#I capolavori di Brecht
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carmenvicinanza · 10 months ago
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Laura Betti
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«Sono comunque un’attrice ed ho una necessità fisica di perdermi nel profondo degli intricati corridoi dove si inciampa tra le bave depositate da alieni, tele di ragno luminose e mani, mani che ti spingono verso i buchi neri screziati da lampi di colore, infiniti, dove sbattono qua e là le mie pulsioni forse dimenticate da sempre oppure taciute… per poi ritrovare l’odore della superficie e rituffarmi nel sole dei proiettori, nuova, altra».
Laura Betti è stata un’attrice talentuosa, vivace e intensa. La cattiva per antonomasia delle grandi dive del cinema italiano.
Ha recitato in circa settanta film, diretta dai più grandi registi e registe del Novecento come Federico Fellini, Roberto Rossellini, Mario Monicelli, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Gianni Amelio, Francesca Archibugi, i fratelli Taviani, in capolavori come La dolce vita, Teorema, Sbatti il mostro in prima pagina, Nel nome del padre, Il grande cocomero e molti altri ancora.
Tra le interpretazioni più memorabili c’è sicuramente quella in Novecento di Bertolucci (1976) in cui ha interpretato Regina, personaggio dall’aria sinistra, quasi stregonesca, amante del fascista Attila, interpretato da Donald Sutherland.
Sul suo modo di esprimersi con le parole, il linguaggio, la voce roca e impastata, la fisicità, ci sono stati anche diversi studi accademici.
Artista a tutto tondo, ha recitato a teatro, cinema, televisione e lavorato a lungo come doppiatrice.
Soprannominata giaguara per la sua vitalità aggressiva e incontenibile associata a un passo felpato, quello con cui entrava in un film con un ruolo non da protagonista, per poi rubare la scena a tutti gli altri.
Nata col nome di Laura Trombetti a Casalecchio di Reno, Bologna, il 1º maggio 1927, ha esordito come cantante jazz, per poi passare al cabaret con Walter Chiari ne I saltimbachi. 
Nel 1955 ha debuttato in teatro ne Il crogiuolo di Arthur Miller, con la regia di Luchino Visconti, seguito poi da spettacoli storici come il Cid di Corneille, in coppia con Enrico Maria Salerno e I sette peccati capitali di Brecht e Weill.
Il recital Giro a vuoto, del 1960, realizzato in collaborazione dei più grandi talenti letterari dell’epoca che amavano riunirsi nella sua casa romana, a Parigi venne recensito positivamente dal fondatore del movimento del surrealismo, André Breton.
Al cinema ha esordito nel 1956, in Noi siamo le colonne di Luigi Filippo D’Amico. Le prime parti importanti sono state in Labbra rosse di Giuseppe Bennati, Era notte a Roma di Roberto Rossellini, e soprattutto ne La dolce vita di Federico Fellini, dove interpretava una giovane saccente che nella scena finale della festa si vede rovesciare un bicchiere d’acqua in faccia da Marcello Mastroianni.
Fondamentale è stato il sodalizio con Pier Paolo Pasolini, che l’ha diretta in diverse opere teatrali e cinematografiche, tra cui svetta Teorema, che le è valso la Coppa Volpi come miglior attrice al Festival del Cinema di Venezia. 
È stata la sua musa, definita da lui “una tragica Marlene Dietrich, una vera Greta Garbo che si è messa sul volto una maschera inalterabile di pupattola bionda”. Meglio di chiunque, è riuscito a sfruttare la sua capacità di caratterizzare i personaggi con la sua fisicità intensa, il forte segno caratteriale, spesso aspro, e la sua voce dal timbro pastoso.
A partire dagli anni ’70 ha cominciato a interpretare soprattutto ruoli da cattiva, scomodi e sgradevoli che, seppur secondari, restavano impressi nella memoria del pubblico.
Dopo la morte di Pasolini, nel 1975, ha tentato in tutti i modi di fare giustizia all’amico, sporse anche denuncia contro la magistratura per come erano state svolte le indagini sull’omicidio, le cui cause ancora oggi, restano oscure.
Ha continuato a farlo vivere, ricordandolo, scrivendone, dirigendo documentari su di lui.
Con Giovanni Raboni, ha pubblicato, nel 1977 Pasolini cronaca giudiziaria, persecuzione, morte seguito, due anni dopo, dal romanzo Teta Veleta il cui titolo è un riferimento a uno scritto giovanile del grande intellettuale.
Nel 1983 ha ideato e diretto il Fondo Pier Paolo Pasolini che per oltre vent’anni ha avuto la sede a Roma, poi spostato a Bologna, quando, nel 2003, ha creato il Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini, con oltre mille volumi e altro materiale relativo alle opere dello scrittore e regista.
Nel 2001, con Paolo Costella, ha diretto il documentario Pier Paolo Pasolini e la ragione di un sogno.
È stata anche la protagonista del libro di Emanuele Trevi Qualcosa di scritto, che evidenzia come lei sia stata la vera erede spirituale di Pasolini e incontrarla è come incontrare lo scrittore, perché rimasta plasmata e posseduta dalla sua vivida presenza.
In Francia, paese che l’ha adorata e riverita molto più dell’Italia, nel 1984 è stata nominata Commandeur des Arts et Lettres.
Laura Betti si è spenta a Roma il 31 luglio 2004.
Dopo la sua morte, il fratello, ha donato al Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini anche tutti i documenti personali della carriera della sorella, raccolti sotto il nome Fondo Laura Betti, inoltre la sua città di origine, Casalecchio di Reno, nel 2015, le ha intitolato il Teatro Comunale.
Del 2011 è il documentario La passione di Laura, diretto da Paolo Petrucci, in cui viene ripercorsa la carriera dell’attrice raccogliendo anche le testimonianze di registi e intellettuali come Bernardo Bertolucci, Francesca Archibugi, Giacomo Marramao e Jack Lang. Il film è stato candidato ai Nastri d’Argento del 2012 tra i migliori documentari.
Laura Betti ha concentrato la sua esistenza nella ricerca della verità. Nell’arte, nella vita, tra la poesia che ha frequentato, nella sua recitazione.
Aveva carisma e fascino, sapeva sperimentare e aveva uno straordinario dinamismo dell’intelletto. 
Ha avuto ruoli fuori dai canoni e per questo è stata difficilmente inquadrabile.
Ha saputo intrecciare linguaggi differenti come il cabaret, la canzone, il teatro, il cinema, la rivista.
Dipinta con tratti alterni, di sicuro ha saputo lasciare la sua impronta decisa e precisa nella storia della cultura italiana.
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gregor-samsung · 6 years ago
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PRIULI: Non dimenticate che, se la Repubblica forse non paga lautamente come certi principi, garantisce la libertà d’indagine. Noi, a Padova, ammettiamo come auditori allo Studio persino dei protestanti! E gli conferiamo tanto di laurea. E quando ci furono date le prove, le prove dico, signor Galilei, che Messer Cremonini teneva discorsi irreligiosi, non solo non l’abbiamo consegnato all’Inquisizione, ma gli abbiamo anche aumentato lo stipendio! Fino in Olanda si sa che Venezia è la Repubblica dove l’Inquisizione non può mettere il becco. E questo deve avere un certo valore per voi, che fate l’astronomo e lavorate in un campo dove da lungo tempo non si tiene più nel dovuto rispetto l’insegnamento della Chiesa…  GALILEO: Ma Messer Giordano Bruno, siete stati voi a consegnarlo a Roma. Perché diffondeva le teorie di Copernico.  PRIULI: Non perché diffondeva quelle teorie - che del resto sono false - ma perché non era veneziano e non aveva neppure un impiego presso di noi. Lasciatelo pure da parte, quello che è finito sul rogo. E, a proposito, permettetemi di darvi un consiglio: per quanta libertà ci sia, conviene sempre non gridare ai quattro venti un nome su cui grava l’anatema ufficiale della Chiesa: neanche qui, nossignore, neanche qui.  GALILEO: È stato un gran buon affare, eh, per voi, la protezione della libertà di pensiero ? Vi basta ammonire che altrove regna l’Inquisizione e c’è puzzo di bruciato, per procurarvi ottimi docenti a basso prezzo. La salvaguardia dall’Inquisizione, ve la fate compensare pagando gli stipendi peggiori.  PRIULI: È ingiusto! Ingiusto! Che ne ricavereste, dall’aver tempo a volontà per le vostre ricerche, se il primo ignorante monaco dell’Inquisizione può gettare l’interdetto sulle vostre idee? Non c’è rosa senza spine, non c’è duca senza frati, signor Galilei!  GALILEO: E a che serve la libertà d’indagine senza tempo libero per indagare? E che ne è dei risultati? Provate una volta tanto a mostrare ai nobiluomini della Signoria queste mie ricerche sulla caduta dei gravi (gli mostra un fascio di manoscritti) e domandategli se non credono che valgano qualche scudo di più!
Bertold Brecht, Vita di Galileo (Dramma), (traduzione di Emilio Castellani), in
Id., I capolavori di Brecht, Einaudi (collana Gli Struzzi), 1971²; 2° vol., pp. 16-17.
[Il testo (Leben des Galilei) fu scritto nel 1938 e venne messo in scena per la prima volta da Leonard Steckel al Zurich Schauspielhaus il 9 Settembre 1943]
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pangeanews · 6 years ago
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“Sapeva quando vivere e quando morire, mi torturò vederlo in miseria”: quando Wystan H. Auden chiese ad Hannah Arendt di sposarlo (e lei lo rifiutò)
Cinquant’anni fa accadono due cose decisive nella vita di Wystan H. Auden, uno dei poeti centrali – per opere, intensità saggistica e molteplice attitudine del verso – del secondo Novecento. Nel tardo agosto del 1969, in Svizzera, muore Erika Mann, la primogenita di Thomas. Nel 1935, Auden aveva accettato – su consiglio dell’amico amato Christopher Isherwood – di sposarla, per consentirle l’ottenimento del passaporto britannico e la conseguente fuga in UK. Era lesbica, Erika. In quello stesso anno, ripescando le lezioni del suo antico prof, J.R.R. Tolkien (era il 1926) e la passione per l’insularità islandese (ad esempio: Letters from Iceland, 1936), Auden traduce l’Edda poetica, il repertorio di miti medioevali, referto di re e spade e lupi e verbi, repertorio identitario di lassù. L’altra cosa decisiva è questa. Auden chiede ad Hannah Arendt di sposarlo. La Arendt ha grosso modo la sua età – 63 anni, quell’anno – qualche anno prima ha pubblicato il celebratissimo La banalità del male. La filosofa rifiuta il poeta. “Il poeta Wystan H. Auden, con cui Hannah era amica dalla fine degli anni cinquanta, andò nel suo appartamento e le fece una proposta di matrimonio. Hannah, ovviamente, gli disse di no, ma questo non la sollevò, perché presagiva che Auden avrebbe preso male questo rifiuto. Auden negli ultimi anni era decaduto da quell’elegante gentleman che era a un clochard trascurato ed era chiaramente disperato nel profondo. Dopo la risposta negativa di Hannah, Auden si ubriacò senza freni e Hannah dovette trascinarlo sull’ascensore. ‘Io odio la compassione’, scrisse Hannah allora a Mary McCarthy, ‘mi spaventa, da sempre, e credo di non aver mai conosciuto qualcuno che abbia provocato in me così tanta compassione’” (da Alois Prinz, Io Hannah Arendt, Donzelli, 1999). Nel 1972, per Faber, Auden pubblica l’ultimo libro di poesie, Epistle to a Godson; a Vienna, il 28 settembre del 1973, il poeta, dopo una lettura di poesie, muore, infarto. Poeta geniale (le Poesie scelte sono edite da Adelphi, 2016, ma sarebbe bello pubblicare come si deve, singolarmente, capolavori come L’età dell’ansia e Horae canonicae), il 12 gennaio del 1975 è narrato dalla Arendt in un lungo articolo, sul “New Yorker”, Remembering W. H. Auden (che proponiamo, parzialmente, nella versione di Andrea Bianchi). A fine anno, il 4 dicembre, morirà anche lei, Hannah. “Penso sempre a Wystan”, scrive, due giorni dopo la sua morta, ancora a Mary McCarthy, “e alla miseria della sua esistenza, e al fatto che mi sia rifiutata di prendermi cura di lui quando venne e pregò di essere protetto”. (d.b.)
***
Incontrai Auden tardi. Tardi sia per me che per lui. Eravamo entrambi in quell’istante nel quale la semplice e comprensiva intimità amicale che formiamo da giovani non ci è più disponibile: non resta abbastanza davanti a noi, né potremmo sperarlo, e quindi non condividiamo l’intimità. Perciò fummo eccellenti amici ma senza confidenze. Di più, in lui vi era una riserva che scoraggiava la familiarità – né da tedesca misi alla prova questo silenzio british. Piuttosto, lo rispettai lieta, quasi fosse la segretezza necessaria al grande poeta, uno che era riuscito a imporsi di non parlare in prosa, in modo sciatto e casuale, di cose sulle quali poteva discorrere in modo più soddisfacente tramite una concentrazione densa e poetica.
Sarà la reticenza la deformazione professionale del poeta? Nel caso di Auden questo sembrava verosimile perché molti dei suoi lavori, con totale semplicità, sorgono dalla parola parlata, dagli idiomi quotidiani – come “Lay your sleeping head, my love, Human on my faithless arm.” [Deponi il tuo capo assonnato, amore mio, sul mio semplice braccio senza fede]. Questo genere di perfezione è molto rara; la troviamo nelle migliori poesie di Goethe e anche, decisamente, in quelle di Puskin, giacché la loro caratteristica è essere intraducibili. Simili poesie d’occasione sono slogate dall’originale e poi si dissolvono in una nuvoletta banale. Qui tutto dipende da “gesti fluenti che elevano i fatti dal prosaico al poetico” – un punto evidenziato dal critico Clive James nel saggio su Auden apparso sul numero del Dicembre 1973 di Commentary. Se questo stile fluente è raggiunto, siamo convinti magicamente che il linguaggio quotidiano sia latentemente poetico e, ammaestrati dallo sciamanesimo poetico, apriamo per bene le orecchie ai veri misteri della lingua. Anni fa Auden mi risultò intraducibile: fui convinta della sua grandezza. Tre traduttori tedeschi si erano dati da fare e avevano fatto stramazzare senza troppi scrupoli una delle mie poesie favorite, “If I could tell you”, la quale sorge in modo naturale da giri di frase colloquiali come “Time will tell” e “I told you so”:
Time will say nothing but I told you so. Time only knows the price we have to pay; If I could tell you I would let you know.
If we should weep when clowns put on their show, If we should stumble when musicians play, Time will say nothing but I told you so.
The winds must come from somewhere when they blow, There must be reasons why the leaves decay; Time will say nothing but I told you so.
Suppose the lions all get up and go, And all the brooks and soldiers run away; Will Time say nothing but I told you so? If I could tell you I would let you know.
[Il tempo non lo dirà, io te lo dicevo. / Solo il tempo sa il prezzo da pagare; / se lo sapessi te lo direi. // Se dovessimo piangere quando i clown si danno da fare, / se dovessimo inciampare quando suonano i musicisti, / il tempo non lo dirà, io te lo dicevo. // Il vento verrà pure da qualche parte se ora soffia qui, / ci saranno cause che fan gialle le foglie; / Il tempo non lo dirà, io te lo dicevo. // Ora pensa che i Leoni prendono e se ne vanno, / e tutti i ruscelli e soldati se ne fuggono; / il tempo non lo dirà, ma io? / Potessi dirtelo, lo sapresti]
Vederlo alla fine caduto in miseria, senza una giacca o un paio di scarpe di riserva, mi fece capire vagamente perché si nascondesse dietro il motto “Enumera le tue fortune”; pure, trovavo difficile capire appieno perché rimanesse in miseria senza riuscire a far nulla in quelle circostanze assurde che gli rendevano insopportabile quel che gli rimaneva da vivere. Era ragionevolmente famoso e una simile ambizione non contò mai troppo per lui perché era il meno vanesio tra gli autori che conoscevo – del tutto immune alle vulnerabilità infinite che sappiamo essere prodotte dalla gretta vanità. Non dico che fosse umile; nel suo caso era la confidenza con se stesso che lo proteggeva dagli adulatori e questa sua qualità esisteva prima di ogni riconoscimento e di ogni fama, prima addirittura di ogni successo.
*
Geoffrey Grigson, nel Times Literary Supplement, riporta questo dialogo tra il giovanissimo Auden e il suo relatore a Oxford. “Tutor: ‘E cosa farà, Mr. Aunde, quando lascerà l’università? Auden: ‘Farò il poeta.’ Tutor: ‘Bene, in questo caso troverà utile aver insegnato Inglese.’ Auden: ‘Non capisce. Farò il grande poeta’”. Questa confidenza non lo lasciò mai, ma non gli proveniva da confronti con gli altri o dal tagliare per primo il traguardo; era naturale, ben connessa, ma non identica, con la sua enorme abilità a trattare la lingua, e a farlo rapidamente, quando gli andava a genio. E poi non gli andava nemmeno a genio, perché non esibiva la perfezione finale, né vi aspirava. Sempre tornava alle sue vecchie poesie, d’accordo con Valéry quando dice che una poesia non è mai chiusa per sempre, ma solo abbandonata. In altre parole Auden era benedetto da quella rara confidenza in se stesso che non abbisogna di ammirazione e di buone opinioni altrui; e che può benissimo reggere l’autocritica senza cadere nel trabocchetto del dubbio perpetuo su se stessi. E la cosa spesso la confondiamo con l’arroganza: Auden non fu mai arrogante tranne quando qualche volgarità lo provocava; allora si proteggeva con i modi rudi e abbastanza improvvisi, tipici dell’inglese di razza. […]
*
Auden era più saggio di Brecht, ma non era sveglio quanto lui. Auden sapeva che “la poesia non fa accadere nulla”. Per lui era piena insensatezza che il poeta avocasse a sé speciali privilegi o chiedesse permessi che siamo felici di elargire in gratitudine a tutti. Nulla era maestoso in Auden quanto la sua integra sanità e la sua salda reputazione per la sanità; ai suoi occhi tutti i generi di follia erano assenza di disciplina – indecente, indecente usava dire. Il fatto principale era non avere illusioni, non accettare pensieri (tantomeno se sistematici) che ci chiudessero gli occhi davanti alla realtà. Auden rigettò le sue immature credenze leftist per gli eventi che sappiamo: processi a Mosca, patto Hitler-Stalin, esperienze di guerra civile spagnola. Furono gli eventi a mostrare tutta la sinistra come “disonesta e vergognosa”, come ebbe a scrivere introducendo Collected Shorter Poems. Così è chiaro per sempre da dove saltava fuori il suo:
History to the defeated may say alas but cannot help nor pardon.
[La storia agli sconfitti / sta bene se lo dite ma non giova né perdona.]
E questo equivaleva a dire che “quel che accade è tutto per il meglio”. Auden protestava di non aver mai creduto in questa pessima dottrina, anche se qui sono in dubbio perché quei versi sono troppo buoni, troppo precisi per essere stati prodotti dalla sola efficacia retorica; inoltre, Auden sarebbe stato l’unico a scostarsi dall’ottimismo dei leftist degli anni Venti e Trenta, se veramente avesse creduto alla poesia e non al senso di quello che scriveva. Comunque sia venne il tempo in cui
In the nightmare of the dark All the dogs of Europe bark . . .
Intellectual disgrace Stares from every human face—
[Nell’incubo del buio / Tutta Europa latra . . . / Disgrazia di chi pensa / La noti su tutti i volti]
Ed era il momento in cui sembrava che il peggio sarebbe successo e il male fosse l’unico a cavarsela. Il patto Hitler-Stalin era la svolta da sinistra; ora andavano abbandonate tutte le fedi nella storia quale tribunale finale che giudica le sorti terrene.
Negli anni Quaranta furono in molti a rivoltarsi contro le loro credenze, ma lo fecero dopo Auden, e in ogni caso pochi capirono quel che fosse andato storto dentro il meccanismo fideistico. Ma costoro non smisero del tutto le loro devozioni nella storia e nel successo: semplicemente e di fatto, cambiarono treno. Il treno socialista e comunista era andato male, e presero il biglietto per un viaggio nelle terre del Capitale, dove trovarono Freud insieme a qualche truciolo marxista, un treno ben sofisticato insomma. All’opposto, Auden si fece cristiano e quindi lasciò pure lui il treno della storia. Non so se Stephen Spender abbia ragione a ribadire che la fede fosse la sua stringente necessità; suppongo che questa necessità fosse semplicemente scrivere versi e tutto sommato sono ragionevolmente certa che la sua sanità, il grande senso che illuminava tutta la sua prosa saggistica e di recensore sia debitore verso l’ortodossia e il suo scudo protettivo. […]
*
Certamente sembra poco probabile che il giovane Auden, quando decise di dover diventare un grande poeta, conoscesse il prezzo da pagare, e penso che verso la fine – quando la semplice forza fisica del cuore se ne svaniva e non gli faceva reggere le emozioni che comunque aveva il talento per trasformare in elogio – considerasse il prezzo come troppo caro. In ogni caso noi, i suoi lettori, possiamo solo essere grati che pagò fino all’ultimo centesimo per la gloria durevole della lingua inglese. E i suoi amici possono trovare qualche consolazione nello scherzo sublime che Auden tende loro dall’altra parte del mondo – per molte ragioni, il poeta confidò a Spender che “la sua anima saggia e incosciente scelse per conto suo il giorno ideale per andarsene”. La saggezza di sapere “quando vivere e quando morire” non è concessa ai mortali ma Wystan, siamo indotti a credere, potrebbe averla ricevuta quale suprema ricompensa, quella che gli dèi crudeli elargiscono al loro servitore più fedele.
Hannah Arendt
 *Traduzione italiana di Andrea Bianchi
**In copertina: “Wystan H. Auden: ritratto con sigaretta”, fotografia di Cecil Beaton
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tempi-dispari · 8 years ago
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Il fascino di Maestri dello Spirito eccentrici e visionari al Festival della Bellezza 2017
IV edizione del Festival della Bellezza, che cresce ancora per numero di eventi, giorni e prestigio di ospiti e proposte. Una manifestazione che per qualità e partecipazione si è affermata tra le principali a livello nazionale, con oltre 50.000 presenze, teatri esauriti, eventi ideati per il festival in format teatrale, concerti e spettacoli in anteprima nazionale. 
Dall’1 all’11 giugno e con un evento speciale il 30 e 31 agosto Verona diviene palcoscenico del meglio della nostra cultura nel segno della bellezza come avventura del pensiero: in riferimento ai protagonisti della storia artistica della città, da Dante a Shakespeare, da Goethe a Mozart, il festival è dedicato ai grandi dell’arte e della cultura in contesti unici per storia e suggestione come il Teatro Romano, il rinascimentale Giardino Giusti e l’Arena.
L’edizione 2017, su geni eccentrici e visionari, è inaugurata da Ute Lemper l’1 giugno al Teatro Romano con la prima del concerto intitolato Berlin days, Paris nights, dalle classiche canzoni del Cabaret e del teatro musicale di Kurt Weill e Bertolt Brecht alla chanson francese con i capolavori di Jacques Brel e Edith Piaf. Seguono riflessioni e spettacoli di alcune tra le personalità di maggiore talento e originalità della nostra cultura: dall’irrituale indagine di Vittorio Sgarbi sul genio eclettico di Michelangelo, all’appassionante esplorazione di Philippe Daverio su Picasso e il fermento artistico della Parigi del primo Novecento, narrazione teatrale in prima assoluta. Altra anteprima nazionale, con protagonista un particolare “maestro dello spirito” contemporaneo, scomparso lo scorso anno: Federico Buffa nel suo nuovo spettacolo teatrale racconta Muhammad Ali, icona, non solo dello sport, del secondo Novecento. Grande cinema e teatro si fondono nell’appuntamento con Toni Servillo, uno dei maggiori attori della scena internazionale; con Beppe Severgnini il giornalismo incontra poesia, romanzo e cinema nel racconto dell’attività giornalistica di grandi artisti come Calvino, Buzzati, Flaiano, Pasolini, Fallaci, Montale. Dei geni musicali sono evocate figure epocali: Vinicio Capossela propone un concerto unico in cui canta i successi del suo itinerario artistico come “Odissea musicale” con riferimenti a personaggi e arie delle opere verdiane; Massimo Cacciari indaga la fascinazione di temi e sonorità del Don Giovanni di Mozart in riferimento alla cultura illuminista; Gloria Campaner interpreta in un vibrante recital pianistico i fuoriclasse romantici Beethoven e Chopin. In scena anche grandi visionari che hanno cambiato il nostro modo di essere e di pensare, dall’antichità ai nostri giorni: Umberto Galimberti parla della sapienza greca tra filosofia e tragedia, Massimo Recalcati racconta l’essenza della psicoanalisi dal “piacere” di Freud al “desiderio” di Lacan. In un’edizione sui grandi eccentrici, non poteva mancare Goran Bregović, che si esibisce in un concerto con la storica Wedding & Funeral in versione raddoppiata con l’aggiunta ai tradizionali fiati, percussioni, chitarra e voci bulgare dell’estro e virtuosismo dei violinisti slavi.
A chiusura del festival un appuntamento speciale, un doppio concerto di Ennio Morricone il 30 e il 31 agosto, evento conclusivo della sua tournée mondiale “The 60 Years of Music World Tour” e ultimi suoi concerti all’Arena di Verona.
Il Calendario:
Programma edizione 2017
Festival della Bellezza
(a breve sarà integrato con altri appuntamenti)
    Giovedì 1 giugno
Teatro Romano, ore 21.30
Ute Lemper
Berlin days, Paris nights
(concerto)
  Venerdì 2 giugno
Teatro Romano, ore 21.30
Toni Servillo
Interprete della bellezza, bellezza dell’interpretazione
  Sabato 3 giugno
Teatro Romano, ore 21.30
Vinicio Capossela
La forza del destino – Odissea musicale di Vinicio Capossela
(concerto)
  Domenica 4 giugno
Teatro Romano, ore 21.30
Beppe Severgnini
Poeti e scrittori in redazione
  Martedì 6 giugno
Teatro Romano, ore 21.30
Umberto Galimberti
La sapienza greca
Mercoledì 7 giugno
Giardino Giusti, ore 18.30
Massimo Recalcati
Lacan e il desiderio
  Teatro Romano, ore 21.30
Federico Buffa
A night in Kinshasa (spettacolo teatrale – prima nazionale)
  Giovedì 8 giugno
Giardino Giusti, ore 18.30
Gloria Campaner
I romantici Chopin e Beethoven (concerto)
  Teatro Romano, ore 21.30
Goran Bregovic
Goran Bregovic and The Wedding & Funeral Orchestra in concert
  Venerdì 9 giugno
Teatro Romano, ore 21.30
Vittorio Sgarbi
Michelangelo (spettacolo teatrale)
  Sabato 10 giugno
Giardino Giusti, ore 18.30
Massimo Cacciari
Il Don Giovanni di Mozart
  Domenica 11 giugno
Teatro Romano, ore 21.30
Philippe Daverio
Picasso (narrazione teatrale – prima nazionale)
  Mercoledì 30 agosto e giovedì 31 agosto
Arena, ore 21.00
Ennio Morricone
The 60 Years of Music World Tour
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gregor-samsung · 8 years ago
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Come si getta via ciò che ci è mal riuscito, così costoro, sentendosi falliti, gettano via sé stessi. Soltanto chi è ben riuscito combatte.
Bertold Brech, L’eccezione e la regola, (traduzione di Laura Pandolfi), in I capolavori di Brecht, Einaudi (Gli Struzzi), 1971; p. 244
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