#La Strada Avanti L
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dietestfahrer · 11 months ago
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Das Reisemobil La Strada Avanti L: Für alle Jahreszeiten gerüstet
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falcemartello · 2 years ago
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Nel mondo occidentale pensiamo a salvare il pianeta dalle emissioni grazie alle batterie elettriche delle auto...
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Così difendiamo il pianeta dal riscaldamento globale...
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Nel 2050 si pensa di eliminare tutti i fossili a cominciare dal petrolio. Le auto elettriche dovranno essere tutte dei "fuori strada".
Perché? Senza petrolio non avremo più bitume per asfaltare le strade. Secondo voi ci hanno pensato?
L'85% del peso di un pneumatico è fatto da sostanze polimeriche che sono derivati del petrolio.
Nel 2050, in assenza di petrolio, penso che si tornerà alle ruote di legno, come i carri dei nostri nonni. Che bello!
Il prof. Kurt Lauk, dirigente automobilistico tedesco, avverte: "metà dei tedeschi non potrà più permettersi un'auto.
Oggi puoi avere un veicolo economico e adatto a 15.000, 18.000 o 20.000 euro. Non sarà più così con questa politica idiota delle auto elettriche”.
Per l’obiettivo NET ZERO 2050, l’Italia deve ridurre del 55% le emissioni entro il 2030. Dal 1990 al 2021 le ha ridotte del 21%. Vuol dire che da ora a 2030 deve andare 7 volte più veloce. E’ come chiedere a Jacobs che da qui in avanti deve correre i 100m in 1,4 sec. Robetta.
E' curioso come nell'agenda ONU al primo posto  non ci sia l'impegno  per la pace nel mondo, ma la lotta al riscaldamento globale.
Le guerre non riscaldano abbastanza.
Fortunato Nardelli
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e-ste-tica · 10 months ago
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quando il gruppo si riunisce al completo, un venerdì sera va più o meno così. ci ritroviamo al solito bar, gestito da una tipa che ormai ci vuole e le vogliamo bene, ci chiede sempre come va e nota ogni volta un dettaglio "Hai cambiato tinta blu!" "Hai tagliato i capelli!". iniziamo chi con degli spritz chi con della birra, siamo sempre felici di vederci e più o meno la prima mezz'ora passa con frasi come Oooh ma quant'era che non ci vedevamo!!, abbracci e teste sulle spalle che intervallano i discorsi. siamo un gruppo di laureat e laureand in filosofia - attorno ai quali ruotano partner e amic di qualcun di noi - piuttosto sfigaty, non di quelli vestiti bene con una prospettiva di futuro: gente di provincia con un profondo odio di classe transfemminista che attende la lotta armata, a parte me e A. tutti depressi, e senza paura nei confronti delle scomodità perché tanto - cito - "Si fa tutto". qualcuno ha 28 anni e sta ancora scrivendo la tesi, qualcuno ha iniziato il dottorato, qualcuno viene sfruttato per 500€ al mese. quando arriva il momento di passare dallo spritz al negroni, C. racconta un'insolita esperienza sessuale che non ha gradito, facendo nascere confronti infiniti tra J. e M. che devono sviscerare i dettagli della cosa. Verso l'una qualcuna tira fuori le parole crociate e il gruppo si divide tra chi cerca di indovinare le definizioni e chi continua a parlare di chissà cosa - io provo a giostrarmi tra le due fallendo in entrambe. qualcuno va a fumare e fa avanti e indietro, quando rientra fa finta di nulla ma a fine serata si scopre che in quelle intime pause sigaretta a due o a tre si confessano segreti. C. è ubriaco - quando beve gli prende qualcosa che chiama "vena pansessuale", smette di essere etero e mi propone di fare sesso. in effetti in quel tavolo gli incroci negli anni sono stati parecchi ma tra noi due mai, non ci avrei mai pensato però e mi pare un po' strano che me lo dica così, poi mi rendo conto che non so neanche quanti negroni abbia bevuto quindi ha senso: gli dico che gli voglio bene ma magari un'altra sera. M. confessa a J. di essere innamorato di C. e quando il pettegolo me lo racconta la prima cosa che diciamo è Cazzo ecco perché sta così male! ci mettiamo settant'anni a prendere la via di casa, C. prova a picchiarsi usando le nostre mani mentre A. è l'unica che ride sguaiatamente alle cose che dico mentre cerco di trascinarli via. ci salutiamo pregando M. di ricordarsi di far mangiare C. domani, perché si dimentica di farlo ogni giorno e se non fosse per lui si potrebbero contare sulle dita di una mano le volte in cui mangia in una settimana. C. reggendosi a mala pena in piedi prima di salutarmi mi dice Adesso ti darò un bacio ok? io rispondo NO non farlo grazie, ti voglio bene segui L. e vai a casa, e mi chiedo Ma perché cazzo gli è presa così stasera. saluto gli altri e J. viene via nella mia stessa direzione, M. convinto di smascherare chissà quale segreto mi chiede Ma quindi tornate a casa insieme stasera??!! e io per l'ennesima volta gli devo ripetere che J. sta andando a dormire dalla ragazza che abita vicino a me, aggiungendo che ormai sono passati anni da quando scopavamo. alle interminabili ore 3:00 finalmente le nostre strade si dividono e io faccio l'ultimo pezzo di strada con J. che più che un amico per me è un braccio o un rene. oggi l'ho visto per la prima volta con la sua ragazza in un momento di tenerezza e mi sono sembrati innamorati, è bello vedere le persone che amo felici. ed è bello anche essergli accanto quando mi dicono che stanno male. da fuori forse sembriamo uno sgangherato gruppo di strambi maniaci, ma l'ambiguità ci piace anche quando non accade niente, la chiacchieriamo più di quanto non la pratichiamo davvero, e quella che più ci riesce è l'ambiguità emotiva - col cazzo che l'amore romantico è più importante dell'amicizia che abbiamo. ci prendiamo cura l'uno dell'altra: con una birra, con medicine, con la febbre la depressione la povertà la tesi i problemi d'amore, ci siamo.
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superfuji · 2 months ago
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Falling Man fu scattata da Richard Drew, lo stesso fotografo che nel 1968 immortalò Bob Kennedy un attimo dopo che gli avevano sparato alla testa. Nella stessa circostanza immortalò pure la moglie Hethel che implorava i fotografi di non fare fotografie. All’epoca Drew era un ragazzino di ventun anni. Ne avrebbe avuti più di cinquanta quando, tre decenni dopo, la storia irruppe un’altra volta nella sua vita. Una fortuna che ti può capitare se fai il giornalista. La mattina dell’11 settembre Richard Drew si trovava a New York per fotografare una sfilata di abiti premaman. Il suo editor lo chiamò sul cellulare per dirgli di schizzare all’istante al World Trade Center. Un 747 si era appena schiantato contro una delle due torri. Giunto sul posto vide che gli aerei impazziti erano due, come le torri. In un batter d’occhio, era passato dai corpi di giovani donne incinte ai corpi di sventurati che si spiaccicavano al suolo dopo un volo di cento piani. Dalla vita alla morte, così. E che morte. Drew si mise comunque al lavoro. Era lì per quello, del resto. Le persone che fanno il suo mestiere non perdono tempo a pensare. Per loro una foto non è che un rettangolo da riempire in una frazione di secondo. Più importante dell’autore dell’immagine, però, è la sua natura. La gente che vide la foto sui giornali e si indignò non poteva sapere chi l’aveva scattata e perché si trovasse a Manhattan quel giorno. Solo col tempo alcuni sono giunti ad apprezzare l’inquietante simbolismo delle coincidenze messe insieme dal destino. Sul momento, la gente vide soltanto un’immagine. O per meglio dire: qualcosa che sembrava soltanto un’immagine. Perché quella scattata da Drew non era una semplice foto. C’era la brutale tragicità del soggetto. Ma c’era anche il fatto che è una foto di surreale bellezza. Falling Man non sembra il ritratto di una persona che, in preda a panico e disperazione, si lancia incontro alla morte. L’uomo precipita con l’elegante compostezza di un tuffatore olimpionico. Il corpo è in posizione verticale, in perfetto asse con la struttura di acciaio alle sue spalle che luccica al sole del mattino. Procede a testa in giù. Le braccia non sono protese in avanti nell’istintivo quanto inutile tentativo di proteggersi. E neppure si agitano. Sono distese e attaccate ai fianchi come se all’ignoto saltatore interessi soltanto favorire l’azione della forza di gravità. Sembra la posizione di un uomo che ha grande dimestichezza col vuoto. Si direbbe che costui non faccia altro da una vita: saltare dai grattacieli.
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Ma è una coincidenza anche questa. Le immagini mentono. La frazione di secondo con cui Richard Drew ha riempito il rettangolo della foto non è la verità. Un attimo dopo avrebbe colto l’uomo nella stessa posa scomposta e disperata degli altri saltatori. Nondimeno l’immagine è lì, con la sua surreale bellezza. Ovviamente, la maggioranza di coloro che videro la foto sui giornali e si indignarono non ragionò affatto sulla sua qualità estetica. La bellezza è però dotata di poteri subliminali, riesce a farsi coglierne anche da chi – a cominciare dalla massa indistinta della gente – sembra sprovvisto del senso del bello. Pur senza esserne consapevoli, molti fra coloro che inviarono lettere di protesta ai giornali si sentirono oltremodo offesi proprio dalla minimalista eleganza della foto. Non ci si era limitati a mostrare il vuoto innominabile della morte, si era arrivati al punto assai più oltraggioso di mostrarlo come qualcosa di bello. Nel romanzo di DeLillo c’è l’11 settembre e c’è un Falling Man. «Un uomo penzolava, sopra la strada, a testa in giù. Era vestito come un uomo d’affari. Aveva un gamba piegata e le braccia distese lungo i fianchi». Non è pero lo stesso saltatore della foto. L’uomo indossa un’imbracatura di sicurezza che lo tiene sospeso nel vuoto. È un uomo che finge di cadere. Questo Falling Man è un artista che dopo l’attentato si cimenta nella provocatoria performance di mimare la foto di Richard Drew. Nelle strade la gente si infuria come si è infuriata per la foto. «Il traffico era quasi bloccato adesso. C’era gente che inveiva contro lui, indignata dallo spettacolo, una burattinata della disperazione umana». L’arte contemporanea fa spesso la sua parossistica figura nei romanzi di DeLillo
L'uomo che cade
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Ci sono tanti libri che porto nel cuore,libri che hanno segnato tratti della mia vita in maniera indelebile.In alcuni libri i capitoli sembravano ripercorrere con me periodi reali della mia vita e uno è proprio questo.
Dove non esistono gli addii di Marzia Sicignano
Questo libro ha segnato la mia estate dell'anno scorso e seppure in maniera differente io e Asia(la protagonista del libro)abbiamo affrontato un dolore che anche se nel tempo sembra diventare meno doloroso non scompare mai.
Asia alla morte del padre si rifugia tra i ricordi rifiutando in un certo senso il mondo che la circonda.Rifiutando che l'unica persona che era capace di accendere il suo mondo non è più lì con lei.Non riesce più a guardare la mamma con cui non riesce a mantenere un rapporto,la sua famiglia non esiste più da quando il padre non c'è più.Incastrandosi in un mondo fatto di ansia che l'assale in ogni attimo.
Fino a che un giorno mentre sta al bancone del bar,dove lavora,viene attratta da Claudia una ragazza dall'aria misteriosa.Attraverso Claudia,Asia,riesce a capire che la sua vita deve andare avanti,che lentamente deve riappropriarsi del suo mondo,accettandosi così com'è con tutte le imperfezioni,i dubbi,le paure e lasciare andare libero il padre che sarà sempre la sua parte più importante.Asia ha un legame profondo con il padre e l'unico posto in cui sente veramente il suo ricordo è il mare.Davanti al mare si sente in pace con se stessa e riesce a sentire la presenza del padre.E lì che corre ogni volta che vuole sntire il silenzio e ha bisogno di abbracciare il padre.
Questo libro dal primo all'ultimo capitolo mi ha accompagnato in un "viaggio" dentro di me che è stato abbastanza doloroso.Sapevo che sarebbe stato un libro che mi avrebbe segnato(leggendo la trama).
Ho voluto iniziarlo l'8 luglio 2022(data della scomparsa di mio papà)e finirlo il 4 agosto 2022(giorno del compleanno di mio papà).
Un po'come Asia anche io ho rifiutato il mondo dopo la morte di mio padre e mi sono chiusa in un mondo fatto di buio e dolore.Ancora oggi non né sono uscita del tutto ma lentamente ho cercato di far ritornare la luce intorno a me.Come Asia anche io ho fatto entrare nel mio buio tante "Claudia" e ognuno di loro ha lasciato una piccola candela accesa per farmi strada in questo buio che lentamente sto cercando di combattere.E proprio come lei ho "legato" l'anima di mio papà al mare il posto dove ho i ricordi più belli della nostra famiglia.
"Questo libro è ispirato a un emozione vera."
(Questa è una delle frasi più belle e che mi ha fatto commuovere del libro).
Contest 2023 @allaricercadellanimapoetica
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tma-traduzioni · 2 years ago
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Hey there!
Il mio nome e' Giacomo e vivo all estero da diversi anni.
Volevo farvi le congratulazioni per l ottimo lavoro nel tradurre tutti gli episodi di TMA.
Sono sicuro sia stato un lavoro molto intenso e sono felice qulcuno cimentato, per permettere anche a chi non e' avvezzo alla lingua inglese di godere di questo magnifico podcast.
Nella mia esperrienza personale, ho cercato di coinvolgere alcuni ma purtroppo con scarso successo. L affrontare un podcast in inglese non e' da tutti e le vostre traduzioni, sebbene di alto livello, non possono catturare appieno l essenza del podcast che si basa sul fascino di una storia raccontata in prima persona dai suoni e personaggi che la vivono.
A questo proposito mi chiedevo se avete in programma per il futuro di ingaggiare attori (professionisti o non, Jonathan stesso non e' attore) e registrare gli episodi in italiano. Potreste contattare Rusty Quill e trovare qualche sorta di accordo, poi iniziare le registrazioni e vedere come va. Dopotutto il lavoro piu' arduo lo avete gia affrontato e ora si tratta solo di usare i testi per registrare il podcast. Il materiale e' eccellente e penso questo progetto riuscira' a darvi molte soddisfazioni (anche finanziarie ma non so esattamente come i podcast generino incassi) oltre che un po' di notorieta' (che non guasta mai), magari replicando cosa TMA e' stato per Rusty Quill e John.
Non sono qui per offrire soluzioni o fare proposte, ci tenevo soltanto a farvi i complimenti per il lavoro svolto e darvi un po di incentivo per portare avanti un progetto per ottenere il riconoscimento che meritate.
Ciao Giacomo, sono Victoria, prima di tutto grazie mille per le tue parole gentili.
Io e gli altri traduttori ci siamo dedicati a questo progetto perché tutti, in un modo o nell’altro ci siamo innamorati di The Magnus Archives. Il nostro obbiettivo era appunto permettere di seguire/seguire meglio TMA a chi è madrelingua italiano (la gran parte di noi stava cercando di convincere degli amici a seguire il podcast).
Per come l’abbiamo pensata noi, la traduzione avrebbe affiancato l’audio del podcast, anche se non è proprio comodissimo.
Apprezziamo molto l’idea che hai proposto, ma temo vada un po’ fuori dalla nostra portata. Già portare a termine la traduzione è stato impegnativo. Io personalmente non ho esperienza nel registrare podcasts, e non sarebbe facile rendere onore a The Magnus Archives con un primo progetto amatoriale. Affiancarsi a dei produttori con più esperienza sarebbe forse la strada ideale, ma per ora non abbiamo intenzione di sviluppare oltre questo progetto.
Grazie ancora per averci scritto, ci ha fatto molto piacere 💚
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multiverseofseries · 8 months ago
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The Marvels: Tutte per Una, Una per Tutte
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The Marvels, il film sequel di Captain Marvel che riprende anche la Kamala Khan di Miss Marvel e Monica Rambeau.
Tre linee che si intrecciano nella trama
Pur essendo un Captain Marvel 2, il film è in realtà un sequel che riprende anche il personaggio di Kamala Khan (Iman Vellani) di Miss Marvel e la Monica Rambeau di Teyonah Parris che abbiamo visto in WandaVision oltre la bambina conosciuta nella prima avventura cinematografica di Carol Danvers. Ed è proprio da Kamala prende le mosse il film, portando dalla sua avventura seriale lo stile leggero e "fumettoso" che ritroviamo in tutta la prima sequenza di The Marvels.
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The Marvels: una foto di Brie Larson e Iman Vellani
Un ottimo inizio deciso e di personalità che ci porta passo dopo passo a conoscere i presupposti della trama e dell'intreccio di poteri che si viene a creare tra le tre protagoniste, facendo sì che si scambino di posto muovendosi tra la Terra, lo spazio e la stazione spaziale in cui è presente anche Nick Fury. Una prima parte scoppiettante e convincente, in cui vengono gettate le basi per tutto il plot del film, dell'antagonista che le eroine dovranno affrontare e le sue motivazioni.
Tre per una, tre in una
Se il primo Captain Marvel basava molta della sua riuscita sull'intesa e le dinamiche da Buddy Movie tra Brie Larson e Samuel L. Jackson, non si comporta in modo molto diverso questo sequel, che costruisce tutta la prima parte, e il suo principale punto di forza, nell'alchimia tra le tre protagoniste e nei tempi delle loro interazioni: si conferma la Larson la affianca bene Teyonah Parris, ma colpisce soprattutto la giovane interprete Iman Vellani, che già aveva conquistato in Miss Marvel, e che si dimostra la vera anima del film.
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The Marvels: Iman Vellani in una foto del film
la natura della storia e il suo ruotare attorno a tre figure femminili distinte e messe sullo stesso piano narrativo ha portato a trovare uno stile unitario e non legato a una sola di loro, ma toglie un pizzico di personalità e originalità propria alla storia e l'approccio di The Marvels.
Più in alto, più lontano, più veloce
Dopo questo inizio promettente, purtroppo, The Marvels si ferma, gira a vuoto, si scontra contro una certa indecisione sulla strada da prendere. È una fase, penalizzata anche dal doppiaggio italiano, in cui si rischia di uscire dal film. È però soltanto una fase da cui per fortuna The Marvels emerge con un finale che ritrova smalto e sicurezza e riesce ad emozionare per come il rapporto tra le tre eroine viene portato avanti e messo in scena. E va sottolineato in positivo come il film non miri a essere più di quello che è andando dritto per la sua strada ottimizzando spunti e mezzi a propria disposizione.
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The Marvels: Teyonah Parris in azione
Anche gli effetti visivi fanno un passo in avanti rispetto al terzo Ant-Man, più precisi e a fuoco; così come appare convincente la mano della regista Nia DaCosta nelle scene action ben coreografate e con interessanti movimenti di camera. Soprattutto nel primo e terzo atto. The Marvel è un film che ha un ottimo potenziale e lo sfrutta alla grande
In conclusione the Marvels è un film con un ottimo potenziale e lo sfrutta alla grande con diversi elementi interessate che possono convincere e di sicuro intrattenere il pubblico della Marvel.
Perché ci piace
- L'intesa tra le tre protagoniste, tra le quali spicca la giovane Kamala Khan di Iman Vellani.
- Il tono generale, che dà però il suo meglio quando strizza l'occhio a quello di Kamala e la sua serie Miss Marvel.
- Passi avanti sul fronte degli effetti visivi.
- La semplicità nell'approccio...
Cosa non va
- ... ma risulta in parte frettoloso e superficiale in alcuni passaggi.
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micro961 · 8 months ago
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Dj Faxbeat “Secondo me”
Un testo riflessivo sorretto da ritmi incalzanti e melodie ipnotiche per il nuovo singolo del cantautore di Asti
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«Abbiamo tutti una nostra personale idea sulle cose ma spesso non focalizziamo le energie su noi stessi, tendendo a pensare con la testa altrui. Ho voluto fermare il momento in cui usiamo le parole “secondo me” su poche frasi e verità che abbiamo dentro di noi e probabilmente non ascoltiamo per paura di metterci in discussione.» Dj Faxbeat
“Secondo me” è il singolo d’esordio di Dj Faxbeat, al secolo Fabrizio Russo. Una linea vocale ipnotica, a metà strada tra il rap e il cantato tradizionale, che si sviluppa su una base musicale ricca di ritmi incalzanti. Il cantautore e producer di Asti porta avanti il suo percorso artistico decennale confezionando un brano orecchiabile con un testo mai banale.
Fabrizio Russo, nome d’arte Dj Faxbeat, è un produttore musicale, rapper e cantautore di Asti. Il suo suono è molto distintivo ed immediatamente riconoscibile ed incorpora elementi di musica elettronica, R&B, Funk, Afro.
Nel 2001 fa da dj in alcune date degli allora DDP (oggi produttori del rapper Emis Killa) e produce assieme al gruppo il primo singolo, "Selvaggi" uscito per l'etichetta Blocco Recordz, che vede l'allora poco conosciuto Ale Cattelan in una parte del video.
Nel 2005 crea la One Night “The Flow! Hip-Hop r’n’b night” ed anima le serate dei club della sua città suonando insieme anche ad ospiti come BigFish, Esa e molti altri.
Nel 2009 incide "Origine di Futuro”, un album di 17 brani che vede la partecipazione di alcuni artisti emergenti della sua città natale.
Nel 2012 incide il singolo "Per Ora" con Tormento.
Nel 2013 apre i live dei Club Dogo, J-Ax e General Levy.
Dal 2014 ad oggi inventa un nuovo genere musicale, l'E.S.M, acronimo di Electronic Scratch Music, genere in cui suona il giradischi come strumento musicale.
Nel 2015 vince l'award come Best DJ 2015 dalla WSSA.
Forma assieme a Davide Calabrese e Beppe Di Filippo il gruppo UNTZ di cui ne è tuttora dj e scratcher performer.
Nel 2016 esce “Body”, l'album sperimentale di scratch e strumentali totalmente prodotto e suonato da Dj Faxbeat (con alcune collaborazioni) in cui utilizza il giradischi come voce sui beat.
Suona nei club fino al 2019 quando si ferma in studio per una personale ricerca musicale fino al 2024. L’8 marzo 2024 decide quindi di uscire con il suo singolo “Secondo Me”, sotto il nome di Dj Faxbeat.
Radio date: 8 marzo 2024
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pettirosso1959 · 1 year ago
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FREEZE CORLEONE,
IL PROTOTIPO DEL NUOVO RAGAZZO EUROPEO: GENITORI DIVORZIATI CHE NON SI PARLANO, MULTIETNICO, MULTICULTURALE E CANTANTE TRAP.
Mentre in Italia si discute della pesca di Esselunga e se non sia un desiderio legittimo vedere i propri genitori tornare insieme c'è chi sta AVANTI e per trovarlo basta valicare le alpi
Ma per conoscerlo dobbiamo fare un bel passo INDIETRO, diciamo ai primissimi anni 90.
Siamo in Sicilia, esattamente a Palermo e la protagonista di questa storia è una ventenne centrosocialara. Erano i primi tempi della globalizzazione e tra le altre cose un po' tutti conoscono nuovi costumi e nuove culture che a sinistra vengono assunte come salvifiche e come necessarie per cambiare la società italiana in meglio: "immigrati non lasciateci soli con gli italiani" insomma, quella roba lì.
La ragazza palermitana, coerentemente col suo pensiero, ospita a casa un immigrato del Senegal con cui ovviamente fa subito un figlio che nei suoi pensieri è femminista, meticcio, di sinistra e laico.
Diciamo che non va proprio così ma questo lo vedremo dopo.
Quello che lei vede subito è il suo amato scappare dalla camera da letto per tornare nel suo paese, dove lo aspettano le sue otto mogli. D altronde è quella la sua cultura e forse la ventenne siciliana non lo sapeva cosi trovandosi da sola emigra a Parigi dove nasce il piccolo Lorenzo con la promessa che un giorno il padre sarebbe tornato mettendogli quindi il suo cognome, Dhakate.
Il padre effettivamente torna ma 11 anni dopo. Nella versione senegalese dell' islam la madre deve crescere il bambino fino a quando non c è il primo segno di pubertà. Arrivato quel momento la responsabilità dell' educazione è del padre che lo prenderà sotto la sua ala protettrice e gli insegnerà la parola del Profeta.
Lorenzo viene iscritto in un college in Canada, dove vive il ramo maschile della sua famiglia, ma sembra poco interessato allo studio dato che inizia subito la carriera che più gli interessa: lo spacciatore, in particolare di Lean ( una droga sintetica sciroppata a metà strada tra popper e cocaina inventata dai chimici inglesi per Churchill di cui era ghiotto).
A 20 anni però l'imprevisto: gli salta il carico della vita perché arrivano centinaia di litri di prodotto falso dall' Alaska.
Dopo la crepa presa non si perde d animo e si trasferisce in Francia, dato che è cittadino transalpino grazie allo ius soli, e li inizia a fare musica trap in versione "Cloud drill" , la nuova tendenza molto più ambiente filosofica proveniente da Londra. Diventa subito discretamente famoso grazie alla sua crew, i 667 ( "un numero in più di SoroSSatana con cui non scendiamo a patti") nel suo sobborgo, LES Liles, dove approfondisce la sua cultura politica e religiosa e diviene simpatizzante dell' ideologia nazionalsocialista e praticante dell' islam radicale, la versione wahabita.
E li diventa FREEZE CORLEONE, il nuovo astro nascente della trap francese e tutti scommettono sul suo futuro.
Ed a ragione perché il suo momento col destino lo vive l'undici settembre, data scelta diciamo non a caso, nel 2020, all uscita del suo primo disco, "La Menache fantome" con etichetta la major Universal.
" Determinato ed ambizioso come un giovane Adolf negli anni 30"
" La musica dei bianchi fa schifo ma noi ne@ri arriviamo sui carrarmati tedeschi e conquistiamo Parigi"
" Fratello Bin L. guidaci a New York in modalità avion"
" Vado in campo e smarco gli ebrei sulla Maserati come fa Marco Verratti"
" Israele come Babilonia, nel nome del Profeta"
Le sue canzoni diventano subito inni nelle banlieue, in particolare la sua dove detta legge ( qui vigono solo tre valori: l'Islam, il verbo di Adolf. H. e la Lean dichiarerà nella sua prima Intervista), la Universal si rende conto di aver fatto un autogol e rescinde il contratto per giusta causa. "Ma ormai è tardi" direbbe qualcuno.
Difatti Lorenzo sta già a due dischi di platino dopo solo un mese e questo fa arrabbiare non poco il ministro degli interni, il falco macroniano Gerardo Dermanin.
Quest' ultimo quindi posta su Twitter una canzone di Corleone affermando che "questa immondizia antisemita non ha diritto di cittadinanza in Francia" ricevendo svariate critiche dai giovani di seconda generazione che gli fanno presente che se Charlie Hebdo può fare certe vignette allora anche Corleone può cantare le sue canzoni in cui inneggia ai campi di concentramento, all invasione tedesca dell' Europa e all undici settembre.
Non fa una piega se non fosse che proprio Lorenzo risponde al twit affermando "che se ne frega tutti i giorni della Shoah".
Così scatta immediatamente il mandato di arresto per lui che però riesce a fuggire in Senegal dove compra proprio un carrarmato con cui giura di invadere la Francia dove torna dopo otto mesi, decaduta la pratica di arresto, e realizza insieme al suo amico Julienne Schwarzer il singolo più venduto e famoso della storia della Trap francese "Mannschaft".
Arriva a 5 dischi di platino nel frattempo e con la sua crew detta legge nei locali di mezza Europa vestiti con le tute del Psg e del City( le squadre più forti in Europa a proprietà ovviamente araba wahabita) anche se Lorenzo in particolare esibisce sempre quella della Roma di cui è tifoso, in primis nella sua foto più famosa dove usa 1kg di hashish come guancialino a destra e a sinistra.
Chissà che ne pensa la madre che voleva un bimbo aperto, di sinistra e multiculturale e si ritrova come figlio il trapper più famoso in Francia di simpatie nazionalsocialiste, islamista, misogino e maschilista.
Una pesca dell' Esselunga sciroppata alla Lean per tutti, barista.
[Dario Berardi]
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carmenvicinanza · 10 months ago
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Maria Tallchief
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Maria Tallchief è stata una delle più importanti ballerine del ventesimo secolo e la prima danzatrice nativa americana della storia.
Osannata per la sua velocità, energia e passione unite a una grande abilità tecnica, è stata nominata donna dell’anno dal presidente degli Stati Uniti Eisenhower nel 1953, inserita nella National Women’s Hall of Fame, ha ricevuto la National Medal of Arts e il Kennedy Center Honor alla carriera.
È stata la prima ballerina americana a esibirsi all’Opéra di Parigi e al Bolshoi di Mosca.
Nacque il 24 gennaio 1925 a Fairfax, in Oklaoma. Il padre, Alexander Joseph Tall Chief era un ricco discendente della tribù Osage mentre sua madre, Ruth Porter, aveva origini scozzesi e irlandesi.
Trascorse i primi anni della sua vita in una casa in collina che affacciava sulla riserva indiana.
L’amore per la musica e la danza venne coltivato sin da quando era una bambina. Quando la famiglia si trasferì a Los Angeles, per consentire alle figlie di studiare, venne iscritta alla scuola di danza della coreografa russa Bronislava Nijinska. Era ancora un’adolescente quando si convinse che quella era la strada che voleva intraprendere, abbandonando gli studi di pianoforte, iniziati da piccola.
A 17 anni, con l’insegnante e amica di famiglia Tatiana Riabouchinska, si trasferì a New York, dove entrò nella compagnia Ballet Russe de Monte Carlo.
In un’epoca in cui danzatori e danzatrici statunitensi adottavano nomi di scena russi, lei portava avanti con orgoglio il suo patrimonio indiano. Ha sempre rivendicato il suo lignaggio opponendosi a stereotipi e discriminazioni nei riguardi delle persone native.
Lo stato dell’Oklaoma l’ha celebrata più volte e il 29 giugno 1953 le aveva dedicato una giornata, il Maria Tallchief Day.
Nel 1944 ha cominciato a danzare dal coreografo George Balanchine, suo futuro marito, con cui ebbe inizio una fortunata collaborazione artistica durata anche dopo la loro separazione.
Quando lui, nel 1947, distaccatosi dal Ballet Russe de Monte Carlo, aveva creato la sua compagnia, il New York City Ballet, Maria Tallchief ne divenne la star incontrastata.
L’unione tra le difficili coreografie del compagno e il suo appassionato modo di danzare rivoluzionarono il balletto. Era perfetta per i ruoli che richiedevano atletismo, velocità, aggressività. La sua elettrizzante interpretazione in L’uccello di fuoco nel 1949, la rese una vera star. 
La sua Fata Confetto nello Schiaccianoci ha contribuito a trasformare il balletto in un classico annuale di Natale. 
Ha collaborato con Balanchine fino al 1965 mentre faceva tour mondiali con altre compagnie come il Balletto dell’Opera di Chicago, il San Francisco Ballet, il Balletto Reale Danese, il Balletto di Amburgo e l’American Ballet Theatre. Ha rappresentato Anna Pavlova nel film Million Dollar Mermaid con Esther Williams. 
Nel 1962, durante il suo debutto sulla televisione americana al Bell Telephone Hour, è nata la collaborazione con Rudolf Nureyev. Insieme hanno ballato il pas de deux da Infiorata a Genzano di August Bournonville.
Dopo il ritiro dalla danza, nel 1966, si era trasferita a Chicago dove ha diretto la Lyric Opera fino al 1979.
Nel 1981, ha fondato, con la sorella Marjorie, il Chicago Lyric Opera Ballet, di cui è stata direttrice artistica fino al 1987.
Dal 1990 è stata consulente artistica onoraria del Chicago Festival Ballet di Ken Von Heideke.
È morta a Chicago a causa delle complicanze di una rottura al bacino, l’11 aprile 2013, aveva 88 anni.
La sua vita ha ispirato diversi documentari e biografie. 
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venetianeli · 2 years ago
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Pitosto che perdar na tradision, ze' meio brusar un paese,, questo sentivo dire a casa mi quando ero piccino.
Stasera son nda " a BATTAR MARZO.
Iera anca un fià fresco, ma ne è valuta la pena; ne vale sempre la pena portar avanti le tradizioni dei nostri veci, dei nostri genitori.
Un popolo che non mantiene vive le proprie tradizioni, le proprie storie, le proprie radici,,, è destinato a scomparire...
Ringraziando chi mi ha aperto la porta di casa, per condividere un paio di chiacchere, e assaporare assieme un goccio.
Grazie a tutti.
BATI MARSO
“Bati, bati Marso,
che’l mato va descalso
cavàeo no morire
che l’erba butarà.”
Un tempo i rustici che vivevano tra le vie centuriate, erano convinti che il “Sapere” fosse stato tramandato ai loro antenati direttamente dagli dei e quindi ogni passo in avanti, per un villico, era la perdita di un frammento dell’antica “Conoscenza”. Per tale ragione nell’Ottocento i contadini compivano le stesse azioni dei loro avi congelando il mondo rurale per millenni. Tuttavia anche se il secolo appena trascorso ha visto eclissarsi molte delle nostre antiche tradizioni, a cavallo tra il mese di febbraio e quello di marzo si può sentite il familiare “bacan del batti marso”. Una remota pratica che consisteva nel gironzolare per le strade battendo su pentole, barattoli, bidoni e qualsiasi altro strumento casalingo inventato per l’occasione.
Lo scopo era di far scappar via l’inverno e risvegliare gli spiriti della terra, propiziare e incoraggiare la rinascita della natura; un auspicio per l’arrivo della PRIMAVERA!
CAO DE L’ANO E BATI MARSO:
CAPODANNO VENETO:
I festeggiamenti per il primo giorno dell’anno (cao de l’ano) erano una festività riconosciuta dalla Serenissima Repubblica di Venezia. Secondo la tradizione nei giorni che precedono o seguono il primo marzo, la gente usciva nelle strade con pentole, coperchi e altri strumenti musicali fatti in casa battendoli e facendo una gran confusione. Questo era il modo per scacciare il freddo dell’inverno e propiziare l’arrivo della bella stagione: da qui il nome di Bati Marso.
In alcuni casi questa usanza si è tramandata nei secoli ed è arrivata fino ai giorni nostri. In alcune parti del Veneto si usa ancora pronunciare questa filastrocca
Vegnì fora zente, vegnì
vegnì in strada a far casoto,
a bàtare Marso co coerci, tece e pignate!
A la Natura dovemo farghe corajo, sigando e cantando,
par svejar fora i spiriti de la tera!
Vegnì fora tuti bei e bruti.
Bati, bati Marso che ‘l mato va descalso,
femo casoto fin che riva sera
e ciamemo co forsa ea Primavera.
Vegnì fora zente, vegnì fora!. . . .
Fino al 1797, anno dell’invasione napoleonica, il Capodanno in Veneto si festeggiava il 1° marzo, in linea con una tradizione molto più antica del calendario gregoriano, ovvero quella romana, più vicina al ciclo lunare e con dieci mesi anziché dodici.
Il termine ‘more veneto’ (=secondo l’uso veneto, a modo veneto), che veniva abbreviato in m.v. accanto alla data utilizzata nei documenti e nelle annotazioni, indicava proprio il diverso uso secondo lo stile più diffuso dell’epoca, che era, appunto, l’attuale gregoriano, introdotto nel VI secolo da papa Gregorio Magno.
L’usanza di origini molto antiche, secondo tale sistema faceva coincidere i mesi di settembre, ottobre, novembre e dicembre effettivamente con il settimo, l’ottavo, il nono e il decimo mese dell’anno, come indicato dal nome.
L’uso di collocare l’inizio dell’anno in corrispondenza con l’inizio della bella stagione, del risveglio naturale della vita in primavera, era una pratica arcaica alquanto diffusa, che possiamo tuttora trovare anche nel calendario cinese.
Testimonianze odierne dell’antica tradizione del capodanno veneto si hanno ancora in alcune zone della pedemontana berica, dell’altopiano di Asiago e in varie feste locali del Trevigiano, del Padovano e del Bassanese, dove è celebrata come l’usanza del Bruza Marzo, del Bati Marzo o del ciamàr Marzo, simboleggiante il risveglio della nuova stagione.
BATI MARSO
"A l'epoca de ła Serenìsima Republica, el Cao de ano, invesse che al 1° de genaro come previsto dal całendario giulian e dopo da queło gregorian, el cascava el 1° de marso. Sta tradission par che ła vegna da l'antico całendario che doparava i Romani prima de Giulio Cesare, che el faxéa scominsiar l'ano dal méxe de marso (e difati in sta maniera i mesi de setenbre, otobre, novenbre e diçenbre i vien a èsar efetivamente i méxi numaro sete, oto, nove e diexe come dixe el nome). Par no far confuxion, i Veneti de na òlta in parte a ła data i ghe scrivéa more veneto, cioè leteralmente "a ła maniera Veneta". Donca, ła data, metemo, del "14 febraro 1703" a Venessia ła deventava "14 febraro 1702 more veneto", parché el febraro l'era efetivamente l'ultimo méxe de l'ano vecio, e el 1703 el scominsiava soło in marso".
Ła festa del Bati Marso ła se svolgéa apunto in tei ultimi jorni de l'ano, e ła prevedéa de 'ndar in giro par łe strade batendo su cuèrciołi, pignate e altri strumenti muxicałi "fati in caxa" faxendo un gran bordèło, con l'intento de far scampar via l'inverno e el fredo e propiziarse l'arivo de ła beła stajon, par poder scuminsiar i laori 'gricołi."
L. Tosatto
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agenteciambella · 1 year ago
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Dolce Morte [Kenny McCormick x reader]
Capitolo 1 - Dolce Sguardo
La neve smise di cadere e il sole si fece spazio in cielo allontanando le nuvole e dando inizio a una nuova giornata di pieno inverno. Arrivai finalmente alla fermata dell'autobus accompagnata dal mio vicino di casa Craig, lo seguivo come per gioco, passando con i piedi sopra le sue impronte segnate sulla neve nel mentre camminava: – C-Craig! – la voce di Tweek interruppe il rigoroso silenzio e attirò l'attenzione di Craig che si avvicinò e gli lasciò un bacio sulla guancia come saluto, – T-temevo non arrivassi più! Aaghh..!– spostai lo sguardo dai due per non disturbarli troppo e aspettai con calma l'arrivo del bus.
Osservai la strada ghiacciata dove ogni tanto passava qualche macchina, mentre durante l'attesa si alzò un lieve venticello che mi raffreddò le guance e le mani, nonostante fossi ben coperta, non vedevo l'ora di riscaldarmi salendo sull'autobus. Al suo arrivo finalmente mi sistemai nei sedili centrali accanto a Bebe come a mio solito e infilai le mani nelle tasche per riscaldarle meglio: – Buongiorno, non hai ancora comprato dei nuovi guanti? –la salutai con un sorriso e scossi la testa – Pensavo che non ce ne fosse bisogno ma purtroppo mi sbagliavo –mi lasciai sfuggire una risata e allungai lo sguardo verso la porta: eravamo giunte alla fermata di Heidi e Wendy. Le due ragazze salirono ma solo una si sedette con noi, l'altra ci salutò e passò oltre raggiungendo Stan agli ultimi posti: – Ieri sera Wendy mi ha detto che sono tornati assieme – sussurrò Heidi sghignazzando divertita, – Stan l'ha raggiunta sotto casa con un mazzo di fiori solo per scusarsi – aggiunse coprendosi un po' la bocca per non farsi sentire troppo dagli altri; tutte e tre ci girammo verso i due cercando di non farci notare troppo, stavano parlando tranquillamente mano nella mano con accanto Kyle che se ne stava appoggiato con la testa al finestrino mezzo addormentato. Penso siano una coppia davvero carina ma dovrebbero comunicare di più, sono due teste calde che si scontrano di continuo, spero davvero che riescano a trovare una loro armonia.
Arrivammo al capolinea e scendemmo tutti dal bus per avviarci verso la scuola, il vento si era fatto più forte e riuscivo a sentire come se il freddo si stesse infilando tra i miei vestiti, mi fermai per sistemarmi meglio la sciarpa per coprirmi anche il naso ma venni improvvisamente spinta avanti e caddi a terra con le mani sulla neve gelida. Voltai subito la testa per vedere chi fosse stato il colpevole e notai Kenny allontanarsi e iniziare a mettere le mani addosso a Cartman urlando cercando di fermare le risate dell'altro.
Mi alzai con fatica spolverandomi via la neve da dosso e raggiunsi le mie amiche, arrivate davanti all'entrata decisi di voltarmi ancora una volta per dare un'ulteriore occhiata non sentendo più litigare: gli occhi di Kenny si spostarono subito non appena incrociarono i miei e lui si voltò con essi. Da quanto tempo mi stava fissando? Forse voleva scusarsi per avermi fatto cadere, sembrerebbe un tipo timido all'apparenza ma fa sempre un sacco di casino, non è possibile che non abbia preso iniziativa... forse semplicemente non gli interessava ma non ciò non spiegherebbe il motivo di quello sguardo. Mi strinsi le mani tra di loro e ricominciai a camminare verso il mio armadietto per recuperare i libri per la lezione di oggi e mi diressi dopodiché in classe.
Le prime ore di lezione passarono abbastanza in fretta ma non riuscii a concentrarmi del tutto: nel mentre che mi giravo a sistemare le cose nella borsa, notavo con la coda dell'occhio lo sguardo di Kenny rivolto verso di me dal banco in fondo alla classe. Durante la ricreazione feci finta non fosse successo nulla per tutto il tempo e rimasi ad ascoltare i vari pettegolezzi delle mie amiche.
Questa strana situazione mi confondeva le idee e mi faceva battere il cuore allo stesso tempo, ero ansiosa di sapere se si sarebbe limitato a guardarmi o cos'altro volesse da me. Lo vidi da lontano restate tranquillo e in silenzio ad ascoltare il suo gruppo: restai ad osservarlo da lontano continuando a pormi domande. Nel mezzo dei miei pensieri mi riportò sulla terra uno schiocco di dita di Heidi davanti ai miei occhi: – Ehi, che dici? Saresti d'accordo? – non avevo minimamente seguito il discorso ma annuii intuendo si trattasse si una solita discussione incentrata sul decidere se andare al centro commerciale o a qualche evento al quale partecipare questo fine settimana – Ottimo, siamo tutte quante d'accordo, possiamo vederci alle quattro al solito posto e fare poi un giro – Wendy concluse il discorso confermando così le mie ipotesi e tornammo tutte in classe per attendere le ultime lezioni per poi tornare a casa e prepararci per l'uscita. Poggiai la tracolla sul letto e mi tolsi le scarpe, mi spogliai e mi preparai per andare a fare una doccia in modo da rilassarmi per la strana mattinata.
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blogcortomaltese · 2 years ago
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Roberto Godofredo Christophersen Arlt, per tutti Roberto Artl, giornalista e scrittore argentino
Ecco poche righe da uno dei suoi abissi narrativi, il racconto Le Belve.
E poi il tango, il tango e magari un liquore sorseggiato in una fetida milonga di Buenos Aires a fine anni 30
“La musica esalta la noia. Un vecchio tango ci ricorda momenti del carcere, un altro la notte con una donna ritrovata, un altro ancora un istante terribile degli anni più duri. Se il tango diventa aspro, uno spasimo ci contorce l'anima. Ricordiamo allora il piacere rosso e terribile di pestare il viso di una donna, o il piacere di ballare allacciati a una femmina schiva in una milonga assassina, o i primi soldi ricevuti da una donna che ci iniziò alla vita, un biglietto da dieci pesos tirato fuori dalla giarrettiera e che noi abbiamo preso con trepido piacere perché l'aveva guadagnato andando con altri. Pianto di fisarmoniche che ti scompigliano in dolci ricordi, prime emozioni agrodolci della vita da mantenuto: la donna che va per la strada con un uomo; la donna che ride al tavolo in compagnia di tre uomini, sensazione di sfacciataggine e violenza; la donna che di notte fa avanti e indietro tra il caffè e la stanza, al braccio di clienti che passano davanti ai nostri occhi, emozione che riempie l'attesa di alcune parole sussurrate di nascosto: "Aspetta un momento, caro, che mi libero subito". Il tango adorna la nostra anima con il ricordo di primitive allegrie: la donna di tutti che si pavoneggia in compagnia di chi riceve in regalo il suo danaro, la gente che ci guarda passare, gli sprovveduti che si meravigliano per le conversazioni sconce, i festini in casa delle amiche, le presentazioni d'obbligo: "Le presento mio marito". Pomeriggi di pioggia perduti tra lunghi giri di mate, la ragazza del grammofono in un angolo, il vassoio dei dolci abbandonato tra i vasetti di brillantina. Se la donna batte la strada, il regolamentare saluto alle quattro, l' "arrivederci caro", "stai attenta agli sbirri, pupa", e lei, al momento di andarsene, ha sempre un gesto strano, quasi doloroso per l'inizio del lavoro; allora, con uno sforzo di volontà, nasconde il viso sotto una maschera di impassibilità trasformandosi di colpo in un'altra, per poi confondersi tra i passanti con il passo lento della meretrice. E improvvisamente chi rimane si chiede preoccupato: "E se la mettono dentro?" o "Non sarà questa l'ultima volta che la vedo?" Per questo, quando nel silenzio che manteniamo seduti al tavolo del caffè, squilla il telefono, un sussulto ci scuote la testa, e se non è per noi, sotto le luci bianche, vermiglie o azzurre, Unghia d'Oro sbadiglia e Guglielmino il Ladro borbotta qualche ingiuria, e un'oscurità che non hanno neanche le strade più buie nelle loro profondità fangose, penetra nei nostri occhi, mentre al di là dello spessore del vetro che dà sulla strada passano donne oneste al braccio di uomini onesti.”
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jacopocioni · 1 month ago
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Dante e il suo fantastico viaggio 9: Dante e i personaggi dell’Purgatorio
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Prima parte Seconda parte Terza parte Quarta parte Quinta Parte Sesta Parte Settima Parte Ottava Parte Prosegue il viaggio del nostro amato poeta nel Purgatorio in compagnia di Virgilio.
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Due anime camminano insieme per il Purgatorio quando scorgono Dante, non sanno chi è, ma capiscono che si tratta una persona ancora viva rimanendo stupefatti di questa insolita presenza. Dante non dice loro chi sia, ma gli racconta che arriva dalla Toscana, dove c'è un fiume che nasce dal monte Falterona. Ovviamente si riferisce all’Arno, così le anime capiscono e cominciano a lanciare invettive nei confronti di quei luoghi bagnati dal fiume e divenuti maledetti e sciagurati. I loro abitanti sono oramai diventati delle bestie che sembrano vittime degli incantesimi orditi dalla maga Circe.
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Quelli di Arezzo sono descritti come gente fastidiosa, patetica rozza e arrogante, tanto che il fiume con la sua ampia curva sembra volere evitare la città. Il fiume poi si  avvicina a Firenze, dove i cani diventano lupi sempre più affamati e avidi. Più avanti c’è Pisa, qui si incontra la malizia, l’ astuzia e la frode, degne compagne delle volpi pisane… Una delle due anime parla poi di un suo nipote, quello che diventerà il cacciatore di quei lupi prima nominati. Li porterà alla disperazione con la sua violenza facendone le sue vittime sacrificali ed uccidendole come bestie da macello. Lordo di sangue lascerà poi una Firenze devastata, che a detta loro non sarà in grado di risollevarsi neanche dopo mille anni, tanto è precipitata in basso.
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Dante è molto incuriosito dalle due anime e cerca di capire chi siano. Una di loro è l’anima di Guido del Duca. Lui stesso si descrive come un uomo pieno di invidia e di livore; per questo è qui in Purgatorio a scontare le sue colpe. Era morto da circa 50 anni, in vita era stato un gentiluomo romagnolo, signore di Bertinoro, una località nei pressi di Forlì. Il suo compagno era invece Ranieri de’ Calboli, un grande uomo politico romagnolo. Quando le anime parlano del “cacciatore di lupi fiorentini”, si riferiscono a Fulcieri de (o da) Calboli, nipote di Ranieri che dopo il ritorno dei Guelfi Neri al potere nel 1303, sarebbe diventato podestà di Firenze,  Era un uomo crudele, particolarmente efferato, che avrebbe fatto uccidere molti fiorentini per impossessarsi dei loro beni. Le due anime si rivelano amareggiate, consapevoli  di quanto gli ideali degli uomini delle loro terre si siano sviliti. Così, mortificate, dopo il loro sfogo e ancora oppresse da questi pensieri, pregano Virgilio e Dante di allontanarsi e permettergli di lasciarli andare con il loro dolore per la loro strada. Fulcieri fu un esponente della parte Guelfa, avversario agli Ordelaffi Ghibellini. Ricoprì cariche politiche di rilievo, come quella di podestà in diverse città tra cui Milano, Modena, Firenze e Bologna. Come podestà di Firenze nel 1303, dovette respingere il tentativo di un gruppo di esiliati Guelfi alleati con dei Ghibellini di riprendere la città. Tra loro c’era anche Dante, sotto la guida di un altro forlivese, un suo vecchio avversario:  Scarpetta degli Ordelaffi. Si tratta della battaglia di Castel Pulicciano.
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Pulicciano si trova su un colle a pochi chilometri da Borgo San Lorenzo lungo la via Faentina verso la Romagna. In epoca romana ospitava un castrum fortificato, del quale restano alcuni resti delle mura presso il cimitero e una cisterna sitiata sotto il sagrato della chiesa. Nel Medioevo la Contessa Matilde di Canossa fece erigere un castello, più tardi passato agli Ubaldini, teatro di una feroce battaglia avvenuta il 12 marzo del 1303. Un’iscrizione sull’esterno della chiesa di Santa Maria cita: “Questa rocca avvezza per più secoli ad assedi e battaglie, oggi nel seicentenario della morte di Dante fra i resti delle mura, accoglie il ricordo dell’assalto e della fuga di Scarpetta degli Ordelaffi con i fuoriusciti fiorentini e dell’aspra vendetta di Fulcieri de’Calboli nel marzo del 1303. Lieta dello scampo di Dante ed ora per auguri di pace guardò gli abitanti del suo Pulicciano e di Ronta 1321-1921”.
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La vicenda venne narrata dai cronisti del tempo che riportano come Scarpetta degli Ordelaffi dal castello di Montaccianico si dirigesse verso Pulicciano alla testa di un esercito composto da Guelfi Bianchi esiliati e da Ghibellini, tra cui gli Ubaldini che volevano riprendere il loro castello caduto in mani fiorentine nel 1260. L’Ordelaffi, signore di Forlì Ghibellino unitosi in matrimonio con Chiara Ubaldini da Susinana, aveva accolto e protetto Dante nei primi anni dell’esilio facendolo suo segretario personale. Nella battaglia le truppe fiorentine erano guidate dal podestà Fulcieri da Calboli, esperto uomo d’arme forlivese e storico nemico degli Ordelaffi. Dino Compagni descrive i due antagonisti nelle sue cronache: Scarpetta dal carattere temperato  in contrapposizione a Fulcieri, descritto invece come violento e feroce. Ovviamente i giudizi sono influenzati dalla polemica politica del tempo. Evidentemente Fulcieri doveva essere in gamba visto che i fiorentini contravvennero alla regola di cambiare il proprio podestà ogni semestre rieleggendolo per un secondo mandato consecutivo.
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La battaglia si concluse con una schiacciante vittoria fiorentina. Fulcieri sconfisse i nemici che avevano preso d’assedio il castello; poi inseguì e catturò circa 500 fuggitivi e dopo averli torturati li condannò a morte. Scarpetta e gli altri riuscirono invece  a rifugiarsi a Montaccianico. La vittoria di Fulcieri ebbe una grande risonanza politica, tanto da essere celebrata in un affresco commissionato dal Comune di Firenze ed eseguito a Palazzo Vecchio da Grifo di Tancredi, pittore esponente dei protogiotteschi fiorentini. Dante che aveva già avuto esperienze in battaglia, sia a Caprona che a Campaldino, molto probabilmente prese parte anche a questo scontro, almeno così sembrerebbe da alcuni riferimenti che traspaiono in un dialogo riportato nelle pagine del Purgatorio. La battaglia di Castel Pulicciano del 1302 si tenne dopo il fallimentare incontro di San Godenzo e si svolse tra Borgo San Lorenzo e Luco, questo fu il secondo tentativo dei fuoriusciti esiliati di rientrare a Firenze.
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L’8 giugno del 1302 all’abbazia di San Godenzo dove era presente anche Dante, si tenne un incontro  tra esuli fiorentini Ghibellini e Guelfi Bianchi che poteva cambiare le sorti della storia. L’obiettivo era di trovare un accordo con gli Ubaldini per poter rientrare a Firenze, in quel tempo dominata dai Guelfi Neri. L’incontro non ebbe successo e portò in seguito ad uno scontro tra Bianchi e Neri, in cui i primi vennero sconfitti. Fu in questa occasione che Dante maturò la decisione di staccarsi dai compagni fiorentini, ritenuti “compagnia malvagia e scempia”. Un anno dopo questo scontro nel 1303, Scarpetta degli Ordelaffi  entrò in possesso di Borgo San Lorenzo, legato a Firenze. Seguì a questo fatto la battaglia della Lastra, un sanguinoso scontro avvenuto il 20 luglio del 1304 nelle vicinanze di Firenze, quando i Guelfi Bianchi furono sconfitti dai Neri nel tentativo di rientrare a Firenze. In seguito il castello di Montaccianico divenne, con le città di Pistoia e Bologna, un baluardo della lotta contro i Neri fiorentini e i loro alleati. Lo scontro si prolungò fino al 1306 quando con il voltafaccia di Bologna e la caduta di Pistoia, il Comune di Firenze e gli alleati tentarono un’azione risolutiva nei confronti degli Ubaldini e della loro roccaforte. Dopo quattro mesi di assedio i fiorentini ottennero la resa di Montaccianico pagandola però a caro prezzo. Ottennero due parti del castello con un esborso di 15.600 fiorini d’oro. Questo presidio cittadino avrà il compito di sostituire gli Ubaldini nel controllo diretto della popolazione.
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Riccardo Massaro Read the full article
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mascheradaguerra · 2 months ago
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La frustrazione mi porta a questo. No, non sono soddisfatta della mia vita Non sono tranquilla. Mi manca l'amore? Mi manca l'autostima? Mi manca la disciplina? Mi manca l'autocontrollo? Mi manca la determinazione? Ogni tanto si. Vorrei riuscire a fare in modo che certe cose non si prendano il controllo, vorrei riuscire a farmi scivolare l'egoismo e la cattiveria dell'essere umano No,non mi entusiasma nessuno, non sento quell'energia, quella voglia di condividere, vivere, essere. Mi sto isolando, penso solo al mio, però pensando e senza agire mi riporto dal passato pensieri che mi dilaniano, mi uccidono Voglio riuscire a non farmi pesare tutto questo. Vorrei riuscire a trovare soluzioni a questi problemi Quanto pesa non avere avuto una figura maschile che avesse stima di me Quanto pesa una figura maschile che ti odia, ti minaccia, che è indifferente verso i tuoi traguardi, del tuo benessere, del tuo amore, della tua speranza, del tuo amore. C ha sputato sopra dall'inizio, ha dato per scontato, ha sporcato, ha schiacciato, indebolito e soppratutto svuotato manipolando tutti quanti. Non riesco a perdonarlo, forse se fosse così starei meglio, ma non riesco a comprenderlo, posso immaginarmi scuse come l'ignoranza, la follia umana ma non riesco a non pensare che tutto questo sia ricaduto su di me Forse mi ha fatto diventare la donna forte che sono ma è così difficile esserlo quando mi trasformo in persona fragile appena mi viene toccato il mio orgoglio, quanto mi viene tolto quell'amore che dovrebbe essere naturalmente dato. Sempre a criticare la vita, sempre a lamentarsi, sempre a sminuire gli altri, sempre a non fare introspezione, niente empatia Mi viene la nausea, l'ansia, il dolore, il cuore spezzato. So che tutto questo serve, aiuta, sviluppa, fa accrescere. Ma basta Ho il cazzo di tempo che mi corre dietro, il tempo che invecchia, il tempo che manda avanti la vita, gli anni, il tempo cazzo il fottuto tempo mi fa impazzire, l averlo perso, il non poterlo recuperare Tutta sta cattiveria dal mondo perchè me la sono meritata? Perchè non ho compreso l amore quando l ho ricevuto? Perchè non ho portato rispetto alle parole e alle persone? Perchè non ho avuto sicurezza in me stessa? Perchè mi sono fatta sottomettere, sminuire dagli altri? Perchè sono stata così stupida a dare il controllo agli altri al posto di controllare me stessa? Perchè non vivo sta cazzo di vita piuttosto che stare li a non fidarmi di nessuno, a diffidare, a criticare. Sono stanca di questa grotta di giudizi che mi sono creata, sono stanca di non farmi scivolare addosso la vita e vivermela. Ma ho l'ansia di quel tempo che passa e l energia manca. Trovo scuse, è più facile raccontarsela che fare davvero qualcosa per cambiare la propria esistenza Voglio cambiare davvero, voglio essere davvero amica di me stessa amica degli altri, voglio sorridere, voglio rispettare voglio poter aiutare il mondo. Non voglio diventare come i miei aguzzini, non voglio la strada facile, non voglio sentirmi più sola finchè ho me stessa con me Devo follemente amarmi, così tanto da credere davvero di essermi innamorata. Quanto sacrificio ci vuole, quanto coraggio, quanta determinazione, quanto devo voler mirare e raggiungere quell obbiettivo. Sono così dura con me stessa, così cattiva, incoerente, ipocrita
perchè devo soffrire giorno dopo giorno, perchè devo nasconderlo..perchè non mi arriva un miracolo a salvarmi da me stessa? Questa rabbia che sale, devo seguire il mio cammino e non sconcentrarmi. Devo saper perdonare, il rancoroso non si evolve, devo migliorare, non sono perfetta ma devo darmi valore. Vorrei solo volare, vorrei solo che mi perdonassero per il male che ho fatto a loro, i problemi che ho loro causato, ho il senso di colpa che mi uccide Il mio sentirmi sempre una bambina, come se mi fossi bloccata e non avessi capito che il tempo è passato e non saremo mai più MAI PIù insieme tutti quanti felici, soddisfatti, appagati. Invece no, rimarrà questa indifferenza, rimarrà questo odio, questo rancore, questo giudizio negativo tra di noi, questa malattia mentale, questa disperazione, questa straziante storia senza pace. Voglio solo migliorare e capire che la vita va avanti e non è come noi vorremmo, è vita non si sa niente, è un incognita imprecisa, non si sa la sua vera natura, scopo e conseguenza..04.10.2024
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marcoangelorossi · 5 months ago
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Flor
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All’ordine del giudice i due soltadores inginocchiati lasciano cadere a terra i galli. Come due baleni gli animali si precipitano l’uno addosso all’altro. E’ un esplodere di piume, zampe, becchi, polvere. Saltano fino a un metro di altezza, un metro e mezzo. Cercano di salire sopra l’avversario, di sferrare il colpo decisivo.
Appoggiato alla parete appena dopo l’entrata del palenque l’uomo fuma. Osserva distratto il giovane agitarsi in mezzo alla folla degli scommettitori.
D’un tratto un colpo preciso della lama di rasoio legata al posto dello sperone recide, sotto l’ala, l’arteria di uno dei galli. Un lungo schizzo di sangue tinge di rosso il gesso bianco dell’arena. Un mucchietto di piume senza vita si affloscia lì, sulla nuda terra.
“Ti sei macchiato” dice l’uomo.
Il giovane gli sta di fronte. Conta il piccolo fascio di banconote vinte con le scommesse. Una riga di puntini rossi gli attraversa la camicia a scacchi.
“E’ gia ora?” chiede il giovane riponendo il rotolino di pesos nella tasca dei pantaloni.
L’uomo muove avanti e indietro la testa da contadino coperta dal cappello di paglia bianco ingiallito dal sole, dal sudore, dal tempo. Fuori dal palenque i due si dirigono verso il pick up azzurro. L’uomo sale sul pick up, aspetta che il giovane, dopo essersi accomodato alla guida, accenda il motore.
Questa mattina mi sono alzata dal letto tutta sudata. Avevo fatto un brutto sogno. Un incubo. Il peggiore di tutti gli incubi.
Mio marito.
Miguel era davanti a me, mi aveva trovata. Come succede negli incubi io tentavo di parlare, di gridare, ma dalla bocca non mi usciva alcun suono. Dopo essermi lavata mi sono preparata un caffè e me ne sono andata a prendere il bus che porta alla fabbrica di televisori. Come ogni mattina da quaqndo sono arrivata a Ciudad Juarez.
Il giorno in cui sono arrivata qui era estate. Quando sono uscita dalla stazione mi si è stretto il cuore. Caldo. Colline grigie e caldo è ciò che mi ricordo di quel giorno, io che ero abituata alle verdi, fresche montagne della mia sierra. E poi dovere camminare per le strade piene di gente, piene di uomini, sola. Cercare una pensione per dormire. Stare da sola in una pensione. Mi vergognavo, non potevo credere di stare facendo una cosa così.
Però, che altro avrei potuto fare? 
Quando i viaggi di Miguel erano iniziati non avevo dato peso alla cosa. Miguel coltiva la terra, alleva manzi, li lascia pascolare nelle terre dell’ejido, su per il monte. “Vado ad acquistare del bestiame” mi diceva “Vado a vendere dei manzi”. Però lui non si portava mai via le bestie, e nemmeno ne portava indietro di nuove. Mi sono detta: avrà una querida. Io e Miguel eravamo sposati già da una decina d’anni. Ci eravamo sposati giovani. Io era poco più che una bambina. Su nella sierra tutti gli uomini sposati hanno altre donne, alcuni hanno addirittura due case con moglie e figli in ognuna. Miguel stava via un paio di giorni, tre. Io non ci faceva caso. Avevo la casa da curare, dovevo stare dietro a mio figlio. Uno solo, ho avuto problemi al parto, quasi ci rimanevo. Non ho più potuto averne altri. E’ andata avanti così per anni. Una vita tranquilla. A casa i soldi non mancavano, anzi noi eravamo una delle famiglie più agiate di quel nostro paesucolo abbarbicato sulla sierra. Poi quando Josè stava quasi per compiere diciotto anni Miguel se lo è portato dietro in uno di quei suoi viaggi.
Il sole sta iniziando ad abbassarsi verso le montagne quando il pick up si ferma di fronte al ristorante della stazione di servizio. I due si siedono a un tavolo, ordinano il pranzo. Uno a uno vanno in bagno. Si lavano via alla meglio la polvere della strada. Quando la cameriera se ne va mangiano in silenzio le bistecche ricoperte di salsa piccante accompagnate da purea di fagioli neri con crema acida.
Finito di mangiare i due sono in piedi fuori dal ristorante.  Appoggiati al pick-up fumano in silenzio, di fronte a loro i chaparrales attraversano il deserto di Chihuahua rotolando col rumore del vento.
“L’hai portato?” chiede l’uomo senza distogliere gli occhi dall’orizzonte. Il giovane annuisce, “Sei sicuro di volerlo fare?”.
“Dammelo”.
Il giovane si infila una mano nella tasca dei pantaloni, ne estrae il rasoio dal manico di corno. Senza guardare lo porge all’uomo.
L’uomo lo afferra, “E’ quello che ha ordinato il patron. Questa non é come le altre volte”.
Il giovane butta a terra il mozzicone, lo schiaccia con la punta dello stivale.
“Non abbiamo scelta”, con una schicchera l’uomo lancia il mozzicone nell’aria. “Anche noi abbiamo bisogno che se ne stia zitta” il mozzicone vola. Il mozzicone va a finire addosso a un cane spelacchiato. “Il patron lo sa. Ci sta dando un’opportunità”.
Il cane guaisce, fa una mezza giravolta, sotto la pelle gli si vedono le ossa del costato e della spina dorsale.
“Un’opportunità?”
“Per rimanere vivi”.
Il cane trotterella via dal parcheggio.
Come è possibile che si porti il figlio se va dall’amante? Non riuscivo a capirlo. Va bene che Miguel era molto legato a Josè. “Questo ragazzo è un campione a castrare manzi” diceva “Il muchacho ha una mira eccezionale”, e se lo portava sempre dietro, sia che si trattasse di radunare il bestiame sia che andasse a caccia su per il monte. Però, caspita, dalla sua donna. No, non poteva essere. Divenni sospettosa, divenni curiosa. Iniziai a spiare Miguel, a fare domande a Josè. Così finì che un giorno lo trovai. Miguel e Josè erano appena tornati da uno di quei loro viaggi. Enrique, un amico di Miguel, era passato di lì e li aveva invitati alla cantina. Loro erano andati con lui. Mi misi a frugare il pick up. La cosa era in fondo a un sacchetto di cellophane, avvoltolato su se stesso e ficcato dentro alla cassetta degli attrezzi. Aveva i bordi neri di sangue rappreso e nel mezzo si vedeva chiaramente il capezzolo scuro. Era la pelle di un seno. Un seno di donna. Aprii la bocca. Mi coprii la bocca con le mani. Volevo piangere, volevo urlare, ma era come un incubo, dalla gola non mi usciva alcun suono. Sono rimasta così, con le mani giunte di fronte alla bocca aperta. Impietrita, immobile, con gli occhi sbarrati di fronte all’orrore.
Quando Miguel era rientrato a casa l’avevo affrontato. Povera scema, chissà cosa mi credevo? Però non è che l’avessi pensato, le parole mi sono uscitè così, dal cuore. Lo guardavo dritto negli occhi e gli sputavo in faccia lo schifo che provavo per lui. Per avere passato con lui tutti quegli anni, cucinato per lui, dormito con lui, partorito suo figlio, un altro assassino, come lui. Mi tirò un pugno che mi fece saltare due denti. Caddi per terra con il sangue che mi colava dalle labbra. Poi lui mi strappò il vestito di dosso, si cavò la spessa cintura di cuoio e si sfogò per bene su di me. Sembrava che non volesse più smetterla di battermi. Alla fine mi gettò addosso quella maledetta cighia mi lasciò stesa a terra in cucina, semisvenuta e sanguinante. Nei giorni successivi non ne avevamo più parlato. Io in realtà non riuscivo a parlare proprio con la faccia gonfia e livida che mi ritrovavo. A denunciarlo alle autorità non ci ho nemmeno pensato. A parte il fatto che Miguel è compadre del capo della polizia locale ed è pure amico di due federales, c’era sempre Josè. Se anche mi avessero creduto, se non mi avessero riconsegnata a Miguel,  avrei mandato mio figlio in galera, forse per sempre. Aspettai una decina di giorni. Quando i segni più evidenti della battitura si furono sbiaditi mi truccai, radunai le mie quattro cose, presi quel po’ di soldi che Miguel mi lasciava per quando lui non c’era e partii. Avevo sentito che a Ciudad Juarez le fabbriche, le maquiladoras, cercano sempre operaie. Così venni qui.
Quando il pick-up arriva a Juarez il sole è appena sceso dietro l’orizzonte. L’autostrada penetra tra i quartieri più desolanti della periferia. Il pick up percorre lentamente i viali che uniscono gruppi di isolati miserabili ad altri gruppi di isolati miserabili. In mezzo terreni brulli, il deserto. Piano piano entra nelle caotiche zone commerciali, le lascia, si inoltra in quelle residenziali. Attraversa isolati di ville con giardino e garage, marciapiedi vuoti, donne dalla vistosa acconciatura al volante di auto nuove di pacca. Quando i marciapiedi iniziano ad essere costeggiati di macchine parcheggiate i quartieri si rianimano. Magliette rimboccate su ventri sporgenti, jeans incollati a sederi, schiamazzi dietro a un pallone. Alcune ragazze chiaccherano in gruppo con le braccia incrociate sui seni appena sbocciati. Altre ragazze, sole, affrettano il passo. Si girano a guardare furtive il pick-up che rallenta affiancandole. Quando le strade asfaltate lasciano il posto allo sterrato sulla città è ormai scesa la notte. Il camioncino percorre cauto le stradine non illuminate di quel quartiere improvvisato sul crinale della collina. Tiene i fari spenti, avanza a tentoni. Si ferma ad ogni incrocio un po’ troppo a lungo, come chi va alla ricerca di qualcosa che ancora non conosce, un indirizzo, una persona. Infine si ferma proprio lì dove una piccola rientranza nella teoria di case a un piano senza pavimento rende l’oscurità più cupa. Forse è per questo che Flor, mentre torna dall’ennesimo turno di notte, non si accorge che è parcheggiato lì a neanche venti metri dalla porta di casa sua.
Alla maquiladora si montano televisori. Io me ne sto, anzi ormai posso dire me ne stavo, al mio posto di lavoro, arrivava un televisore, gli montavo il pezzo, quello se ne andava, ne arrivava un altro, e così via. Qualche giorno fà è successa una cosa strana. Monta un pezzo, monta un pezzo, monta un pezzo, e di colpo tutto si mette a girare, non ce la facevo più a stare in piedi. Quel giorno avevo anche le mie cose, e il giorno prima avevo fatto doppio turno, avevo finito alle undici di sera. La mattina ero montata alle otto, come sempre. Allora ho chiamato il capo: “devo andare in bagno”, “okey, cinque minuti”. Così avevo aperto la porta di sicurezza che sta proprio di fianco al bagno e sono uscita. Pensavo che desse all’esterno, volevo prendere una boccata d’aria, allungare per un attimo lo sguardo verso l’orizzonte. Invece mi sono ritrovata nel retro del magazzino. Il Suburban nero era parcheggiato col muso verso l’entrata, tra le due grandi porte di metallo scorrevoli si vedeva un rettangolo di sole. Il SUV aveva il portellone posteriore aperto. Non lontano dal Suburban c’era un tavolo di metallo, lungo. Degli uomini stavano avvolgendo del nastro adesivo attorno a dei sacchetti bianchi. Di fianco a loro una pila di televisori già nei loro imballaggi, pronti per essere spediti alla casa madre su al nord, USA.
Quello che per primo si è accorto di me era un grassone, la pancia gli tirava la camicia di cotone a scacchi e fuoriusciva dai jeans stretti da una cintura di cuoio, chiusa da una fibbia d’argento a forma di ferro di cavallo. In testa portava un cappello di feltro da gringo,tipo cowboy, color panna. In mano teneva un fucile mitragliatore nero, di quelli che chiamano cuerno de chivo per via della forma del caricatore.
“Ehi mamacita che cosa cerchi?”.
“Cosa ci fai qui? Come ti chiami? In che reparto lavori?” L’uomo in camice bianco, un caporeparto, mi si era avvicinato urlando, aveva annotato i miei dati, e mi aveva rispedita in malo modo al mio posto. Io era ritornata al lavoro. Mi aspettavo che da un momento all’altro arrivasse il mio capo a farmi una cazziata, infliggermi una multa, addirittura lincenziarmi. A volte succedeva, anche per piccole cose. Anzi succedeva spesso. Invece niente, né quel giorno, né nei giorni successivi.
Quando l’uomo vede la donna avvicinarsia alla porta di casa si volta verso il figlio seduto al posto di guida: “Adesso”.
Di colpo i fanali del camioncino si accendono. Un’ondata di luce abbagliante investe la donna. Flor gira la testa di lato e alza il braccio per proteggersi dalla luce. L’uomo apre la portiera e scende in strada. E’ alto, il cappello di paglia ritto come una cresta mentre cammina dinoccolato verso Flor. Quando è a pochi passi da lei la sua figura copre la luce dei fanali così lei può girare la testa e guardarlo senza abbagliarsi.
“Ciao Flor”.
Maledizione. Miguel. Il suo peggiore incubo è lì di fronte a lei. Flor trema. Flor ha paura. Miguel continua a camminare verso di lei. Miguel le si avvicina.
“Non torno a casa con te”, riesce a dire Flor. “Non posso più vivere con te Miguel. Ti ho lasciato. Per sempre. Non capisci?”.
“Sei tu che non capisci Flor. Questa non è una cosa solo tra me e te”,  Miguel ormai è di fronte a lei.
“Ma io non ho detto niente Miguel”, come una falena abbagliata dalla luce Flor non riesce a muoversi. Sta lì ferma nel cono di luce dei fanali, “e me ne starò zitta”, tiene le mani giunte di fronte al seno ansimante “credi che voglia mandare mio figlio in galera?” Sembra che stia pregando.
“Non possiamo correre rischi”, Miguel ha estratto il rasoio. “Mi spiace”, e ora lo tiene lì, aperto, nella mano.
Il suo braccio si allarga e disegna un semicerchio netto nell’aria della notte, rallentando appena quando la lama incontra il collo di Flor. Un lungo schizzo di sangue sgorga dall’arteria recisa di netto e tinge di rosso il gesso bianco della parete della casa. Flor si porta le mani al collo, apre la bocca, lacera l’oscurità con un urlo muto. Poi si affloscia al suolo lì, sulla nuda terra.
Quando ti recidono di netto l’arteria giugulare a morire ci si mette poco. E’ una questione di secondi non di minuti. In quei pochi secondi la mia paura più grande non è stata quella di morire. No, la morte quando ti prende per mano è una cosa enorme, assoluta. Non spaventa più, stupisce. Quello di cui io avevo paura era che sul furgone ci fosse mio figlio. Che fosse Josè quello che aveva guidato fin lì sapendo ciò che Miguel era venuto a fare. Che se ne stesse lì a vedermi mentre morivo. Che se ne stesse lì mentre suo padre mi stracciava la camicietta, mi strappava il reggiseno e mi tagliava il seno sinistro, per poi riporre la pelle in un sacchetto di plastica trasparente che avrebbe consegnato al suo capo, al Patron come prova dell’avvenuta esecuzione.  
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