#I Moti di Reggio
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Cannibali e re
In questi giorni è in corso una criminalizzazione del movimento anarchico che ricorda alcuni dei periodi peggiori della storia di questo paese. Nella continua e spasmodica ricerca di un “nemico oggettivo” da dare in pasto all’opinione pubblica per distogliere l’attenzione dal peggioramento costante delle nostre condizioni di vita in termini materiali, di diritti e di servizi, è tornato il turno degli anarchici.
Chiaramente vengono descritti come criminali pericolosi e potenziali assassini, addirittura si ventilano rapporti con le organizzazioni mafiose partendo da una presunta solidarietà che alcuni boss avrebbero espresso ad Alfredo Cospito per il suo sciopero della fame. Giova ricordare che specie in un regime come quello del 41bis sono le autorità giudiziarie a decidere dove i detenuti devono stare, quali sono i detenuti nelle celle accanto alle loro, come, quando e con chi si è legittimati a passare l’unico breve momento della giornata fuori dalla cella.
Queste infamanti accuse, questi titoli di giornale che parlano di “patti tra gli anarchici e i mafiosi”, sono aberranti e offendono la memoria di tantissimi militanti anarchici che hanno lottato, come tanti comunisti e socialisti, contro le organizzazioni mafiose.
Ci vengono in mente subito i cinque anarchici della Baracca, morti mentre si recavano a Roma con prove del rapporto tra stato, estrema destra e ‘ndrangheta durante i moti di Reggio e la strage di Gioia Tauro, oppure Carlo Tresca, sindacalista anarchico ucciso negli Stati Uniti da Cosa Nostra americana.
Queste squallide campagne di stampa vanno di pari passo a tutta una serie di misure repressive che vanno a colpire militanti e realtà in tutto il territorio nazionale di diversa sensibilità politica e anche estranee alle vicende degli ultimi giorni.
Vogliamo esprimere solidarietà a tutte e tutti e in particolare a Gigi del Campetto di Giulianova, che stimiamo e a cui vogliamo bene e col quale abbiamo condiviso presentazioni e confronti.
Al tempo stesso vogliamo ricordare a tutti che se le organizzazioni criminali esistono e proliferano è perché da sempre hanno un rapporto dialettico, di scambio e d’interesse reciproco con le istituzioni di questo paese.
Le stesse che hanno lasciato uccidere i propri uomini e le proprie donne col duplice obiettivo di bloccare tutti coloro che si avvicinavano a dipanare la matassa dei rapporti tra vertici dello Stato e delle realtà criminali, e al tempo stesso creare dei martiri da usare come strumenti di propaganda.
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Il *7 gennaio 1797* nasce a Reggio Emilia il Tricolore, come bandiera della Repubblica Cispadana, costituita dai territori di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia.
A proporre che lo stendardo o bandiera cispadana, formato dai colori verde, bianco e rosso, fosse innalzato in tutti i luoghi soggetti alla sovranità della repubblica cispadana, è il sacerdote cattolico Giuseppe Compagnoni.
La bandiera rossa, bianca e verde, allora a strisce orizzontali con il rosso in alto, sarà confermata come vessillo della Repubblica Cisalpina. Adottato dai patrioti del Risorgimento già nei moti del 1821 e poi nel 1848 dal Re Carlo Alberto di Piemonte, il tricolore sarà la bandiera dell’unità d’Italia.
Ma perché vennero scelti il verde, il rosso e il bianco? L'Italia del 1796 era un agglomerato di piccole Repubbliche di ispirazione giacobina che si erano sostituite agli antichi assolutismi.
E per omaggiare la conquista delle libertà, e chiaramente il modello francese, quasi tutte le Repubbliche si dotarono di bandiere caratterizzate da tre fasce di dimensioni uguali. Mentre i tre colori derivano dalla Legione Lombarda i cui vessilli presentavano proprio con i colori verde, bianco e rosso, fortemente radicati nel patrimonio di quella regione; il bianco e il rosso, infatti, comparivano nell'antichissimo stemma comunale di Milano (croce rossa su campo bianco), mentre verdi erano, fin dal 1782, le uniformi della Guardia civica milanese. Ma anche la Legione Italiana, che accoglieva, i soldati delle terre dell'Emilia e della Romagna, si era dotata di questi tre colori; motivo che probabilmente spinse la Repubblica Cispadana a confermarli nella propria bandiera.
Successivamente al Congresso di Vienna, il tricolore fu soffocato dalla Restaurazione. Ragione per cui assunse, nell'immaginario collettivo, un ruolo di libertà e di speranza; e ciò è testimoniato dai moti del 1831, dalle rivolte mazziniane; o lo si può ritrovare nella disperata impresa dei fratelli Bandiera e nelle sollevazioni negli Stati della Chiesa. E quando giunse la stagione del '48, e della concessione delle Costituzioni, la bandiera divenne il simbolo di una riscossa ormai nazionale, che investì l'intera penisola: da Milano a Venezia, da Roma a Palermo.
Nel 1997, in occasione del secondo centenario del Tricolore, il parlamento proclama il 7 gennaio “giornata nazionale della bandiera”.
Oggi ricorre il 227 anniversario della Giornata nazionale della Bandiera, un simbolo codificato nell'articolo 12 della Costituzione italiana che ne definisce la foggia: "verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni".
Consacrata nella Costituzione, la Bandiera è il simbolo dell’Unità nazionale, racchiude i valori di libertà, solidarietà ed uguaglianza sui quali si fonda la nostra Patria e incarna quello straordinario patrimonio storico, culturale e identitario che universalmente viene riconosciuto all’Italia.
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Ciccio Franco: il fascista che fa venire ancora i brividi UNA MENTALITA' ANCORA DA SCONFIGGERE. A Reggio Calabria una orrenda statua ricorda il senatore fascista dell'Msi protagonista dei Moti di Reggio. https://www.wordnews.it/ciccio-franco-il-fascista-che-fa-venire-ancora-i-brividi
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Ed eccoci di nuovo qui con la rubrica a cadenza mensile e precisamente l'ultimo giorno di ogni mese, curata dalla nostra utente e amica Valentina Pace
Questa rubrica nasce anche e soprattutto da una riflessione che ci accompagna da un po' di tempo: per una "piccola" biblioteca di un piccolo paese non è sempre facile stare al passo con le richieste, i suggerimenti, le necessità degli utenti e non. Per questo motivo, con l'aiuto di Valentina scopriremo nuovi autori e nuove letture, consigli e spunti di riflessione, insieme a curiosità e notizie sui nostri cari libri. E allora, diamo il benvenuto a questo nuovo spazio culturale dove si viaggerà alla scoperta delle case editrici indipendenti: ʟᴇᴛᴛᴜʀᴇɪɴᴅɪᴇ.
La casa editrice di questo mese è: NN Editore
Buona lettura a tutti!
ℚ𝕌𝔸𝕃ℂ𝕆𝕊𝔸 ℕ𝔼𝕃𝕃𝔸 ℕ𝔼𝔹𝔹𝕀𝔸 – ℝ𝕠𝕓𝕖𝕣𝕥𝕠 ℂ𝕒𝕞𝕦𝕣𝕣𝕚
«Ho scritto un libro che parlava di come ci si possa sentire in gabbia di fronte all'infinito, ora, nei racconti che ho iniziato, sento che c’è qualcosa di diverso, qualcosa che non capisco. Voglio scoprire dove mi sta portando, ascoltare ciò che mi sta chiamando.»
Può il confine tra finzione e realtà diventare sempre più labile tanto da consentire ad uno scrittore di incontrare e guardare negli occhi i propri personaggi? Questo è ciò che accade in “Qualcosa nella nebbia”, di Roberto Camurri, un romanzo in cui l’autore prova a descrivere il malessere esistenziale che può sottendere al processo creativo.
Il lettore si trova di fronte ad un vero e proprio metaromanzo, poiché il protagonista è lo scrittore Roberto alle prese con la stesura della sua nuova opera, una raccolta di racconti incentrati sulle vicende di Andrea detto Jack, Alice e Giuseppe che vivono nel comune di Fabbrico, in provincia di Reggio Emilia.
Andrea è un giovane uomo consumato dalla vita; da bambino è stato vittima di bullismo e, una volta cresciuto, ha sviluppato una dipendenza da alcol e droghe. Un evento del passato lo ha segnato inesorabilmente: l’arrivo di una strana famiglia nella casa accanto alla propria, che sarà vittima di un’immane tragedia. Andrea ha un’unica amica alla quale è molto legato, Alice.
Alice è la sola ad andare via da Fabbrico per inseguire sogni di fama e fortuna. È diventata una star televisiva da reality show, ma non può fare a meno di tornare al paese d’origine. È anche il personaggio più complesso e sfaccettato: vuole rinnegare le proprie radici, ma non riesce a stare lontana da Fabbrico per troppo tempo. Cerca l’amore, ma si butta via lasciandosi coinvolgere in storie con uomini sbagliati che la umiliano e la maltrattano.
Giuseppe è un tipo piuttosto introverso. È il grande amore di Alice, ma il loro è un rapporto fatto di assenza e grandi silenzi. Il legame col padre alcolizzato è stato fonte di grande sofferenza e lo ha portato a chiudersi in se stesso a tal punto da diventare estraneo a ciò che lo circonda.
Lo scrittore Roberto, che tira le fila delle varie vicende, è un uomo profondamente irrisolto e insoddisfatto e questo lo spinge a provare molta rabbia nei confronti della moglie, donna solida, accogliente e pragmatica, e della figlioletta. Attraverso la scrittura Roberto attiva un processo di catarsi che gli consentirà non solo di annullare la distanza tra sé e i personaggi da lui creati, ma anche di ricordare un evento tragico del suo passato nascosto nei recessi più profondi della memoria.
La Fabbrico descritta da Camurri non è reale, piuttosto è cupa, fosca, sotterranea poiché riproduce i moti dell’anima dello scrittore e dei suoi personaggi. È il luogo in cui si creano rapporti, si stringono amicizie, ma anche quello dove avvengono fatti di sangue e in questo romanzo, di violenza sia fisica che psicologica, ce n’è davvero tanta. La scrittura è estremamente intima e scava nell'anima dei protagonisti mettendone a nudo gli stati d’animo, i sentimenti e le debolezze.
Leggendo questo libro è impossibile non provare un profondo senso di malessere e di straniamento, simile a quello derivante dalla visione di un film di David Lynch. Allo stesso tempo, non si può non restarne invischiati: il senso di fascinazione che le vicende e i personaggi esercitano sul lettore non lasciano scampo.
Infine c’è la nebbia che nasconde luoghi, oggetti, persone e quel qualcosa di cui tutti noi, in fin dei conti, siamo alla ricerca.
COSA MI È PIACIUTO
Ho amato molto l’elemento metanarrativo del romanzo e il modo in cui il protagonista cerca di entrare nel libro che sta scrivendo. Inoltre ho apprezzato il colpo di scena finale.
COSA NON MI È PIACIUTO
L’estrema violenza e la volgarità del linguaggio in alcune delle situazioni narrate.
L’AUTORE
Roberto Camurri è nato nel 1982, undici giorni dopo la finale dei Mondiali a Madrid. Vive a Parma ma è di Fabbrico, un paese triste e magnifico che esiste davvero. È sposato con Francesca e hanno una figlia. Lavora con i matti e crede ci sia un motivo, ma non vuole sapere quale. Il suo libro d’esordio, “A misura d’uomo” (NNE 2018), ha vinto il Premio Pop e il Premio Procida ed è stato tradotto in Olanda, Spagna e Catalogna. Il suo secondo romanzo, “Il nome della madre”, è stato tradotto in Olanda e Germania. “Qualcosa nella nebbia” è il suo terzo romanzo.
LA CASA EDITRICE
NN Editore ha avuto inizio il 19 marzo 2015, quando sono usciti in libreria “Benedizione” di Kent Haruf e “Sembrava una felicità” di Jenny Offill. Fin dal nome - NN sta per nomen nescio, nome sconosciuto, come nella carta d’identità degli "orfani" di padre – la casa editrice ha voluto dare risalto al tema della ricerca d’identità nel mondo contemporaneo, insieme alla qualità della scrittura e all'empatia suscitata nei lettori dalla voce degli scrittori al di là dei generi e della nazionalità degli autori. Il catalogo di NN non ha collane, ma si sviluppa in Stagioni, Trilogie e Serie. Ogni stagione illumina un tema specifico legato alla ricerca d’identità, come il peso di ruoli e relazioni, l’eredità del passato, gli alleati e i nemici nella ricerca del proprio posto nel mondo. In questo modo, i libri sono legati tra loro da invisibili fili rossi, a costituire nel loro insieme un ideale percorso di lettura.
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Ad ammazzare Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta non poteva essere stato solo il tritolo mafioso. Sul luogo del massacro furono ritrovati pentrite e T4, elementi che si trovano nel Semtex, un esplosivo di tipo bellico prodotto in Repubblica Ceca. La pentrite era usata dai militari per la velocità di detonazione molto elevata. Era lo stesso esplosivo utilizzato il 23 dicembre 1984 ai danni del treno rapido numero 904, proveniente da Napoli e diretto a Milano. Era stato dunque allestito un “secondo cantiere”, messo in piedi e di supporto a quello di Cosa Nostra, ma di origine diversa da quella mafiosa? C’era un secondo telecomando pronto a far saltare il giudice antimafia? L’ipotesi formulata dai magistrati di Caltanissetta non appariva più tanto fantasiosa. L’auto di Falcone rallentò poco prima della curva per Capaci, perché il giudice restituì in corsa il mazzo di chiavi all’agente Giuseppe Costanza, seduto dietro. Brusca, da parte sua, esitò un attimo a pigiare il bottone del telecomando. Eppure l’attentato riuscì lo stesso. Mentre si consumava la strage, dalla collinetta Nino Gioè con il suo cellulare “0337…” chiamò più volte un numero statunitense, del Minnesota: lo “001.612.77746…”. Alle 15.17, per quaranta secondi; alle 15.38, per ventitré secondi; alle 15.43, addirittura per cinquecentoventidue secondi, quasi nove minuti. Chi stava chiamando il mafioso? Sulla collina della morte fu trovato anche un foglietto contenente annotazioni riconducibili all’indirizzo Sisde di Roma e al numero del capocentro del Sisde di Palermo. L’utenza telefonica era quella dello 007 Lorenzo Narracci (braccio destro di Bruno Contrada, numero tre del Sisde). Narracci a Roma abitava in via Fauro, ai Parioli. Sul foglietto c’era scritto anche «via Pacinotti», che a Palermo era conosciuta come la via sede della Sip. Infine, vi era l’annotazione «guasto n. 2», ovvero «cellulare clonato». Non era finita qui. L’ingegner Francesco Naselli Flores, cognato di Carlo Alberto dalla Chiesa, passò dallo svincolo per Capaci a mezzogiorno del 22 maggio. Notò un furgone bianco, probabilmente un Fiat Ducato, circondato da sei persone, operai che si muovevano sull’asfalto che l’indomani sarebbe diventato terreno di strage. Naselli Flores raccontò di alcune persone che “stendevano cavi”. Ma nessun’azienda aveva ordinato di svolgere lavori nella zona in quei giorni. L’altra anomalia si chiamava Stefano Delle Chiaie, fondatore e leader di Avanguardia Nazionale e poi cofondatore di Ordine nuovo. “Er Caccola” si era fatto le ossa nei moti di Reggio Calabria, ed era finito al centro dei processi sulle grandi stragi fasciste, dai quali ne era uscito sempre pulito. In un documento, un’informativa dei carabinieri dell’ottobre 1992, si comunicava che Stefano Delle Chiaie ad aprile 1992 era in Sicilia per le elezioni politiche. Si informava che “er Caccola” aveva preso in quel periodo contatto con Mariano Tullio Troia, definito erroneamente boss di Cruillas, e che si sarebbe recato insieme ad alcuni boss nei pressi dello svincolo di Capaci per un sopralluogo. Inoltre, particolare di non poco conto, il neofascista si sarebbe interessato a reperire dell’esplosivo dalla cava di tal Sensale. Quando i carabinieri misero sotto osservazione la cava, non videro entrare Delle Chiaie. Ma videro Giovanbattista Ferrante, uomo d’onore della famiglia di San Lorenzo, che il 23 maggio era sulla collinetta di Capaci. La nota dei carabinieri fu spedita alla Prefettura, ai carabinieri del Ros e del comando territoriale e alle Procure di Caltanissetta e Palermo. L’informativa era nata dalle confidenze di una certa Maria Romeo, compagna di Alberto Lo Cicero, un falegname che non era “punciutu” (non affiliato a Cosa Nostra). Egli faceva solo da autista al boss Mariano Tullio Troia, soprannominato “U’ Mussolini” per le sue simpatie politiche. Lo accompagnava agli incontri con Totò Riina, dove Lo Cicero aveva visto Salvatore Biondino (uno dei componenti della squadra presente a Capaci insieme a Brusca).
Franco Fracassi - The Italy Project
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Nessun modello matematico [...] avrebbe potuto prevedere il maremoto che la notte del 28 dicembre 1908 colpisce Messina e Reggio Calabria. Le vittime sono oltre centomila: una cifra esatta non è mai stata data. Immensi i danni. Caotici e dispersivi i soccorsi che impiegano giorni e giorni per raggiungere le zone devastate. Nella periodizzazione della storia d’Italia il terremoto di Messina ha scarsissimo peso. È quasi un inciso dentro una cronologia dove hanno maggior rilievo non solo guerre e moti politici, ma anche l’avvicendamento di governi «balneari» e il succedersi di sbiaditi partiti. E tuttavia rimane l’impressione che in quegli ultimi giorni del 1908 venga scritta una pagina importante della nostra storia: quasi che il sisma, oltre a spazzare via Reggio e Messina e diverse altre località circostanti, abbia inferto una ferita all’unità stessa della penisola, distaccando il profondo sud dal resto del Paese. Vanificando così la speranza che le due parti della nazione possano trovare - prima o poi - passo comune: uno stringersi e fare comunità non attraverso il solito crogiolo di sangue versato sui campi di battaglia, in qualche ennesima avventura militare, ma - piuttosto - nella concretezza della quotidianità. Così non è stato e da allora, forse, la storia d’Italia si è trovata a inoltrarsi lungo altre vie. Una strada che fa sì che nel 1990, a ottantadue anni dal sisma, a Messina quasi settemila persone vivessero ancora nelle baracche costruite, tre generazioni prima, dai soccorritori venuti in aiuto dei sopravvissuti.
Giorgio Boatti, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Einaudi (Collana ET Saggi n° 527), 2002; pp. 105-06.
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Dove è la condanna bipartisan della politica contro le violenze neofasciste? DI FEDERICO MARCONI C’è una condanna che ancora non si è sentita, né forte né chiara. È quella della politica, che si gira dall’altra parte e fa finta di non vedere ogni volta che partiti e movimenti neofascisti si rendono protagonisti di atti di violenza e intolleranza, di cui spesso sono vittime cronisti e videoreporter. Una condanna forte, ma soprattutto bipartisan, per ricordare a tutti – dato che sembra essercene ancora bisogno, nel 2020 - che l’Italia è democratica e antifascista, e che non c’è posto per questi nostalgici di un passato e di una cultura inconciliabile con la nostra Costituzione. Ma questa condanna, nonostante gli episodi continuino a crescere, giorno dopo giorno, chissà se mai si sentirà. Purtroppo non è un caso isolato l’aggressione di cui siamo stati vittime il 7 gennaio 2019 il fotoreporter Paolo Marchetti e io, e per cui sono stati condannati in primo grado a 5 anni e sei mesi i leader di Forza Nuova Giuliano Castellino e di Avanguardia Nazionale Vincenzo Nardulli. Non è stato il primo né l’ultimo episodio del genere. I neofascisti hanno concesso il bis lo scorso 7 gennaio, quando due giornaliste videomaker, Roberta Benvenuto e Wendy Elliott, sono state aggredite e minacciate durante la stessa commemorazione , che si stava tenendo fuori dall’ex sede Msi dove furono uccisi i tre giovani camerati. O il 6 giugno, quando la manifestazione dei “Ragazzi d’Italia”, un insieme di ultras neri e militanti nei movimenti di estrema destra, è cominciata con i giornalisti che si sono dovuti allontanare per il lancio di bombe carta e le cariche da parte dei camerati. La condanna degli aggressori fascisti è una vittoria per tutti I 5 anni e mezzo in primo grado ai due esponenti dell'estrema destra romana spezzano una pretesa di impunità di certi ambienti. E sono una vittoria di chi crede nel nostro mestiere e nella libertà di informare Non ci sono solo le aggressioni e le violenze, ma anche le minacce e le contestazioni nei confronti di chi cerca di raccontare la galassia. Il caso di Paolo Berizzi, cronista di Repubblica, non ha eguali in Europa: è infatti l’unico giornalista a dover vivere sotto scorta per le continue intimidazioni ricevute dai neofascisti. C'è anche Federico Gervasoni, giovane reporter che vive sotto protezione per le minacce che continua a ricevere dopo la pubblicazione di un suo libro sul neofascismo bresciano. E poi ci sono i pesanti insulti ricevuti da Andrea Palladino per i suoi articoli su Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. O le contestazioni, sempre neofasciste, come quelle contro la presentazione del libro di Gianfrancesco Turano, inviato dell’Espresso , sui moti di Reggio Calabria e il rapporto tra ‘ndrangheta e neofascismo. Queste sono solamente alcuni degli episodi degli ultimi mesi, in cui a subire c'è chi cerca di raccontare l’estrema destra in Italia, i suoi rapporti con i gruppi ultras, i suoi ammiccamenti con i partiti, non solo di destra, che siedono in Parlamento. Sull’Espresso più volte abbiamo raccontato delle manifestazioni neonaziste a cui hanno partecipato esponenti di primo piano di Fratelli d’Italia, o di come la Lega volesse sfruttare non solo gli slogan dei partiti di estrema destra (“Prima gli italiani”, per fare un esempio tra tanti, era usato da Forza Nuova ben prima che venisse fatto suo dal Carroccio sovranista o dal partito di Giorgia Meloni) ma anche di utilizzare la rete di associazioni neofasciste sparse per tutta Italia per siglare alleanze nei territori, trovare qualcuno con cui riempire le piazze dei comizi, trovare qualche voto in più nell’urna con chissà quale promessa. E per questo, quando c’è da condannare le loro violenze si allontanano dai microfoni e si limitano a una scrollata di spalle.
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Il Tricolore
Il tricolore italiano quale bandiera nazionale nasce a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797, quando il Parlamento della Repubblica Cispadana, su proposta del deputato Giuseppe Compagnoni, decreta "che si renda universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di Tre Colori Verde, Bianco, e Rosso, e che questi tre Colori si usino anche nella Coccarda Cispadana, la quale debba portarsi da tutti". Ma perché proprio questi tre colori? Nell'Italia del 1796, attraversata dalle vittoriose armate napoleoniche, le numerose repubbliche di ispirazione giacobina che avevano soppiantato gli antichi Stati assoluti adottarono quasi tutte, con varianti di colore, bandiere caratterizzate da tre fasce di uguali dimensioni, chiaramente ispirate al modello francese del 1790.
E anche i reparti militari "italiani", costituiti all'epoca per affiancare l'esercito di Bonaparte, ebbero stendardi che riproponevano la medesima foggia. In particolare, i vessilli reggimentali della Legione Lombarda presentavano, appunto, i colori bianco, rosso e verde, fortemente radicati nel patrimonio collettivo di quella regione:: il bianco e il rosso, infatti, comparivano nell'antichissimo stemma comunale di Milano (croce rossa su campo bianco), mentre verdi erano, fin dal 1782, le uniformi della Guardia civica milanese. Gli stessi colori, poi, furono adottati anche negli stendardi della Legione Italiana, che raccoglieva i soldati delle terre dell'Emilia e della Romagna, e fu probabilmente questo il motivo che spinse la Repubblica Cispadana a confermarli nella propria bandiera. Al centro della fascia bianca, lo stemma della Repubblica, un turcasso contenente quattro frecce, circondato da un serto di alloro e ornato da un trofeo di armi.
L'epoca napoleonica
La prima campagna d'Italia, che Napoleone conduce tra il 1796 e il 1799, sgretola l'antico sistema di Stati in cui era divisa la penisola. Al loro posto sorgono numerose repubbliche giacobine, di chiara impronta democratica: la Repubblica Ligure, la Repubblica Romana, la Repubblica Partenopea, la Repubblica Anconitana.
La maggior parte non sopravvisse alla controffensiva austro-russa del 1799, altre confluirono, dopo la seconda campagna d'Italia, nel Regno Italico, che sarebbe durato fino al 1814. Tuttavia, esse rappresentano la prima espressione di quegli ideali di indipendenza che alimentarono il nostro Risorgimento. E fu proprio in quegli anni che la bandiera venne avvertita non più come segno dinastico o militare, ma come simbolo del popolo, delle libertà conquistate e, dunque, della nazione stessa.
Il Risorgimento
Nei tre decenni che seguirono il Congresso di Vienna, il vessillo tricolore fu soffocato dalla Restaurazione, ma continuò ad essere innalzato, quale emblema di libertà, nei moti del 1831, nelle rivolte mazziniane, nella disperata impresa dei fratelli Bandiera, nelle sollevazioni negli Stati della Chiesa.
Dovunque in Italia, il bianco, il rosso e il verde esprimono una comune speranza, che accende gli entusiasmi e ispira i poeti: "Raccolgaci un'unica bandiera, una speme", scrive, nel 1847, Goffredo Mameli nel suo Canto degli Italiani.
E quando si dischiuse la stagione del '48 e della concessione delle Costituzioni, quella bandiera divenne il simbolo di una riscossa ormai nazionale, da Milano a Venezia, da Roma a Palermo. Il 23 marzo 1848 Carlo Alberto rivolge alle popolazioni del Lombardo Veneto il famoso proclama che annuncia la prima guerra d'indipendenza e che termina con queste parole:"(…) per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell'unione italiana vogliamo che le Nostre Truppe(…) portino lo Scudo di Savoia sovrapposto alla Bandiera tricolore italiana."
Allo stemma dinastico fu aggiunta una bordatura di azzurro, per evitare che la croce e il campo dello scudo si confondessero con il bianco e il rosso delle bande del vessillo.
Dall'unità ai nostri giorni
Il 17 marzo 1861 venne proclamato il Regno d'Italia e la sua bandiera continuò ad essere, per consuetudine, quella della prima guerra d'indipendenza. Ma la mancanza di una apposita legge al riguardo - emanata soltanto per gli stendardi militari - portò alla realizzazione di vessilli di foggia diversa dall'originaria, spesso addirittura arbitrarie.
Soltanto nel 1925 si definirono, per legge, i modelli della bandiera nazionale e della bandiera di Stato. Quest'ultima (da usarsi nelle residenze dei sovrani, nelle sedi parlamentari, negli uffici e nelle rappresentanze diplomatiche) avrebbe aggiunto allo stemma la corona reale.
Dopo la nascita della Repubblica, un decreto legislativo presidenziale del 19 giugno 1946 stabilì la foggia provvisoria della nuova bandiera, confermata dall'Assemblea Costituente nella seduta del 24 marzo 1947 e inserita all'articolo 12 della nostra Carta Costituzionale. E perfino dall'arido linguaggio del verbale possiamo cogliere tutta l'emozione di quel momento. PRESIDENTE [Ruini] - Pongo ai voti la nuova formula proposta dalla Commissione: "La bandiera della repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a bande verticali e di eguali dimensioni". (E' approvata. L'Assemblea e il pubblico delle tribune si levano in piedi. Vivissimi, generali, prolungati applausi.)
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LA NOTTE DEL 26 SETTEMBRE MORIVANO IN CIRCOSTANZE SOSPETTE GLI "ANARCHICI DELLA BARACCA": AVEVANO SCOPERTO L'ASSE TRA ESTREMA DESTRA E 'NDRANGHETA CHE PORTO' ALLA STRAGE DI GIOIA TAURO
Il 22 luglio 1970, alle 17 e 10, mentre viaggia a una velocità di circa 100 Km/h all’altezza di Gioia Tauro il treno Torino - Palermo, con duecento persone a bordo, deraglia. Sei morti e settanta feriti. Le indagini si concentrano su un guasto o su un errore umano e alla fine vengono rinviati a processo quattro dipendenti delle ferrovie, che poi saranno prosciolti da ogni accusa. Caso chiuso. Ma qualcuno non ci sta. Non ci stanno un gruppo di ragazzi tutti sui vent’anni. Sono Gianni Aricò, Annalise Borth, Angelo Casile, Luigi Lo Celso e Franco Scordo. Tutti giovani, tutti anarchici. Li chiamano gli anarchici della Baracca, dal nomignolo della casa in cui sono soliti ritrovarsi. Sognatori, idealisti ma anche tenaci e preparati. Decidono di fare una controinchiesta sulla strage di Gioia Tauro e sui moti di Reggio. Cominciati come semplici proteste contro la decisione governativa di istituire Catanzaro come capoluogo della Calabria, i moti si trasformarono in una rivolta dai toni eversivi. A capeggiare infatti il Comitato d’azione per Reggio capoluogo sono esponenti dell’estrema destra locale, tra cui il missino Ciccio Franco che rilancerà il famigerato slogan “boia chi molla”. Dopo alcune settimane in cui incrociano fatti e deposizioni, scattano fotografie e stilano dossier, i ragazzi sono convinti di aver realizzato scoperte determinanti. Il 26 settembre partono per Roma su una Mini che non giungerà mai a destinazione. A 58km dalla capitale la loro vettura si scontra con un grosso camion. Muoiono tutti e cinque e l’incidente appare subito strano. Il camion, però, non presenta danni sul retro mentre è ammaccato di lato. I primi ad arrivare sul luogo del sinistro sono agenti della polizia politica. Infine, i documenti che i ragazzi dovevano portare nella capitale non saranno mai ritrovati. Il caso verrà archiviato come incidente stradale. Nel 1993 però due pentiti di ‘Ndrangheta cominciano a testimoniare sui fatti di Reggio, sostenendo che durante i moti si sia realizzata un’alleanza tra criminalità organizzata, partiti di estrema destra e movimenti eversivi e che la strage di Gioia Tauro sia stato uno dei prodotti di questo connubio. La tesi, confermata anche da ex estremisti di destra, verrà portata a processo. Sebbene i presunti mandanti della strage siano usciti indenni dal procedimento e gli esecutori materiali siano tutti ormai defunti, nel 2001 la corte di Assise di Palmi stabilisce che la causa del deragliamento del Treno del Sole fu effettivamente un attentato dinamitardo. Probabilmente era questo che quei cinque ragazzi, idealisti e tenaci, avevano scoperto.
Cannibali e Re Cronache Ribelli
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Piacenza, al via il festival “Venerdì Piacentini”
Piacenza, al via il festival “Venerdì Piacentini”. Boccata d’ossigeno per i commercianti dopo 2 anni di restrizioni. Si tratta di uno dei pochi casi in cui una lunga coda di auto rende felice un intero comparto economico. L’altra sera, guardando i tanti turisti che dal casello autostradale attraversavano il ponte sul Po per raggiungere il centro storico di Piacenza, in tanti hanno finalmente sorriso. I “Venerdì Piacentini” sono il più importante festival di Piacenza, un evento studiato fin dal 2011 dagli esperti di marketing e comunicazione dell’agenzia Blacklemon per portare un indotto economico al commercio locale. Per una città da 100.000 abitanti, i numeri di queste notti bianche sono straordinari: ogni venerdì si registrano circa 60.000 presenze che generano un indotto di quasi 2 milioni di euro a serata, distribuiti nel “centro commerciale naturale” della città emiliana al confine con la Lombardia. Dopo 2 anni di stop dovuti alla pandemia, i "Venerdì Piacentini” sono ripartiti seppure con qualche difficoltà. Gli organizzatori non hanno potuto muoversi fino agli inizi di giugno, un po’ per i dubbi sulle restrizioni, un po’ per le elezioni amministrative che hanno congelato i rapporti con il Comune di Piacenza. «Di solito iniziamo a lavorare al festival in febbraio - ha spiegato Nicola Bellotti, direttore artistico della manifestazione - ma questa volta abbiamo avuto tre settimane per fare tutto. Trovare gli sponsor, dal momento che il festival si paga esclusivamente con espositori e partner privati, ingaggiare gli artisti, progettare un piano di sicurezza aggiornato e ripensare alla logistica». Un’impresa apparentemente impossibile. Eppure nelle prime due serate del festival la magia si è ripetuta. Un fiume di persone si è riversato nelle piazze e nelle vie dello shopping della città emiliana vestita a festa. Bar, ristoranti e chioschi dello street food sono stati in grado di accogliere in poche ore decine di migliaia di turisti e i negozi aperti fino a mezzanotte hanno reso ancora più bello il centro storico di una città che già di per sé è un gioiello da scoprire, e conserva il fascino di quando fu capitale del Ducato di Parma e Piacenza dai Farnese, durante il Rinascimento. I “Venerdì Piacentini” funzionano e attirano turisti per un insieme di ragioni. Piacenza è una città lambita dal Po, al confine con la Lombardia, vicinissima a Milano, Lodi, Cremona, Pavia e Brescia, ma già in grado di offrire quel calore tipicamente emiliano che tanto piace ai lombardi perché sa di vacanza. Nelle strade del festival i turisti - accompagnati da decine di spettacoli musicali, sfilate, eventi sportivi, iniziative culturali e da numerose proposte gastronomiche, davvero per tutti i gusti – si sentono “in riviera”. Tanta gente arriva anche da Parma, Reggio-Emilia, Alessandria e Genova. «Piacenza ha la fortuna di essere una città facilmente raggiungibile - ha spiegato Susanna Pasquali, di Blacklemon - in un’ora è raggiungibile da Milano, Parma, Cremona, Brescia, Reggio-Emilia, Lodi, Pavia, Alessandria, un bacino di milioni di persone che si spostano volentieri il venerdì sera per una buona proposta gastronomica o di intrattenimento». Venerdì 15 luglio si terrà la serata conclusiva dei “Venerdì Piacentini”, con un programma davvero ricco. In piazza Cavalli si terrà una grande festa dedicata al pugilato e alle arti marziali, con incontri e spettacolari dimostrazioni di tecniche. In piazza Duomo i maestri della Milestone School of Music si alterneranno sul palco in un concerto che durerà tutta la notte; in piazza Borgo si ricorderanno i moti di Stonewall con il ritorno di “Borgo Rainbow”, i dj set dal terrazzo e lo spettacolo di Drag Queen. Lungo tutto il Corso Vittorio Emanuele II si alterneranno momenti di intrattenimento musicale e proposte gastronomiche. Sul Pubblico Passeggio andrà in scena un concerto jaz. In via San Siro (oltre all’apertura notturna della mostra dedicata a Klimt alla galleria Ricci-Oddi) si tornerà indietro nel tempo con un dj set con i vinili, come una volta; la festa continuerà anche ai giardini Merluzzo, in via XX Settembre, in via Mazzini, in via Calzolai, in via Garibaldi e in tutte gli angoli del cuore antico della città, all’interno delle mura farnesiane, con musica, artisti di strada e street food. Per riuscire ad organizzare questa edizione del festival, Blacklemon ha potuto contare sulla stretta collaborazione delle associazioni di categoria che compongono la cabina di regia degli eventi cittadini legati al commercio: Confesercenti, Unione Commercianti e CNA hanno ottenuto la collaborazione del Comune di Piacenza e posto le condizioni per riuscire a mettere in moto la macchina. IREN e Banca di Piacenza, come main sponsor, hanno risposto alla chiamata e così hanno fatto che aziende come TRS Ecologia e Terrepadane, sostenitori del festival fin dalla primissima edizione. Il contributo economico di questi partner e l’adesione degli espositori (in particolare le concessionarie di auto e moto) ha fatto il resto. Per ulteriori informazioni: www.venerdipiacentini.it... Read the full article
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UNA MENTALITA' ANCORA DA SCONFIGGERE. A Reggio Calabria una orrenda statua ricorda il senatore fascista dell'Msi protagonista dei Moti di Reggio. Qualche mese fa (novembre 2021) un minuto di silenzio, da parte dell'intero consiglio comunale di Reggio Calabria, in ricordo del "boia".
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#Repost @matteigaluppi #inrepostme @insaver.best —— #Repost @cannibaliere • • • • • • IL 26 SETTEMBRE MORIVANO IN CIRCOSTANZE SOSPETTE GLI "ANARCHICI DELLA BARACCA": AVEVANO SCOPERTO L'ASSE TRA ESTREMA DESTRA E 'NDRANGHETA CHE PORTÒ ALLA STRAGE DI GIOIA TAURO Il 22 luglio 1970, alle 17 e 10, mentre viaggia a una velocità di circa 100 Km/h, all’altezza di Gioia Tauro il treno Torino-Palermo, con duecento persone a bordo, deraglia. Sei morti e settanta feriti. Le indagini si concentrano su un guasto o su un errore umano e alla fine vengono rinviati a processo quattro dipendenti delle ferrovie, che poi saranno prosciolti da ogni accusa. Caso chiuso. Ma qualcuno non ci sta. Non ci stanno un gruppo di ragazzi tutti sui vent’anni. Sono Gianni Aricò, Annalise Borth, Angelo Casile, Luigi Lo Celso e Franco Scordo. Tutti giovani, tutti anarchici. Li chiamano gli anarchici della Baracca, dal nomignolo della casa in cui sono soliti ritrovarsi. Sognatori, idealisti ma anche tenaci e preparati. Decidono di fare una controinchiesta sulla strage di Gioia Tauro e sui moti di Reggio. Cominciati come semplici proteste contro la decisione governativa di istituire Catanzaro come capoluogo della Calabria, i moti si trasformarono in una rivolta dai toni eversivi. A capeggiare infatti il Comitato d’azione per Reggio capoluogo sono esponenti dell’estrema destra locale, tra cui il missino Ciccio Franco che rilancerà il famigerato slogan “boia chi molla”. Dopo alcune settimane in cui incrociano fatti e deposizioni, scattano fotografie e stilano dossier, i ragazzi sono convinti di aver realizzato scoperte determinanti. Il 26 settembre partono per Roma su una Mini che non giungerà mai a destinazione. A 58 km dalla capitale la loro vettura si scontra con un grosso camion. Muoiono tutti e cinque, ma l’incidente appare subito strano. Il camion non presenta danni sul retro mentre è ammaccato di lato. I primi ad arrivare sul luogo del sinistro sono agenti della polizia politica. Infine, i documenti che i ragazzi dovevano portare nella capitale non saranno mai ritrovati. Il caso verrà archiviato come incidente stradale. Continua nel primo commento. #cannibaliere #cronacheribelli #anarchici # (presso Bagnaia, Lazio, Italy) https://www.instagram.com/p/CFqEHZOKczu/?igshid=1ulq55e01h0ya
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La necessità di rinnovare con costanza la memoria storica del nostra Paese si colloca ben oltre alla discussione sul neofascismo rampante nella difficile situazione dell’Italia di oggi. Per questo motivo è più che mai valida la ricostruzione storica (per eseguita in maniera assolutamente sommaria) di ciò che accadde tra la fine di giugno e il luglio del 1960: cinquantanove anni fa. Era l'Italia del 1960. Ci si trovava in pieno miracolo economico, ma il benessere nascondeva profonde lacerazioni politiche e sociali. Si stava provando, con fatica, a uscire dagli anni'50 e a far nascere il centrosinistra. Un giovane democristiano, Fernando Tambroni esponente della corrente del presidente della Repubblica Gronchi, assumeva la Presidenza del Consiglio sostenuto da una maggioranza comprendente il partito neofascista, l'MSI. Quell'MSI che stava tornando alla ribalta con la sua ideologia e la sua iniziativa: quell'MSI che decise, alla fine del mese di Giugno, di tenere il suo congresso a Genova, Città medaglia d'oro della Resistenza. L'antifascismo, vecchio e nuovo, disse di no. Comparvero sulle piazze i giovani dalle magliette a strisce, i portuali, i partigiani. La Resistenza riuscì a sconfiggere il rigurgito fascista. Ma si trattò di una vittoria amara, a Reggio Emilia e in altre città la polizia sparò sulla folla causando numerose vittime. Questi i fatti, accaduti in quell'intenso e drammatico inizio d'estate di cinquantanove anni fa: è necessario, però, tornarvi sopra per riflettere, partendo da un dato. Non si trattò semplicemente di un moto di piazza, di opposizione alla scelta provocatoria di una forza politica come quella compiuta dall'MSI di convocare il proprio congresso a Genova e di annunciare anche come quell'assise sarebbe stata presieduta da Basile, soltanto quindici anni prima, protagonista nella stessa Città di torture e massacri verso i partigiani e la popolazione. Si trattò, invece, di un punto di vero e proprio snodo della storia sociale e politica d'Italia. Erano ancora vivi e attivi quasi tutti i protagonisti della vicenda che era parsa chiudersi nel 1945, ed è sempre necessario considerare come quei fatti si inserissero dentro una crisi gravissima degli equilibri politici. Una crisi inserita anche in un mutamento profondo dello scenario internazionale, nel quale si muovevano i primi passi del processo di distensione ed era in atto il fenomeno della "decolonizzazione", in particolare, in Africa, con la nascita del movimento dei "non allineati". Prima ancora, però, dovrebbe essere valutato un elemento di fondamentale importanza: si è già accennato all'entrata in scena di quella che fu definita la generazione "dalle magliette a strisce", i giovani che per motivi d'età non avevano fatto la Resistenza, ma ne avevano respirato l'aria entrando in fabbrica o studiando all'Università accanto ai fratelli maggiori; giovani che avevano vissuto il passaggio dall'Italia arretrata degli anni'40-'50 all'Italia del boom, della modernizzazione, del consumismo, delle migrazioni bibliche dal Sud al Nord, di una difficile integrazione sociale e culturale. In questo senso i moti del Luglio'60 non possono essere considerati semplicemente un punto di saldatura tra le generazioni, anzi rappresentavano un momento di conflitto, di richiesta di cambiamento profondo, non limitato agli equilibri politici. In quel Luglio '60, da non considerare - ripetiamo - soltanto per i fatti accaduti in quei giorni, ma nel complesso di una fase di cambiamento della società e della politica, si aprì, ancora, a sinistra, una discussione sulla natura della DC, fino a quel momento perno fondamentale del sistema politico italiano. Molti si chiesero, a quel momento, se dentro la DC covasse il "vero fascismo" italiano: non quello rumoroso e un poco patetico del MSI, ma quello vero; quello che poteva considerarsi il vero referente dei ceti dominanti, capace di portare al blocco sociale di potere l'apporto della piccola e media borghesia. Il partito democristiano appariva, dunque, a una parte della sinistra, soprattutto nei giorni infuocati della repressione, come il partito che avrebbe potuto in qualunque momento rimettere in moto in Italia (ricordiamolo ancora una volta: eravamo a soli quindici anni dalla Liberazione) un meccanismo politico –sociale –repressivo -autoritario tale da dar vita a nuove esperienze di tipo fascista. L'analisi sviluppata dal PCI togliattiano fu diversa. Nonostante le asprezze della polemica quotidiana il PCI aveva assunto come stella polare di tutta la sua strategia l'intesa con le masse cattoliche, da sottrarre al predominio moderato prevalente dal '47 in poi (grazie alla "guerra fredda") al vertice della DC. Ma la prospettiva non era così ingenua: essa comportava il proposito di far emergere le forze presenti all'interno della DC, anche al vertice del partito. In quel Luglio '60 il PCI cercò di operare in quella direzione, e il successo dello sciopero generale, pur macchiato di sangue, si rivelò efficace e significativo anche perché dall'interno della DC si aprì finalmente un varco a quella parte del gruppo dirigente che, sulle rovine dell'esperimento Tambroni, poté riproporre con maggiore efficacia e speranza di esito positivo una soluzione diversa: quella che abbiamo già richiamato delle "convergenze parallele" e, successivamente, del centrosinistra "organico". Oggi, a cinquantanove anni di distanza, possiamo meglio valutare l'esito di quei fatti: le contraddizioni che ne seguirono, il rattrappirsi progressivo della realtà riformatrice (a partire dal "tintinnar di sciabole" dell'estate 1964, fino alla disgraziata stagione del terrorismo, aperta nel 1969 dalle bombe di Piazza della Fontana), l'assunzione, in particolare da parte del PSI, via, via, di una vocazione "governista" sfociata nel decisionismo craxiano, i limiti di puro politicismo insiti nella strategia berlingueriana del “compromesso storico”, nello sviluppo abnorme di quella che già dagli anni’50 Maranini aveva definito come partitocrazia (con il contributo di un complessivo "consociativismo" allargato all'intero arco parlamentare) e, infine, nella "questione morale" che segnò, all'inizio degli anni'90, lo sconquasso definitivo del quadro di governo in coincidenza con la caduta del muro di Berlino (sulla quale furono commessi errori di valutazione enormi) e con l’avvio, con il trattato di Maastricht, della logica monetarista anti-democratica di gestione dell’Unione Europea sul modello reaganian-tachteriano della crescita delle diseguaglianze economiche e sociali fino alla drammatica attualità che stiamo vivendo in un quadro esaltato da un insieme di valori negativi. Forse luglio’60 rappresentò uno degli ultimi passaggi utili per contrastare radicalmente questo processo di involuzione e riproporre alcune radici di fondo della prospettiva resistenziale ma è necessario ammettere, anche in un momento di rievocazione importante come l’attuale, che quel messaggio non fu completamente colto.
Franco Astengo
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La strada bruciata delle magliette a strisce di Marco Philopat Sono passati cinquantasette anni dalla rivolta dei ragazzi in maglietta a strisce scesi piazza a Genova per impedire un congresso di neofascisti. Un convegno voluto anche dall'allora governo del democristiano Tambroni, che da pochi mesi era diventato presidente del Consiglio grazie ai 14 voti dei parlamentari dell'Msi. La determinazione dei manifestanti fecero fallire quel tentativo di sdoganare, per la prima volta dal dopoguerra, gli eredi del tragico ventennio. Quel convegno fu infatti annullato. Nell'estate del 1960 ci fu un terremoto, di quelli imprevisti, violento e allo stesso tempo liberatorio. In prima fila negli scontri di piazza, da Genova a Catania, da Reggio Emilia a Palermo, da Roma a Bologna, c'erano giovani sui vent'anni, operai figli di operai che pagarono cara la loro voglia di farsi sentire. La pagarono con il sangue. In undici rimasero sull'asfalto, crivellati dalle sventagliate dei mitra e dai colpi di pistola. Altre centinaia finirono in ospedale o sul banco degli imputati come pericolosi sovversivi e condannati a scontare anni di carcere. Sapevano di rischiare grosso eppure scesero in piazza convinti che andasse fatto, che quello era il loro dovere, l'unico modo per dire no al ripetersi della storia. Per questo motivo i ragazzi con le magliette a strisce rimasero impresse nel mio cervello appena ne venni a conoscenza. Sentii parlare di loro, per la prima volta in vita mia, quando indossavo con orgoglio la mia nera corazza punk. Fu il libraio Primo Moroni che mi spiegò bene cosa accadde il 30 giugno 1960 a Genova. “Andammo sulle barricate a fare a cazzotti con i celerini e carabinieri che difendevano i fascisti. Eravamo tutti giovani, generosi e intransigenti, portavamo i jeans, avevamo il mito dell'America e siccome i soldi in tasca erano pochi ci vestimmo con delle magliette comprate per trecento lire nei grandi magazzini. Non ci interessava una vita passata solo lavorando, preferivano guadagnare meno ma avere più tempo libero, però quando ci fu da protestare non ci tirammo certo indietro.” Era uno dei suoi strepitosi racconti orali che per noi ventenni di allora rappresentava una specie di rappresentazione cinematografica a dir poco epica, con i moti dei movimenti operai come protagonisti. C'era stato anche lui a Genova quando aveva 24 anni e partecipò agli scontri in prima fila dopo aver mal interpretato una telefonata del responsabile del servizio d'ordine di una sezione della Fgci milanese alla quale era iscritto. Inutile dire che per noi punk, che consideravamo i nostri vestiti come uno dei pochi strumenti per esprimere rabbia e ribellione, quelle magliette a strisce furono una precisa indicazione sui nostri futuri doveri. D'altronde, come tentò sempre di sottolinearci Primo, non avevamo inventato proprio niente. Già il grande poster incorniciato che il libraio teneva alla sue spalle ci consigliava di guardare un po' oltre la nostra divisa. Era infatti una foto d'epoca che ritraeva la Banda Bonnot, anarchici francesi nonché rapinatori di banca che vestivano in nero come noi, che vivevano in una comune ed erano vegetariani come noi. (Ai quei tempi noi punk stavamo tutti al Virus di via Correggio). A Milano poi c'erano stati i giubbotti di pelle della Volante Rossa, i capelloni beat che inneggiavano al libero amore, gli studenti con l'eskimo e infine i trench bianchi della famosa banda Bellini... Le magliette a strisce orizzontali bianche e blu o bianche e rosse furono un segno distintivo che riunì i giovani contro il ritorno del fascismo, in una lotta fino all'ultimo sangue come quello dei Morti di Reggio Emilia, (7 luglio 1960), immortalati nella celebre canzone di Fausto Amodei. Cosa portò alcuni ragazzi a scegliere un indumento come simbolo di una rivolta contro l'autorità costituita? Cosa li mosse? Non erano bandiere rosse quelle che sventolavano, erano semplici magliette comprate al discount. Ma soprattutto perché dopo il 1960 non ci fu più niente di così dirompente nel rapporto tra i simboli della rivolta e l'impegno politico? Dopo tanti anni si potrebbe anche affermare che noi non siamo stati capaci di tramandare l'importanza dell'adottare nuovi simboli in grado di rappresentare un'opposizione intransigente alle attuali derive totalitarie. Resta il fatto che i ragazzi con le magliette a strisce non furono mai così irrimediabilmente ostacolati dai loro rappresentanti istituzionali come invece capitò alla mia generazione. Per farvi un esempio vi vorrei riportare le parole che l'allora deputato del Psi Sandro Pertini, pronunciò a Genova il 28 giugno 1960. Sarà ricordato come “u brighettu”, il fiammifero, a significare che accese la fiamma della sollevazione popolare. Sandro Pertini arrivò attraversò Piazza della Vittoria a Genova strinse la mano ai vecchi compagni partigiani e salì sul palco accolto dall'ovazione di trentamila antifascisti. “Le autorità romane sono impegnate a trovare quelli che ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazione di antifascismo” gridò con tutto il fiato che aveva in gola. “Non c'è bisogno che s'affannino. Lo dirò io chi sono i nostri sobillatori. Eccoli qui: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell'Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della Casa dello studente, che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime e delle risate sadiche dei torturatori.” Gli applausi lo interruppero per diversi minuti. Poi Pertini continuò. “Io nego che i missini abbiano il diritto di tenere a Genova il loro congresso. Ogni iniziativa. ogni atto, ogni manifestazione di quel movimento è una chiara esaltazione del fascismo. Si tratta, del resto, di un congresso qui convocato, non per discutere ma per provocare e contrapporre un passato vergognoso ai valori politici e morali della Resistenza” Pertini chiese a tutti di scendere in piazza per tutelare la libertà conquistata con il sacrificio di migliaia di innocenti. “Oggi i fascisti la fanno da padroni, sono di nuovo al governo, giungono addirittura a qualificare come un delitto l'esecuzione di Mussolini. Ebbene, io mi vanto di aver ordinato la fucilazione di Mussolini, perché io e gli altri membri del CLN non abbiamo fatto altro che firmare una condanna a morte, pronunciata dal popolo italiano vent'anni prima.” Pertini comunque non fu il solo a stare a fianco dei ragazzi in rivolta, lo dimostra il fatto che al processo sui fatti di Genova e quelli siciliani o di Reggio Emilia, gli imputati per gli scontri furono difesi dai migliori avvocati dell'apparato del Pci, tra cui Umberto Terracini che aveva redatto la Costituzione e il capo partigiano Giovanbattista Lazagna. Inoltre i vertici del partito togliattiano cominciarono una seria autocritica interna per capire lo scollamento tra il movimento spontaneo e la strategia del Pci. “Non bisogna perdere il contatto con le masse entrate in lotta” dicevano. Le testimonianze che dimostrano tutta la lacerazione di quel dibattito sono riportate da molti libri. Il primo è uscito da qualche settimana e s'intitola Al tempo di Tambroni di Annibale Paloscia per Mursia, poi c'è lo stupendo romanzo del 2008, L'estate delle magliette a strisce di Diego Colombo per Sedizioni e infine un capitolo del breviario di racconti orali di Cesare Bermani, Il nemico interno per Odradek, dove potete trovare le ragioni della telefonata mal interpretata da Primo Moroni. Vedere i dirigenti del Pci barcamenarsi tra i Teddy boy e le magliette a strisce presumibilmente usate da personaggi trasgressivi come Picasso e Brigitte Bardot, fa oggi morire dal ridere. Emilio Sereni s'interrogava sulla “gioventù sotto una direzione che non è la nostra.” E in effetti le iscrizioni alla Fgci erano in calo mostruoso (365 mila nel '56, 229 mila nel 1960). C'era chi accusava i giovani di aver subito una “deteriore influenza dal clericalismo e dall'americanismo” e chi invece sosteneva il dialogo, certamente non fu facile per tutti loro controbattere alle tesi dello scrittore Carlo Levi apparse sul settimanale “ABC”. “Spingere con la forza e non tacere. Dovete usare la vostra forza per sovvertire, protestare. Fatelo voi che siete giovani.” diceva Levi e quindi, rivolto ai dirigenti del Pci notava. “Questi fatti impongono a tutti un esame approfondito, e l'elaborazione, o la modificazione di programmi e di metodi: lo studio preciso di fini concreti, nati dalla coscienza popolare. La fiducia, rinata attraverso l'azione, è un bene prezioso che non può essere deluso e dissipato”. Su quelle magliette a strisce, e in senso più ampio sulla passione per i modelli trasgressivi dell'american way of life trasmessi dai film come The Wild one o con le scosse del Rock 'n' Roll, nessuno dei dirigenti comunisti o socialisti riuscì mai a capirci qualcosa. Eppure non erano in pochi quelli che avevano compreso quanto quei modelli erano sedimentati tra i giovani e quanti immaginari di società diverse e vissuti generazionali affascinanti avessero sprigionato. Negli ultimi 50 anni i partiti che avrebbe dovuto rappresentare i diritti dei lavoratori e delle fasce più deboli della società si sono trasferiti piano piano dall'altra parte della barricata, ormai è palese. Durante gli anni Settanta furono impegnati a spegnere ogni fuoco possibile che nasceva spontaneo tra le masse diseredate, ripiegando sulla criminalizzazione dei sobillatori, come a dire: “Se non ci fossero gli estremisti di sinistra, il mondo sarebbe perfetto.” Poi, dopo essersi battuti soprattutto per dimostrare di essere all'altezza della modernità, di essere persone raffinate e di buone maniere e amici del business globale, hanno raggiunto l'apice nel dopo G8 2001, (ancora una volta a Genova), con la deleteria questione della nonviolenza. E lì è crollata la maschera. È vero che da parte nostra, e intendo ragionare sui quei pochi punk e autonomi che restarono a galla durante gli anni del riflusso, non ci fu la capacità di smontare i meccanismi di cancrena sociale che si svilupparono attorno alle nostre roccaforti liberate. Forse non capimmo bene ciò che si nascondeva dietro la gelateria dei gusti colorati e degli stili di vita che stava prendendo piede nelle nuove generazioni. Non capimmo neanche la danza degli spettri dei rave nel limbo fluorescente di una bolla destinata prima o poi a scoppiare, senz'altro fummo travolti dal bling bling degli anni '00 con il luccicare delle fibbie dolcegabbana a simboleggiare la resa definitiva del nostro futuro. Non sta a me provare a fare analisi, sono solo un grande appassionato delle magliette a strisce e di tutte le creature simili che si sono susseguite nel corso del tempo. Però di una cosa ne sono sicuro, noi fummo contrastati in primo luogo da ciò che rimaneva dell'apparato dell'ex partito comunista italiano teso nella sempre più spasmodica ricerca di un paese normale... Purtroppo oggi l'orologio della storia è ritornato brutalmente indietro e i fascisti non solo sono stati ampiamente sdoganati, ma hanno addirittura riconquistato il potere e l'egemonia culturale. Ora che l'insolente corruzione dei politicanti e la tracotanza padronale hanno dilagato, sono ancora pochi coloro disposti a non naufragare di fronte alla paura nei confronti della passione per la libertà e l'uguaglianza. E noi continuiamo a essere orfani di quelle magliette strisce, che oltre a difendere i diritti già acquisiti, riuscirono a rilanciare sul futuro per conquistarne nuovi. -Antonietta Agostini-
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I moti di Reggio 50 anni fa la rivolta nera dei “boia chi molla” che creò un nuovo blocco di affari e potere. All’ombra di ‘ndrangheta e massoneria - #Reggio #rivolta #“boia #molla” #nuovo
http://dlvr.it/RcBNhr
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