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#Jorge Rendo
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Clarín, el gran mal nacional
Clarín vuelve a censurar a Víctor Hugo Morales mediante extorsión mafiosa. La Corte se lava la cara fallando en su contra por una cuestión menor, en lo importante no hay fisuras. Un permitido contra Clarín Censura de Clarín a Víctor Hugo
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diarioelcentinela · 2 years
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El Gobierno denunció a los jueces y funcionarios que viajaron a la estancia de Joe Lewis
El Gobierno denunció a los jueces y funcionarios que viajaron a la estancia de Joe Lewis
Los implicados en el viaje a Lago Escondido fueron denunciados penalmente. El Gobierno nacional denunció este miércoles al ministro de Justicia y Seguridad de la ciudad de Buenos Aires, Marcelo D’Alessandro, al fiscal general porteño Juan Bautista Mahiques, a cuatro jueces federales y a un CEO del grupo Clarín, por el presunto delito de “incumplimiento de los deberes de funcionario público y…
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temapolitico · 2 years
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Desesperada maniobra del Poder Judicial
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De pronto la justicia de Bariloche -como por arte de magia- comenzó a funcionar luego de la difusión de esos chats trascendidos donde jueces, ficales, CEOS de Clarín y ex espías planifican cometer delitos. Si bien los individuos involucrados en estos chats se sienten impunes, la sociedad toda está alerta sobre el tema. Por un lado, ayer culminaron por proscribir y condenar a la principal dirigente política de los últimos tiempos y por otro no saben qué hacer con los mafiosos integrantes del Poder Judicial. Que las pruebas no tienen validez por la teoría del "árbol envenenado", no es una verdad absoluta porque los delitos realmente ocurrieron, se escuchó a más de un especialista en los medios. Tan así es la cosa que la misma fiscalía de Bariloche, bajo el paraguas de la protagonista fiscala María Cándida Etchepare y luego de quedar expuesta como cómplice, realizó una maniobra arriesgada e imputaró a los pasajeros de ese vuelo pornográfico en lo jurídico, moral y ético y sumó a los anfitriones que esperaban en el aeropuerto.
No tan arriesgada
Para salir del paso con lo ocurrido con la fiscala de Bariloche, María Cándida Etchepare, se realizó la imputación pero con ciertos detalles. Entre ellos están el pedido del levantamiento del secreto fiscal de los jueces que viajaron a Lago Escondido. Aunque extrañamente no imputa a los CEOS de Clarín, Jorge Rendo y Pablo Casey que eran quienes esperaban a los jueces y demás tripulantes, Ercolini, Yadarola, Cayssials y Carlos Mahiques, Marcelo D’Alessandro; Juan Bautista Mahiques; Tomás Reinke y Leonardo Bergot. Lo que señala la fiscala es que a partir de los chats trascendidos detectaron las irregularidades en los comprobantes de pago que es llamativo que sea todo en efectivo. Además las emisiones de las facturas fueron posteriores a la estadía de los ahora imputados. Sobre los CEOS de Clarín se desconoce a dónde pasaron la noche, porque no figurarían como clientes en la mansión del magnate Lewis. La periodista Rosario Ayerdi publicó en su cuenta de Twitter la primicia en el día de ayer con la foto que los magistrados y los CEOS del multimedio Clarín no querían que se conociera. https://twitter.com/rosarioa/status/1600449027757072384 https://twitter.com/rosarioa/status/1600326875254968321 Read the full article
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Per cominciare, vorrei premettere, in tutta onestà, che cosa dovete aspettarvi - o, meglio, che cosa non dovete aspettarvi - da me. Mi rendo conto di aver commesso un errore già nel titolo della mia prima lezione. Il titolo è, se non vado errato, «L’enigma della poesia», e ovviamente l’accento cade sulla prima parola: «enigma». Quindi potreste pensare che l’enigma sia davvero l’importante. O, peggio ancora, potreste credere che mi sono illuso di avere in qualche modo scoperto come decifrarlo. La verità è che non ho rivelazioni da fare. Ho passato la vita a leggere, ad analizzare, a scrivere (o a tentar di scrivere) e a gioirne. Ho scoperto che quest’ultimo punto è la cosa più importante. A forza di leggere e rileggere poesia, sono arrivato a una conclusione definitiva sull’argomento. Ogni volta che affronto una pagina bianca, sento di dover riscoprire la letteratura da solo. Il passato non mi è di alcun aiuto. Sicché, come ho già detto, ho solo le mie perplessità da offrirvi. Sono prossimo ai settant’anni, ho dedicato la maggior parte della mia vita alla letteratura e posso offrirvi solo dubbi.
Jorge Luis Borges, L’invenzione della poesia, Le lezioni americane, trad. it. di Vittoria Martinetto e Angelo Morino, Mondadori, 2001
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strawberry8fields · 4 years
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“[...]Una banalità, pensava Ruth, e però lui non aveva detto «dobbiamo comprare un altro ombrellone», ma «bisogna comprare»[...] Sarà anche stato un caso, ma comunque lui ha detto «bisogna» e non «dobbiamo», pensò Ruth. [...] e allora arrivò la sorprendente risposta di Ruth: «Stai fermo dove sei»[...] Ruth sollevò la racchetta, si alzò e allungò un braccio per tracciare una riga sulla sabbia.[...]
Non ti capisco», disse Jorge. «Immagino», disse Ruth. «Senti, andiamo o no?» «Fa’ come vuoi. Ma non oltrepassare la riga». «Come sarebbe?» «Vedo che hai capito!» [...] «Stai scherzando, vero?» «Sono serissima». «E allora, tesoro», disse lui, arrestandosi davanti alla riga. «Cosa c’è. Cosa stai facendo. La gente se ne va, non vedi? È tardi. È ora di andare. Dai, ragiona». «Non ragiono perché non me ne vado insieme agli altri?» «Non ragiono perché non so cos'hai». «Ah! Interessante!» «Ruth…», sospirò Jorge, facendo per toccarla. «Vuoi che restiamo ancora un po’?» «Voglio solo una cosa», disse lei, «che resti dalla tua parte». «Da quale parte, cazzo?» «Da quella parte della riga». Ruth riconobbe nel sorriso scettico di Jorge una contrazione d’ira. Era solo un tremito fugace sulla guancia, un’ombra d’indignazione che sapeva controllare fingendosi accondiscendente; ma c’era. Eccolo lì. Tutto a un tratto pensò ora o mai più. «Jorge. Questa riga è mia. Capito?» «Assurdo», disse lui. «A maggior ragione». «Su, passami la roba. Facciamo due passi». «Fermo. Indietro». «Lascia perdere questa riga e andiamocene!» «È mia». «È una bambinata, Ruth. Sono stanco…» «Stanco di cosa? Su, dillo: di cosa?» Jorge incrociò le braccia e s’inarcò all'indietro, come se avesse ricevuto uno spintone dal vento. Vide arrivare il doppio senso e preferì essere diretto. «Non lo trovo giusto. Stai prendendo le mie parole alla lettera. Anzi, peggio: le interpreti in modo figurato quando ti fanno male, e le prendi alla lettera quando ti conviene». «Sì? Ne sei convinto, Jorge?» «Ora, ad esempio, ti ho detto che ero stanco e tu fai la vittima. Ti comporti come se avessi detto “sono stanco di te”, e…» «E non era questo che in fondo ti sentivi di dire? Pensaci. Sarebbe addirittura una bella cosa. Dai, dillo. Anche io ho delle cose da dirti. Cos'è che ti stanca tanto?» «Così non ce la faccio, Ruth». «Non ce la fai a parlare? A essere sinceri?» «Non ce la faccio a parlare così», rispose Jorge, riprendendo a raccogliere lentamente le cose. «Ricevuto», disse lei, spostando lo sguardo sulle onde. Jorge mollò tutto di scatto e tentò di afferrare la sdraio di Ruth. Lei reagì alzando un braccio in segno di difesa. Lui ebbe conferma che faceva sul serio e si fermò di colpo, proprio davanti alla linea. [...] «Vuoi smetterla?», disse. Si pentì subito di aver formulato la domanda in quel modo. «Smettere di fare cosa?», chiese Ruth, con un sorriso mesto ma compiaciuto. «Intendo questo interrogatorio! L’interrogatorio e quella riga ridicola». «Se ti disturba tanto questa conversazione, possiamo chiuderla qui. E se vuoi andartene a casa, avanti, va’ e goditi la cena. Quanto alla riga, però, non se ne parla. Non è ridicola e tu non oltrepassarla. Non attraversarla. Ti ho avvertito». «Sei insopportabile, sai?» «Purtroppo, sì», rispose Ruth. Jorge avvertì, sconcertato, la franchezza della sua risposta.[...]«Mi stai mettendo alla prova, Ruth?» Ruth avvertì che l’ingenuità quasi brutale di quella domanda gli restituiva un’eco di nobiltà: come se Jorge potesse sbagliarsi, ma non mentirle; come se da lui ci si potesse aspettare qualsiasi slealtà, tranne la malizia.[...] Ebbe l’impulso di attaccarlo e insieme proteggerlo. «Tu stai sempre a pontificare», disse lei, «e poi hai paura che ti giudichino. Mi sembra un po’ triste». «Ma davvero? Come sei profonda. E tu, invece?» «Io? Se mi contraddico? Se mi rendo conto di fare sempre gli stessi errori? Spesso. Spessissimo. Cosa credi. Tanto per cominciare, sono una stupida. E una fifona. E una rinunciataria. E fingo che potrei vivere una vita che non avrò mai. Pensandoci bene, non so cosa sia più grave: non accorgersi di certe cose o accorgersene e non fare niente. Proprio per questo, capisci, ho tirato quella riga. Sì. È infantile. È brutta e piccolina. Ed è la cosa più importante che io abbia fatto quest’estate». Lo sguardo di Jorge si perse oltre le spalle di Ruth, come se seguisse la scia delle sue parole, scuotendo la testa con un’espressione in cui lottavano fastidio e incredulità. Poi la faccia gli si congelò in una smorfia ironica. Cominciò a ridere. Rideva come se tossisse. «Be’? Non dici niente? Hai esaurito le forze?», disse Ruth. «Stai facendo i capricci». «Ti sembra un capriccio quel che ti sto dicendo?» «Non lo so», disse lui, raddrizzandosi. «Proprio capricciosa forse non sei, ma orgogliosa sì». «Non è solo una questione di orgoglio, Jorge, ma di principio». «La sai una cosa? Starai anche difendendo un sacco di principi, sarai analitica quanto ti pare, ti crederai molto coraggiosa, ma in realtà ti stai solo nascondendo dietro a una riga. Ti nascondi! Quindi fammi il favore di cancellarla, di prendere le tue cose e ne discuteremo tranquillamente a cena. Adesso l’attraverso. Mi dispiace. C’è un limite a tutto. Anche alla mia pazienza». Ruth scattò in piedi come una molla, rovesciando la sdraio. Jorge si fermò ancor prima di aver mosso un passo. «Certo che tutto ha un limite!», gridò lei. «E ci credo che ti piacerebbe che mi nascondessi. Ma stavolta non ti illudere. Tu non vuoi una cena: tu vuoi una tregua. E non l’avrai, mi hai sentita?, non l’avrai finché non accetterai davvero che questa linea si cancella quando lo dico io, e non perché a te scappa la pazienza». «Mi stupisce vederti così autoritaria. E poi ti lamenti di me. Mi stai proibendo di avvicinarmi. Io con te non l’ho mai fatto». «Jorge. Tesoro. Ascolta», [...]«Stammi a sentire, d’accordo? Non è che ci sia una linea. Ce ne sono due, capisci?, ce ne sono sempre due. E io vedo la tua. O mi sforzo di vederla, per lo meno. So che è lì, da qualche parte. Ti propongo una cosa. Se ti sembra ingiusto che cancelliamo questa riga quando lo dico io, tracciane tu un’altra, allora. È facile. Lì c’è la tua racchetta. Tira una riga!» Jorge scoppiò a ridere. «Dico sul serio, Jorge. Spiegami le tue regole. Mostrami il tuo spazio. Dimmi: non oltrepassare questa riga. Vedrai che non proverò mai a cancellarla». «Brava furba! Ovvio che non la cancelleresti, perché io non traccerei mai una riga come questa. Non mi passerebbe neanche per la testa». «Ma se la tracciassi, fin dove arriverebbe? Ho bisogno di saperlo». «Non arriverebbe da nessuna parte. Non mi piacciono le superstizioni. Preferisco essere spontaneo. Voglio poter passare dove mi pare. Litigare solo se c’è una ragione valida». «Voglio solo che tu spinga lo sguardo un po’ oltre il tuo spazio», disse lei. «E io voglio solo che mi ami», disse lui. Ruth sbatté gli occhi, più volte. [...] «È la risposta più terribile che potessi darmi», disse. Jorge pensava di andare a consolarla e si rendeva conto che non doveva.[...] Ruth nascose il viso. Jorge abbassò gli occhi. Guardò la riga ancora una volta: gli sembrò più lunga di un metro.
Una riga sulla sabbia, Le cose che non facciamo, Andrés Neuman
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big-lio · 5 years
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(via [832]-Jorge Luis Borges - Nostalgia del presente.jpg)  Ogni giorno di più mi rendo conto di come sia difficile cercare di annullare le distanze con le persone per cui provi amicizia e affetto, anche mettendocela tutta. Siamo divisi da un mondo intero che non si limita allo spazio, ai chilometri, ai continenti, al tempo, al sesso, all'età, all'educazione e non so cosa altro aggiungere. Siamo divisi da muri invisibili che noi stessi creiamo e che ci impediscono di godere di momenti che pure potrebbero essere belli anche se effimeri. Ho perso un bel po' di tempo prima alla ricerca di un argomento da presentarvi, una poesia forse, una canzone, un racconto. No meglio un'immagine, ma quale? Nessuna era adatta, nulla tra le cose che ho messo sul sito e preparato per potere condividere mi è sembrata adatta. Ad un certo momento, essendo ormai tardi e dovendo almeno cercare di preparare un minimo di cena, ho pensato di non postare nulla perché in fondo che importanza poteva avere il mio stupido post. Solo uno tra le migliaia e certamente il più insulso: non comunica notizie importanti sull'andamento del covid-19, non suggerisce soluzioni, non fa ridere come i tantissimi post che mi sono arrivati che vogliono (e riescono presumo visto il loro successo) farci sorridere, non serve proprio a nulla. Ma allora che metterlo a fare? per ingolfare maggiormente il web? molto stupido da parte mia... Ma ... rinunciare? Ho visto questa piccola citazione di Borges ed ho pensato che forse poteva essere un tentativo, sciocco di certo, ma almeno un tentativo per comunicare una presenza che può esistere, di cui possiamo sentire il profumo e la musica, che ci può fare compagnia senza essere di nessun ingombro. Forse lo faccio solo perché questo è quello che desidererei avere io, un segno di presenza, di vicinanza perché in fondo il mondo così grande come è può diventare piccolo quando ci si scambia un abbraccio e un segno di vicinanza, anche se virtuale. Io anche oggi lancio il mio sasso nello stagno e sto a vedere se i cerchi che crea nell'acqua faranno compagnia a qualcuno. Felice e serena giornata. Pagina LioSite su Facebook
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planetaeris · 5 years
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“Cuando nací, no había palabra para lo que yo era. Me llamaron Ninfa, suponiendo que sería como mi madre, mis tías y mil primas. Las últimas de las diosas menores: nuestros poderes eran tan modestos que apenas nos garantizaban la eternidad.” Circe. Madeline Miller. Traducen Jorge Cano Cuenca y Celia Recarey Rendo. Edita @adnovelas . . . #libros #books #bookish #bibliophile #bookaddict #booklover #booksofinstagram #bookphotographer #bookworm #booknerd #igbooks #iphonephotography #instabook #instareads #circe #madelinemiller #planetaeris (en ALIANZA EDITORIAL) https://www.instagram.com/p/B00Sf-ACi4c/?igshid=yn0jmj1krwhz
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pangeanews · 5 years
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“Volevano uccidermi perché non sono uno scrittore che sta rinchiuso nella sua torre d’avorio”: l’ultima intervista di Julio Cortázar
Sono anni potenti. Nel 1981 Mitterand concede la nazionalità francese a Julio Cortázar, che in Francia è atterrato trent’anni prima, nel 1951. La malinconica, definitiva, picaresca cesura biografica ed esistenziale di Julio Cortázar, “da questa parte” (Buenos Aires) e “dall’altra parte” (Parigi), è il cuore del romanzo più grande, “Rayuela”. Nel 1981 – cito dalla “Cronologia” che cerchia “I racconti” (Einaudi-Gallimard, 1994, a cura di Ernesto Franco) – “gli viene diagnosticata la leucemia”; l’anno dopo muore Carol Dunlop, scrittrice americana, a 36 anni, la sua compagna, “anch’essa malata di leucemia”. Il 1983 è dunque un anno importante e dolente per Julio Cortázar: pubblica “Gli autonauti della cosmostrada”, scritto con la Dunlop, va a Cuba, poi in Nicaragua, dove è premiato dal poeta Ernesto Cardenal, ministro della cultura. Ritorna nel suo paese, in Argentina. L’ultima volta ci era stato nel 1973, per promuovere “Libro de Manuel”: “verrà dichiarato ‘indesiderabile’ e da quel momento il suo esilio diventerà anche politico”. Dalla scrittrice Sylvia Iparraguirre, che ha incontrato Cortázar insieme ad Abelardo Castillo, quell’anno, abbiamo raccolto una testimonianza nitida: “Cortázar era una persona incantevole, estremamente gentile, che parlava con voce sommessa, in una curiosa relazione inversa con la sua statura di quasi due metri. Era avvolto da una certa aura da indifeso, cosa che, al di là dell’ammirazione che suscitava, faceva sì che uno gli volesse bene immediatamente. A mia memoria, dagli anni Settanta in Argentina nessun altro scrittore è passato dalla gloria all’ingiuria più velocemente di Cortázar: da parte della destra, per il suo coinvolgimento etico ed emotivo con Cuba e Nicaragua; da parte della sinistra, per la sua lontananza dall’Argentina e la frivolezza di Libro de Manuel. Dovette anche barcamenarsi in un fraintendimento: quello di certa avanguardia superficiale degli anni Sessanta che, sedotta dai suoi giochi di parole e sfrontatezze tipografiche, li ripeteva ad nauseam e che furono per lui una sorta di semente del diavolo”. Il 3 dicembre del 1983 il quotidiano argentino “Clarín” pubblica una lunga conversazione di Juan Bedoian con Cortázar. L’intervista viene ripubblicata quest’anno per onorare i 35 anni dalla morte del grande scrittore. Già. Nel corso della conversazione, Cortázar ammette di voler prendersi del tempo per sé, alieno dagli impegni intellettuali e politici, per scrivere un altro romanzo. Morirà poco dopo aver rilasciato l’intervista, l’ultima intervista nel suo paese, il 12 febbraio 1984. Qui, di quella intervista, traduciamo una ampia porzione. 
***
Le sue visite ormai stanno diventando pietre miliari della storia argentina: 1973… Ovviamente, questo non è casuale.
Cominciamo col dire che non ho scelto io quelle date ma che, al riguardo, le circostanze – sostanzialmente negative – sono state determinanti. La mia venuta di dieci anni fa è stata intenzionale: mi trovavo in Cile all’epoca del trionfo dell’Unità Popolare e, dopo qualche tempo, sono riuscito ad arrivare qui in Argentina nel momento dell’elezione di Cámpora, un momento particolarmente propizio perché avevo l’impressione che il trionfo di Cámpora potesse accendere una speranza analoga a quella che abbiamo oggi riguardo ad Alfonsín.
E lei voleva partecipare a quel processo.
Naturalmente, sentivo che era mio dovere essere lì, con quei ragazzi molto più giovani di me, seguirne l’esempio e trasmettere loro la piccola esperienza che potevo avere di altre cose. Promisi che sarei tornato a settembre o ottobre di quell’anno per fermarmi a lungo e fare un lavoro culturale, che è l’unica cosa che so fare. Beh, è successo che sono ripartito per l’Europa con l’intento di preparare quel viaggio e Perón è tornato da Madrid: così è saltato il progetto di un anno di presidenza di Cámpora, che ci avrebbe dato il tempo di strutturare qualcosa di solido, e siamo entrati nella fase che sappiamo.
Ricordo che lei ha rivelato di essere stato minacciato di morte.
Quello stesso anno ho ricevuto le prime minacce di morte, a Parigi, il che ha significato per me stare un po’ all’erta per vedere cosa succedeva. Sfortunatamente, la situazione si è aggravata sempre più, per poi culminare nel golpe di Videla. Da quel momento sono diventato ciò che non avevo mai accettato di essere: un esiliato. E l’ho fatto perché sapevo perfettamente che se fossi tornato qui non ne sarei uscito vivo. Avevo scritto troppi articoli contro la Giunta Militare perché non me la facessero pagare.
In quest’ottica, come valuta il trionfo di Raúl Ricardo Alfonsín e la sconfitta del peronismo? L’esilio cui allude l’ha aiutata a comprendere meglio il processo vissuto dal nostro Paese in questi anni o ha reso più difficile tale valutazione?
Forse è per ignoranza personale, forse per il mio allontanamento dal Paese, ma di ciò che accade in Argentina non mi risulta chiaro niente. E leggendo i giornali – ora qui, allora là, in Francia –, mi rendo conto che voi, in qualche modo, condividete tale giudizio. Non si ha una sensazione di chiarezza. Credo che siamo entrati in una fase di chiarimento. In questo momento, per dirla con il titolo di un film, “le acque scorrono torbide”. Non posso dimenticare che, quando cammino per strada, qui – e lei sa quanto mi piace Buenos Aires, che è sempre la stessa, sempre bellissima, con i suoi odori e i marciapiedi sconnessi, i medesimi suoni e voci –, entro in un caffè, guardo i volti dei compatrioti e mi domando: e di questi, quanti saranno torturatori, ancora in giro, liberi? E quanti saranno membri dei gruppi paramilitari che hanno contribuito alla scomparsa o alla morte di trentamila argentini? Ebbene, questa è la parte torbida, la parte che il tempo, la storia e la Giustizia dovranno pian piano chiarire… Per il momento, le cose non sembrano giustificare un entusiasmo di tipo isterico.
Che immagine aveva, in Europa, del neo-eletto Presidente argentino?
Ne ho sempre avuta un’immagine positiva. Perché di Alfonsín mi è piaciuto il comportamento negli anni bui: mi è piaciuto il suo modo di affrontare le cose, sempre con grande dignità, e mi è piaciuto molto il fatto che, durante la guerra delle Falkland, che ha scatenato da molte parti una caterva di sentimenti torbidi, non abbia ceduto a quegli atteggiamenti…
Mi sembra di capire che lei appoggiasse da Parigi il recupero delle isole Falkland…
Dunque, facciamo chiarezza su questo punto. Certo, l’ho appoggiato, ma ciò che ho respinto in pieno, contrariamente all’opinione di molti compatrioti, è stato che questo comportasse il sostegno della Giunta quale esecutrice dell’occupazione delle Falkland. Io, nel modo più assoluto, non ho riconosciuto ai suoi membri l’autorità morale per farlo. Come ha detto giustamente Jorge Luis Borges, l’Esercito Argentino “ è molto efficace nell’uccidere i compatrioti ma assai inefficace nell’uccidere gli stranieri”.
Lei si considera antiperonista?
No. Sono profondamente critico riguardo a molti aspetti del peronismo. Il primo è la tremenda forza della sua ala destra, nelle cui file sappiamo che compaiono molti personaggi dei quali il minimo che si possa dire è che sono torbidi… Piuttosto, l’ala progressista del peronismo, quando ha la possibilità di entrare in gioco, lo fa in un modo che a me sembra positivo, come è stato nel momento dell’elezione di Cámpora. Quindi, non si tratta, nel mio caso, di antiperonismo. Inoltre, io non dimenticherò mai, nonostante le mie riserve su Perón come politico, non posso assolutamente dimenticare che il peronismo è stato il primo grande movimento popolare argentino. È stata la prima volta in cui il popolo si è sollevato nella sua totalità contro una oligarchia, la quale – e questo va detto – nella misura in cui continua a esistere nel Paese, ora, ad esempio, farà tutto quello che può per cercare di intervenire nel prossimo governo.
Lei vanta una lunga militanza negli ultimi anni riguardo alla questione dei diritti umani. Le sembra un tema prioritario tra le rivendicazioni che agitano il popolo argentino, un tema di grande importanza per l’equilibrio democratico dei prossimi anni?
Lo ritengo di grande importanza e prioritario. Non che ignori i problemi economici che affliggono le masse operaie argentine, tutti problemi quotidiani anch’essi prioritari, ma credo che la questione dei diritti umani sia fondamentale perché va al cuore dei problemi, è una questione di etica, una questione morale. E se ciò che noi desideriamo è un ritorno alla democrazia, beh, una democrazia che non poggi su un’etica – condivisa da tutto il popolo, non certo l’etica propugnata dai dirigenti di partito – è condannata alla mediocrità, al fallimento. Parlo da intellettuale, ma da intellettuale allo stesso tempo consapevole dei problemi del popolo. Guadagnarsi il “pane” senza una chiara coscienza politica è semplicemente sopravvivere, vegetare.
Lei si è dichiarato in diverse occasioni “cittadino dell’America Latina” e considera negativi i nazionalismi. Quali sono, a suo avviso, le contraddizioni più importanti con cui si confrontano i Paesi latinoamericani?
La realtà dei Paesi sudamericani non è uniforme. In ogni Paese latinoamericano ci sono così tante sfumature che persino i paragoni uniformi sono un fallimento. Come è un fallimento il tentativo di esportare un movimento rivoluzionario o di applicare il modello A al Paese B. In Argentina, il neocolonialismo economico da parte degli Stati Uniti è un problema preoccupante che condiziona l’ordine interno. La complicità delle classi dirigenti locali con gli Stati Uniti è lampante.
A un certo punto lei ha fatto una distinzione tra il suo esilio personale e il suo esilio culturale dal Paese. Come ha influito su di lei questa condizione?
Del doppio esilio che ho vissuto a partire dal 1973, il più grave è stato quello culturale. Perché l’esilio personale mi riguardava individualmente, ma ciò che sin da subito mi è sembrato terribile per il Paese è stato quello che io ho chiamato esilio culturale: tutto il lavoro che potevano fare gli scienziati, gli artisti e i creativi nei Paesi in cui vivevano da esiliati era un lavoro perso in quel momento per il popolo argentino. Se questa situazione si protrae nel tempo può rivelarsi fatale per il destino di un Paese.
Pensa di dover chiarire qualcos’altro sulla polemica scatenatasi quando lei ha affermato che in Argentina si era verificato “un genocidio culturale”?
Si è innescato un conflitto un po’ artificioso. La mia espressione era, ovviamente, esagerata perché penso che il concetto di “genocidio” comporti la distruzione di un intero popolo. Non si trattava di quello. Ho rilasciato quella dichiarazione in un periodo in cui, in un brevissimo lasso di tempo, erano scomparse tragicamente tre figure fondamentali della nostra letteratura: Rodolfo Walsh, Paco Urondo e Haroldo Conti. Peraltro, tre carissimi amici. Comprenderà lo stato d’animo con cui in quel momento potevo esprimere un giudizio sull’operato della Giunta Militare. A ciò si aggiungevano le notizie terrificanti sulla censura nei mezzi di comunicazione e in tutti gli ordini di categoria. Ho usato quella parola e molte persone si sono offese perché, certo, non tutti sono stati vittime. Ma non bisogna dimenticare che questi ultimi dieci anni sono stati anni di autocensura per qualsiasi intellettuale argentino sia restato qui. Ritiro il termine “genocidio”, ma sul concetto in generale rimango fermo. Quasi nessuno qui ha avuto la possibilità di leggere i venti articoli scritti da me negli ultimi anni sulla situazione del Paese. Mi dica lei se questo, come esilio culturale, non è spaventoso. E cito solo il mio caso, sono un esempio tra tanti altri. Pensi anche alla schiera di scienziati costretti ad andare a lavorare all’estero.
Quale ruolo crede debbano giocare oggi gli intellettuali in America Latina?
Si ritorni all’etica. Il problema di tutti gli intellettuali è un problema di responsabilità. Nei confronti dei lettori, vale a dire del loro popolo. E questo problema di responsabilità, se non è etico, cos’è? È una questione di scelte: c’è chi resta nella sua “torre d’avorio” e continua a scrivere sonetti – ne ha tutto il diritto –, ma non è un uomo che si assume una responsabilità di tipo storico.
Torniamo all’annosa questione: in che misura le urgenze storiche devono condizionare la creazione, ad esempio letteraria?
Sussistono pericoli enormi e io li ho avvertiti. Il problema è quello di creare una convergenza equilibrata tra la vocazione alla scrittura, il produrre una letteratura che sia quanto più bella ed esigente possibile, e il senso di responsabilità che induce a trasmettere anche un messaggio di tipo politico o ideologico. È molto difficile perché sono elementi eterogenei che, in generale, interferiscono gli uni con gli altri. Chi dà massima priorità al messaggio politico di solito scrive opere mediocri. Il realismo socialista in Unione Sovietica ne è un esempio emblematico. All’opposto, chi si preoccupa solo di trasmettere un messaggio letterario, beh, sta solo sfiorando problemi di fronte ai quali ha una responsabilità, dato che, in qualche modo, gode della fiducia dei suoi lettori.
La sua militanza politica ha influenzato senz’altro il suo lavoro creativo…
Lei sa bene che il cosiddetto tema politico con il passare del tempo si è infiltrato e insinuato in una parte di ciò che ho scritto. Questa preoccupazione per i problemi dell’America Latina ha occupato uno spazio sempre maggiore nel mio lavoro e continuerà a occuparlo.
La responsabilità cui accennava poc’anzi nei confronti del lettore significa che lei pensa a quest’ultimo quando scrive?
Io rispondo per me. Non ho mai scritto nemmeno una riga pensando al lettore che la leggerà. Sono consapevole che non scrivo per conservare i miei fogli in un cassetto, ma affinché vengano pubblicati e giungano a un lettore. Ma nell’operazione letteraria sono solo con me stesso e con quell’opera. No, non intendo fare una classificazione in funzione dei lettori: di massa, colti, eccetera.
Quest’anno ricorrono i vent’anni dall’uscita di Rayuela, un’opera rivelatrice e rivoluzionaria nel quadro della letteratura sudamericana…
Quando ho scritto Rayuela ero molto distante dalle preoccupazioni politiche. È un libro incentrato sulla metafisica e profondamente letterario. Credo che il libro contenga un certo fermento di tipo intellettuale, tale da destare l’interesse che ha suscitato soprattutto nei giovani. Interesse che, assicuro, è ancora vivo: le giovani generazioni si sentono molto attratte da questo libro, forse perché vi trovano una serie di domande, di interrogativi, che sono tipici e normali – per fortuna – nella gioventù.
Pensa di aver già scritto il libro che ogni narratore sogna?
No, no. Ho in mente un romanzo, ma in questo preciso momento la storia non me lo lascia scrivere, perché il tempo che trascorro tra aerei e alberghi, per gli impegni che mi impongono e che mi impongo – è incredibile quanto mi abbia dato da fare la Giunta Militare argentina! –, tutto questo mi lascia sempre meno tempo per la letteratura. Tanto che l’anno prossimo mi prenderò un “anno sabbatico”, cercherò di avere più tempo, rifiuterò molte cose – ma non quelle essenziali – e viaggerò meno.
Nella sua produzione letteraria, l’erotismo, l’elemento fantastico, l’assurdo o l’umorismo hanno giocato un ruolo importante. Che valore attribuisce a questi elementi e come riesce a conciliarli con quelle che si potrebbero definire “preoccupazioni sociali e politiche”?
Continuo a ritenerli fondamentali. Sono ancora tanti gli scrittori e i lettori, me compreso, che, senza rendersene conto, senza averne consapevolezza, continuano in qualche modo a essere condizionati da un’etica sulla quale non smettono di pesare una certa idea di religione e di morale puritana: questo crea ostacoli alla libertà e all’espressione di tutto ciò che la natura umana produce e che è di una diversità e di una ricchezza enormi. Ho sempre sostenuto che, se l’ideale ultimo di tutta la nostra lotta politica è quello di raggiungere un livello di democrazia che a sua volta permetta la rivoluzione – senza dare a questo un significato specifico –, se la personalità umana non acquisisce tutta la sua forza, tutta la sua potenza, all’interno delle quali l’elemento ludico e quello erotico rappresentano pulsioni fondamentali, nessuna rivoluzione raggiungerà il suo scopo. La rivoluzione non si fa con le api o le formiche, si fa con gli uomini. Se gli uomini continuano a difendere posizioni chiuse e faziose su ciò che è immorale o morale, su ciò che è bene o male, prima di tutto non sono rivoluzionari. Per me, sono controrivoluzionari. Ed è una battaglia che bisogna condurre sin dall’interno della lotta di liberazione. Ad esempio, il machismo è una delle piaghe dell’America Latina. Nessuno si rende conto di essere machista finché qualcuno non lo mette con le spalle al muro e lo smaschera.
Qualcuno ha messo in discussione la sua concezione dell’atto creativo e, perché no, della realtà?
Alcuni mi hanno detto: tu dai un’idea della rivoluzione come un gioco, un’idea ludica. Sì, è proprio così: se non trasmetto quel tipo di idea non ci sarà mai un processo di liberazione che valga la pena. La rivoluzione deve essere fatta sul serio perché i giochi si prendono sul serio. Nessuno è più serio di un bambino che gioca.
*traduzione italiana e cura di Marianna Marchi e Mercedes Ariza
L'articolo “Volevano uccidermi perché non sono uno scrittore che sta rinchiuso nella sua torre d’avorio”: l’ultima intervista di Julio Cortázar proviene da Pangea.
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dmtriuscuradoria · 7 years
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PANORAMICA150 : Retalhos do Passado
PANORÂMICA 150 - RETALHOS DO PASSADO
No último dia 8 de novembro de 2017 foi inaugurada a mostra comemorativa dos 150 anos da cidade de Sete Lagoas. Na qualidade de curador e Diretor do DEGAR – Departamento de Galerias de Arte agradeço a participação de lançamento da mostra ao Exmo. Senhor Prefeito Municipal Leone Maciel, Anderson Cleber (Secretário de Cultura e Juventude), Alan Keller (Secretário Adjunto), Pastor Fabricio (Vereador), Vitor Dias (Secretário de Obras), Gutemberg (Secretário da Educação), Geraldo Magela (Gerente de Eventos), Daniel Januzzi (Gerente da Cultura), Rogerio Pardal (Presidente do Conselho de Politicas Culturais), Paulinho do Boi (Diretor do Casarão). Ainda em nossos registros: José Marcos (um dos coordenadores do perfil pelo Face ¨ Retalhos do Passado¨ que inspirou o título da mostra), Sastre (Engenheiro que trabalhou na fundação do prédio da Casa da Cultura), o artista plástico e arquiteto Eduardo Machado, Ricardo Raposo, Simone Moisés e vários convidados interessados pela cidade e pela suas realizações. Além daqueles que trabalharam para que o evento fosse um sucesso.
A pedido de alguns convidados a mostra será prorrogada para o dia 30 de dezembro, dado seu valor histórico e comemorativo dos 150 anos da cidade.
Aos artistas plásticos, participantes da histórica exposição PANORAMICA 150: RETALHOS DO PASSADO, rendo aqui minhas homenagens pelo esforço cívico em ajudar a construir a história da nossa cidade. Estou também participando como expositor e me sinto honrado – além do quê, confesso que ambicionei em participar - em colocar meu nome no elenco expositivo pelo elevado valor que a mostra apresenta para história de Sete Lagoas, e também simplesmente por não me ver fora da construção do perfil da cidade.
ARTISTAS PLÁSTICOS:
Denise Dumont
Denise Lelis
Dmtrius Cotta
Erlei Pereira
Ivânio Cristelli
Lanza Netto (in memorian)
Lidiane Soares
Luciano Ribeiro
Luiz Pinto (in memorian)
Magaly França
Simone Fonseca Bonan
Apresentamos também, e rendemos nossos agradecimentos aos fotógrafos participantes.
FOTÓGRAFOS:
Brenno Dias
Cláudio Henrique
Evandro Assis
Fredy Antoniazzi
Jorge Concórdia
Kênnio Dias
Leo Drummond
Luis Cláudio Alvarenga
Márcia Flávia
Quin Drummond
Tonymar Ramos
A mostra permanecerá em cartaz até dia 30 na Galeria Myralda (casa da cultura) em Sete Lagoas - Centro
Visitas- segunda a sexta-feira das 8 às 17h.
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Un permitido contra Clarín
Un fallo de la Corte contra Clarín es una noticia sorprendente. Una pequeñez que sólo sirve para lavarse la cara y muestra que la organización terrorista de Magnetto tiene como norma vejar a las víctimas. La Corte Suprema confirmó la condena al Grupo Clarín por difundir fotos de Ángeles Rawson sin vida Tras la demanda del padre de la adolescente, el máximo tribunal falló contra Arte Gráfico…
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Censura de Clarín a Víctor Hugo
El grupo Clarín incumple la manda judicial de incluir Canal 4 Extra. El 2 de la organización terrorista de Magnetto promete impedir el acceso mientras esté Víctor Hugo Morales en su grilla. Imagen: @VHMok.
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temapolitico · 2 years
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Lawfare: Escandalosos chats de jueces y fiscales
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Se pudo ver al menos el intento de jueces, fiscales, funcionarios y directivos de Clarín de hacer una coartada para cuidarse las espaldas, aunque el material no perdió validez jurídica. La invalidez surge a partir de la teoría del "fruto del árbol envenenado" dejando como nula la prueba. De esa manera la causa solo servirá par una condena mediática y social. Algunas de la figuras que viajaron en ese vuelo privado fueron Pablo Casey, abogado del Grupo Clarín, el Juez Federal, Julián Ercolini, el presidente de Clarín, Jorge Rendo y los Mahiques, padre (Carlos) e hijo (Juan). Siendo éste último el actual fiscal general de CABA. Además en esas reuniones oscuras y antiéticas participaron, Pablo Yadarola, Pablo Cayssials, Marcelo D'Alessandro, Tomas Reinke y Leo Bergot.
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En el chat se involucra en un delito a la fiscal María Cándida Etchepare, que según expuso el periodista Nestor Esposito, también muy ligada a las causas de los Mapuches. En este caso  Mahiques habría acordado con ella cómo simular una investigación en la causa "con medidas inconducentes para impulsar un rápido cierre con un sobreseimiento por inexistencia de delito". Entre otras palabras habían arreglado cerrar la causa de una manera corrupta y antiética. Por lo pronto los chats sirven para condenar a los jueces corruptos mediática y socialmente, que es justamente el efecto buscado por el Lawfare hacia sus víctimas y no para sus victimarios como en este caso. ¿Quién filtró los chats? Efectivamente los chats provienen del hackeo al móvil del Ministro de Justicia y Seguridad de la CABA, Marcelo D'Alessandro. Que según el sitio de Horacio Verbitsky - El Cohete a la Luna- los autores materiales son los hackers del sitio http://www.breached.vc/ quienes además están pidiendo 600 dólares a pagar en criptomonedas bitcoin o Monero, por 500MB de información. Algo que sin duda aterra a los principales actores del Lawfare.
Mirá los chats completos haciendo click aquí.
    Fuente: El Cohete a La Luna, Tiempo Argentino Read the full article
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pangeanews · 7 years
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40 anni fa il rapimento di Aldo Moro. Per capirci qualcosa bisogna aggrapparsi a Leonardo Sciascia, lo scrittore che con il bisturi aprì il cuore dello Stato
Il 9 maggio del 1978 viene ritrovato morto, in via Caetani, Roma, riverso nel bagagliaio di una Renault 4 rossa rubata all’imprenditore Filippo Bartoli, Aldo Moro. Per far stare il corpo nel bagagliaio, qualcuno – gesto di perizia o di compassione – ha abbassato i sedili posteriori della Renault 4. Il 24 agosto del 1978 lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia, che ha già scritto i libri considerati maggiori (Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Todo Modo, La scomparsa di Majorana) termina la stesura de L’affaire Moro. Il libro viene pubblicato da Sellerio in Italia e quasi subito in Francia. Petulanti polemiche dilagano. Quando Aldo Moro viene rapito, il 16 marzo di 40 anni fa, Leonardo Sciascia ha già cominciato la sua ‘carriera’ politica. Eletto nel 1975 alle comunali di Palermo “come indipendente nella lista comunista… eletto con un numero di voti secondo solo a quello del capolista Achille Occhetto”, nel 1977 abbandona i ‘compagni’. “In questi mesi non s’è fatto niente, né in bene né in male… mi domando quando il Pci comincerà a dire di no”, dice Sciascia elevando un grido dalla palude del ‘compromesso storico’, “nessuno chiede la rivoluzione, basterebbe cominciare a far pagare le tasse a tutti”. 40 anni fa, quando il pollaio degli intellettuali esprime la propria indignazione nei riguardi del rapimento Moro, lo scrittore sta zitto. Qualcuno (Aniello Coppola, Paese Sera, 19 marzo 1978) glielo rimprovera: “da tempo arrivato alla conclusione che questo Stato sia da buttare”, scrive l’articolista, Sciascia, altrimenti “abituato a pontificare sugli umori segreti della coscienza pubblica, tace. Perché questo silenzio?”. Due giorni dopo Sciascia replica, con glaciale ferocia, attaccando il “terrorismo verbale” provocato dalla “parrocchia dello stalinismo innestatosi con indefettibile continuità sul fascismo e sul nazismo” (tutti i dati li traggo da Leonardo Sciascia. Opere. 1971-1983, Bompiani 2004, a cura di Claude Ambroise). Il rapimento di Moro, questo squarcio quasi cristico – c’è un prima e un dopo nella malmostosa storia moderna del nostro Paese – coincide con il momento apicale in cui la letteratura italiana s’incista nella Storia italiana. Leonardo Sciascia – con un nitore ben più abissale e molto meno ‘poetico’ di Pasolini – punta dritto alla sintesi tra atto letterario e gesto politico, tra ‘estetica’ e ‘politica’. In questo, forse, è sublime, ancora, davvero, L’affaire Moro. Il libro – analogo a una Storia della colonna infame ma ‘in diretta’ – ha passi pazzeschi. Incipit – “Ieri sera, uscendo per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una lucciola” – che inaugura il dialogo a distanza con il morto, Pasolini, intorno al “regime democristiano”. Poi Sciascia passa a Jorge Luis Borges, a Ficciones, come se in quelle ‘finzioni’ – il libro di Sciascia si chiude con una citazione borgesiana che evoca il “romanzo poliziesco” – fosse adombrata la ‘finzione’ dell’‘affare’ Moro, come se la politica fosse una filiazione della finzione. Ci sono poi, nel saggio romanzesco che corrode ogni cosa, che mostra il bubbone di merda del Parlamento, passi di eclatante profondità. “Non credo abbia avuto paura della morte. Forse di quella morte: ma era ancora paura della vita”, ad esempio. E poi, la bordata: “è come se un moribondo si alzasse dal letto, balzasse ad attaccarsi al lampadario come Tarzan alle liane, si lanciasse dalla finestra saltando, sano e guizzante, sulla strada. Lo Stato italiano è resuscitato. Lo Stato italiano è vivo, forte, sicuro e duro… ora, di fronte a Moro prigioniero delle Brigate rosse, lo Stato italiano si leva forte e solenne. Chi osa dubitare della sua forza, della sua solennità?”. Ci sono frasi cruente – “per il potere e del potere era vissuto fino alle nove del mattino di quel 16 marzo. Ha sperato di averne ancora” – e riflessioni di diamante – “si può dedurre che l’essenza e il destino delle Brigate rosse stiano davvero nella sfera (a dirla banalmente) del ‘pazzesco’ o (meno banalmente, più sottilmente) nella sfera di un estetismo in cui il morire per la rivoluzione è diventato un morire con la rivoluzione?” – ma cosa volete che importi allo Stato di uno scrittore che per parlare di Moro, anatomizzando linguisticamente le sue lettere e i dispacci brigatisti, si affida a Borges? Fu attaccato da tutti. Sopra tutti, da Eugenio Scalfari. Repubblica, 17 settembre 1978. Scalfari attacca un “libro che non ha ancora letto, poiché uscirà tra un mese”. Scalfari parlava, a proposito de L’affaire Moro, di “mistero dell’arte” e di “trasformazione e ricreazione della realtà”. Ma Sciascia non è un D’Annunzio che usa il Parlamento per fare un valzer tra uno scranno e l’altro. “Mi rendo conto che è comodo tornare ad assumere la questione nei termini di amore o disamore dello Stato; ma il fatto è che non sono più questi. Si tratta, oggi, semplicemente di amare o di non amare la verità”, risponde Sciascia. Secondo Scalfari, alla moda di Platone, i poeti devono stare fuori dalla Repubblica, marginalizzati. Sciascia, invece, nella Repubblica ci entra. Giugno 1979. Un anno dopo la morte di Aldo Moro. Leonardo Sciascia gareggia per il Partito Radicale. “Eletto sia al Parlamento europeo sia alla Camera italiana, opta per quest’ultima”. E nel cuore dello Stato, Sciascia torna a scandagliare, con foia, ‘l’affaire Moro’. Protagonista di una attività parlamentare indefessa (da metà 1979 a barlumi di 1983: 52 progetti di legge e 1099 “atti di indirizzo e controllo”, leggete tutto qui), entra nella ‘Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassino di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia’. Commissione foltissima (una quarantina di membri) – e anche su questo, si abbatte la scure di Sciascia – composta, tra gli altri, da Luciano Violante, Stefano Rodotà e Claudio Martelli. Nel 1983 viene partorito il faldone che raduna le Relazioni di minoranza della ‘Commissione’, quasi 450 pagine che vale la pena consultare come il romanzo nero della Repubblica Italiana (leggete tutto qui). Tra di esse, c’è anche la relazione di Sciascia. Quel documento è il j’accuse di Sciascia contro “la latente e a volte esplicita conflittualità tra i membri della Commissione”, contro la linea “detta ‘della fermezza’, sostenuta da comunisti, democristiani e altri, di assoluta e inscalfibile intransigenza” che “si configurava come un vero e proprio reato”, contro l’“incommensurabile perdita di tempo” provocata dalla lotta partitica, contro la “vacuità delle operazioni di polizia” e contro “l’endemica incomunicabilità, nel nostro paese, delle istituzioni tra loro”, denunciando “l’incertezza, la confusione, i disguidi, le omissioni, le vuote operazioni che si sono verificate durante i cinquantacinque giorni del sequestro Moro”. Il testo fu pubblicato in appendice all’edizione del 1983 de L’affaire Moro. A segnare che tra ‘estetica’ e ‘politica’, ormai, la distanza è nulla. Lo Stato, come una petroliera che esplode in una vasca da bagno, ingloba tutto. Lo scrittore annaspa. “Se dieci anni prima mi avessero detto Moro avrebbe cambiato la mia vita, avrei riso: invece è stato così. Dopo la morte di Moro, io non mi sento più libero di immaginare”. 1982. Sciascia. Intervista. Quarant’anni dopo, per entrare nel corpo ulcerato dell’Italia, bisogna passare per Sciascia. (d.b.)
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