⚠️ NOVITÀ IN LIBRERIA ⚠️
Ivan Cammarasana
IL FAGGIO E LA QUERCIA
Romanzo
Prefazione di Valerio Zinetti
Imprese alpinistiche e azioni militari, amori eterni e vite spezzate, isole piratesche e miniere d’oro, storie personali e leggende del folklore: questo romanzo – avvincente e mozzafiato – parte dagli albori dei fermenti rivoluzionari degli anni Venti e attraversa il dramma della guerra civile, dando voce ad un giovane volontario in grigioverde e ripercorrendo le tappe di un vortice umano, politico e spirituale che appartiene alla storia d’Italia.
Un racconto di fantasia, che però si innesta sulla traccia di una ricostruzione storica puntuale, capace di fotografare il territorio novarese – sceneggiatura e protagonista indiscusso della narrazione – nella sua natura più intima e nella sua sacralità assoluta: il faggio e la quercia – del resto – attestano questa costante tensione alla verticalità, metaforicamente richiamata dall’ascensione alle vette alpine.
Un viaggio nell’eroismo e nell’audacia, nel coraggio e nel superamento di sé, nel senso dell’onore e nel rispetto per la parola data, nella perfetta simbiosi dell’uomo con il Genius Loci e della prassi rivoluzionaria con il vasto orizzonte della Tradizione.
INFO & ORDINI:
www.passaggioalbosco.it
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macnamaranumerocinque · 4 years ago
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trambusto nel vagone 2 (Hogwarts Express, 1 luglio 2076)
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C | [...] si è fermata ad osservare un gruppo di studenti più grandi che stanno giocando a carte, a Card Animus, in uno degli scompartimenti. La partita sembra essere animata visto che ci sono quattro studenti, due che giocano e due che urlano suggerimenti o esclamano ad ogni mossa.
L | [...] Cammina lungo il corridoio, con lo sguardo molto attento, intento a trovare un po` di cibo per placare la fame. Chiunque potrebbe notare che l’outfit del ragazzino è molto più elegante del solito. Sarà a causa del fatto che deve vedere i suoi genitori? [...] «Oh, Chloe!» qualche altro passetto per avvicinarsi alla ragazza «Che cosa guardi?» - «Oh!» - «Che gioco è, secondo te?»
N | [...] Per il resto su una spalla ha la borsa a tracolla di cuoio, sulla quale è poggiata una camicia elegante, mentre sull’altra ha il suo topolino enfatico che ha l’elmo e lo spadino vichingo, ma senza dubbio il pezzo più bello è una sfera, che contiene del fuoco. Ed è con Tristran, perché hanno comprato dei dolci e lui ne è ghiottissimo. « Lo sapevi che queste mangiano il pepe? » dice parlando della creatura nella palla chiaramente « Ma a te, te l’hanno detto chi ci viene a prendere quando si scende? »
Tr | «... Il pepe? Ma ne sei sicuro?» - «Non mi pare `na cosa che ti sfama a lungo» gli fa notare con una scrollata di spalle, stringendo di più al petto il sacchetto colmo di dolciumi appena acquistati dalla signora del carrello «Comunque... verrà qualche Elfo Domestico, boh» liquida la questione agitando una mano nell’aria lasciandosi distrarre dal chiasso che pare provenire qualche scompartimento più in là «Che fanno lì? C`è una rissa?» domanda a voce più alta nel tentativo di soverchiare lo sferragliare del treno, sorridendo con entusiasmo, rivolto a Chloe e Luke, che si improvvisano voyeur della situazione.
C | «Credo a card animus [...] Ho un deck anche io, me lo ha regalato un ragazzo più grande l’altro ieri dopo che abbiamo mandato via degli gnomi dal giardino» - «Oi.» saluta i due ragazzi con un mezzo sorriso «No, nessuna rissa. Stanno giocando a carte però urlano un sacco.» - «Oh, ma quello cos’è?» ha notato la sfera contenente fuoco e ora la sua attenzione è lì.
L | «Ah, non ce l’ho presente...» - «Degli gnomi? E che ci facevano in giardino?» chiede, alzando entrambe le sopracciglia e voltando per un attimo lo sguardo sulla ragazza. [...] Ridacchia voltandosi verso i due «Ciao ragazzi» Il suo sguardo, come quello di Chloe, cade sulla sfera, non dice nulla, visto che la Tassorosso gli ha rubato le parole di bocca, ma rimane con gli occhi sbarrati a fissarla.
W | [...] cammina tranquillo al fianco di Sebbie con ancora la bocca intenta a ciancicare quel paio di caramelle che gli sono rimaste. Artie invece è ben stretto nella mano sinistra, non può di certo rischiare che il rospo scappi in mezzo a tutto questo caos di studenti che vagano per il treno. « Ma gli altri dove si sono cacciati? » [...] « OH ECCOLI » [...] « Avete organizzato una riunione? » scherza mentre adocchia pure le carte « Che è sta roba strana? » invece verso la sfera di NIALL « Un`altra delle tue cose strambe? »
S | [...] «Boh saranno qua intorno» - «sono l-» se solo non venisse interrotto prima, ma comunque si avvicinano costringendolo a salutare tutti con un semplice «buuh» - «Rissa?» diretto a Trist(r)an con la solita voce profonda «dove?» [...] quella che sembrava essere un’avventura potrebbe essere in realtà una semplice giocata a magi-briscola.
N |  « E’ una salamandra » dice, esala quasi, condendo il tutto con un « Gnn » - « Che c’è? Mai viste? » domanda ora, sempre lento, svogliato.. tutto al solito. « C’avete pure avuto il sangue sul muso di queste creature qui » e sì, che cosa creepy, ma al rituale c’era sangue di salamandra. Ovviamente lo dice come se nulla fosse, in modo naturale.. il suo chiaramente.
Tr | «Ah» - «Maddai, così tanto baccano per delle carte...» borbotta tra sé e sé - «Quindi è per quello che te la sei fatta dare?» incurva un sorrisino ambiguo verso Niall, sogghignando per il doppio senso «Per strizzarle fuori tutto il sangue e farci rituali strani?» [...] in tutto ciò ha scordato di prestare attenzione alla sua, di cioccolata appena scartata, perdendo di vista la Cioccorana proprio al momento di spiccare il suo primo e unico vero salto «Ah, cazz... AL VOLO, PYRA» tramuta l’imprevisto in risate, è proprio lì che quella sembra essere diretta, balzando verso il Corvonero e Chloe.
C | «Già, gnomi. Boh, c’era un cespuglio infestato, a me hanno morso sulla caviglia e sul polpaccio, vedi?» sposta in fuori la gambetta mostrando i segni ancora un pochino visibili dei dentini di gnomo presenti sulla gamba «Tranquillo comunque, gli gnomi sono pericolosi quanto una caccola.» [...] «Oh no, non vorrai mica strizzarle fuori il sangue, no?» Ma è la cioccorana ora al centro dell’attenzione, quel dolciume marrone ha infatti spiccato un salto proprio verso lei e Luke. «Oh!» Gli occhietti azzurri la vedono arrivare e, probabilmente mentre il corvonero tenterà lo stesso anche lei interverrà alzando l’unica mano libera, la destra, per cercare di acciuffare la fuggitiva.
L | «Non ne sapevo nulla» Poi ridacchia, quando la stessa paragona gli gnomi a delle caccole. [...] «Ah» non se l’aspettava... ma vabbè, non ci schifiamo per così poco. Ed ecco che la Cioccorana salta da Tristran nella loro direzione. Alza entrambe le mani, cercando di acchiapparla al volo.
W | « Dammene una bro, che io ho finito le mie »
S | «ci hanno dato dentro questi gnomi» ed emette anche una leggerissima risatina «che figlioletti di Morgana»
N | « Facciamoli urlare per un motivo serio » [...] « facciamo uno scherzo a sti qua » dice un po’ a tutti con sempre il suo tono apatico. « Trasfiguro un animale puzzolente » quale? « uno lo pesta, uno lo calcia dentro e altri tengono chiusa la porta » - « Resferàntes » - « Prima che voli oh »
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Tr | «Beh, dipende dal tipo di Gnomi...» si intromette in coda alle parole di Chloe «Alcuni scavano delle buche talmente profonde che la gente ci casca eee schiatta» - «Però la bava di Gnomo porta molta fortuna, eh» [...] Niall sembrerebbe aver in mente tutt’altro genere di piani, facendolo sorridere con un che di cospiratorio «... Ma si può trasfigurare, la puzza?» Attende dunque la trasfigurazione della cimice con piede già pronto a calarci sopra, tentando di non farsela sfuggire «Svelti, aprite la porta» e se tutto andasse secondo i piani, calcerebbe l’insetto verso Seb, affidandogli l’onore dell'ultima pedata.
C |  «Mah quegli gnomi lì erano caccolette» risponde «erano più gli altri, All e Cornelia, che manco ascoltavano e hanno fatto casino. Io dico storditeli e loro li spingono, mah. Poi Allister c’è pure caduto in mezzo e s’è fatto strappare i capelli.» [...] «Io la porta.» attende quindi che Niall trasfiguri la piuma e che Tris la pesti, quando Tris passa la cimice a Seb lei spalanca la porta dello scompartimento degli studenti più grandi che giocano. «Ora!»
Ta | Le intenzioni di Tasha erano quelle di spostarsi verso il vagone successivo, ma un campanello di gente ha bloccato il passaggio, si mette poi in punta di piedi nel tentativo di guardare oltre e capire cosa stia succedendo «Che è sta caciara?» - «State bloccando il passaggio, se non ve ne siete accorti»
L | Ascolta il piano di Niall, ridendo all’idea di fare uno scherzo ai ragazzi che stanno disturbando la quiete altrui con le loro urla. «Io ti seguo!» a Chloe con un piccolo ghigno e uno sguardo d’intesa, quando lei dice il suo ruolo. [...] sfilerebbe la bacchetta di quercia dal fodero, pronto a puntarla sulla porta e fare un incantesimo di blocco.
W |  Il piano di Niall fa gasare anche lui che si limita ad incitare un po` tutti, soprattutto « VAI SEBBIE » che dovrebbe dare il calcio decisivo alla cimice. L’arrivo di Tasha invece gli fa alzare il viso ma il suo tono gli fa storcere il naso. « Passa da un`altra parte Odinsbane » simpaticissimo. A Tris lancia un’occhiata con tanto di smorfietta mentre mima con le labbra un "Le solite femmine".
S | «Allister e Cornelia hanno cacciato degli gnomi?» e sgancia una risata «mi pare strano che non siano stati gli gnomi a cacciare loro» [...] Ma comunque eccolo qui, a calciare il calcio di rigore, con il sudore sulla fronte, eccola che arriva, eccola. E quindi la calcia con la punta del piede destro verso la porta dello scompartimento, perdendo successivamente l’equilibrio e cadendo all’indietro [...]
N | [...] trasfigura l’animale lasciando che siano gli altri a completare il suo lavoro, o la sua idea ecco. Ci mancava solo Tasha, Niall per il momento non se la fila di striscio. [...] ha altro da fare, anche perché deve osservare bene l’operato degli altri e nel caso intervenire. [...] « Alzati cretino! » gli dice senza urlare, a denti stretti. « Chiudete oh! » - « Tessitèla » dice quasi sussurrando « Cosa » richiama Tasha « se parli, ti uccido » E detto questo, lui cercherebbe di darsela a gambe, ridendo, lo seguite no?
Tr | «Oh, quindi mo è calvo?» [...] «Niente, stavamo decidendo chi buttare giù dal treno...» a Tasha «Alla fine abbiamo sacrificato Fralker, che tanto era diventato pelato. Forse se t’affacci riesci ancora a vedere la carcassa» [...] Si avvia dunque all’inseguimento di NIALL, a colpi di lunghe e veloci falcate nel tentativo di recuperare il ritardo «Vabbè, dài, era solo un insetto...» se la ride, liquidando le minacce di morte.
C | «No, però un po’ di ciocche le ha perse!» [...] con un cenno del capo a Luke la tassorosso spingerà il più velocemente possibile la porta per chiuderla e lì terrà le mani sulla maniglia, spingendo per tenerla chiusa. «Come la blocchiamo?» ci pensa Niall a intervenire sulla porta con un tessitela e così oscurare e bloccare lo scompartimento dal lato corridoio «Buona idea!» commenta scostandosi per non rimanere appiccicata alla porta, poi vedendolo correre via decide di seguirlo a ruota, ridendo a sua volta non prima però di aver dato una gomitata a Luke 
«Vieni scappiamo!»
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catullodeimonti · 5 years ago
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... vivo della mia follia,
Di funghi e stenti,
Di tartufi e vino...
... vivo assieme ai ricordi
Che stringo per mano...
... la sigaretta brucia,
Il bicchiere è vuoto,
Il tempo è un tiranno
Che chiede il conto...
Morgana m'osserva,
Ha caldo.
S'assopisce sulle fresche pietre
Del vecchio casone...
... Morgana porta
Occhi di madre,
Marroni,
Figli dei sogni :
Nacque il primo giorno d'agosto
Settantaquattro anni dopo
Colei che non la conobbe...
MATER
Che sorridi
Tra la fronda
Della Quercia e del Castagno
Non odo la tua voce
Ma sento il tuo Cuore.....
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nickmolise64 · 5 years ago
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LA CASSA E’ DOVE HAI IL CUORE
Seneca, lettera a Lucillo.
 Il tuo spirito devi mutare, non il cielo sotto cui vivi. Anche se attraversi il vasto oceano, anche se, “ti lasci dietro terre e città”, dovunque andrai ti seguiranno i tuoi vizi. Disse Socrate ad uno che si lamentava per lo stesso motivo: “perché ti meravigli che non ti giovino i viaggi? Tu porti in ogni luogo te stesso; ti incalza cioè sempre lo stesso male che t’ha spinto fuori.” Che giovamento può darti la varietà dei paesaggi o la conoscenza di città e luoghi nuovi? Tale sballottamento non serve a nulla quindi perché tu non trovi sollievo nella fuga? Perché tu fuggi sempre in compagnia di te stesso.”
         Questo luogo non è casa mia
  -" Signor Nicola, le abbiamo trovato casa"  
era sovraeccitata la signorina dell'agenzia cui mi ero rivolto per trovare un appartamento dopo la separazione da Angela.
-"Proprio il tipo di appartamento che ci aveva chiesto, un piccolo bivani con servizi 50mq circa”  
a dire il vero era anche troppo, non volevo un appartamento cosi grande per le mie esigenze, ma tant'è che dopo un mese e mezzo di pellegrinaggio dal lavoro a casa di mia madre, in sostanza 100 km al giorno, era davvero una bella notizia.
-"Quanto chiedono al mese?"
- “500, è arredato e completo di tutto"
Si affrettò a dire la signorina con quella voce stridula che mi stava perforando il timpano.
-"l'appuntamento per vedere la casa è per oggi pomeriggio alle 16,00, lei è libero per quell'ora?"
-" L'appartamento è in ottimo stato?  Chiesi
-"Praticamente nuovo"  si affrettò a dire.
-"Allora passo direttamente domattina per firmare il contratto, mi fido di lei."
Con quella voce, non poteva che essere una persona scrupolosa e sentivo di potermi fidare, ma la freddai con quella risposta, quando mi salutò la sua voce era precipitata dentro ad un imbuto. Avevo una cosa più importante da fare per il pomeriggio; andare a correre.
 Gli odori più intensi che mi fanno ricordare la casa dei miei genitori, sono senza dubbio legati a mio padre. La brillantina Linetti che immancabilmente ogni mattina si metteva nei capelli e l’acqua Velva dopo ogni rasatura mattutina, riti quotidiani di un uomo di altri tempi, odori forti che rimanevano nell’aria per un’intera giornata e a ogni suo rientro svanivano, erano una magia che allora non riuscivo a capire, era la sua assenza che in alcune circostanze era anche prolungata, che si perpetrava rimanendo nell’aria. I rumori che ogni tanto mi capita di risentire nella mente appartengono a mia madre, il suo ciabattare nella casa, il battipanni sui tappeti stesi, la lucidatrice passata ogni sabato mattina, rumori di stoviglie in cucina. Siamo legati a odori, profumi, che ci ricordano una persona, e quando questa non c’è più, ecco che ritorna ogniqualvolta ci ricordiamo il profumo che ci lega a essa. Tutto questo sparpagliato in qualsiasi delle case dove abbiamo abitato ogniqualvolta mio padre cambiava destinazione.
 L’appartamento come mi ero immaginato era un po’ troppo grande per le mie esigenze di single, ma andava bene lo stesso, poi non sono certo il tipo di innamorarmi di una casa, una vale l’altra, l’importante è aver recuperato la mia autonomia, per la mia autostima invece ci vorrà sicuramente un po’ più di tempo. Il tempo necessario di prenderne possesso ed è come se ci abitassi da un’eternità', non sento assolutamente l’ebbra del nuovo, ci sono assolutamente avvezzo ormai dalla nascita. Ora mi ritrovo nel nuovo ed ennesimo appartamento da solo, dopo solo due anni di convivenza con Angela, andati a convivere al volo solo dopo pochi mesi che c’eravamo conosciuti, il rapporto a distanza non aveva funzionato, una disadattata come e per certi versi peggio di me, ci aveva unito proprio il nostro sentirci diversi dal resto del mondo, lei precaria della scuola faceva la pendolare dove capitava la supplenza, io Ispettore di polizia con i miei turni eravamo diventati da li a poco due estranei. Infatti, ci lasciammo senza rancore, consapevoli che i nostri desideri non abitavano più sotto lo stesso tetto.
Il pendolare fatto per un bel pezzo di tempo dal lavoro alla casa di mia madre, mi aveva ridotto la schiena a pezzi, così da un paio di settimane avevo ricominciato a correre, cosa che facevo tanto tempo fa', in tutte le ore del giorno che mi era disponibile, anche all’alba sia d'estate sia d'inverno, e nel periodo in cui dovetti staccare, mi sentivo un goffo ippopotamo, e neanche quando finalmente l'agenzia mi trovò l'appartamento e la ritrovata libertà di movimento, mi avrebbe fatto desistere di andare a fare la mia solita corsetta di un'ora mezza circa. La casa si trovava nello stesso comune di residenza, dove abitava mia madre a circa 20 km, di distanza, fuori dal centro urbano, cosa che avevo espressamente chiesto all’agenzia, e a circa 50 km, ma in un altro comune, da mio fratello maggiore, la via “di casa” era ricostruita in poco meno di 70 km eravamo tutti lì, dopo che per un bel po’ di anni eravamo sparsi in giro per l'Italia, io con il mio lavoro, mio fratello con il suo, l'unica a rimanere "stanziale" era stata mia madre, che da quando rimase sola, aveva cambiato casa solo una volta, e aveva più di vent'anni che abitava nella stessa, un record per lei che aveva seguito mio padre in giro per lo stivale ovunque cambiava caserma città e casa, adattandosi con straordinario senso pratico, forza di volontà unita a una semplicità unica e a un carattere aperto e gioviale. Del resto sapeva benissimo del lavoro di mio padre, carabiniere negli anni che dal boom economico andavano verso il boom delle bombe e del terrorismo. Del resto la mia era una decisione saggia, mia madre andava lentamente ammalandosi, una malattia subdola che cancella la memoria, a poco a poco senza neanche accorgersene, tornava sempre più bambina anche se ancora non è nella sua massima degenerazione, ma trovavo necessario non allontanarmi più di tanto.
Adesso che ero rimasto praticamente da solo, con i miei quarant'anni, che cerco lentamente di recuperare quella famosa autostima che è precipitata dentro un pozzo senza fondo, avevo dentro di me quella sensazione di fallimento che mi aveva investito dopo la separazione da Angela.
 A differenza dei miei amici e colleghi che ho conosciuto in tutta la mia vita in qualche modo mi sentivo diverso, nel senso che mi sentivo uno "sradicato" cioè non appartenente a un posto a un luogo, quel senso di appartenenza a una terra che penso sia tipico di ogni individuo, con i propri personalissimi ricordi legati agli amici di sempre, dall'asilo passando all’elementare per finire alle medie, cresciuti insieme giocando litigando, dividendo tutto il bello e il brutto, le prime cotte, l'amore per la stessa ragazza, le cazzate che man mano si cresceva si facevano, niente di tutto questo, o per meglio dire c'era un po' di tutto ma diluito nel tempo e soprattutto in posti diversi, con gente diversa via via che passavano gli anni e si cambiava città. Infatti, a differenza delle persone che conosco, io, a parte qualche eccezione, non ricordo i nomi dei compagni di scuola dall’asilo alle elementari e di tantissimi altri che ho via via conosciuto nelle mie età con le tante scuole cambiate, in alcuni anni anche nello stesso anno scolastico, mi ritrovo con vecchie foto in bianco e nero che fin da giovanotto a tutt’oggi quando capita di riprenderle in mano e le guardo, ebbene, non ce n’è uno, dico uno che ne ricordassi il nome né tantomeno il cognome. Quei volti per me e come se fossero tutti uguali, anche se di città, scuole e anni scolastici diversi, è come se avessero la stessa faccia con dei nomi diversi che io non ricordo, e questo mi da motivo di sentirmi sempre più uno sradicato. A oggi non c’è un posto dove possa dire; “Questo luogo è casa mia”.
 Ce ne era uno che lo avevo eletto posto ideale ed era in campagna dai nonni materni, lo raggiungevo dopo chilometri con la bici sulle stradine sterrate di campagna, arrivavo in un posto dove c'era un'enorme quercia e li mi fermavo a riprendere fiato. Come quel giorno che avevo otto anni, ci arrivai facendo un giro ancora più lungo e quando arrivai dopo aver preso delle more mi fermai a mangiarle e mi distesi sotto la quercia addormentandomi. Mi svegliarono il canto assordante delle cicale, non si sentivano a chilometri di distanza altri rumori, e dalla luce capii che si era fatto tardi, troppo per la mia età mio padre tornando dal lavoro mi avrebbe sicuramente rimproverato, corsi cosi velocemente che mi voltai per vedere l'enorme nuvola di polvere che lasciavo alle mie spalle. Da lontano intravedo la casa dei nonni e stranamente tante troppe figure nella stradina, pensai che mia madre in preda al panico avesse coinvolto mezzo paese cercandomi, infatti vidi mio fratello di cinque anni più grande di me, secco come una carruba che gli dava quella sensazione di essere più alto di quanto in realtà lo fosse, sulla strada che agitava le braccia che sembravano i lunghi rami di uno spampinato pioppo, come a voler dire a qualcuno che ero arrivato. Quando mi avvicinai, mi accolse con la sua solita espressione di sempre.  
- “Eccolo, la benemerita testa di cazzo è arrivata”.
Non capivo tutta quella gente la mamma davvero aveva coinvolto il paese per cercarmi? Pensavo. Mi tolse il dubbio mio fratello con il suo solito modo di fare a dir poco fin troppo esplicito,
-"Hanno ammazzato Papa". Vai da mamma che ti vuole vedere".
 Mia madre era chiusa in stanza con lei ci stavano solo la vecchia zia, la nonna e una vicina di casa, mi vide e mi abbracciò, aveva gli occhi rossi dal pianto, chissà quando era successo e da quanto tempo piangeva, mio padre non c'era, era nella camera mortuaria dell'ospedale soltanto l'indomani pomeriggio portarono la salma. Era stato ucciso insieme con un altro collega da due terroristi.
    Sono entrato in polizia dopo essermi diplomato non senza molte difficoltà, per sete di giustizia, non cercavo certo vendette chi aveva ucciso mio padre avevano già da  qualche tempo saldato le sue colpe, uno ucciso durante un tentativo di rapina dopo che era riuscito a evadere dal carcere dove era stato condannato per l’omicidio di mio padre e del suo collega, e l’altro ammazzato in carcere da un regolamento di conti interno alla loro organizzazione. Quando mio padre entrò nell’arma era un periodo tranquillo che nel giro di un decennio portò al terrorismo con tutte le sue gravi conseguenze che mi toccarono molto da vicino, quando sono entrato io l’emergenza erano gli ultrà, gente che si odiava senza motivo senza neanche conoscersi, dietro la maschera della fede calcistica, un’assurdità che non sono mai riuscito a capire ed io che nei primi tre anni ero al reparto celere ne prendevo atto in presa diretta, anche con conseguenze fisiche come quella volta che presi una coltellata a una coscia.  
Ho provato qualche volta, con risultati ovviamente scadenti, di parlare con mio fratello di questa mia condizione, se anche lui provasse quello che provavo io, ma in lui a parte qualche eccezione non c’era traccia, sarà che la sua età lo aveva aiutato, quei cinque anni in più gli avevano lasciato maggiore ricordo dei nomi dei suoi amici, ma sono sicuro che anche lui avesse qualche dèfailiance e che non se ne curava più di tanto lui volendo i suoi amici grosso modo soprattutto quelli della scuola se li ricordava abbastanza bene, ma del fatto di non sentire “quel luogo” che ricondurrebbe a tutta una vita vissuta quella proprio non ne sentiva l’esigenza. Quindi mi chiedevo ero io il problema? Perché questa esigenza?
E' questo il cruccio che mi porto dietro, siamo più o meno legati a dei posti con persone che conosciamo da sempre, invece io personalmente mi sentivo anche nell'anima uno "sradicato" e non c’è niente di peggio di sentirsi cosi. E' giunto il momento di cercare di mettere un po' d'ordine dentro di me e ritornare a poco a poco nei luoghi dove sono stato fin da piccolo, o quantomeno in quelli in cui c'è traccia di memoria dentro di me. Era da un bel po’ di tempo che ci pensavo, ma il lavoro mi rubava sempre del tempo, ora che la libertà di movimento non mi manca sapendo di avere tre giorni di ferie non godute andrò per cominciare in quelli più vicini ma più lontani nel tempo.
 E' l'alba quando mi metto in macchina verso il mio esodo al contrario, nei luoghi dei miei ricordi raminghi. Arrivo nella cittadina dove ho lasciato quelli più o meno nitidi, arrivo con un cielo che via via si è fatto minaccioso in questa stramba primavera. Vago per la città lungo i viali e vie che ricordo a mala pena quando mio padre nei pochi giorni liberi mi portava a fare un giro, perché il resto della vita qui in questa città era tutta vissuta vicino dove abitavamo ed era in periferia e vicino scorreva un breve tratto del fiume che attraversava la città. Senza navigatore satellitare mi faccio guidare dall'istinto, ed eccomi con mia sorpresa proprio nella via dove abitavamo. Noto con dispiacere che anche qui l‘edilizia ha rubato quasi tutto lo spazio che poteva, ma nonostante le troppe case nuove intorno riconosco inconfondibilmente il palazzo dove abitavamo, la via è questa il nome della via chissà perché è scolpita nella memoria. Posteggio e lentamente mi aggiro tra i palazzi alla ricerca di un posto preciso dove giocavamo a pallone, a rincorrere le lucertole a fare a gare di lotte e di corse. Ed eccolo almeno quello che ne è rimasto lo spazio verde dove giocavamo, ora c'è un asilo nido ne è rimasto sì o no un quarto di quello che c'era prima. Nonostante tutto, dietro nascosta c'è ancora la casa vecchia ora abbandonata, dove abitava Lucio.
Lucio e pochi altri era un bambino che non potrò mai dimenticare, abitava con sua sorella di qualche anno più piccola di lui con il padre, che l’avrò visto si o no un paio di volte appena e che nel quartiere dicevano fosse un padre-padrone e alcolizzato, la madre non di meno, ricordo che tra i grandi di allora facendo riferimento ai suoi genitori dicevano fosse la coppia-alcool. La madre se ne era andata quando lui era piccolo con un altro uomo, un altro sbandato. Spesso faceva assenze a scuola ma era un bambino molto allegro e vivace. Mi giro attorno, poco è rimasto di allora il fiume che passava proprio dietro la filiera di pioppi che circondava il posto ora è ridotto a un rigagnolo, allora soprattutto dopo gli inverni piovosi era sufficientemente grosso da portarsi via se non si stava attenti anche una persona, spesso capitava che il pallone finisse dentro il fiume allora seguendone la corrente passando proprio accanto la casa di Lucio e con il coppino che gli dava sua sorella si riusciva a recuperarlo. Quel dannato giorno non fu facile. La corrente era troppo forte Lucio conosceva a menadito il letto del fiume pieno di pietre e più o meno sapeva dove poteva fermarsi, era sempre lui che partiva per recuperarlo, ma quel giorno non fece i conti con la corrente troppo forte per le piogge incessanti che erano cadute pochi giorni prima. Non lo vedemmo più spuntare dalla curva che formava il fiume e dopo un po’ sentimmo le urla di sua sorella che ci chiamava. Lo ricordo ancora sdraiato con la schiena sui massi del fiume, era scivolato e aveva battuto la testa perdendo i sensi. Sembrava morto, un fantoccio inanimato tutto bagnato con la testa fuori dall’acqua e gli occhi chiusi. Scappammo dalla paura con sua sorella che gridava dalla finestra, corremmo a casa impauriti ad avvertire i nostri genitori. Quando sentì arrivare l’ambulanza io ero già in pigiama e avevo preso la mia razione di schiaffi da mia madre sapendo che ancora non erano finiti perché mi attendevano quelli di mio padre. Venni a sapere che Lucio non avrebbe più camminato e mi ricordo il senso di colpa che mi colse e che traumatizzò  tutti gli amici, non seppi più altro di lui perché qualche settimana dopo, dopo solo quattro anni, ci trasferimmo in un’altra città.
 Ritorno in macchina è quasi l’ora di pranzo e qualche goccia comincia a venire giù sono dentro che sto guardando i palazzi e gli androni e i marciapiedi dove giocavamo con i tappi delle bottiglie con le piste disegnate con il gesso. Mi accorgo di una donna sulla trentina che cammina velocemente girandosi in continuazione, è una strana situazione che non può sfuggire a uno sbirro, vedo che un tizio la segue a passo svelto con aria minacciosa.
La cosa non mi quadra e scendo dall'auto inseguendo il tizio il quale non si accorge che lo sto seguendo, prima che la donna entri nel portone del palazzo dove abita riesce a raggiungerla e a schiaffeggiarla, mi butto su di lui piegandogli il braccio quasi a spezzarglielo gli intimo di lasciarla in pace facendogli vedere il tesserino, avrei potuto provvedere all’arresto ma non potevo perché ero in congedo e per giunta in un'altra città, mi bastava spaventarlo per bene, e dopo essermi assicurato che non si sarebbe fatto più vivo mollai la presa e gli dissi di sparire immediatamente e di non farsi più rivedere, filò via impaurito correndo come un pazzo. Gli chiesi alla donna chi fosse e spaventata mi rispose vagamente che era un tizio che aveva conosciuto da poco e che si era fatto delle strane idee su di lei, ma capii subito che stava mentendo, voleva coprirlo.
Comunque la accompagnai alla porta per assicurarmi che sarebbe entrata, le chiesi se voleva denunciarlo ma mi disse di no e mi fece entrare. Era un appartamento piccolo ma ben curato mi fece accomodare in cucina e mi chiese se volevo un caffè. Mentre lo preparava la guardai, era poco curata ma si vedeva che era stata una gran bella ragazza ma dimostrava anni in più di quelli che aveva, probabilmente era una tossica. Nel preparare il caffè disse si o no due o tre parole tipo se ero in servizio in città e da dove venivo, secondo me si rendeva conto che avevo capito il suo problema. Elusi le domande e gli domandai se già altre volte il tizio di poco prima gli aveva recato disturbo, mi ripose un po’ seccata di no e che già mi aveva risposto prima. Prendemmo il caffè guardandoci negli occhi, i suoi erano di un colore chiaro e indefinito, occhi grandi e dolenti, leggermente cerchiati e aveva una vaga somiglianza con qualcuno, qualcuno nella mia memoria, in quei pochi istanti che sorseggiai il caffè, feci fatica a cercare a chi poteva somigliare. Si alzò dicendomi di stare tranquillamente seduto che si sarebbe andata a fare una doccia. Io sentendola chiudersi la porta del bagno mi alzai e vagai nel piccolo appartamento alla ricerca di qualcosa che mi ricordasse quel volto.
 L'appartamento era sobrio e dignitoso, pochi mobili e anche se la casa era piccola c'era molto spazio come se servisse per qualcuno o comunque avvertivo che non viveva da sola. Non mi resi conto in quel momento del perché mi stessi comportando in quel modo, entrare furtivamente nella vita degli altri. Entrai in una stanza era in penombra di fronte a me un lettino singolo, mi diede la sensazione di una stanza non vissuta, incredibilmente pulita e in ordine e accanto appoggiato al muro c'era una carrozzella per disabili. Mi dava l’impressione di una camera museo. Sentì il battito cardiaco accelerare e riuscì a deglutire con difficoltà, di fronte alla parete c'erano delle fotografie in bianco e nero con didascalie del luogo, aveva viaggiato molto e la riconobbi in tante di quelle foto appese e notai la sua bellezza proprio come immaginavo, poi sotto una cartolina i nomi di "Carmen e Andrea" i battiti rallentarono improvvisamente, come improvvisamente uscii dalla stanza e prima che lei uscisse dalla doccia, misi 100 euro sotto la tazzina del caffè e uscì per sempre da quella casa. Ero a un passo da una possibile verità dal ritrovare un amico d’infanzia di cui avevo avuto grandissima ammirazione, ma la didascalia nelle foto esposte in quella camera mi avevano convinto che non era Lucio, e poi perché avevo messo sul tavolo quei soldi? gli avrebbero sicuramente fatto comodo visto la situazione che avevo percepito. Preferii non aspettare che uscisse dalla doccia e me ne andai. In fondo sono sempre entrato ed uscito dalla vita degli altri esattamente nelle stesse modalità di oggi; d'improvviso. D'improvviso arrivavo in una città nuova il tempo di conoscere dei bambini e cosi tutti i miei compagni di scuola, e allo stesso modo ne uscivo. D'improvviso. Perdendo tracce di tutti e chissà forse nel tempo anche di me stesso.
Non dipendeva solo da me, dipendeva da altri, dipendeva da mio padre suo malgrado, ora, come già in diverse occasioni, dipendeva solo da me stesso, non avevo scuse.
Quando misi in moto la macchina un violento temporale si abbattè con tanta furia che dovetti subito accostare e spensi il motore. Mescolai pensieri all’acqua che picchiava violentemente sul parabrezza, a come il tempo avesse diluito il ricordo e che bastava un colpo di spazzole per renderlo nitido. Per un attimo mi stava tornando tutto, per tutto ciò che vidi in quella stanza per un attimo avevo creduto fosse Lucio ma il solo pensiero che fosse lui mi stava creando angoscia perché avevo capito che quella persona era morta. Lucio invece era ancora vivo dentro di me. Così come improvvisamente piovve, smise, feci un lungo respiro e ripresi il cammino.
 Le intenzioni prima della partenza erano che avrei dovuto fare un salto di circa trecento chilometri per andare nel luogo dove mi portarono subito dopo morto mio padre ma non ne avevo più voglia e, in effetti, quello era l'unico posto dove era più che sicuro che non avrei trovato nessuno, era un luogo di passaggio di tante anime innocenti che avevano perso i genitori, un collegio privato gestito da suore dove eravamo bambini di ogni regione d'Italia, ma probabilmente ormai chiuso come seppi anni prima da chi lo conosceva. Ma in effetti cominciavo a chiedermi a mano a mano che la macchina divorasse i chilometri allo stesso modo come divoravo i pensieri, volevo veramente incontrare qualcuno? Avrei mai potuto riconoscerlo? Cercavo un volto, due occhi, una voce. Ancora non mi bastava il ricordo?
Stavo tornando indietro era pomeriggio tardo, cercavo disperatamente un bancomat mi erano rimasti poco più di 100 euro in tasca, quando decisi di uscire dall'autostrada e appena dentro la campagna vidi un BeB che faceva al caso mio, ma squillò il cellulare era Irina la badante di mia madre, Irina la russa che mio fratello aveva scelto come angelo custode di mia madre ormai non più autosufficiente. Irina aveva la voce disperata e con un italiano incerto mi fece capire che mia madre era in grave pericolo e che lei era rimasta fuori casa. Era inutile perdere tempo e chiedergli come fosse successo e mi precipitai da lei, c'era ancora un centinaio di chilometri, mi rimisi in autostrada e sotto le note di "further on (up the road)” del Boss, sfogai tutta la mia rabbia e la mia preoccupazione per la situazione che si era creata. Toccai i centosettanta e non mi accorsi dei colleghi della stradale e mi scattarono la foto, non me ne fregava un cazzo!  Arrivai in poco più di mezz'ora e trovai Irina fuori casa disperata che cercava di trovare una spiegazione a quanto era successo  ma non le diedi molto ascolto il fatto era ormai accaduto e bisognava solo agire. Punto primo;  come entrare? La porta era corazzata e pensare di sfondarla non era possibile, prima di chiamare i vigili del fuoco provai a chiedere alla signora d'accanto che dopo un bel scampanellare infine mi aprì, aveva il balcone quasi accanto diviso da un sottile cornicione a quello di mia madre in un primo piano molto basso e facendo attenzione a come mettevo i piedi, riuscii a entrare nel balcone, la finestra era chiusa bussai sui vetri ma niente mia madre non rispondeva, provai ancora ma ancora niente, presi l’unica decisione che era possibile prendere rompere un vetro ed entrare, e cosi feci, quando riuscì a mettere piedi in casa, cercavo mia madre con un nodo alla gola, ma nello stesso tempo se la trovavo dovevo evitare di fargli capire la mia ansia, l'avrebbe intuito e questo poteva causargli un forte stress quando frugai in tutte le stanze mi ero dimenticato della cucina, e lì che la trovai tranquillamente seduta di fronte a me, mi guardò con uno sguardo vuoto, io mi ero già calmato nel rivederla, mi avvicinai e mi piegai nelle gambe di fronte a lei,  
-"chi è lei? Sussurrò con fievole voce.  
- "Sono io mamma, Nicola"   forse il nome gli accese un lampo ancora vivo nella sua memoria ormai distrutta dalla malattia,  
-"Cerchi ancora Nicola?  sapeva della mia  angosciosa ricerca del mio passato dei miei amici perduti, dei luoghi vissuti e abbandonati.
- "Non ti rendi ancora conto che li hai sempre vissuti dentro di te, sono cresciuti con te, anzi hai una fortuna in questo sono rimasti giovani dentro di te, tu crescevi e loro rimanevano con le loro età', con gli stessi occhi che guardano il mondo con stupore e innocenza, e sono anche i tuoi occhi”    
A rompere quell' idilliaco dialogo che non facevo con mia madre da tempo immemore, ci pensò Irina che capendo che ero entrato mise a scampanellare talmente forte che mia madre ritornò con la sua mente a quando era bambina. Irina entrò in casa come un tornado cercando mamma, gli dissi di calmarsi che stava bene, e gli raccomandai che non doveva più succedere una cosa simile, gli chiesi infine se aveva chiamato mio fratello che abitava più vicino a loro, ma mi disse che aveva chiamato invano per più di mezz'ora ma era irraggiungibile. Hai capito il fratellone, la mamma era in pericolo e lui che ha il secondo mazzo di chiavi è irraggiungibile. Gli dissi a Irina di provvedere a far riparare la finestra, salutai mia madre che nel frattempo aveva già dimenticato chi ero, come se quelle parole fossero state partorite da un'altra mente e chissà in quale tempo ormai lontano.
 Con le parole di mia madre in testa mi rimisi in autostrada alla stessa velocità di come ero arrivato e il tempo di   "Dancing in the dark"    "Born in the U.S.A.    "The fuse"   "No surrender"   "Working on the higway",   tra "The fuse" e "No surrender",  ironia della  sorte, ripassai di nuovo sui centocinquanta mi beccarono di nuovo i colleghi della stradale al diavolo, quando sarebbero arrivate li avrei pagate e buonanotte. Arrivai con  "Empty sky"  che bruscamente finiva proprio davanti al pedaggio, quando uscii dall' autostrada e mi aggirai tra la campagna alla ricerca di quel BeB, mi seguivano le morbide note della più rilassante "Reno"  che terminarono quell'estemporaneo quanto preziosa deviazione del mio folle viaggio nella memoria.  
Quando salii in camera, tentai di nuovo di rintracciare mio fratello ma niente era ancora irraggiungibile, strano per un tipo così scrupoloso, il "faccio tutto io" della famiglia ancora non rispondeva non sapeva cosa era successo e ne ero certo che non appena avrebbe risposto avrebbe trovato nel suo personalissimo cilindro delle idee la soluzione più giusta per la mamma. Ma sinceramente avevo una fame gigantesca e smisi di pensarlo, in fondo la mamma stava bene e non era successo niente di così pericoloso per la sua incolumità, e uscìì alla ricerca di una pizzeria.
 E' nelle mattinate e soprattutto d’inizio primavera, che mi sveglio presto per andare a fare la mia solita corsetta, ma non mi ero attrezzato per questa evenienza ma svegliarmi praticamente prima dell'alba era ormai diventata un conseguenza della stessa, ne approfittai per farmi una doccia pagare il conto e uscire e nel frattempo la luce solare aveva ricoperto di un manto d'oro tutta la campagna circostante. Con gli occhi pieni di morbida luce mi misi in marcia verso mete ignote volevo vedere dove mi avrebbe portato l'istinto e l'istinto mi disse che per soli duecentocinquanta chilometri potevo rivedere il collegio dove mi portarono dopo che morì mio padre. Nel mio peregrinare nelle varie Questure non mi era mai capitato di essere trasferito da quelle parti e non mi era mai venuta l'esigenza di rivedere questo posto, adesso ne sentivo l'urgenza come per altre del resto, come quella di rivedere almeno in parte tutti gli amici della mia infanzia, non ricordo bene i loro volti di bambino e neanche i cognomi, neanche uno, qualche nome ma non di tutti, e le facce quella di Lucio o di marco e Andrea, Massimiliano, Gianluca e tutti gli altri persi negli anni, conosciuti anche solo per un anno di scuola, o addirittura solo per nove mesi, come qui in questo collegio si assomigliavano tutte, ora che ne sono fuori dal cancello oggi diventato un ostello della gioventù. Sono passati esattamente trentaquattro anni da quando uscii per sempre da questo posto e mai e poi mai pensavo di ritornarci. Ora varco il cancello con l'emozione che sale sempre più, salgo la scalinata centrale ed entro in una sala ampia e vuota, passo il varco superando la prima stanza dove scorgo una persona di spalle intenta a leggere delle carte, sono tentato di chiederle delle informazioni ma le parole mi rimangono in testa, vedendo che non mi ha notato entrare ne approfitto e m’immetto nel corridoio a destra il lungo corridoio dove alla fine portava all'uscita laterale, vedo la scalinata che portava nelle camerate dove dormivamo e subito accanto la porta dove presumibilmente si trovava la cucina, gli odori che riemergono accendono con violenza i ricordi. Rimango per non so quanto tempo fermo davanti alla stanza della musica e sento riecheggiare le note del maestro di piano e il coro di cui facevo parte. In giro non c'è anima viva. Di fronte al corridoio c'è l'uscita laterale quella dove mia madre uscii piangendo dopo che mi aveva lasciato nelle mani della sorella madre, mi fermo nel guardare in fondo e la rivedo mentre si allontana, risento l'eco della mia voce disperata che la chiama. Adesso l'emozione è talmente forte che entrando in una stanza arredata in modo spartano con un letto a due piazze un armadio e un comodino con ai piedi del letto una panca imbottita, dapprima mi siedo semplicemente osservando fuori dalla finestra che da sull'ingresso principale, il prato dove giocavamo nelle ore di ricreazione e comincio a sentire dei rumori di passi, lo scalpitio di piccoli passi via via sempre più rumorosi il vociare di gente che chiacchiera e le grida allegre di ragazzi per sempre. Mi sdraio senza più forze come se tutto quello che avevo visto e sentito fuori e dentro di me mi avesse svuotato del tutto, in pochi minuti avevo esorcizzato questo luogo che ricordavo sempre con tristezza perché mi aveva portato via da mia madre anche se per un breve periodo, chiudo gli occhi e mi lascio cullare dai ricordi, e, piangendo, mi addormento.
 Quando mi risveglio, sono ancora nella mia camera del BeB, dopo qualche minuto di ravvedimento mi rendo conto di essermi addormentando con il portatile ancora acceso e ricordo di essermi collegato via internet e, dopo una affannosa ricerca, ho ritrovato le foto del collegio, ricordo solo ora di essere stato più di due ore davanti alle foto del collegio di averle viste e riviste fino allo sfinimento, fino alle lacrime, fino a che quella forte emozione non si era tradotta nel sogno della stessa notte dove ero lì in quel luogo tanto da sembrarmi vero.
 Dove mi sta portando questo viaggio? Cosa volevo da questo viaggio? Erano le principali domande che mi ponevo durante il tragitto. Uscii dal BeB ora senza una vera meta, avevo ancora in mente quel sogno che nonostante tutto mi aveva portato dentro di me una sensazione di pace interiore, era bastato un sogno per esorcizzare quel luogo. Mentre già sono in movimento mi viene in mente una persona che da troppo tempo non vedevo più e che sicuramente mi avrebbe saputo dare delle risposte. Giulia, nella rubrica dovevo avere il suo numero quando a distanza di diversi anni da quel viaggio ci incontrammo in un locale della città e ci scambiammo il numero di cellulare chissà mi chiedevo, se era riuscita a realizzare il suo sogno, quello di lasciare la città ed aprire un canile per cani abbandonati in aperta campagna,  ci conoscemmo in un modo che per quei tempi era ancora possibile, in un giornale locale trovai un annuncio dove chiedeva di condividere le spese di un viaggio che ci avrebbe portato fino a Dublino a un concerto degli U2 passando da Amsterdam visto che la sua migliore amica che la doveva accompagnare all’ultimo si era tirata indietro, un viaggio in treno dividendo le spese e soggiornando negli Ostelli, nell’annuncio non era riferito il sesso ne lo richiedeva dell’eventuale compagno cosi quando telefonai e mi rispose mi colpi il fatto che era una ragazza per lei non aveva importanza il sesso del compagno di viaggio, a lei interessava la condivisione dell’esperienza, oltre che le spese per il limitato badget di entrambi, soprattutto le esperienze che avremmo vissuto, poi, più in la capii che il suo era anche un viaggio alla ricerca di se stessa. Furono delle giornate straordinariamente interessanti e coinvolgenti praticamente dormivamo di giorno e il tardo pomeriggio fino all’alba la passavamo fuori in giro per la città. Ricordo che dopo solo tre giorni di vagabondaggio ad Amsterdam eravamo rimasti già senza una lira in tasca, tra bevute nei pub e visite nei musei, le opere di Van gogh esposte cui non avremmo mai rinunciato, e acquisti pazzi al mercato Albert Cuyp, la prima meta fu la visita alla casa di Anna Frank, gironzolando con le biciclette prese a nolo girando tra i quartieri della città, e proprio nel quartiere della casa di Anna Frank, quartiere pieno di pub e ristoranti di ogni genere, finimmo senza un soldo in tasca. Con gli ultimi gettoni rimasti che non bastavano per fare due telefonate, decidemmo a chi dei nostri rispettivi genitori chiamare per farci avere al più presto un vaglia per poter continuare il nostro viaggio fino a Dublino. Un giorno perdendoci nel girovagare tra i quartieri fumammo erba, per me era la prima volta e prendemmo conoscenza dal vivo tutto quello che si raccontava in questo paese.
Giulia amava in particolar modo Amsterdam perché le ricordava la sua natìa Venezia, dove era nata, ma dopo pochi mesi si trasferirono senza più muoversi. I suoi ricordi erano legati nel periodo estivo e alle feste natalizie quando tornava dai suoi nonni paterni. Diceva che Venezia aveva quel tocco di malinconia in più, quella nobile decadenza che la rende più affascinante, ma Amsterdam dal punto di vista architettonico e sicuramente più sobria, più viva, più elettrizzante, più giovane. Terminò la sua teoria dicendo che Venezia guardava indietro, Amsterdam avanti. Allora eravamo dei giovani affamati di vita. Arrivammo a Dublino il giorno prima del concerto, le tappe erano state stravolte, Amsterdam aveva rubato più giorni di quelli previsti, ma lo avevamo messo in conto e questo ci costo parecchio perché avevamo dovuto fare un altro biglietto il primo, quello verde che univa le città dalla partenza fini al ritorno, era stato bruciato, bruciato dalle emozioni che quella fantastica città ci aveva regalato. E a dire il vero Dublino ci deluse un po’, facile da girare con il suo piccolo centro storico, ma non si poteva non andare nel quartiere di Temple Bar dove c’è la più alta concentrazione di pub al mondo.
Alla fine di quell’incredibile viaggio dove gli raccontai parte delle mie esperienze che avevo vissuto e di quella condizione che ancora non era ben definita o comunque grazie anche alla mia ancora giovane età mi permetteva di non guardare troppo indietro, perché quel passato ancora facesse in qualche modo molto male, c’era comunque una  sensazione di vuoto che piano piano si andava a  insinuare dentro di me, confidandomi con lei riuscendo forse come non mai con nessuno a far uscire da dentro di me quella strana sensazione di sradicamento che quando ne parlavo con qualcuno si estraniavano non riuscendo a capire cosa volessi dire. Lei mi rispose sorprendendomi, dicendo che ero fortunato che avrebbe voluto sentirla lei questa condizione, che viveva in una famiglia troppo normale come diceva lei, figlia unica vissuta sempre nello stesso posto nella stessa casa ereditata dai suoi nonni materni trasferitisi appena dopo la sua nascita. Confesso che non riuscivo a capirla, davanti a me una persona che le radici le aveva ben salde eppure avrebbe voluto vivere la mia vita, era inconcepibile per me e lo è ancora oggi. Aveva una mente originale , acuta, intuitiva, brillante. La mia, verso di lei, non era un’attrattiva epidermica come una qualsiasi attrazione fisica. Ricordo il suo saper ascoltare, quello sguardo penetrante ma non indagatore che ti invitava a parlare senza remore, mi disse che il viaggio era un premio con la scusa del concerto per il suo diploma studi classici e con la passione della psicologia e mi parlò dei vari maestri che in qualche modo stavano influendo sulla sua crescita e conoscenza. Aveva un fascino particolare non era particolarmente bella e aveva una ambiguità che mi attraeva, un maschiaccio in gonnella era sfuggente e risoluta, pacata ma allo stesso modo esuberante e capace di coinvolgere chi gli stava accanto con il suo modo di parlare mai eccessivamente prolisso sempre con parole misurate nei modi e nei contenuti. Mi parlò dei suoi progetti dopo la laurea gli sarebbe piaciuto insegnare, e del suo amore smisurato per i cani, il suo sogno nel cassetto oltre l’insegnamento era di andare a vivere in campagna e aprire un canile per cani abbandonati.
  Ricordo che già allora lei provava a psicoanalizzarmi lo faceva un po’ con tutti, sentivo che era più che un'amicizia, era qualcosa che andava più in la di un vero e proprio rapporto tra un uomo e una donna, ci incontravamo a un livello che lei sosteneva essere superiore, qualcosa di invisibile che lega poche persone aldilà del rapporto di coppia. Lei aveva capito perfettamente quello che provavo , questa mia solitudine interiore, questa ricerca sempre di qualcosa che credo di aver perduto, anche se allora non era ancora un'ossessione la mia, ma lei riusciva a trovare le parole adatte per farmi sentire meno solo. Ecco ne avevo bisogno soprattutto dopo quello che mi era successo la notte precedente, di risentire la sua voce, le sue parole. La chiamai era la solita calda voce di sempre, felicemente sorpresa che sarei andata a trovarla mi spiegò la strada e mi diede indicazioni precise del luogo.
Venti chilometri di strada statale dopo l'uscita dall'autostrada, venti chilometri di curve in piena e bellissima campagna. Ho sempre avuto il rifiuto del navigatore satellitare ormai di moda, ho sempre preferito andare a naso e sarebbe stato anche molto bello perdermi in questa spettacolare natura se non fosse che Giulia mi attendeva. Mi accompagnano le accattivanti note di "I'm on fire" e della struggente "Black Cowboys" del sempre verde ed inossidabile Boss, anche io in questo momento mi sento un cowboy, la mia auto è il mio cavallo, alla ricerca del mio personalissimo pascolo in una terra com-promessa. Le curve intervallate dal suono dell’armonica a bocca, finchè tra le armoniose note di “Valentin’s day” trovo la casa di Giulia. una stradina con ai lati un muretto di pietre e in fondo si apre in un ampio spiazzo con al centro un gigantesco pino dove posteggio l'auto, tutt'attorno un silenzio incantevole e coinvolgente. Mi vengono incontro almeno tre o quattro cani alcuni abbaiano più per paura, un paio scodinzolando mi vengono incontro, non poteva essere che la casa di Giulia. Vedo dei box molto grandi in un lato della casa ma noto che i cani sono liberi di girare a loro piacimento. Che diritto avevo di piombargli cosi all'improvviso dopo tanti anni di silenzio? Il mio ego era così forte da non capire  che non potevo fare una cosa del genere? ma ormai era troppo tardi ero giunto fin sotto casa sua e non potevo più tornare indietro. Nel momento in cui alzo la testa per vedere se c’è qualcuno eccola affacciata nel balcone che dava davanti all'entrata, era una vecchia ed un pò malandata casa colonica, mi guarda con un mezzo sorriso come di chi si aspettasse prima o poi l'incontro. Salendo la scalinata laterale della casa dopo qualche attimo di sguardi riuscii a finire gli ultimi gradini e me la ritrovai davanti a me che mi saluta con un caldissimo abbraccio, era la solita piccola grande Giulia, dal corpo minuto e dalla faccia a forma di castagna che mi piaceva tenere nelle mani nell’unica occasione che avevamo avuto di scambiarci un bacio durante quel viaggio, un bacio rubato da entrambi, ladri di emozioni come potevamo essere solo a quella età.
Con la sua proverbiale naturalezza mi fece sentire subito a mio agio, come mi ricordavo fosse sempre con lei in qualsiasi situazione mi trovassi.
-"Ne è passato di tempo?" disse facendomi accomodare. "Se non ricordo male circa dieci anni" continuò.
-"Non sei cambiata per nulla" gli dissi.
- "troppo buono"  tagliò corto.
In effetti era cambiata pochissimo sempre con quello sguardo profondo e penetrante capace di scrutare e ghermire tutti i pensieri di chi le stava vicino. - "Allora cosa mi racconti di bello"?  sei ancora alla ricerca delle tue radici, vero?”  Mentre mi accomodavo in un piccolo divanetto due posti dentro la enorme cucina tipica delle case coloniche dei contadini e lei si sedette accanto a me, come dargliela a bere ad una come lei, aveva capito subito che mi trovavo ad un punto morto del mio cercare. Le raccontai gli ultimi anni vissuti con questa spasmodica ricerca cresciuta sempre più nel corso degli anni, di quel luogo che raccontasse la mia vita, quel filo continuo che legasse “casa- territorio- amici - anima”  in un unico luogo. Ecco con lei riuscivo a trovare le parole giuste, era sempre stato cosi, ma purtroppo le nostre strade si divisero. Mentre parlavamo tranquillamente, una figura sottile eterea alta bionda e soprattutto completamente nuda, attraversa la stanza camminando quasi con passi di danza, mi saluta con la mano e si avvicina al frigo ed estrae una bottiglia di latte, le da un sorso e una piccola audace goccia di latte gli piomba su uno dei due rosei alveoli, ripassa con lo stesso passo davanti a noi e mi risaluta con un sorriso appena accennato ma di un candore infinito.
-“Si chiama Tùùla, è finlandese. Carina vero?”
Io rimango incantato da quella angelica e fulminea presenza, non le rispondo, era talmente ovvio che era bella che la sua domanda rimase elusa. E attacca un discorso proprio prendendo pretesto dall’apparizione di quella magnifica creatura, che con lei aveva trovato il suo equilibrio, che aveva capito che il suo non era un sentirsi lesbica a prescindere dal fatto che ora stava con una donna, che aveva attraversato un periodo di sconvolgimento interno e che aveva capito che la sua vera natura era fortemente bisex, che negli anni dell’ Universita’ si era follemente innamorata di un suo professore non ricambiata, aveva avuto delle storie con dei ragazzi ma il suo era un vuoto affettivo, sentiva la pienezza e l’interezza dei sentimenti soltanto quando amava una donna, perché mi spiegava, non era solo un fatto fisico come con un uomo, e che era da un anno che stava insieme a Tùùla. Aveva fatto pace con se stessa e viveva meglio con più consapevolezza la sua sessualità  
 Si ricordò delle parole che gli dissi quando iniziammo la nostra conversazione, della mia ricerca di quel luogo che racchiudesse “casa-territorio-amici-anima“, lei mi disse che il problema stava nel modo in cui cercavo, non dovevo cercare fuori, ma dentro di me, un po’ come aveva fatto lei con se stessa pensando che il problema fossero gli altri, invece era lei, o in lei, e così valeva la stessa cosa per quello che stavo cercando io, era dentro di me che dovevo cercare e se avessi capito prima o poi lo avrei trovato.
-“Questa mia ricerca spasmodica”  gli dissi “ebbe inizio una decina di anni fa, prima di allora aleggiava dentro di me un qualcosa di indefinito d’incompiuto, poi feci un sogno davvero strano che mi colpi molto nel profondo.  
-“Ero a una riunione o qualcosa di simile, anzi ora che ci penso, era un funerale, sì, un funerale di una persona, e pensandoci bene era un funerale di una delle mie maestre, eravamo in molti moltissima gente e tutti in sostanza tutti mi salutavano come se mi conoscessero, tutti si avvicinavano ci scambiavamo una forte stretta di mano, tutti mi sorridevano salutandomi con il mio nome tutti ma praticamente tutti si ricordavano di me, ebbene io non mi ricordavo di nessuno di loro!
Ricordo che mi svegliai con un forte senso di ansia e questo sogno me lo porto dietro da allora e che in qualche modo mi tormenta.”  
-“Ma i tuoi amici erano con le facce da bambino o da adulto?”  chiese
- “ Adulti, ero io che nel sogno ero un Bambino”   risposi  
-“Interessante questo sogno, inconsciamente avevi già dentro di te questa paura di non ricordare nessuno e nel frattempo gli altri, si ricordano di te”. “Sei un caso da studiare lo sai? Scherzava. La sua ironia non l’aveva persa,  
-“Ma prova per un attimo a pensare, e se fosse cosi anche per gli altri? Il mondo è pieno di persone che si sono conosciute e frequentate per poco tempo, sarebbe bello potersene ricordare tutti o quantomeno ricordare quelle che ti hanno fatto stare bene. Io capisco il tuo disagio quel non sentire in un’unica parola che racchiuda tutta una vita, ma hai sempre quel vantaggio che ti ho detto, puoi ripartire da qualcosa di nuovo, tutte quelle volte che hai cambiato casa poteva essere un punto di partenza, ecco per il futuro fai in modo che sia un punto d’inizio e non di arrivo. E ricorda un’altra cosa molto importante, sono le storie che si ricordano, non i nomi. Ricordati che le radici sono dentro di noi”
 Gli raccontai quello che mi disse mia madre, e mi rispose che erano delle sante parole che ci avrei dovute riflettere. Volle assolutamente che restassi a mangiare con lei anche perché si era fatto l’ora di pranzo ma insistetti di andare perchè non mi rimaneva più molto tempo per il mio viaggio, mi accompagnò in macchina, non resistetti all’idea di potergli fare un regalo che avevo in mente di farlo già nel momento in cui ci rivedemmo in quel locale e che alla prima occasione mi promisi di farle, estrassi dal caricatore il cd degli U2  “ The Joushua tree”  in sostanza le canzoni di quel famoso concerto dell’89 a Dublino, rimase senza parole anche perché fortuna volle che il suo cd lo aveva perso. Diedi un’ultima occhiata al posto davvero incantevole e con un silenzio che stordiva, mi abbracciò forte quasi mi sorprese e in un’ orecchio mi confidò;  
-“lo sai che in quei dieci giorni mi ero pazzamente innamorata di te?”  
Arrossii per quelle parole e lei mi strinse più forte.
- “Ricordati puoi fare tutti i viaggi che vuoi,
ma i luoghi che cerchiamo molto spesso sono dentro di noi”
 Mentre supero il casello che mi immette di nuovo sulla strada del ritorno a casa sto ancora pensando a Giulia, al coraggio che ha avuto ad andare ad abitare in una casa in mezzo alla campagna, a lei che avrebbe voluto fare la mia vita, pensavo che era incredibile che ci fosse qualcuno che invidiava la mia, però questo mi diede da pensare molto. E mentre mi accompagnano le note de “Gli angeli” di Vasco penso ai miei angeli, i mie amici rimasti nella mia memoria proprio come degli angeli. Squilla il cellulare, è quel diavolo del mio fratellone, chissà cosa vuole praticamente dopo  più di ventiquattro ore si fa vivo finalmente. Con la solita voce di chi ha il piglio del comando mi chiede di quello che era successo alla mamma, rispondo con la dovuta calma che ora era tutto a posto e gli chiedo come mai non aveva risposto al cellulare, come al solito cade in piedi e con due parole  crede di mettersi a posto con la coscienza dicendomi che alla fin fine alla mamma non è successo niente di grave e che avrebbe pensato lui a Irina e che l’avrebbe messa a posto. Ora, conoscendo il suo gergo lessicale capivo perfettamente cosa volesse dire e qui io mi feci sentire, gli dissi di lasciarla perdere che non era colpa sua e nello stesso tempo di farsi vedere o sentire più spesso del solito soprattutto dopo che negli ultimi giorni sembrava sparito nel nulla. Su Irina non c’era proprio nulla da ridire, Irina era l’angelo custode di mia madre, la portava tutti i giorni a farle fare una passeggiata, la portava al cinema ed anche al teatro, Irina non la volevo toccata. Ma era inutile con lui ovviamente mi disse che il suo lavoro gli rubava tutto il tempo che aveva ma che comunque avrebbe fatto il possibile. Chiudemmo la telefonata come al solito senza neanche scambiarci un saluto. Accelerai ai centocinquanta con “Un gran bel film” di Vasco fino a tutto il brano decelerando via via tra “Mi si escludeva”, proprio come aveva fatto mio fratello, fin da piccolo mi aveva praticamente escluso dalla sua vita, rallentai ai settanta mentre risuonavano le note di “Sally” che mi fece ricordare una ragazza conosciuta tanti anni fa. Nella mia personalissima ma datata playlist, c’era spazio anche per Whoman in chains” che mi ricordava Angela.  Dov’ero non lo so, ero in una specie di terra di mezzo tra la mia nuova casa che da quando ci avevo messo piede ci avevo dormito in pratica solo una notte, e la casa dove abitava mia madre, accostai e feci uno squillo ad Irina mi rassicurò che andava tutto bene se avesse telefonato o no mio fratello non m’importava di chiederglielo. Il fatto e che mi sentivo come in un guado, di andare a casa non ne avevo affatto voglia volevo fare ancora un po’ lo zingaro. Pensavo e ripensavo alle parole di Giulia. Uscì dall’autostrada prendendo una segnaletica di paesi che non conoscevo e percorsi la strada statale tortuosa che entrava e usciva in continuazione da boschi e splendidi prati verdi, tra colline e campi coltivati di tabacco e girasoli andavo incredibilmente piano e seguendo le dolci inclinazioni ora della strada ora del paesaggio mi piaceva farmi cullare dalla strada come fa il mare. Mi vennero in mente la barca del nonno, il papà di mio padre quando d’estate durante i pochi giorni di ferie di mio padre la domenica ci portava a fare un giro in barca a vedere la città dal mare, da un’altra prospettiva in quelle splendide calde giornate di sole e mare che passavamo d’estate nella casa dei nonni, in Sicilia. Ho avuto un nonno pescatore e uno contadino, ma non ho saputo prendere nessun rudimento ne da uno ne dall’altro, perché in effetti non vivevamo con loro noi eravamo sempre in giro su e giù per lo stivale.
Tra una curva e l’altra in questo struggente percorso agreste tipico Umbro, m’ imbatto in un posto simile fino alla perfezione al campo dove con la bici mi fermavo a riprendere fiato dopo la solita pomeridiana sgambata quando ero poco più di un ragazzino, blocco la macchina alla prima rientranza possibile sul lato dei campi, scendo mi tolgo le scarpe, le calze, ho una voglia matta di sentire l’erba sotto i piedi quella fresca sensazione, quel solletichìo sotto la pianta del piede nudo che non sentivo da piccolo, di sentire l’umore della terra sotto i piedi. Raggiunsi il posto e mi sdraiai avevo solo in mente questo e nient’altro sdraiarmi sul prato e sparire, farmi assorbire da esso.
   E’ la mia seconda notte nel nuovo appartamento ma prima dell’alba sono già pronto per la mia corsa mattutina, un’ora per sentirmi sempre vivo per sudare e lasciare mischiare il mio umore con l’ancora fresca aria del mattino. Una rigenerante doccia per fare pace dopo la dura lotta tra il fisico e la mente ed ecco che squilla il cellulare mi chiedo chi sarà a quest’ora del mattino e toh, il fratellone che chiama, strano, la sua voce è incredibilmente conciliante come penso non lo sia mai stata, mi dice che mi deve parlare urgentemente che mi deve dire una cosa della massima importanza, gli dico che deve aspettare che io smonti dal servizio percepisco che a malincuore deve attendere e che nel pomeriggio ci saremmo incontrati in un noto locale a metà strada dalle nostre rispettivi luoghi di residenza. Quando ci vediamo lui è già seduto fuori dal locale avverto già in lontananza il suo nervosismo un rapido saluto e dopo aver deciso di prendere un caffè comincia a raccontarmi l’accaduto senza tanto girarci intorno così del resto è fatto lui. Poi si blocca e mi fa promettere che la cosa deve rimanere tra me e lui e che assolutamente Anna, sua moglie, non avrebbe dovuto sapere assolutamente nulla. Il fratellone si era messo nei guai per colpa di una donna, a quanto pare molto bella e attraente e che da circa un mese avevano una relazione. Il problema era sorto nel momento in cui il marito un noto imprenditore della città dove abitava mio fratello aveva saputo della loro relazione, e se non voleva fare una brutta fine gli avrebbe dovuto sborsare una grossa cifra. Ovviamente era in grossa difficoltà, ma era lungi da me fargli una predica, mi chiedevo se fosse stato al contrario, lui così fortemente cattolico praticante che credeva ciecamente nel matrimonio e al fatto che io avevo più volte convissuto lo vedeva quasi come una blasfemia, mi chiedevo cosa mi avrebbe detto. Mi feci dire da lui più notizie possibili sull’imprenditore e vista la mia esperienza in fatto di truffe, la situazione mi sembrava già sufficientemente chiara. Notavo la sua forte preoccupazione, gli dissi che se il marito l’avrebbe telefonato doveva temporeggiare ancora per un po’ che io avrei provveduto a far mettere sotto controllo le loro utenze e poi gli avrei fatto sapere gli eventuali sviluppi. Lo lasciai che aveva un’ espressione del volto che non gli avevo mai visto, un misto di supplichevole angosciante aiuto al suo orgoglio ferito che lo rendeva finalmente più umano.
Avevo un’idea già abbastanza chiara della situazione,  e dopo solo una decina di giorni d’ indagini la situazione era sufficientemente delineata. L’imprenditore era in pratica quasi in rovina aveva forti debiti con le banche tra cui in quella dove lavorava mio fratello e oltre il denaro gli chiedeva la cancellazione di alcuni debiti, e d’accordo con la moglie avevano fatto cadere nel tranello il fratellone facendogli credere di essere uno straordinario amante e che invece gli avevano teso una trappola. Ci incontrammo al solito locale e gli spiegai a che punto erano le indagini per lui fu un duro colpo sapere che quella donna non stava con lui per le sue straordinarie doti amatorie ma bensì per tirare fuori suo marito dai guai, vidi per la prima volta di fronte a me mio fratello con il capo chino, ma fù un attimo e prendendo una bella boccata d’ossigeno mi chiese quale sarebbe stata la prossima mossa. Gli spiegai per bene quale sarebbe stato il suo ruolo, che doveva continuare a vedere la bella signora senza fargli capire che lui sapeva e nel frattempo temporeggiare per qualche altro giorno e che al momento giusto ad un appuntamento con il marito per la consegna del denaro si sarebbero fatti vedere un bel po’ agenti e avrebbero messo tutte cose al proprio posto. E’ incredibile come per la prima volta mio fratello stava ad ascoltarmi senza aprire bocca, pendeva dalle mie labbra come un neonato davanti al capezzolo della propria madre. Avevamo tutte e due un’ età per cui non era più permesso di fare gli stronzi avevamo raggiunto un’età in cui si dovrebbero mettere via le armi infide della prevaricazione, delle malcelate gelosie, era arrivata l’ora dell’ età in cui si butta tutto alle spalle per cercare di vivere una vita più serena ed in pace con se stessi.
Tutto andò per il verso giusto, furono arrestati marito e moglie mio fratello al momento salvò capre e cavoli, Anna non seppe nulla ma al processo mio fratello avrebbe dovuto testimoniare e non avrei potuto farci nulla sulle eventuali conseguenze. Mi ringraziò ma conoscendolo a denti stretti, mi chiedevo se d’ ora in poi il suo atteggiamento nei miei confronti sarebbe cambiato, se mi avrebbe riconosciuto più come fratello che come figlio. In tutto questo c’erano le condizioni di salute di mia madre che alternavano momenti di lucidità, con altre di peggioramento progressivo della malattia. Nella mezza giornata libera del fine settimana andai a fargli visita e mi aveva scambiato per un suo fratello maggiore cui lei era molto legata, parlammo per più di due ore nella più netta convinzione che io fossi suo fratello raccontandomi aneddoti vissuti insieme nella loro giovinezza, alternando lunghe pause che sembravano interminabili, forse nel cercare nella sua lacerata memoria altri aneddoti di cui parlare. Quando me ne andai mi salutò e mi chiamò allo stesso modo di suo fratello e mi raccomandò di passare più spesso a farle visita, non ricordandosi che suo fratello era morto dieci anni prima. Me ne andai con le lacrime agli occhi capì che per mia madre non c’erano più speranze.
    E’ fin dai tempi della convivenza con Angela che questa ragazzotta di appena vent’anni mi provoca. Amica di amici comuni l’ho conosciuta a una cena, ora che sapeva della mia separazione puntava decisa a giocare con me senza pudore, come ha avuto il mio numero di cellulare potrei anche intuirlo probabilmente qualche amico in comune cui lei con qualche immancabile raggiro glielo aveva estorto, ed era ben decisa a strapparmi un appuntamento. Fino ad oggi ero riuscito a farglielo capire che la differenza d’età era troppa, cercavo invano di fargli entrare in testa con discorsi più o meno espliciti che quello che voleva lei da me non corrispondesse esattamente a quello che io avrei voluto da lei, perché bella era bella eccome, ma i miei discorsi erano troppo retorici, io dal canto facevo finta di non capire che gli piacevo, tra l’altro lei figlia di un collega in pensione, puntava dritto come un treno in corsa non la fermava nessuno, ed era proprio quello che voleva da me, un appuntamento. Laureanda in economia commercio con una chiacchiera a mitraglia era felicissima che avessi finalmente accettato di uscire con lei, e fin da subito mi abbracciò strusciando i suoi turgidi e generosi seni sul mio petto, era un vulcano di ragazza, ma aveva un guazzabuglio simpatico in quella testolina sempre piena di idee, mi fece praticamente il quadro della sua futura vita, passammo dopo il primo appuntamento ad un bar, tutto il tempo in macchina, fingendo di non trovare più la strada per un locale dove avevamo deciso di andare a cui lei piaceva moltissimo a me un po’ meno. E mentre parlava, muoveva e accavallava in continuazione le sue belle e tornite cosce e continuava il suo estenuante monologo fregandosene altamente di come la pensavo io che con pazienza l’ascoltavo pensando che il suo argomentare trovasse prima poi un punto, macchè, il suo soliloquio passava da un argomento all’altro senza soluzione di continuità. Il mio testosterone che era praticamente alle stelle quando era entrata in macchina e già pensavo di portarmela a casa, tra una curva e l’altra era praticamente sceso sotto i piedi. Quel desiderio smanioso di possederla che si era acceso non appena la vidi vestita con un vestitino mozzafiato che esaltavano le sue generose forme e anche al fatto che mi aveva sempre cercato, rinvigorendo la mia sopita autostima, era praticamente svanito. Al buio delle strade extraurbane avevo elegantemente preso la strada per il ritorno, mentre lei ancora non aveva finito di parlare, ed eravamo praticamente sotto casa sua. Quando fermai la macchina e vide che eravamo sotto casa finalmente si zittii. Ci fù per qualche secondo-minuto un silenzio tombale poi lei seraficamente disse: “Grazie per avermi riportato a casa, oggi non mi andava di ballare”! Ci salutammo e quando si avvicinò per darmi un bacio quella forte carica di erotismo che emanava il suo corpo era svanito, davanti a me una ragazza che poteva essere mia figlia voleva solo essere ascoltata, tra i suoi discorsi fatti lungo tutto il tragitto avevo capito che era una ragazza sola, con una solitudine che sembrava fosse nata con lei, figlia unica di genitori anziani aveva tanta voglia di farsi sentire dal mondo. Mi strappò un altro appuntamento e in qualche modo, chissà quando, ci saremmo rivisti.
 Non avevo rapporti con una donna già da qualche mese, ma se dapprima la cosa mi rendeva particolarmente nervoso e smanioso, ora riuscivo a sfogare il tutto con la mia solita corsa. Malgrado l’ora tardi approfittai della domenica, misi la sveglia alle cinque mi alzai con un leggero mal di testa e dopo essermi sciacquato con dell’acqua gelida mi vestii ed andai a correre quando ancora fuori era buio. C’è una sensazione strana e allo stesso tempo molto intensa nella corsa nel buio della notte e a poco a poco alle prime luci dell’alba, è sentirsi veramente parte integrante della natura, avverto il suo respiro, il suo cuore pulsante, della terra umida, degli alberi, dei fiori, degli animali notturni, che di solito di giorno non sentiamo e che spesso ci scontriamo con essa. Passo dopo passo, chilometro dopo chilometro e come sentirsi  letteralmente fuori dal proprio corpo, e nella fatica estrema sentirsi in uno stato di grazia e di pace con la propria anima, come dividersi da essa, un sentirla come un corpo estraneo. E’ la corsa nella sua fase estrema che non senti più la pesantezza del proprio corpo.
 Dolce e esuberante ragazza, ieri avrei potuto approfittare di te, ma ho riconosciuto in te la mia stessa solitudine, avrei potuto soddisfare la mia fame inebriandomi delle tue grazie, ma si sarebbero moltiplicate le nostre solitudini, come avrei  fatto poi senza i “se” e senza i “ma”? meglio tenerseli e conviverci, perché sarebbe stata una storia senza futuro.
Quanto meno la mia autostima stava riprendendo quota.
        Chiamata d’urgenza, dicono ci sia un folle barricato in casa che ha già sparato per fortuna senza prendere nessuno e che ora si trova barricato in casa e minaccia di uccidersi. Appena mi dicono la via capisco che è Guerrino, non è la prima volta che minaccia con il suo vecchio fucile da caccia, è malato, rimasto vedovo senza figli, è quasi cieco per via del diabete, entra ed esce dall’ospedale non appena le sue forze glielo permettono. Ha combattuto Guerrino, era poco più di un ragazzino durante la guerra e questo non gli permise di evitare di uccidere un giovane soldato tedesco, ma lui ripeteva che non avrebbe voluto perché ripeteva sempre che era disarmato e che lui era stato un vigliacco. Questo ricordo lo tormentava da una vita. Quando arrivo sul posto mi dicono che come già per altre volte vuole parlare solo con me. Da dietro la porta instauriamo un dialogo, è particolarmente agitato forse più delle altre volte, la malattia aveva fatto progressi nei suoi fragili nervi e sempre con quel vecchio ricordo che gli tormenta la mente soprattutto ora che è rimasto solo gli fa compagnia notte e giorno. Cerco di calmarlo, urla, dapprima non mi riconosce poi si rende conto che sono io e comincia a raccontare la storia del soldato, sempre le stesse parole lo stesso racconto da quando lo conosco, non voleva sparargli ma i suoi compagni lo intimarono di farlo e lui sparò, ripeteva all’infinito, e che aveva solo quindici anni.  
-“Mi dissero spara Guerrino spara sennò lui spara a te, ma lui era disarmato”.
Io gli dico nel tentativo di calmarlo che non poteva sapere se era disarmato ma niente oggi sembra non ci fosse nulla che lo potesse calmare. A un tratto esplose un colpo. Nello stesso istante mi ero spostato per parlare con i miei due agenti che erano venuti con me, sentii un intenso e insopportabile bruciore al fianco e caddi a terra, dissi agli agenti di non sparare che probabilmente gli era scappato un colpo, poi si udii un altro colpo e silenzio, silenzio, tanto silenzio, e sangue tanto sangue che mi usciva dal fianco e svenni. Guerrino si era sparato un colpo in fronte, aveva messo la parola fine al suo tormento e a me regalò venti giorni di ospedale. Per fortuna la ferita mi prese di striscio senza causare danni interni anche se qualche pallettone riuscii a fare breccia nella mia carne, il caro e vecchio Guerrino aveva un fucile da caccia caricato a pallettoni. Dato che non aveva nessuno, feci tutto il possibile per avermi consegnato quel fucile, era lo stesso fucile che aveva ucciso il soldato tedesco come una volta mi raccontò, e con lo stesso fucile aveva fatto giustizia della sua tormentata coscienza. Quando dopo una lunga trafila lo ebbi tra le mani lo smontai in quanti pezzi mi fu possibile, li avvolsi in una coperta andai fuori dal paese a cercare un pozzo, di notte solo con le luci della mia auto, lo trovai e finalmente ebbe il giusto oblìo.
       Non aveva fatto alcun mistero del fatto che le piacessi. Era una gran bella donna poteva avere si o no la mia stessa età e faceva l’infermiera nell’ospedale dove mi avevano ricoverato. Senza alcuna esitazione aveva trascritto il suo numero di cellulare in un bigliettino che mise nella tasca della mia camicia e volle assolutamente il mio, del resto non potevo rifiutare viste le amorevoli cure che mi aveva riservato in tutto il periodo in cui fui ricoverato. Mi diede solo un decina di giorni per recuperare le forze e mi chiama dandomi un appuntamento. Tassativamente non potevo sfuggirle, avevo appena ripreso le mie forze, pensavo comunque ad una serata tranquilla in qualche pub, per conoscerci meglio e fare quattro chiacchiere e via, che c’è di male del resto di una buona e bella compagnia femminile ne avevo di bisogno dopo quello che avevo passato ultimamente. Giungo sotto casa sua e subito dopo è davanti alla mia macchina, non mi ricordavo fosse cosi alta, una gran bella bruna con due occhi immensi e neri, uno sguardo che racchiude ogni singolo pensiero in un unico desiderio. Mi sento di colpo riappropriarmi delle forze che credevo ancora lontane. Entriamo in un pub poco lontano il tempo di bere qualcosa e accorgermi che non riesco a staccarmi da quello sguardo intenso e vorticoso. Ho la netta sensazione che si stia solo perdendo del tempo, abbiamo ben poco da dire e da perdere altro tempo inutilmente, ce lo leggiamo negli occhi. Usciamo dal locale neanche una parola in macchina la meta è già in testa e nel frattempo la macchina si permea di un forte odore, l’odore del suo corpo, odore di sesso. Con piccoli e sinuosi movimenti del corpo mi chiede se durante la settimana l’avessi pensata, si toglie la scarpa e mi passa il piede tra le mie gambe fino a toccarmi l’intimo, abbiamo entrambi una sola una cosa in testa. Due ore dopo siamo di nuovo in macchina che la sto riportando a casa con le ultime forze che mi ha lasciato, ma la sua carica erotica non è affatto scemata, si avvicina e mi accarezza nelle parti intime incurante del fatto che sto guidando, voleva rassicurazione sul fatto che ancora la desiderassi, ma il suo cellulare non smette di squillare aveva fatto finta di non sentirlo ma non potè  fare a meno di rispondere, maledisse la baby sitter che aveva chiamato per stare con suo figlio che a detta sua non sapeva neanche farlo calmare. Prima di scendere dall’auto mi fa promettere che l’avrei richiamata, la vedo scendere dall’auto con quel vestito nero e i tacchi a spillo e mi verrebbe voglia di saltarle addosso.
  Al processo le cose andarono per il verso giusto, marito e moglie furono condannati a sette anni, ma la tresca seppur pilotata con la signora venne ovviamente a galla. Una settimana dopo suona il campanello di casa, è il mio fratellone che chiede asilo, Anna lo aveva buttato fuori di casa. Portò con se’ oltre le sue cose personali anche il suo bagaglio di uomo ferito, sconfitto dalla vita. Non c’era più traccia del suo orgoglio, in lui io avevo visto sempre l’uomo forte capace di saper reagire alle avversità della vita, ora davanti a me si presentava un uomo irriconoscibile ai miei occhi, l’uomo che sapeva sempre cosa fare, l’uomo che tirava dritto senza remore alcuna senza mai guardare e guardarsi indietro, Il bambino e il ragazzo poi che non si era mai posto il problema come me degli amici persi e mai ritrovati, di quel luogo che io da sempre vado cercando che ricolleghi tutto un vissuto, tanto da farmi sentire uno sradicato, quell’uomo era svanito, cercavo di consolarlo senza urtare la suscettibilità il suo orgoglio, che le cose si sarebbero messe a posto che ci voleva solo un po’ di tempo, ma le mie parole erano vane. Ora mi ritrovavo un fratello ferito in casa, un gran bel fardello da gestire. Per fortuna per i reciproci lavori io con i miei turni di lavoro e lui con la banca ci incontravamo poco, gli avevo fatto avere un duplicato delle chiavi di casa, la gestione della stessa era affidata a una signora che veniva tre volte la settimana e lui avrebbe contribuito alle spese. Ma questo non evitò una volta ripresosi dallo sconforto iniziale e dal cambiamento radicale che gli era piombato addosso, visto che non era assolutamente abituato a tutto ciò, lui così perfetto e metodico nella gestione della sua vita e anche a quella di chi gli era vicino, di scontrarci su orari e modi di vivere che con due caratteri e modi di vivere erano ovviamente all’opposto. Io avevo ritrovato una ormai dimenticata autostima avevo preso a fare un po’ di vita notturna, lui era abituato ad andare a letto presto, sulla cucina ero abituato a pasti pronti o a qualcosa di semplice da fare, lui era abituato alla gran cucina prima di mamma e poi di sua moglie, Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu quando intese farmi la morale sulla mia relazione fallita con Angela, nel giro di una ventina di giorni era ritornato ad essere il mio gran fratellone stronzo che conoscevo, ne ero quasi preoccupato di averlo perso. In un giorno di tregua trovammo il tempo di metterci d’accordo e una domenica decidemmo di andare a trovare la mamma, che negli ultimi tempi avevamo notato un netto peggioramento delle sue condizioni di salute.
 Irina era molto preoccupata ci aveva fatto presente che già da due giorni non mangiava e non parlava più, le sue condizioni erano drasticamente precipitate. Ci ritrovammo insieme davanti a lei per la prima volta dopo tantissimi anni, mi sembrò di coglierle un lampo di luce nei suoi occhi illuminando per un istante quella sua mente in ombra, un sorriso lieve le carezzò il suo delicato volto. Aspettava di vederci insieme per morire. Non ci rendemmo conto ma ci ritrovammo per la prima volta abbracciati a piangere. Finalmente si ricongiungeva con mio padre dopo trentaquattro anni, accanto l’una con l’altro, loro che avevano passato la loro vita più divisi che uniti per colpa di una mano assassina. Ma non era il tempo dell’odio quello era già svanito nei primi anni di gioventù quando materializzai il sogno infranto di una famiglia normale, ora era il tempo della catarsi e di una nuova fase della propria vita.
    Vendemmo trovandoci incredibilmente subito d’accordo con il prezzo la casa di mia madre. Di colpo mi venne in mente però la bellissima casa dei nonni paterni, bellissima benché piccola e vecchia ma di un fascino incredibile per via della sua straordinaria posizione praticamente in un fazzoletto di terra sul mare, con quella magnifica pianta di Pomelia così grande da non ne averne mai viste di simili che faceva un’ombra profumata nei pomeriggi di calura estiva. Quella casa fu svenduta per quattro soldi dopo la morte praticamente di crepacuore dei nonni nel giro di sei mesi l’uno dall’altra.
   Ora avevo un discreto gruzzoletto in banca, mi balenava un’idea in testa ma ancora non era chiara dentro di me e soprattutto ancora non avevo trovato le mie radici. Che la sua presenza in casa mia era momentanea si sapeva in attesa di trovare un appartamento o chissà come sperava lui in un ricongiungimento con sua moglie, ma spazzare via tutte i suoi sogni ci pensò la banca che, dopo la sospensione momentanea visto il coinvolgimento personale nella vicenda lo trasferì in una sede di una agenzia in un’altra città parecchie centinaia di chilometri dalla sua. In quei tre mesi di forzata convivenza stavo cominciando a conoscere veramente mio fratello che in questo momento aveva tutta la mia comprensione, era più umano di quanto forse lui stesso credeva di essere, dopo che una notte che non riuscivo a chiudere occhio e sentivo dei strani rumori come un lamento soffocato e quando mi alzai per capire da dove provenissero, da dietro la porta dove dormiva udii dei singulti sufficientemente chiari per rendermi conto che stava piangendo. Non avevo mai visto piangere mio fratello, neanche il giorno del funerale di mio padre, lui che sembrava un robot cosi perfetto e distaccato ora mi sembrava fragile e vulnerabile come non mai. Il giorno della partenza gli dissi che qui sarebbe stata sempre casa sua nel momento in cui ne avesse avuto bisogno. Una frase che fino a poco tempo fa non avrei mai sognato di pronunciarla.
 Avevo dentro di me una smania che non riuscivo bene a decifrare, tutto quanto era accaduto voleva dire pur qualcosa, l’aver smesso praticamente di correre da due mesi mi stava creando uno stress che avevo già conosciuto qualche anno addietro, uscii di nuovo un paio di volte con l’infermiera, sesso, sesso sfrenato credevo di colmare il mio senso di vuoto con il sesso, ma non mi accorgevo che il senso di vuoto, saziata la fame, aumentava sempre di più. Per di più una sera nell’accompagnarla a casa mi accorgo di una strana presenza alla finestra di casa sua, affacciato c’era un uomo, gli chiedo chi fosse e lei seraficamente mi risponde che era suo marito, che si era fatto rivedere ultimamente con l’intenzione di riappacificarsi con lei ma sbrigativamente mi fece capire che per almeno momentaneamente non aveva alcuna intenzione di tornare indietro, che io gli piaccio sempre più e altre smancerie del genere. Sufficiente per capire che non è più il caso di continuare di vederci. Per settimane e settimane il cellulare non fa atro che squillare il suo numero, ma anche se a malincuore preferisco fargli capire che non è il caso di continuare, ho visto e vissuto da vicino troppe tragedie familiari, e non mi va poi di essere utilizzato da una donna seppur bella e attraente come lei, come mezzo di gelosia, anche se c’era un fortissima attrazione fisica, avvertivo che c’era ancora dell’interesse per suo marito, anche e soprattutto dal punto di vista patrimoniale, non gli conveniva alla signora “bel culetto” , come l’avevo ironicamente ribattezzata io, il divorzio, sarebbe rimasta con il suo bel sederino a terra, quindi preferii sottrarmi a questo pericoloso gioco della bella signora.
 Nel giro di due mesi a cavallo dalla fine dell’estate e l’inizio dell’autunno avevo perso mia madre e chissà se solo momentaneamente, anche mio fratello, della sua presenza-assenza ne avevo fatta una ragione fin da piccolo, ma le ultime vicende ci avevano in qualche modo riavvicinati. Ed eccomi con l’avanzare dell’autunno una stagione che sempre ho amato particolarmente, solo, maledettamente solo. Ripresi a fatica a correre a poco a poco nel giro di un mese avevo ripreso a fare gli stessi chilometri di prima e oltre a smaltire l’inevitabile pancetta degli anta evaporarono gran parte di quei pensieri negativi, quel tedio che mi stava lentamente sommergendo come sabbie mobili. Il lavoro in qualche modo mi aiutava a non pensare più di tanto, tra truffatori, ladri, spacciatori, l’umanità varia tutta, in una provincia per fortuna comunque abbastanza tranquilla, mi aiutava a tenere alta l’attenzione e a non cadere nell’oblìo della solitudine. Ma mi mancava sempre quel luogo, quel punto esatto della vita di ognuno di noi dove poter dire   “Questo luogo è casa mia”. Pensavo a quanti dialetti avevo imparato da piccolo ogni qualvolta si cambiava città, tutte le persone che conoscevo le spiazzavo perché non riuscivano a capire di quale città ero nativo, quale dialetto mi appartenesse, ecco è tutta racchiusa qui la mia assenza di appartenenza ad un luogo ben preciso a una città ad una casa ad una comunità. Da circa sei mesi mi ero iscritto a un social-network mi avevano convinto dei colleghi che sapevano della mia personalissima condizione, e a parte l’iscrizione quasi d’obbligo alla pagina dedicata alle forze dell’ordine, avevo una seppur scarna pagina personale con qualche dato e notizia su di me ma ancora non avevo deciso di mettere una foto, l’unica foto recente era nella pagina stessa delle forze dell’ordine. Avevo lanciato il mio grido personale sulla mia condizione di sradicato con alcune informazioni su dove avessi passato i miei primi dieci anni di vita nelle varie città dove avevo abitato, abbinando i nomi alle città non potendo nemmeno dire il nome delle scuole che avevo frequentato avevo soltanto le foto di quasi tutte le classi delle scuole di tutte le città che cambiavo ma non c’era il nome della scuola, e dopo sei mesi non era arrivato nessun messaggio. La mia speranza era vana anche gli altri potevano essere nella mia stessa condizione, mettere una foto attuale sarebbe stato inutile, poi mi venne in mente l’idea di postare una foto di quando avevo circa sette anni con lo sfondo del palazzo dove abitavo e gli altri circostanti una foto leggermente sfumata ma sufficientemente chiara per il messaggio che volevo lanciare a un ‘ipotetico amico di quegli anni, se almeno non mi ricordi può darsi che ricordi il luogo dove giocavamo, ridevamo, piangevamo, litigavamo, vivevamo.
Aspetto con fiducia qualche risposta, ripongo in questa idea nuove speranze di ritrovare almeno uno, solo uno dei miei amici della mia prima infanzia, ed è come se ritrovassi tutti. Domani sarà domenica, oggi dopo che in settimana è piovuto parecchio, è infine uscito uno splendido sole e mi è venuta l’idea di andare a funghi con una amica speciale la chiamo per vedere se è libera da impegni per domani. Dove abita lei è un luogo formidabile per raccogliere funghi e fare due passi in quella incantevole campagna al confine tra l’Umbria e la Toscana. Letteralmente entusiasta dell’idea addirittura mi invita a venire già oggi e dormire da lei ma l’orario e le incombenze con il mio lavoro non me lo permettono ma le assicuro che sarò da lei al massimo per le otto di domani mattina.
Non saranno le otto precise ma comunque eccomi da Giulia il tempo di un caffè e mi aspetto che da quella porta dietro di me esca quell’incantevole figura che vidi l’ultima volta che ci vedemmo, lei intuisce il mio pensiero;
- “Non sperare di rivederla è ritornata in Finlandia è finito il corso universitario ed è tornata a casa sua.
- “Bello mio, ancora non hai capito che Giulia non appartiene a nessuno?”  ridendo scendiamo dalle scale e ci incamminiamo a braccetto verso i campi, lei conosce benissimo la zona e visto il periodo e le piogge dei giorni precedenti, prevede di fare un bel raccolto, nel frattempo parlando del più e del meno già due porcini sono nel suo cestino io non riesco a trovarne uno dicasi uno, è incredibile gli chiedo come fa lei risponde con una battuta dicendo di aver naso per i funghi e poi è importante saper cercare nei luoghi giusti. “Come adesso vedi, fermati”!  mi minaccia in maniera perentoria,
-“Ci stavi per mettere sopra il piede“  
 per un attimo, non so il perché mi balena in testa la strana idea che lei mi sfiori con la mano aperta il mio intimo. Eravamo ai margini di un fitto boschetto, io colto in una sorprendente e inaspettata fantasia mi blocco con lo sguardo verso la campagna di fronte e, nel momento che realizzo la mia fantasia, lei è inginocchiata di fronte a me a raccogliere un esemplare mai visto di porcino, era a dire poco fantastico con una cappella enorme, io ancora rimango con lo sguardo lontano con quella pazza idea in testa lei con mani delicate di fata, mi dice di guardare come si fa a raccogliere i funghi soprattutto quelli cosi grossi e riesce nell’impresa a raccoglierlo con delicatezza dal suo approdo naturale e tenerlo tra le sue mani. Io nel frattempo rimango ad occhi chiusi perso in quel pensiero vorticoso e non mi accorgo che mi sta guardando.
L’odore intenso della terra bagnata mischiata al penetrante odore di muschio unito a quello degli animali selvatici tra aghi di pino e ghiande, il fumo della legna che esce dai fumaioli delle case in lontananza, la fragranza dell’aria fresca del mattino di cose genuine, fa da cornice al mio immaginario erotico evidentemente represso chissà in quale angolo della mia mente. Nel riprendere il cammino, mi sento improvvisamente parte integrante di questa meravigliosa campagna, come se qualcosa di straordinariamente intimo nella mia fantasia si sia instaurato tra me e la terra. Giulia ha il suo solito modo naturale di osservare il mondo una naturalezza istintiva che la porta con straordinaria semplicità a fare e dire cose che ad altri rimangono solo in testa.
-“Ho sentito il tuo respiro fasi improvvisamente pesante quando mi sono inginocchiata vicino a te, e chissà perché ma mi è sembrato di vedere prendere forma il tuo pensiero”  mi prende sotto braccio e con un malizioso sorriso mi dice:
- “Avrei potuto raccogliere il tuo di esemplare, però ti confesso che l’avrei volentieri fatto qualche anno fa quando facemmo quel viaggio, quando ancora non sapevo che Giulia c’era in me, li si che ti avrei fatto un bel pompino. Cala un improvviso silenzio.
   Lei capisce e aggiunge.
-“Ma ora dell’uomo non ho alcuno interesse fisico, più che allo scambio dei corpi sono per lo scambio intellettivo, non sento alcuna attrattiva, ma… forse chissà per te un’ eccezione la farei.”     E’ giù una gran risata fragorosa tanto da sentirsi fino aldilà del boschetto e improvviso un volo di uccelli fa evaporare in un attimo stagnanti e vorticosi pensieri suini. Imprevedibile come sempre mi aveva spiazzato ma allo stesso tempo tolto dall’impasse in cui mi ero cacciato. Colpito ma non certo affondato, perché Giulia è così, non si può nascondere nulla, neanche il pensiero più ardito, con il suo umorismo e la sua schiettezza mi aveva tratto in salvo. Poi, improvvisamente si fa seria e incomincia a raccontarmi una storia che inizia cosi‘:  “C’era una volta una innamoratissima e ingenua ragazza universitaria che si era presa una cotta incredibile per un giovane professore. Il professore aveva capito che questa ragazza bramava per lui, ne era cosciente poichè non era la prima volta che gli accadeva che delle ragazze cadessero ai suoi piedi, ma lei era veramente innamorata, andava aldilà dell’aspetto fisico, non gli piaceva fisicamente, era attratta dalla sua mente che gli permetteva di aprire orizzonti in lei ancora inesplorati.
Ma evidentemente per lui non era così, e lei giovane e ingenua non se ne accorgeva. Un giorno riuscì a convincersi di salire a casa sua con la scusa di dargli un libro, accettò, ingenuamente innamorata come era, e visto l’accondiscendenza che lei aveva nei suoi riguardi, non gli fu difficile portarsela a letto. Fu un rapporto violento senza alcuna tenerezza, lontanamente diverso da come lei se lo sarebbe aspettato. Poi dopo qualche tempo non gli fu difficile di capire, anche per il suo comportamento con altre ragazze, che l’aveva letteralmente plagiata.” Era chiaro in me che stava parlando della sua storia, la storia con quel professore di cui lei ne era innamoratissima e che da quella storia lei ne era uscita drasticamente cambiata nel suo aspetto interiore, intimo.
Riprendiamo il cammino abbiamo ancora molto da raccogliere i cesti soprattutto il mio, è ancora vuoto! Mi chiede se nel frattempo avesse trovato qualcuno se si era fatto vivo qualche amico della mia infanzia, dalla mia espressione capisce che ancora non si è fatto vivo nessuno, e mi ricorda quello che mi disse l’ultima volta che la andai a trovare. “ Si ricordano le storie non i nomi”. Torniamo a casa che il suo cesto e pieno di funghi e il mio langue tre o quattro al massimo e nemmeno di buona fattura è chiara che la gara come l’avevamo chiamata, l’ha vinta lei. Il pegno era che se avessi perduto sarei rimasto a pranzo, lei era eccitatissima del fatto che avrebbe cucinato e mentre lei preparava uno dei sui pranzetti vegetariani a base di funghi, mi feci raccontare la sua storia con Tùùla. Fu’ davvero un magnifico pranzetto, bagnato da un ‘ottimo vino rosso novello che mi aveva fatto leggermente andare per le nuvole, e mi misi sul divanetto che era sotto una enorme rettangolare finestra che dava sulla campagna sottostante e mi addormentai. Mi svegliai con lei accanto a me sul divano con una coperta corta di lana che ci copriva a malapena entrambi. Guardammo entrambi fuori dalla finestra, io feci una domanda che mi sembrò stupida nel risentirmela dentro la testa perché ancora non avevo capito.
-“Ti senti mai sola”
-“No”  rispose, ed era un no sincero si sentiva dal tono con cui aveva emesso quella parola. E mi racconta come si svolge la sua vita di campagna, si sono associati un gruppetto di presone che vivono attorno a lei dove praticamente vivono di baratto scambiandosi tutto il necessario per vivere, tutto in maniera semplice, una filosofia di vita che aveva abbracciato ormai da tanto tempo, lei oltre all’orto ha anche una piccola vigna e un contadino che la cura. A impatto zero sia nei costi che ovviamente nei consumi. Poi una riflessione che non poteva mancare.
-“Se si decidesse di vivere cosi’, credimi, sarebbe un mondo migliore”
- E poi ancora; “Pensi che la mia sia un’utopia? meglio vivere di utopie che di false speranze”  
Era Giulia, non avevo dimenticato, era proprio la grande unica Giulia!
-“E poi ricordati che ho i cani, non dimenticarli”  Mi ammonì.   “E tu”?  
-“Sai è morta mia madre” e poi le raccontai delle disavventure di mio fratello. Ed elusi la domanda, ma non tardò a ripropormela,
-“Si, risposi, mi sento solo, malgrado il mio lavoro sempre a contatto con la gente, mi sento incredibilmente solo”  “Ma tu qui ora che non c’è più Tùùla?  
-“La solitudine è una condizione umana strettamente personale, e poi io qui non mi sento mai sola , e come già ti ho detto dimentichi che ho i miei cani, e poi lascio sempre la porta aperta a nuovi incontri e conoscenze, ricordati che ti ho detto questa mattina   “Giulia non è di nessuno, appartiene solo a se stessa” poi quasi a mò di monito:
-“Liberati la mente da questa condizione in cui ti sei cacciato, è solo una condizione mentale la tua, trovati una compagna, che sia per la vita o meno non ha importanza, ma vivi le situazioni per quelle che sono, il luogo ha un’importanza relativa poi c’è tutto un mondo che ruota attorno a questo benedetto luogo che vai cercando, ripeto tu cerchi nel modo sbagliato, se devi trovare un luogo è nel presente che devi cercare, non certo nel passato.”  Eravamo uno di fronte all’altra semisdraiati sul divano sotto la grande finestra, si piega leggermente su se stessa e avvicinandosi a me mi sussurra con la sua splendida voce calda;
- “ See the stone set in your eyes, see the thorn twist in your side, i wait for you”  le rispondo con la seconda strofa
-“Sleight of hand twist of fate, on a bed of nails she makes the wait, and i wait without you , e insieme intoniamo il ritornello
-“with or without you, with or without you” guardandoci dentro negli occhi e sorridendo in un caldo abbraccio.
-Toglila questa spina che ti tormenta il cuore”  e con un filo di voce mi sussurra a uno orecchio “La casa è dove hai il cuore” .
  Con un paio di bottiglie di vino novello regalatogli da un contadino di quelle parti e una promessa di tornare a prendermi l’olio, arrivai a casa giusto per l’ora della cena, ma non avevo fame accesi il pc e andai sulla pagina personale del social network, e vidi con mio stupore che avevo due messaggi da leggere.
          Il primo messaggio era di una maestra di una scuola elementare che diceva di avermi avuto come suo scolaro in una località che ricordavo di averci abitato da piccolo e mi diceva anche la scuola che a me però non diceva nulla, l’emozione è enorme nel leggerlo e mi chiedo se è finalmente l’occasione giusta per collegare e mettere insieme una pò di anni, come delle perle dentro un filo, e ricordare qualche compagnetto di quei anni. Rispondo al messaggio e gli scrivo un pò di cose inerenti a quel periodo, poche per la verità e rimango in trepida attesa di una sua risposta, l’altro messaggio è invece alquanto strano, è una persona che mi scrive dicendomi di avermi conosciuto poco tempo fa e di volermi rivedere al più presto perché a una cosa da farmi riavere e mi chiede non appena sono libero dal servizio di dirgli il giorno e mi farà sapere il luogo. Vado nel suo profilo alla ricerca di qualche indizio, è noto che è una donna ma non c’è foto e non posso accedere ai suoi dati personali.
Nel frattempo la vita scorre come sempre nel suo tram tram quotidiano, succede poco per la verità in questa località di provincia dove sono per lo più truffe ai danni di persone anziane e qualche rapina per la verità in aumento negli ultimi tempi diventati veramente difficili per tutti. E nel frattempo è passato quasi un mese da quel messaggio della maestra che non mi ha più risposto, invece erano già ben due i messaggi di quella donna che mi ripete di volermi vedere al più presto perché ha qualcosa da restituirmi, ma malgrado mi sforzi di pensare non mi viene in mente nessuno a cui abbia dato qualcosa per cui mi debba essere restituito. Poi un pomeriggio arriva finalmente la sospirata risposta, ma haimè non della maestra ma di un suo nipote che mi avverte che sua zia è morta già parecchio tempo prima e che dove gli è possibile sta cercando nei ritagli di tempo di tenere viva la sua pagina personale dove raccoglie foto e messaggi di alunni di sua Zia, e mi dice di guardare tra le sue foto dove ci sono le scolaresche avute dalla zia nei tanti anni di insegnamento tra cui troverò la mia con tanto di didascalia a fronte. E mi viene in mente che non molto tempo fa avevo letto in un articolo del rischio vero a quanto pare, che in questi social network possano diventare nel tempo dei veri e propri cimiteri virtuali. Mi butto comunque a capofitto tra le centinaia di foto postate e cerco spasmodicamente quella in cui dovrei esserci io, ma nel guardarle alla fine non mi accorgo che le guardo e riguardo tutte, ne vedo i volti gli sguardi tra sorrisi, accenni di sorrisi, smorfie, sguardi imbronciati, occhi chiusi, occhi tristi o malinconici, sguardi incantati o persi nel vuoto facce di fianco, monocromatici o a colori, in tutto questo non si distingue la verità. Non mi rendo conto che le ho già viste tutte e continuo a ripassarmele fino allo sfinimento. Ero in tutte quelle foto, compresi i miei compagnetti, in tutte le scuole e classi in tutte le città e paesi dove ero stato, ero in tutti quei sorrisi, in quelle smorfie in quei musi lunghi ero dappertutto e da nessuna parte. Spensi il pc e una forte sensazione di fuggire di scappare di non essere in questo luogo che non era quello in cui ora abitavo, era un luogo che non riuscivo più a trovare e non mi ero reso conto che la sua ricerca a poco a poco mi aveva alienato.
-“Tu cerchi nel modo sbagliato, e nel presente che devi cercare non nel passato”  Mi tornava in mente la frase di Giulia ed aveva pienamente ragione.
 Non so il perché ma lei sapeva che ero un poliziotto, non riuscivo a mettere a fuoco il motivo per cui mi doveva restituire qualcosa che gli avrei dato, cercavo di ricordare le situazioni di servizio che mi erano capitate negli ultimi periodi ma non c’era traccia di nulla del genere. Sapeva che ero un poliziotto perché nell’ultimo messaggio mi chiedeva di stringere i tempi e di farle sapere quando ero libero dal servizio di incontrarci nel luogo che lei poi mi avrebbe fatto sapere. Due settimane dopo gli mandai un messaggio in cui gli scrissi che nel sabato successivo sarei stato libero da impegni lavorativi, la sua risposta non tardò ad arrivare ci saremmo visti in una piazza nella città dove abitava. Il nome della città mi fece sobbalzare, era la prima città del mio viaggio che feci all’incirca quasi un anno fa, quando tornai in cerca del mio luogo nel tempo. Quella mattina non rinunciai comunque a fare la mia solita corsetta anche se ormai l’inverno incipiente cominciava a farsi sentire, alle otto ero già in viaggio, c’erano circa 200 chilometri da fare e l’appuntamento era per le 11 ma non avevo voglia di correre e di incappare in altre multe che nel frattempo erano arrivate e già saldate un salasso che mi costò quasi uno stipendio intero più otto punti nella patente, anzi per le mie conoscenze dato la recidività, due multe praticamente nello stesso periodo, ero riuscito a non farmela ritirare. Ci saremmo dovuti vedere in un piccolo bar, l’unico che c’era nella piazza che mi aveva indicato lei, ero lì che mi stavo prendendo un aperitivo vista l’ora e il bar era pieno di gente un bar molto frequentato e tra la gente vedo una donna seduta a un tavolino mi era sembrata già di averla vista prima quando ero entrato ma ora la osservo e noto che bevendo attraverso il vetro del bicchiere mi osserva e dopo che lentamente appoggia il bicchiere sul tavolino, mi fa cenno con la testa a mo’ di saluto e mi invita a uscire dal bar. Io pago il mio aperitivo e mentre sto pagando osservo la sua figura di spalle mentre esce dal bar, e cerco di focalizzare il volto che avevo appena visto, chi fosse e dove l’avevo conosciuta, i capelli biondi che spiccano sopra il collo del suo soprabito nero si muovono sobbalzando a ogni suo passo, un passo lungo e seducente sa che sono dietro di lei e che la osservo, davanti alla balaustra della fontana si volta io sono a pochi passi da lei e ancora non so chi è. Salutandomi con uno sguardo duro e orgoglioso senza tanti giri di parole mi dice:
-Queste sono tue, io non ho di bisogno”  
Realizzai immediatamente. Era la ragazza dell’aggressione e quelle le famose e miserabili cento euro che gli lasciai prima di uscire da casa sua e dalla sua vita, almeno così credevo. In quel momento sarei voluto sprofondare, ci fu un attimo che mi sembrò eterno in cui non mi veniva di dire alcunché qualsiasi parole che giustificasse quel simile comportamento. Probabilmente lei apprezzò questo mesto silenzio carico di colpe, di inutili parole e giustificazioni del caso tanto per togliersi dall’imbarazzo, ma io non riuscivo malgrado avevo preso quella carta da cento euro tra le mani e ancora ero lì impalato come un coglione senza riuscire a proferire parola. Deglutì a fatica, il rumore stesso sembrava un gorgoglio impazzito dentro la mia gola, la guardai e infine farfugliai qualcosa che a stento riuscì a capire io stesso ma senza troppe spiegazioni,
-“pensavo che ti avrebbero fatto comodo, ma evidentemente mi sbagliavo, scusami. poi dopo aver respirato forte l’aria fredda e umida, la guardai e notai che i suoi occhi sembravano di un altro colore di come me li ricordavo, erano un grigio-verde cangiante, ora luminoso ora ombroso come il sole tra le nuvole che si inseguivano lente in una giornata senza vento, come quel giorno che ci conoscemmo per caso. Probabilmente le sue intenzioni sarebbero state altre, ridarmi ciò di cui non aveva di bisogno e lasciarmi solo come un pollo in questa piazza bagnata dopo aver fatto circa 200 chilometri e altrettanti mi aspettavano per il ritorno, sarà stato il mio sincero e umile ammissione di colpa per il deplorevole comportamento, sta di fatto che accettò di fare una passeggiata. Ci incamminammo verso le vie e viuzze del centro, ovviamente ero io a seguire lei che conosceva a menadito ogni angolo. Improvvisamente mi chiese:
-“Da quanto tempo non venivi qui?”  rimasi sorpreso dalla domanda, sapeva che un tempo abitavo qui.
-Ero tornato il giorno che ci siamo conosciuti dopo circa trentaquattro anni, avevo otto anni quando ce ne andammo, mio padre era carabiniere e spesso veniva trasferito, erano anni bui, del terrorismo, anche se io vivevo la mia età e non ne me ne rendevo conto”  
-“ Avrai lasciato parecchi amici,  a quella età ce ne sono davvero tanti”  
-“ Si tanti, davvero tanti, ma non solo qui, un pò in tanti altri luoghi, anche se qui ho lasciato il mio cuore, è la città in cui abbiamo abitato di più, figurati neanche quattro anni, ma sarà che era l’età in cui ti rimane tutto dentro indelebile e te lo porti via per sempre. E poi c’era un ragazzino che io ammiravo molto e che pochi giorni prima che ce ne andassimo aveva avuto un brutto incidente.”  
Si sofferma per un attimo e mi fissa con uno sguardo da cui è impossibile sfuggirle“
-E tu quel giorno a casa mia, hai creduto fosse lui”  Mi sorprese .Come faceva a sapere che per un attimo avevo creduto che quella carrozzella da invalido, che in quelle foto sulla parete della stanza fosse Lucio?  
-“Dal giorno stesso che te ne andasti  lasciandomi…”    Ci fu una pausa di silenzio tra il dire e non dire  “quello che mi hai lasciato“.  Aveva orgoglio da vendere, non riusciva nemmeno a nominarla quella banconota da cento euro che miserabilmente gli lasciai sul tavolo prima di scappare come un ladro da casa sua. Lei parlava ed io non mi rendevo conto che già la amavo. Amavo i suoi capelli biondi ondulati che si muovevano sopra le sue delicate spalle come serpenti ammaliatori, amavo i suoi occhi di un colore indefinito senza fondo senza tracce di passato, amavo le sue mani bianche dalle lunghe dita affusolate che arpeggiavano l’aria con una celestiale musica, amavo il suo orgoglio ferito, amavo la sua voce che ogni tanto cedeva all’emozione. Camminando si tolse il soprabito con naturalezza, la maglia che gli aderiva al corpo disegnava un arco perfetto della sua schiena. L’amavo, si, già l’amavo. La convinsi a entrare in una piccola trattoria di cucina tipica del luogo, accettò solo perché sapeva che lì si mangiava davvero bene, e nell’attesa continuammo a chiacchierare. La tensione dell’inizio era scemata e aveva lasciato il campo a una conversazione rilassata e intima. Tra un antipasto e via via il resto dei piatti ci raccontammo un bel po’ del nostro vissuto. Suo fratello era un poliziotto ferito gravemente durante una rapina, rimase paralizzato, era da poco sposato e la moglie poco tempo dopo lo lasciò, lei conviveva con un uomo, i suoi genitori erano già passati a miglior vita prima dell’incidente di suo fratello, la sua storia non funzionò, e lei si prese cura di suo fratello. Si fermò, sorseggiando un bicchiere di vino rigorosamente bianco come espressamente aveva richiesto, cercando dentro di se le parole per continuare, spaziando nella piccola sala con lo sguardo che luccicava di un pianto interiore che a stento riusciva a soffocare dentro di sé. Rimasi in silenzio, un devoto silenzio. Nell’aria aleggiava un finale tragico. Un giorno di ritorno dal lavoro trovò suo fratello a terra, si era sparato un colpo in testa. Un biglietto scritto prima di compiere il gesto, un biglietto di scuse per lei, che lo aveva accudito e amato, ma non ce la faceva più a sopportare la vita che faceva. Era successo quattro anni prima. Dopo lo sconforto seguì la rabbia per quel gesto, quasi lo odiava per quello che aveva fatto, un gesto che riteneva egoistico, perché non era solo lui ad avere bisogno di lei, ma anche lei aveva bisogno di suo fratello. Poi con il tempo l’ho perdonò. Subentrò una fase di depressione che le costò il posto di lavoro, e il rifugio consolatorio verso la droga. Ma dall’episodio di quel giorno dell’aggressione di quel pusher e del mio intervento, scattò una molla dentro di lei, più in basso di come era scesa non poteva, e con molta forza di volontà decise di risalire la china. Da poco tempo aveva trovato lavoro in uno studio notarile, paga poco soddisfacente ma che gli bastava per tirare avanti, la casa dove viveva con suo fratello gliela avevano lasciata i suoi genitori, sperava in qualcosa di meglio, ma era senza dubbio meglio di niente. Poi, smise quello sguardo triste, e, come i suoi occhi, indossò l’abito più bello che le poteva donare sul suo viso. Sorrise quando mi raccontò di come lo aveva fatto a rintracciarlo, anche lei si era iscritta nella pagina del social-network delle forze dell’ordine e tra le foto degli iscritti, spulciando e leggendo soprattutto un post dove io avevo mandato il mio stupido urlo di ricerca del passato, mi aveva individuato. Anche lei era nata e cresciuta nella stessa città, quando io e la mia famiglia ce ne andammo via lei era appena nata, erano vicini di casa dei miei e conosceva Lucio e la sua disgraziata famiglia. Quando l’anno dopo successe la tragedia di mio padre ovviamente come tutti gli atti terroristici di quegli anni avevano una risonanza nazionale e i suoi genitori che conoscevano i miei in quanto vicini di casa gli raccontarono qualche anno dopo l’accaduto. Quindi ero, mio malgrado, conosciuto senza saperlo, grazie alla disgrazia di mio padre. Chiesi di Lucio che cosa ne fosse stato di lui, mi raccontò che a parte qualche mese di ospedale per fortuna si rimise in sesto, poco dopo suo padre morì e lui e sua sorella furono affidati a una struttura che si occupava di orfani in attesa di darli in affidamento a qualche famiglia e non seppe più nulla di lui.
 Mi sentì meglio. Quindi Lucio non aveva subito conseguenze letali per quel brutto incidente, allo stesso modo mi sentivo sollevato, ogni tanto capitava quando mi ritornava in mente quell’episodio mi sentivo in colpa. Probabilmente non lo rivedrò mai più e chissà può darsi che sia cresciuto in qualche famiglia che gli abbia potuto permettere a lui e sua sorella di vivere in maniera dignitosa. Ero felice per lui pur non sapendo quale sia potuto essere stato il suo futuro, ma ero comunque felice per lui e tutto questo mi accese ancora di più l’appetito.
La riaccompagnai a casa, mi chiese se volevo salire e non rifiutai. Mentre preparava il caffè rivisitai la casa era cambiata, c’era più luce alcuni mobili erano stati cambiati , entrai nella stanza di suo fratello, non c’era più nulla, più il suo lettino, la sua carrozzella e le sue foto, non c’era più nulla di tutto questo, al loro posto un tavolo da lavoro da disegno e quadri appesi al muro colorati pieni di luce e di vita.
-
“Con la pittura ho ritrovato il mio equilibrio interiore. E tu, cosa fai quando stacchi dal servizio?”
Pensai al fatto he non avessi un hobby, se non la pesca che dopo diversi anni abbandonai per varie ragioni, cazzate, pensai, ma preferii dirgli che non avevo altri interessi aldilà della lettura e della buona musica che mi staccasse dal mio lavoro.
 Era tardi le sette di sera e buio pesto fuori.
-“Rimani qui stanotte” mi chiese all’improvviso, ma le risposi che dovevo andare per una serie di inutili cazzate che mi vennero in mente in quel momento. Ma quando mi ritrovai in macchina da solo a pensare come un coglione, scesi e suonai al suo campanello chiedendogli se l’invito era ancora valido. Facemmo l’amore. Il suo corpo profumava di terra fertile, la sua pelle come pesca e i suoi seni i suoi fiori, il calore del suo corpo aveva la stessa potenza del vino rosso dentro le vene. Non avevo mai vissuto in tutta la mia vita una sensazione del genere con una donna, un coinvolgimento che non era solo fisico, erano due anime che finalmente avevano trovato il loro approdo, il fondersi di due individui in uno solo.
 La mattina come sempre mi sveglio presto, lei è accanto a me, meraviglia tra le lenzuola che la coprono appena sotto le spalle e i capelli biondi ondulati a coprirle una parte del viso. Mi vestii in silenzio e uscii. Era una raggiante domenica di tardo autunno, erano le sei del mattino e l’alba ricopriva d’oro tutta la città. Mi misi in moto con la mia macchina. Volevo capire, capire quello che mi stava succedendo, tutto così all’improvviso, e intanto ero già fuori città nella campagna. Vagavo verso una meta indefinita, una meta che non era per la prima volta da più di un decennio rivolta al passato, verso quel luogo che non riuscivo a trovare a collocare con esattezza. Come sempre presi strade statali e provinciali, strade che non avevo mai preso. Mi fermai in un punto della campagna e scesi dalla macchina, mi tolsi le scarpe e le calze volevo camminare a piedi nudi nell’erba, l’erba umida del mattino, quella fresca sensazione sotto la pianta dei piedi che ti fa sentire vivo. Non c’era più traccia di me del passato, non sapevo neanche più chi ero, un altro con lo stesso cuore, con la stessa anima ma non la stessa testa. Guardavo, osservavo le cose con altri occhi. Ero nel presente, stavo vivendo adesso! Questo aveva fatto quella donna e gliene ero grato. L’amavo come non mi era mai capitato prima, l’amavo da morire, e già dopo solo due ore di girovagare come un coglione con la macchina mi mancava come l’aria. E mentre tornavo indietro guardavo le case non ce ne era una che non mi piacesse, tutte con giardino come piacevano a me, pensando a un figlio che non avevo mai avuto. Poi pensavo a Lucio chissà cosa era diventato e semmai senza riconoscerlo lo avevo incontrato qualche volta, di certo ero felice per lui che quel giorno sembrava morto. Non sarà un caso pensavo proprio quando ero giunto di nuovo sotto casa sua, che nel giro di un anno sono rimasto solo, dopo la separazione da Angela, il trasferimento di mio fratello e la morte di mia madre, e ora mi capitava questa splendida opportunità di vita, una svolta che non potevo non raccogliere. Quando suonai da sotto il portone il tempo che ebbi di salire le scale, trovai la porta socchiusa. C’era uno strano silenzio in tutto l’appartamento, un silenzio che aspetta di essere riempito di parole. La trovai nello studio la finestra dietro di lei dava alla sua figura una sensazione da sogno. Stava disegnando e con un sorriso mi parlava di cose nuove, con parole mai sentite, con occhi mai visti. Stava facendo uno schizzo in carboncino, se ero io di certo su quel volto non c’era traccia di malinconia. Con un semplice tratto di matita , e non solo, aveva cancellato tutta la mia vita precedente. -
 “Ti aspettavo”  
-“Come facevi a sapere che sarei tornato”  
-“Lo sentivo, non so spiegarti, non si può spiegare tutto, sentivo che saresti tornato, tutto qua”. Era disarmante, ed io stesso ne ero affascinato dal suo modo di fare e di pensare.
-“Se mi dovessi descrivere in un colore, a quale colore ti faccio pensare? Mi chiese così all’improvviso. La guardai per un attimo solo e gli risposi: Giallo mi ricordi il colore del grano maturo al paese di mio padre, al colore dell’alba che inseguo la mattina quando vado a correre, e a tutte le stelle del cielo. Poi mi chiese di avvicinarsi a lei e vidi il ritratto. Ero io ma quasi non mi riconobbi.
“Questo sei tu, solo che ancora non sai di esserlo” e ancora;  “Libera quei colori che hai dentro, colora la tua vita”.
   Per un breve periodo vivemmo nelle nostre rispettive città, ci incontravamo il fine settimana e certe volte visto il mio lavoro, anche solo la domenica, ma non sopportavo assolutamente un altro rapporto a distanza visto che il mio trasferimento era stato rifiutato per problemi di organico e le sempre più aspre situazioni sociali che si erano andate a creare per colpa della crisi economica, sempre più pesante, erano aumentati in maniera esponenziale rapine e furti nelle case ad opere di bande sempre più agguerrite. I problemi di ordine sociale mi dividevano in due, come in ben altre situazioni che mi erano capitate nel corso della mia vita da poliziotto, ma io ero dalla parte della legge, quella legge a volte crudele che non guarda in faccia nessuno, soprattutto la povera gente che non ha i mezzi per potersi difendere come i potenti. Allora ecco i furti nei supermercati ad opera di anziani che spesso e volentieri si ritrovano loro malgrado a rubare pacchi di pasta e scatolame vario per poter mangiare, e vedere gli zelanti Direttori dei centri commerciali chiamare il nostro centralino per le denunce, fanno il loro dovere, come noi del resto, ma certe facce di falsi zelanti gliele avrei spaccate volentieri, non ho mai condiviso il loro sguardo fiero di aver denunciato questi poveri disgraziati con lo sguardo ferito ma orgoglioso di questi poveri cristi, non ho mai stretto la mano ad ognuno di loro, la mia comprensione era solo ed esclusivamente per quelle innocenti vittime di un consumismo estremo ormai alla deriva e di una politica sempre più lontana anni luce dalla gente.
 Da un po’ di tempo mi balena l’idea di abbandonare la divisa. Sono periodi difficili, la gente non ne può più, licenziamenti, suicidi, e di vedere gente che ne approfitta, gente delle istituzioni incapaci di sentire il grido di chi non ce la fa più e di difendere chi sta portando alla rovina il paese proprio non ne posso più.
Visto che in banca ho un gruzzoletto frutto della vendita della casa di mia madre, l’idea di aprire un piccolo locale un bar o qualcosa del genere da qualche parte di questo sgangherato paese, qualcosa che mi lasci attaccato, vicino alle persone, quelle vere quelle che hanno fatto o fanno la bellezza di questa nazione, quelle persone che lavorano ogni giorno che fanno sacrifici, quelli che hanno perso il lavoro e riescono ad andare avanti con dignità,  quelli che invece non ce l’hanno fatta per troppa dignità, quelli che non si vendono per un favore politico, quelli che non hanno perso la fiducia in se stessi, ancor prima che delle istituzioni, quelli che con enorme sacrificio hanno realizzato un proprio benessere personale, tutte quelle persone che sono lontane dai riflettori dei giornali delle tv, quelle persone come mio padre che ha sacrificato la vita per questa dannata Nazione. A darmi coraggio a uscire da questa strano sentimento negativo verso quella divisa che prima mio padre dando anche la propria vita in martirio anche se di colore diverso, e poi io, avevo sempre creduto, a darmi nuovo slancio per un futuro diverso e migliore c’è una donna accanto a me in grado di ridarmi fiducia in me stesso a quello che ho sempre creduto, una donna che con il suo coraggio ha saputo buttare il cuore oltre gli ostacoli e ritrovare la speranza di una vita migliore, ed io in questo momento non posso deluderla, lei è la mia forza ed io sono il suo guerriero, non posso mollare ora chi mi sta dando una nuova vita. Ora che ho capito che quel luogo che andavo cercando da tanti anni ha perso di significato, ora che ho saputo cercare nel luogo giusto, ho trovato la casa che cercavo.
 Perché la casa è dove è il cuore.
     Un anno dopo
  C’è un messaggio di posta elettronica , arriva niente di meno che dall’Australia, con un nick-name Australiano e mi racconta una storia.
 Vivevo in una piccola cittadina di provincia nel Italia centrale, una famiglia povera con genitori alcolizzati, un padre- padrone , e una madre succube e debole che non ha saputo trovare la forza per portarsi via i suoi figli e abbandonare quell’uomo che aveva rovinato la sua vita e preferii sparire nel nulla. Una mamma che con il tempo avevo odiato perché anche se in quelle condizioni il padre riusciva in qualche modo a mandarli avanti. Poi mio padre muore, era ormai malato da tempo, mia madre neanche l’ombra, e io mia sorella veniamo messi in un orfanotrofio in attesa di affidamento. Avevo dieci anni, mia sorella quattro. Veniamo affidati a famiglie diverse, io mi ritrovo catapultato in una grande città del nord, lontano dalla mia città nativa, io che ero nato lì e li avevo sempre vissuto, lontano dai miei amici e compagni di scuola, dai miei luoghi di nascita dai miei giochi, lontano da tutto e da tutti, di mia sorella ne perdo le tracce. Tutte e due veniamo divisi e viviamo in famiglie diverse. Cresco in una famiglia benestante dove non mi fanno mancare nulla, studio, riesco a conseguire il diploma, però crescendo con l’adolescenza cresce sempre più in me il desiderio di ritrovare mia madre e mia sorella. Appena maggiorenne decido di lasciare la casa e i miei genitori adottivi, me lo permisero capendo che in me c’era questa esigenza, non senza preoccupazione, e incominciai il mio girovagare per lo stivale, facendo mille lavori, seguendo una falsa traccia andai anche oltre i confini nazionali, riesco infine dopo qualche anno a ritrovare mia madre. Non potendo avere accesso alle informazioni dello stato civile visto che con l’affidamento avevo cambiato generalità , riuscì grazie all’amicizia di un amico che aveva la moglie che lavorava al comune di avere delle notizie.Mia madre era morta pochi anni prima, un brutto male se l’era portata via. Io, che per una vita aveva idealizzato mia madre e immaginato l’incontro con lei, tutto era svanito nel glaciale e freddo marmo di una lapide. Quando uscii dal cimitero avevo capito che la mia vita non sarebbe stata più la stessa. L’opportunità di un cambiamento radicale arrivò qualche mese dopo, conosco una donna e come meta della nostra vita futura scegliamo di andare a vivere in Australia, che in quel periodo era la nuova frontiera dei sogni da realizzare, e visto che tutte e due siamo dei bravi cuochi riusciamo dopo qualche anno di sacrifici ad aprire un piccolo ristorante di specialità italiane per tutti gli immigrati e non solo, che vivono in quel continente. Ebbene, dall’altra parte del mondo, ho avuto l’opportunità di resettare tutta la mia vita precedente ma non sai, mi racconta, quante persone di cui avevo perso tracce ho incontrato prima di venire qui in Australia, è incredibile, persone che ho conosciuto anche dopo che andai via dalla stessa città dove eravamo in parte cresciuti insieme, amici conosciuti negli anni a seguire in quella che era stata la sua seconda vita, ma come capita spesso incontrai anche quelle persone che mai avrei voluto rivedere, gente che mi aveva fatto del male, male che era difficile da dimenticare, dentro quella casa famiglia c’erano anche dei diavoli. Poi qualche amico che non aveva avuto la stessa fortuna nostra di esserci ancora sopra questo sporco mondo, amici morti per una precoce malattia o per incidenti stradali. E cosi a poco a poco mi misi l’anima in pace, preferivo il ricordo di quegli anni seppur difficili con la mia famiglia ma scanzonati e leggeri grazie all’età che avevamo, pensavo che quelle storie erano tutte dentro di me e le custodivo gelosamente. Poi un giorno dalla porta del ristorante con il locale stracolmo di gente vedo entrare una coppia, intuì subito che non erano marito e moglie lo capii dagli atteggiamenti, lei era una giornalista e lui un fotografo erano in Australia per un servizio naturalistico, lui sui quaranta lei sulla trentina. Entriamo subito in confidenza e dopo qualche ragguaglio del suo lavoro, mi dice che lei è qui anche per un altro scopo, una traccia l’aveva portata fin qui per ritrovare a lei una persona cara. Lei da subito mi sa di familiare, come se qualcosa di invisibile ci lega e più parliamo più ritrovavamo la strada che ci ricongiungeva, quella che un giorno di più di trent’anni prima ci aveva diviso. Era il giorno che aspettavo il giorno perfetto ed era arrivato. Nel preciso istante che entrambi capiamo di esserci ritrovati, scorgo una luce nei suoi occhi che proietta all’indietro tutto il film della nostra vita nella stessa casa natia, e come se quel distacco non fosse mai accaduto. Riconosco la sua voce, la musicalità della sua timbrica, la stessa di mia madre, era mia sorella. Lei aveva ritrovato me, perché mi confidò dopo che era abbastanza sicura che fossi io, lei era piccolina poco più di quattro anni all’epoca quando ci divisero, era riuscita ad avere una mia foto da una zia anni prima, una foto una delle poche che avevo di quegli anni, scattata da mio padre nei pochi giorni di sobrietà davanti alla porta di casa con un gruppetto di amici, io di lei non avevo che il ricordo di una bambina con le trecce che gli faceva con cura mia madre, avrà avuto tre anni, i capelli rossi e due grandi occhi azzurri. Io che avevo smesso di cercarla, lei dall’altra parte del mondo mi era venuta a trovare.
E nel rivedere quella foto dove eravamo in quattro, gli chiedo a mia sorella se si ricordava di quello che era accanto a me, tutte e due con le braccia sulle reciproche spalle con lo sguardo dritto davanti all’obbiettivo e il sorriso e lo sguardo innocente che si può avere solo a quella età. Lei essendo una giornalista m’informa che è il figlio del maresciallo assassinato dalle Br nel “79, il nome non se lo ricordava ma dice il cognome. Poi su internet facendo una ricerca trovo l’articolo di un giornale di quell’anno e nel articolo del giornalista che scrisse il pezzo leggo i nomi dei famigliari che il povero maresciallo aveva lasciato, la moglie, i nomi dei figli e i rispettivi anni capii che non potevo che essere io. Finalmente mi aveva ritrovato dopo più di 40 anni, mi chiede come sto, che lavoro faccio, se sono sposato se ho figli e se mi ero dimenticato di lui. No Caro Lucio, non mi ero dimenticato di te, tanto che nelle mie fitte righe di risposta gli racconto tutto quello che ho passato negli ultimi quindici anni, ma nel descrivere la mia angoscia del passato, sento, dopo tutto quello che ho letto della sua vita, che tutto ciò che ho provato e che provo ancora ha perso di significato. Quella mia ricerca di un luogo preciso dove collocare tutti i miei affetti personali, i compagni di scuola lasciati così all’improvviso, convinto nella tenerezza dei miei anni che prima poi li avrei rivisti, che sarei tornato negli stessi luoghi in tutte le strade delle varie città che ho conosciuto, gli amici di strada e di giochi abbandonati all’improvviso, senza alcun preavviso con tutte le cose incompiute ancora da definire e pensavo nella mia mente e nel cuore che prima o poi le avremmo terminate, che fossero ancora li, nelle strade nei prati, ancora li ad attendermi. Ebbene tutto ciò non aveva più un reale senso. Poi gli dissi che non l’avevo per nulla dimenticato, tanto di aver deciso che il figlio che stava per nascere lo avrei chiamato esattamente come lui.
Alla fine smettendo di cercare ho trovato, e ritrovandone solo uno e come se li avessi ritrovati tutti, perché la casa è dove hai il cuore.
    “ FIN QUANDO DAI LA CACCIA ALLA FELICITA’, NON SEI MATURO PER ESSERE FELICE,
ANCHE SE QUELLO CHE PIU’ AMI E’ GIA TUO.
FIN QUANDO TI LAMENTI DEL PERDUTO, ED HAI SOLO METE E NESSUNA QUIETE,
NON CONOSCI ANCORA COS’E’ LA PACE.
SOLO QUANDO RINUNCI AD OGNI DESIDERIO E NON CONOSCI NE’ META NE’ BRAMA
E NON CHIAMI PER NOME LA FELICITA’, ALLORA LE ONDE DELL’ACCADERE NON TI RAGGIUNGONO PIU’
E IL TUO CUORE E LA TUA ANIMA HANNO PACE.”
Hermann Hesse
 Autore: Mauro Monteverdi
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joekirby · 5 years ago
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Conobbi Actarus che ero un ragazzo.
Mi è sempre sembrato un tipo strano, uno a cui importa poco di tutto e tutti. Sempre solitario, sempre più legato ai suoi cavalli che agli uomini, sempre da solo seduto sotto una quercia a suonare la sua malinconica chitarra. Sapete, uno di quei tipi che ....se cascasse il mondo, io mi sposto e continuo per la mia strada, al contrario degli altri membri della fattoria di Rigel.
E poi, Venusia innamorata di lui, lo si vedeva da un miglio lontani, anche se lei nagava ferocemente. E Mizar, che pendeva sempre dalle sue labbra, ma si sa, i ragazzini subiscono molto spesso il fascino dei tenebrosi. Soltanto io ero così diffidente verso di lui? Persino il dottor Procton, suo padre, aveva quasi un timore reverenziale verso di lui....ma chi era questo Actarus? Inutile dire che l'ho provocato di proposito più di una volta, ma lui non ha mai reagito, anzi, ha incassato perfino qualche pugno da me, ma non è servit
o a nulla.
Io mi trovavo al centro spaziale per i miei studi, una sorta di tirocinio, d'altronde avevo dato prova di capire l'argomento spazio/alieni. L'occasione si presento un giorno, anzi meglio, una notte. Ero intenzionato a scoprire cosa nascondesse quel ragazzo misterioso....così distaccato, quasi alieno? In fondo non somigliava neanche a suo padre! Insomma Lo seguii, e nella radura dietro la fattoria lo vidi, in piedi immobile come una statua di sale, scrutare il cielo e guardare la luna piena in maniera davvero sospetta. In realtà quella luna mise l'inquietudine anche a me, non l'avevo mai vista così grande, ma soprattutto mai tinta da un rosso così intenso, sembrava fosse bagnata di sangue!La disparazione si stagliò sul volto di Actarus, cosa accadeva? Perchè ebbe quella reazione? "NO! Questa volta non ve lo permetterò!" disse " non mi porterete di nuovo via tutto!" Io non capivo, con chi poteva avercela? Mentre me ne tornavo a letto immerso in questi pensieri, era ormai l'alba, e l'allarme del centro spaziale si intromise tra me e la strada da fare....Corsi già in uniforme, e salii sul mio T.F.O. mentre Proctor mi richiamava dalla radio, e sul mio radar apparii qualcosa, avevano una strana formazione, totalmente randomica, e sembravano davvero mezzi venuti fuori dalla mia fantasia, erano ufo.
Cercai di stabilire un contatto, ma l'unica risposta che ebbi fu il loro attacco, il mio non era un mezzo da combattimento come il mobile suit che pilotai precedentemente, per cui l'unica mossa in mio potere era quella di evitare i loro attacchi e di attirarli il più lontano possibile dal centro e dalla fattoria. Mi vidi perduto quando tra i loro laser, un ufo ben più grande si stagliò sul mio orizzonte, e mentre pensavo a come cercare di sfuggirgli, questo cambiò la sua forma in un orribile mostro rettiliforme! D'un tratto vidi il sole spegnersi su di me e dei rotori fatti di lame lacerare e distruggere i minidischi, raggi laser come fulmini disintegrarne altri, e poi si manifestò ai miei occhi......il più grande disco volante che potevano contenere i miei occhi. Ma c'era qualcosa di particolare in quel mezzo enorme, sembrava che nel disco fosse incastonato un enorme robot. Non emetteva suoni o rumori, sembrava quasi fosse immobile, mentre impercettibilmente ingaggiava battaglia con il mostro robotico. Cercava di tenergli testa in tutti i modi, finchè con voce metallica il nuovo ufo gridò "Goldrake, avanti!"la fusoliera che gremiva il busto del robot si aprì, lasciando uscire un corpo d'acciaio di 30 metri, che si scagliò contro il mostro urlandogli "Questa volta non vi permetterò di distruggere anche questo pianeta, vi fermerò! Alabarda spaziale!" E da gli alloggiamenti sulle sue spalle, le due lame incastonate si di esse si trasformarono in un enorme alabarda che il guerriero d'acciaio impugnava a due mani! Lottò tenacemente con il mostro e lo sconfisse grazie ad un raggio laser che scaturì dalle grandi corna gialle , ma per me non era finita, l'ultima formazione di minidischi rimasti mi era alle calcagna e venni colpito dai loro laser. Cominciai ad avvitarmi avvicinandomi inesorabilmente al suolo, quando l'enorme mano del robot mi afferrò, e con l'altra distruggeva i moscerini che gli davano fastidio, fu allora che li vidi. Scrutando nella cabina di pilotaggio incastonata nella bocca del robot, c'era lui, con un uniforme da guerriero alieno, con un casco che celava il suo viso, ma lasciava spazio all'altezza degli occhi, ed essi io vidi.....avevo già visto quegli occhi tristi e consapevoli, duri e dolci allo stesso tempo. Gli occhi di chi ha vissuto su di se guerra distruzione e morte, gli occhi di chi ha il coraggio ora, di porsi tra il male e gli innocenti da difendere, quelli erano gli occhi di Actarus!
Da allora combattiamo una guerra senza quartiere contro gli invasori della nebulosa di Andromeda, gli abitanti della stella Vega. Aiuto Actarus con il mio spacer 2, e niente può fermarci finchè lottiamo uniti con lo scopo di difendere il pianeta terra. Actarus non può e non vuole perdere la sua casa su questa terra, dopo aver perso la sua natale stella Fleed, perciò combatte e combattiamo per la libertà, per la sopravvivenza!
Così conobbi Actarus, dimenticavo, io sono Koji Cabuto, o se preferite Alcoor.
4 aprile 1978, buon compleanno Goldrake
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pangeanews · 5 years ago
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“Ho derubato i boschi”. Valentina Meloni traduttrice di Emily Dickinson. (O della poesia come l’apparizione di una volpe)
I poeti s’incontrano per destino. Non per altro, e non tanto così per dire. Valentina Meloni è una di quelle rare folgorazioni, le cui poesie le scorgi inaspettatamente su un prato, la notte, illuminate dalle lucciole, quando sei esausto degli imbrogli della vita e ti nascondi nei boschi. Poesie come bagliori di fuochi antichi, come apparizioni improvvise di volpi. E non è un caso se lei ha scelto di vivere la vita tutta per la Letteratura, allontanandosi dal mondo, vivendo in un borgo arroccato sul lago in Valdichiana, tra prati, boschi, rumori d’altri tempi. Valentina mi parla di sé, dell’amore smisurato che sente e prova per l’epistolario immortale tra Rilke e la Cvetaeva; del suo attaccamento alla natura, dell’amore ancestrale che lega gli uomini agli alberi. Infatti, spiritualità, ecologia, alberi e natura sono i temi fondamentali della sua poetica.
«Scrivo poesie, quando poesia chiama» mi dice spesso, quasi fosse un motto. Ma non solo. È traduttrice, scrittrice di saggi, testi teatrali, aforismi, haiku e libri per bambini. Tra i tanti, ricordiamo Le regole del controdolore (Temperino Rosso, 2016), Il fiore della luna-Leggenda di Rosaspina (La Linea dell’Equatore, 2018) e Storie di goccia, Nanuk e l’albero dei desideri (Temperino Rosso, 2017). Strabilianti inoltre, per bellezza, le sue lunghe poesie sugli alberi.
Esiliata anche lei dall’invidia di quei pochi, la cui pochezza è risibile e raglio d’asino, il suo silenzio ha incontrato il mio. Ne è scaturito un trovarsi, un assomigliarsi, un comprendersi. Soprattutto per me è stata una scoperta, della quale voglio farvene dono. Perché in letteratura non esiste cosa più grande che il parlare, non di sé, ma degli altri. Sacrificare il proprio ego, per omaggiare l’opera di un altro, è rituale antico, perso, da riprendere e praticare se si vuole imparare l’umiltà del mestiere. Meloni fa un lavoro infausto, sottopagato, ma lo porta avanti con tenacia. Appunto perché credere nella sacralità della parola, corrisponde non solo a una scelta precisa di vita, ma anche e soprattutto a una chiamata, che del fato ne segue l’ombra. Per questo è fine traduttrice di vari poeti stranieri contemporanei e classici del passato, tra i quali spicca, per preferenza, l’immensa Emily Dickinson. Valentina Meloni fa della traduzione il suo rifugio, la sua quiete, la sua sorella lontana, il latte verde a cui si abbevera in solitudine ‒ sono parole sue, che illuminano tutta la professionalità e passione che impiega il quotidiano lavoro del tradurre. Ecco dunque alcune sue poesie e alcune poesie della Dickinson da lei tradotte. (Giorgio Anelli)
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hanno portato via il mio unico amore
hanno portato via il mio unico amore tagliate le sue ali di angelo dannato lo hanno preso e processato ‒ loro dicono ‒ per troppo amore pare che mi abbia amato più di quanto si deve che abbia trascurato Dio per la mia pelle ma non sanno che attraverso di me egli ha adorato l’altissimo più di ogni altro non sanno che lo ha glorificato che ha sussurrato preghiere ardenti e fatto dell’anima un altare non sanno loro che egli ha reso onore al cielo desiderante di ogni uomo che di ogni bacio ne ha fatto un’orazione di ogni carezza un rito di purificazione di ogni sua sillaba l’eucarestia preziosa della bellezza eterna e silenziosa dell’amore
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la piccola volpe che ero
tengo stretta al grembo la piccola volpe che ero: le orecchie dritte i denti aguzzi il muso puntuto che saggia l’aria e la lunga coda rossa una carezza al grano di primavera. ho sempre con me i suoi occhi vispi ‒ addormentati tra le mani ‒ una fiammella che s’accende improvvisa quando scopre il passero del perduto amore ancora cinguettante sul ramo dei ricordi.
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Prendi questo nome e fanne un pane caldo da spezzare domani quando avremo fame e non avremo nessuno a cui dire grazie. Prendilo e impastalo con mani di rinuncia che lascino al tempo il compito lieve della gemmazione. E non aver paura d’ingoiare la notte prendi il mio nome e, insieme al tuo, rendilo cielo di questa nostra bocca.
(da Corrispondenze da un mondo increato ‒ epistolario poetico con Giorgio Bolla, La Vita Felice, 2018)
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nel palmo delle mani
infine tolsi la pietra e tolsi il corpo come se io non fossi più nascosta dentro un vuoto inospitale e stanco perché non mi toccasse ancora la sua mano perché non fossi detta più terra di conquista e nessuna spada più venisse a giudicarmi di me solo rimase una lontana voce una croce pesante lasciata sopra i muri e un filo sottilissimo di rose e fiori d’acqua nel palmo delle mani una lontana luce che brucia senza sosta.
Valentina Meloni
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Traduzioni da Emily Dickinson
  Caro Marzo
Caro Marzo – avanti – sono così felice – ti ho atteso a lungo – posa il cappello – devi aver camminato – come sei spossato – caro Marzo, come stai, e gli altri – hai lasciato bene la natura – oh Marzo, sali di sopra con me – ho così tanto da raccontare –
Ho ricevuto la tua lettera, e gli uccelli – gli aceri non sapevano che stessi arrivando – non ti dico – come sono arrossiti i loro volti – però Marzo, perdonami – tutte quelle colline che mi lasciasti da tingere — non c’era un cremisi adeguato – l’hai portato tutto con te –
Chi bussa? Ecco Aprile – chiudi la porta – non mi farò raggiungere – è stato via un anno per chiamare ora che sono occupata – quanto sembrano futili le inezie non appena arrivi tu
Che il biasimo è prezioso quanto l’elogio e l’elogio sincero come il biasimo –
F1320 (1874) / J1320 (1874)
*
Da così minute galanterie
Da così minute galanterie, un bocciolo, o un libro, sono piantati i semi dei sorrisi – che s’aprono nell’oscurità.
J55 (1858) / F37 (1858)
*
Ho derubato i boschi
Ho derubato i boschi – i fiduciosi boschi – gli alberi ignari porgevano le loro galle e i muschi lusinghe alla mia fantasia – esaminai curiosa i loro ninnoli – li afferrai – li portai via – cosa dirà l’austero abete – cosa la quercia?
F57 (1859) / J41 (1858)
*traduzione di Valentina Meloni
**In copertina: una immagine da “A Quiet Passion” (2016), film biografico di Terence Davies sulla vita di Emily Dickinson
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emmalynthewriter · 5 years ago
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Dalle immagini alle parole #1
Per mesi non ho pubblicato nulla su questo blog, che ora rischiava di cadere in disuso come il primo, che fra l’altro ho eliminato, ma non voglio che questo faccia la stessa fine, perciò mi sono inventata questa rubrica, con il titolo che leggete sopra. Ogni volta che potrò, sceglierò un’immagine dal web, e partendo da quella, scriverò una piccola storia. A voi la prima, e con essa, l’ardua sentenza.
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                                                Dalla selva al cuore
Le piogge estive erano sempre difficili da prevedere, e i due fratelli Nugget e Noodles non potevano che confermarlo. Ormai erano passati tre giorni, e anche in quella stagione non vedevano altro che gocce di fredda, freddissima acqua cadere da un cielo pieno di nuvole grigie e pesanti. Del tutto inconsueto per quel periodo solitamente caldo, ma ormai quasi non importava. Lento, il tempo scorreva senza sosta, e zampettando fra l'erba e le foglie nella foresta, non riuscivano a calmarsi. Silenziosi, non si lamentavano, nè si rivolgevano la parola, ma fra un passo e l'altro, pensavano. Com'era successo? Perchè? E soprattutto, come avevano potuto? Non lo sapevano, forse non l'avrebbero davvero mai capito, ma nonostante tutto, almeno uno di loro non riusciva a smettere di pensarci. Nervoso, Nugget non accennava a smettere di muoversi, e facendo saettare lo sguardo in tutte le direzioni, si guardava costantemente intorno, preoccupato. Fra un passo e l'altro, annusava alternativamente l'aria e il terreno, ma per pura sfortuna, non riuscì a trovare nè sentire nulla. Non le impronte del suo passato, non quelle delle sue zampe, nè il caratteristico profumo di Melody, la sua vecchia padroncina. Piccola e tenera, aveva circa nove anni, e solo poco tempo prima, aveva commesso uno stupidissimo errore, che agli occhi del piccolo roditore appariva come un tradimento. Non era passato molto tempo, e lo ricordava ancora. Insieme, lui e sua sorella stavano giocando ognuno nella propria gabbietta, al sicuro sulla scrivania nela cameretta della bambina, e all'improvviso, l'avevano sentita entrare. Felici, le si erano avvicinati per salutarla, e squittendo dolcemente, non avevano fatto altro che chiedere attenzioni. Fra i due, Nugget era quello che in genere insisteva di più, arrivando a volte a lottare con la sorella per le attenzioni della bambina, anche se giocosamente e senza mai il vero desiderio di farle male. Sorridendo ogni volta, la piccola Melody lo accontentava, e aprendo la gabbia, lo teneva letteralmente in mano, accarezzandolo lentamente. Affatto gelosa, la sorella gli concedeva quei piccoli momenti di gloria, sicura che la padroncina non l'avrebbe certo dimenticata. Era strano, e ingenua com'era, la cricetina tendeva a non pensarci, o almeno a provare, ma nonostante tutto quella parola, anzi, quel verbo, continuava a riverberarle nella mente. Poco più piccola del fratello, sembrava divertirsi, ma pur non confessandolo ad alta voce, anche lei pensava al passato, al prima, a quello che accadeva a casa con la loro bambina. Lenta, arrancava dietro al fratello, e con lo sguardo fisso in avanti, non osava chiudere gli occhietti scuri. Era strano a dirsi, forse perfino esagerato, ma l'unico spazio verde che lei e il fratello avessero mai visitato era il giardino della casa di Melody, non certo quella dannata foresta, e per quanto ne sapeva, chiudere gli occhi o distrarsi, anche per un solo secondo, avrebbe potuto significare guai. Non sapeva di che genere, ovvio, ma non voleva nemmeno pensarci. Tutt'altro che tranquilla, si affrettò per raggiungere il fratello, e senza volerlo, gli sfiorò una zampa. Lo conosceva, gli voleva bene, e doveva ammettere che vederlo in quel modo, preda dei nervi e della rabbia, spezzava il suo giovane cuoricino. "Nugget, dai, torneremo a casa, ne sono sicura." Provò a dirgli, restando positiva nonostante la situazione. Più giovane del fratello anche se solo di pochi minuti, poteva apparire ingenua, e consapevole, lei stessa non tardava a negarla, ma forse era proprio quel tratto di personalità a non farle perdere la speranza. "Taci, Noodles, sei troppo piccola per capirlo." Sbottò lui in risposta, più teso di prima. "Nugget! Come ti permetti!" replicò lei, ferita. Alle sue parole seguì un silenzio tale da renderli sordi, e senza dire altro, lei decise di allontanarsi. Non aveva fatto niente, tentava solo di conservare l'ottimismo senza farsi accecare dalle emozioni negative, ma nonostante questo, ecco che la realtà le si ritorceva contro, colpendola in pieno e ricordandole che la sua positività, seppur ammirevole e alle volte perfino contagiosa non aveva lo stesso effetto su chiunque le stesse intorno, e che forse era davvero troppo piccola per capire. Triste, zampettò verso una quercia nella speranza di trovare riparo dalla pioggia sotto la sua chioma, e quando si rese conto di avere le zampine dolenti e il pelo fradicio, fece del suo meglio per arrampicarsi, infilandosi a fatica nella cavità di quel tronco, forse scavata da uno scoiattolo o da qualche altro animale. Rimasta sola, pianse tutte le sue lacrime, lontana dall'unico suo simile che fino ad allora avesse avuto accanto, e non le costava ammetterlo, che davvero la capisse. Fu quindi questione di attimi, e a sua volta solo sotto la pioggia battente, Nugget capì. Che stava facendo? Era quello il modo di trattare la sua sorellina? Erano diversi, e lui era più grande, ma questo non gli dava il diritto di comportarsi a quel modo. "Noodles?" chiamò, sinceramente dispiaciuto. In attesa di una risposta, si avvicinò all'albero che aveva scalato, e muto come un pesce, la seguì nei suoi passi. "Noodles, mi dispiace. Avevi ragione, possiamo davvero tornare a casa. Andremo da Melody, proprio come volevi, va bene?" tentò, impegnandosi in quella scalata e alzando la voce per farsi sentire. Scivolando nel silenzio, non attese che di sentire la voce della sorella, ma da parte sua, nessuna risposta. "Noodles?" provò ancora il povero criceto, preoccupato come mai prima d'allora. Parlando con sè stesso, si maledisse più volte per la sua innata mancanza di tatto e autocontrollo, e tremante per il freddo, sentì un brivido corrergli lungo tutta la schiena. Spaventato, non seppe cosa pensare, e voltandosi per un solo attimo, si convinse che la colpa era stata del vento. Poco dopo, oltre il lugubre sibilo di quest'ultimo, una voce.  "Non devi parlarmi. Era la sorella, che rintanata in un angolo di quella cavità, ora si rifiutava di guardarlo. "Ho dettto che mi dispiace, davvero." Insistette lui, serio e sincero sia con lei che con sè stesso. Aveva ragione, era stata ferita, e ora gli toccava scusarsi, ma dentro di sè, nel suo piccolo, piccolissimo cuore, anche Nugget conosceva la verità. Il passato ormai andato gli aveva lasciato ferite ancora aperte, e in preda al dolore aveva deciso di sfogarsi su di lei, ma se quello era un errore, starle vicino non lo era affatto, e anzi, era la cosa giusta. Mosso a compassione, le sorrise appena, e zampettando fino ad arrivarle accanto, le strinse piano una zampina. "Hai freddo?" le chiese, notando che tremava. "E che t'importa?" rispose subito lei, acida. "Avremo anche litigato, ma sarai sempre la mia sorellina. Ti voglio bene, e te ne vorrò per sempre, mi credi?" replicò lui, allargando quel sorriso e terminando quel discorso con una domanda, che solo per un attimo, lo distrasse da una lacrima sfuggita ai suoi occhi e prossima a rotolargli sul muso. "Ti credo, fratellone." In tre parole, l'unica risposta che la piccola riuscì a dare, e attimi dopo, solo la quiete. Stanchi e infreddoliti, i fratellini si addormentarono l'uno accanto all'altra senza smettere di stringersi la zampa, e ore dopo, al mattino, una buona stella decise di sorridere ad entrambi. Sempre attento e preoccupato per la sorella, Nugget fu il primo a svegliarsi, e strofinandosi gli occhietti ancora cisposi, non vide altro che un'immagine distorta, e poi, seppur colto dall'insicurezza, sorrise. Non riusciva a crederci, ma davanti a lui c'era un'altra bambina, un'altra piccola umana sorridente, dall'animo buono e gentile. Non la conosceva, non poteva dirlo con certezza, ma nonostante tutto, e forse anche grazie all'idea degli umani che i ricordi della sua Melody e le parole della sorellina gli avevano regalato, decise di fidarsi. "Ciao, piccini. Voi che ci fate qui?" chiese la bambina, sorridendo debolmente e muovendo una manina come per salutarli. Sorpreso, Nugget non seppe cosa dire, e indietreggiando, sfiorò con una zampa la sorella, scuotendola leggermente. Ridestandosi dal torpore in cui era caduta, anche Noodles scoprì la piccola umana, e incuriosita, si avvicinò per annusarla. "Sei Melody?" chiese, squittendo più volte. Divertita, la bambina non capì, ma in compenso ridacchiò e le accarezzò la testa, e parlandole con il solo uso dello sguardo, il fratello la incoraggiò a farsi avanti. "Avevi ragione. Andremo davvero a casa." Le fece capire, finalmente fiducioso. Annuendo, Noodles mosse qualche passo verso la piccola umana, e in un attimo, si ritrovò a vedere il mondo da un'altra prospettiva. Aiutata da un altro umano molto più grande, l'aveva sollevata, e Noodles riuscì a capirlo solo quando al duro legno si sostituirono due morbide mani. Cauta, fece attenzione a non farle del male con le unghiette, e squittendo ancora, spostò lo sguardo verso il fratello rimasto indietro. "Che sbadata, papà, guarda. Ce n'è un altro. Posso prendere anche lui?" chiese la bimba al padre, speranzosa. "Certo, tesoro, ma solo loro, intesi?" concesse il padre, regalando alla figlia un sorriso lieve ma sincero. "Va bene, solo loro." Gli fece eco la bambina, per poi ricambiare quel sorriso e camminargli accanto. Fra un passo della piccola e l'altro, i due fratellini si strinsero l'uno all'altra, e per tutta la durata di un viaggio verso il verde ignoto di un nuovo giardino, non smisero mai di sorridere, sicuri di essere passati dalla selva al cuore di una bimba.  
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