#Guerra 1935 Massaua
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pensieriinlibertablog · 1 year ago
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Che parte conosciamo della storia
Quando ho iniziato a studiare la storia della mediazione ho verificato con stupore che all’Università non mi avevano insegnato i fatti che ho scoperto da solo andando a scavare nei secoli precedenti al XIX. Poi quando è arrivato il decreto 28/10 sulla mediazione non capivo perché l’avvocatura italiana prendesse delle posizioni nei confronti dell’istituto che potevano solo essere frutto di…
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gregor-samsung · 5 years ago
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Il “misterioso liquido” era l'iprite o, per essere piú esatti, il diclorodietilsolfuro S(ClCH₂CH₂)₂. Fin dai primi mesi dell'estate [1935] ne erano state inviate a Massaua alcune centinaia di tonnellate, insieme ad altri gas soffocanti, lacrimogeni e starnutatori. Dell'invio erano al corrente solo poche persone, poiché l'impiego dei gas era proibito dal protocollo di Ginevra del 17 giugno 1926, che l'Italia aveva solennemente sottoscritto. A sentire il generale Faldella, che in quell'epoca dirigeva la sezione etiopica del SIM [Servizio Informazioni Militare], tanto lui che il suo diretto superiore Roatta, appresero per caso, frugando nel sacco postale di un aereo, che in Etiopia erano stati usati i gas. «Approfittando del breve scalo che il postale Cairo-Londra faceva a Centocelle,» ci ha dichiarato il generale Faldella, «i nostri agenti esaminavano i sacchi della corrispondenza. Un giorno scoprono nel plico che un giornalista inglese invia ad un'agenzia di Londra alcune foto sospette, che riproducono alcuni abissini coperti di piaghe. Qualche minuto dopo le foto sono sul mio tavolo e poco dopo su quello del professor Castellano, a quel tempo il miglior specialista di malattie tropicali. Castellano osserva le foto e risponde che non vi possono essere dubbi: gli etiopici riprodotti sono stati colpiti da liquidi vescicanti. Ci guardiamo con reciproco imbarazzo. Poi il professore soggiunge che, tuttavia, anche i lebbrosi presentano lo stesso quadro, e mi mostra a riprova alcune fotografie. Davanti a questa rassomiglianza, prendo un'improvvisa decisione. Le foto saranno recapitate a Londra, ma non quelle autentiche, le altre che riproducono i lebbrosi. E quando, qualche giorno dopo, i giornali inglesi pubblicano le “tragiche immagini”, il nostro ambasciatore a Londra, Dino Grandi, avrà buon gioco nel dimostrare che si è trattato soltanto di “un ignobile trucco” ordito dalla propaganda antifascista». Il 30 dicembre, tuttavia, con un telegramma alla SDN [Società delle Nazioni], Hailé Selassié confermava il gravissimo episodio: «Il 23 dicembre, [gli italiani] hanno fatto uso contro le nostre truppe, nella regione del Takazzè, di gas asfissianti e tossici, ciò che costituisce una nuova aggiunta alla lista già lunga delle violazioni fatte dall'Italia ai suoi impegni internazionali». Dinanzi all'ondata di indignazione suscitata nel mondo, il regime cercò dapprima di negare, poi parlò di “legittima ritorsione” contro l'impiego fatto dagli etiopici di pallottole esplosive (dum-dum), ed infine fece una parziale ammissione precisando che non si trattava di gas tossici ma di gas paralizzanti il cui effetto durava soltanto poche ore. Ma il fatto più grave è che, mentre a Roma si negavano gli addebiti, in Etiopia si continuava sistematicamente a fare uso dei gas. E ci sorprende che l'ex ministro fascista alle Colonie, Alessandro Lessona, abbia potuto scrivere nelle sue recenti memorie che i gas furono usati una sola volta, per “vendicare” il pilota Minniti: «Il generale Graziani, informato con assoluta certezza dell'accaduto, decise di far sganciare, per intimidazione e per diritto di rappresaglia, ‘tre’ dico 'tre’ piccole bombe a gas sul campo nemico teatro di tanta ferocia. Queste e nessun'altra furono le bombe a gas lanciate sugli abissini.» […]  Subito dopo la fine del conflitto, a Ginevra, l'Imperatore confidò all'antifascista Mario Rietti, che di lí a due mesi sarebbe caduto sul fronte d'Aragona in difesa della Spagna repubblicana, che egli non conservava alcun rancore per il popolo italiano e che anzi lo commiserava perché, aggiunse: «Il fascismo ha impiegato per distruggere l'indipendenza dell'Etiopia gli stessi violenti metodi che ha usato e usa ancora per distruggere le libertà in Italia.»
Angelo Del Boca, La guerra d'Abissinia 1935-1941, Feltrinelli, Milano, 1965; pp. 74-77.
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Le teleferiche coloniali dell'Africa Orientale Italiana
Le teleferiche coloniali dell’Africa Orientale Italiana
IN SOMALIA Sebbene fosse la più importante per la sua eccezionale lunghezza e abbia ricoperto un ruolo fondamentale durante la guerra del 1935-36, la teleferica Massaua-Asmara non fu l’unica dell’Africa Orientale perché ne sono esistite sia in Somalia che in Etiopia. Dopo quella dell’Eritrea la seconda per importanza era quella delle saline di Dante in Migiurtinia: anche se di essa si è già…
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Il Comandante Diavolo, Amedeo Guillet, raccontato nel 1955 da Indro Montanelli
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Due anni orsono il nuovo ambasciatore d’Italia al Cairo, Jannelli, che, per un di quei malintesi geografici in cui la nostra politica estera cade di sovente, ha il compito di Presentarci anche nello Yemen, partì per Taiz, accompagnato dal primo segretario dell’ambasciata, per presentare all’Imam le sue credenziali. Gli ospiti vennero accolti con la consueta sontuosa ospitalità, e la cerimonia fu solenne. Ma l’Imam, mentre Jannelli in feluca e spadino gli volgeva il discorsetto di prammatica, teneva gli occhi fissi sul segretario, che invece teneva i suoi un po’ codardamente rivolti a terra. E fu a lui che, terminata l’allocuzione ufficiale dell’ambasciatore, disse, al di fuori di ogni formula protocollare e sul tono indulgente d’un babbo che abbia deciso di perdonare una scappatella al suo figliuolo: «Alla fine, Ahmed Abdallah Al Redai, sei tornato a casa, eh?».
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Ahmed Abdallah Al Redai, nell’annuario della nostra diplomazia, porta il bel nome savoiardo di Amedeo Guillet, che è anche quello con cui venne iscritto nei registri dello stato civile quando nacque, quarantasei anni orsono. Ma esso non gli rimase addosso che fino al 1935, quando i cavalleggeri libici che militavano nel suo squadrone decisero di ribattezzarlo e, al termine di una carica in cui per due volte lo videro schizzar via di groppa al cavallo ucciso e sempre risalire su un altro pur con una gamba spappolata da una pallottola, lo chiamarono Communtàr-As-Sciaetàn che vuoi dire Comandante Diavolo.
Questa seconda incarnazione durò sei anni, durante i quali Comandante Diavolo collezionò altre quattro medaglie d’argento, prima in Abissinia, poi in Spagna, poi di nuovo in Abissinia. Finché la sua divisa di maggiore fu ripescata, lorda di sangue, su un campo di battaglia, dove i pochissimi che non morirono furono tutti fatti prigionieri.
Delle guerre che hanno la disgrazia di perdere, i popoli di scarso carattere preferiscono cercare di dimenticarsi al più presto, seppellendo nella stessa bara eroi e traditori; casi di fellonia e gesti di eroismo. E così noi italiani, se vogliamo sapere qualcosa dell’episodio di Cherù, dobbiamo sfogliare gli annali dello stato maggiore britannico dov’esso è definito, da un nemico che ogni tanto si ricorda di essere stato il più sportivo del mondo, the most gallant affair of this war, la più cavalleresca impresa di questa guerra.
Cherù sta, sulle pendici che dall’acrocoro eritreo digradano verso il bassopiano occidentale, poco oltre Cheren dove il povero generale Lorenzini veniva ammassando, per l’ultima disperata difesa dell’Africa orientale, le poche truppe che aveva a disposizione. Aveva bisogno di ventiquattr’ore di tempo per sistemare alla meglio, contro i mezzi corazzati e le artiglierie britanniche che irrompevano dal Sudan, le sue sparpagliate ed eterogenee fanterie. Ma non aveva sottomano, per ritardare l’urto, che gli ottocento cavalieri amhara, eritrei e arabi, di Comandante Diavolo. Fu la penultima carica della storia militare europea prima quella del Savoia in Russia, che fu l’ultima. E non me l’ha raccontata il protagonista, che d’altronde non racconta mai nulla. Me la raccontò un ufficiale britannico, che quel giorno comandò il fuoco di una batteria di cannoni con alzo a zero contro quell’orda irrompente di uomini che urlando come ossessi a bordo di cavalli dalle froge bianche di bava e dagli occhi iniettati di sangue, travolsero ogni. cosa. Egli non è mai riuscito a capire come andò quell’affair, di dove fossero sbucati quei dannati e come facessero ad arrivare sui pezzi che avventavano su di loro un uragano di granate.
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Ci rimasero quasi tutti, bipedi e quadrupedi, ed era obbligatorio ritenere che ci fosse rimasto anche Communtàr-As-Sciaetàn. Ma, nonostante le diligenti ricerche che ne fecero i britannici, i quali volevano assicurarsi che quel tipo fosse proprio morto, il suo corpo non fu mai trovato. Per la semplicissima ragione che in quel momento, ebbene arricchito di una quinta pallottola in aggiunta alle quattro già a zonzo tra le sue frattaglie, esso navigava, avvolto in una futa araba, tra le ambe e le forre dell’altopiano.
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Cheren caduta, dopo quaranta giorni di battaglia in cui rimasero sul terreno l’ottanta per cento dei nostri col loro comandante Lorenzini, arresa l’Amba Alagi, gl’inglesi ricercavano ancora Comandante Diavolo. Lo ricercavano dappertutto, salvo che tra le pieghe della futa di Ahmed Abdallah Al Redai, povero yemenita che, in compagnia di alcuni suoi compatrioti, ex gregari di Communtàr-As-Sciaetàn, conduceva una peripatetica vita di disoccupato in cerca di lavoro. Bruno e segaligno, conoscitore perfetto della lingua e dei costumi arabi, Ahmed in fondo se la sarebbe cavata benissimo, se si fosse deciso a chiedere aiuto e ospitalità ai molti amici che aveva fra i concessionari italiani che i nuovi padroni avevano lasciato a piede libero. Ma egli non voleva aver nulla a che fare con loro. All’opposto di molti partigiani di nostra conoscenza, tanto bravi a lanciar bombe quanto pronti a pagarne il prezzo con la pelle altrui, Ahmed aveva detto ai suoi compagni: «Mangeremo solo alle spalle del nemico» e ne dava l’esempio per primo.
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C’era una grossa taglia sulla sua testa e la minaccia di fucilazione a chiunque gli desse aiuto. Ahmed non ne chiese mai a nessuno. Non era convinto della disfatta, o meglio era convinto che fosse soltanto locale. Il giorno, pensava, in cui Rommel fosse entrato ad Alessandria e gli inglesi in Eritrea fossero rimasti isolati, con quegl’italiani a piede libero e con i depositi di armi nascosti qua e là, si poteva riaprire il capitolo momentaneamente interrotto ad Amba Alagi. Si trattava di resistere. E per resistere, con quella gamba cionca e col fegato roso dall’ameba e dalla malaria, qualche volta si abbassava all’infame mestiere di delatore, andando, a denunziare agl’inglesi Comandante Diavolo, che giurava, di aver visto qua o là, per riscuotere il premio. Ogni tanto offriva loro anche i suoi servigi. E fu così che un giorno cosse due uova al capitano Reich ch’era il più spietato dei suoi persecutori.
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Nove mesi durò questa vita senza che Rommel si decidesse a isolare gl’inglesi in Eritrea. E Ahmed Abdallah Al Redai, con gli ultimi due compagni yemeniti rimastigli, si era ridotto a far l’acquaiolo a Massaua, dove si era rotta la conduttura e i rifornimenti bisognava farli ai pozzi in quella che si è sempre chiamata «la piana della morte» per vi dei colpi di sole e di calore che ci si busca. Ahmed si aggirava di tucul in tucul con i suoi otri di pelle penduli alla schiena di un asino, urlando: «Donne!… La mia acqua è fresca come caldo è il vostro cuore!…». E son discorsi che anche sulle negre fanno sempre il loro effetto.
Finalmente ebbero, lui e il suo ultimo compagno, di che pagarsi un passaggio su una barca che faceva la spola con Aden. Ma era una fusta di pirati che, intascato il denaro dopo due giorni di navigazione li buttarono in mare, fronte alla costa dancala, dove alcuni nomadi pastori, segno di benvenuto, li derubarono del poco che restava loro e li lasciarono sulla spiaggia tramortiti di botte. Anni orsono, Amedeo Guillet, rientrato nei suoi panni, ripreso il proprio nome d’origine, tornò con l’ambasciatore Conti in quello squallido deserto alla ricerca della solitaria zeriba, un centinaio di chilometri a sud di Massaua dove tuttora vive Ibrahim, colui che quella sera raccolse svenuti i due relitti umani e li salvò masticando un po’ di burgutta e ficcandogliela a forza fra i denti. Ora è contento, Ibrahim, perché Guillet gli ha fatto costruire un pozzo in muratura, ch’era il suo gran sogno. Però rimpiange ancora che Ahmed quella volta abbia rifiutato di sposare sua figlia, che pure è una gran bella ragazza. E Guillet riconosce lealmente che, nella sua spericolatissima vita, il pericolo più grosso effettivamente lo corse allora e che a salvarlo dalla tentazione di finire lì, in quella perduta zeriba, fu solo il ricordo di una bionda cugina di nome Bice…
Il secondo imbarco, di lì a qualche settimana, fu più fortunato. E l’Imam dello Yemen non si mostrò affatto scontento di annoverare fra i suoi sudditi quell’Ahmed Abdal-lah Al Redai che, per quanto di aspetto piuttosto patibolare, oltre a saper raccontare in perfetto arabo meravigliose storie di emiri e di califfi, riusciva a incantare, non si sa come, i cavalli, tramutando i più riottosi ippogrifi nei più placidi brocchi. E infatti si ebbe molto a male che Ahmed, un certo punto, volesse tornare sui suoi passi e discendere a Hodeidah per imbarcarsi clandestinamente su una nave della Croce Rossa che andava a ripescare i civili italiani dell’Africa orientale. Per questo lo accolse con aria affettuosa, sì, ma anche imbronciata, due anni fa, quando se lo vide ricapitare a Corte in feluca di diplomatico, quell’ingrato di Ahmed Abdallah Al Redai.
Il fatto è che anche Stalingrado, anche la caduta della Libia e della Tunisia sembravano, a Comandante Diavolo, disfatte soltanto locali. E quando, dopo settanta giorni di navigazione, egli poté riprendere il suo vero nome nel porto di Napoli (dove trovò ad aspettarlo un Ordine Militare di Savoia e quella bionda cugina che si era sempre rifiutata di capire cosa significassero le parole «disperso in combattimento» con cui il superiore ministero aveva creduto in un primo tempo di averle partecipato la notizia della morte di Amedeo), la prima cosa che fece fu di precipitarsi a Roma per chiedervi di essere paracadutato nuovamente Abissinia coi mezzi necessari a prepararvi la riscossa. Ma vi arrivò contemporaneamente al comunicato che annunziava l’armistizio. Comandante Diavolo curvò la testa e seguì il suo re. Qualche settimana dopo, a Brindisi, incontrò a una mensa alleata due degli ufficiali britannici che gli avevano dato la caccia in Eritrea. «Che fortuna non avervi incontrato allora!» dissero cavallerescamente alzando il bicchiere alla sua salute. «Che fortuna per voi, forse. Che disgrazia per me, di certo!» rispose con amarezza il tenente colonnello Guillet.
E ora eccolo qui, questo gran ragazzo quasi cinquantenne, con Bice e due bambini, primo segretario della nostra ambasciata al Cairo con mansioni di incaricato d’affari nello Yemen. Entrò in diplomazia non per «meriti speciali», ma in seguito a regolare concorso, quando dovette convincersi (ma quanto gli costò…) che, per Comandanti Diavolo, nell’esercito italiano non c’era più posto. Se lo incontrate, evitate di parlargli delle sue avventure. Vi troncherebbe la parola in bocca con un frettoloso: «Ma no, ma no… Esagerazioni…». E anche alle pallottole che lo hanno ridotto un colabrodo, cercate di alludere con discrezione.
«La gamba?» mi fa tastandosi quella che si trascina dietro, cionca e balbuziente. «La curo con lo yoga e sta benissimo, guarda…» Posa il bicchiere, guizza in aria a corpo intelito come un misirizzi, vi si rovescia, e ricasca nello stesso punto.
Ieri, su una cavalla di nome Brigitte, ha vinto il suo ennesímo concorso ippico.
Amedeo Guillet raccontato da Indro Montanelli Il Comandante Diavolo, Amedeo Guillet, raccontato nel 1955 da Indro Montanelli Due anni orsono il nuovo ambasciatore d'Italia al Cairo, Jannelli, che, per un di quei malintesi geografici in cui la nostra politica estera cade di sovente, ha il compito di Presentarci anche nello Yemen, partì per Taiz, accompagnato dal primo segretario dell'ambasciata, per presentare all'Imam le sue credenziali.
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«La vasta organizzazione dei servizi marittimi nazionali ed il crescente arricchirsi di quelli aerei disimpegnati dalle possenti ali italiane, creano collegamenti che, avvicinando l’Impero alle porte di casa, assicurano anche al regolamento dei rapporti economici l’ausilio di un tramite bancario cosi rapido ed ordinato quale in altri tempi sarebbe parso illusione prevedere». Circolare del settembre 1936 annunciante l’apertura della Filiale del Banco di Roma di Addis Abeba.
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  Con la guerra d’Etiopia oltre all’immenso apparato bellico l’Italia dovette sostenere e organizzare i più svariati servizi sia nel campo economico e sociale sia in quello dei trasporti e dei rifornimenti, affinché con l’avanzata delle truppe anche quella delle masse di operai fosse sufficientemente appoggiata. Si presentò quindi l’esigenza di avere a disposizione dei funzionanti servizi bancari.
Come l’organizzazione degli uffici postali si andò sviluppando capillarmente ovunque sorgesse un nuovo nucleo di vita, così bisognava provvedere anche ai servizi bancari atti a raccogliere opportunamente il risparmio, disciplinare i movimenti monetari e soprattutto per assecondare il movimento mercantile, assistere finanziariamente le nuove iniziative imprenditoriali, a coordinare i rapporti con l’Italia e con l’Estero.
Il Banco di Roma durante la fase preparatoria della guerra d’Etiopia aveva già provveduto all’impianto delle filiali di Massaua (23 dicembre 1935) e dell’Asmara (29 gennaio 1936). Successivamente, a mano a mano che l’occupazione dei nuovi territori andava espandendosi, predisponeva l’organizzazione delle nuove filiali che dovevano operare nei centri fondamentali di vita delle nuove terre conquistate. Ben quindici dipendenze che potevano rispondere nella forma più completa a tutte le svariate esigenze d’ordine bancario, vennero rapidamente messe in funzione.
Vennero inaugurate nel 1936 le filiali di: Mogadiscio (29 maggio), Addis Abeba (3 settembre), Assab (15 ottobre), Harar (28 ottobre), Dessiè (26 dicembre), Lechemti (28 dicembre). Inaugurate nel 1937 le filiali di: Gore (9 marzo), Dembi Dollo (23 marzo), Gondar (24 marzo), Gimma (21 maggio) ed infine quelle di Combelcià, Gambela e Giggiga.
Guardando la carta d’Etiopia appare chiara la dislocazione delle nuove filiali per assecondare i movimenti del traffico mercantile e quelli derivanti dalle opere pubbliche in corso d’attuazione, i tre maggiori sbocchi marittimi, le sedi di Governo e i più importanti centri dell’interno in cui convergevano e dai quali si irradiavano le nuove arterie stradali.
Il grande investimento della banca romana si basava sull’idea dei duraturi sviluppi della conquista e in vista dei grandi programmi messi in atto dal governo italiano che consideravano l’economia dell’Etiopia come parte integrante di quella nazionale anche ai fini di una più completa autarchia economica.
La nuova organizzazione dei servizi bancari etiopici non era fine a se stessa ma guardava al futuro agli sviluppi della sua potenzialità economica. Il nascente Impero sarebbe dovuto diventare un centro di attrazione ed un importante mercato di orientamento per buona parte del continente africano in virtù anche degli antichi rapporti e le relazioni di scambio esistenti fra l’Africa e le vicine terre del continente asiatico.
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di Alberto Alpozzi – © Tutti i diritti riservati
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Una banca per l’Impero. Quando l’Italia aveva un’idea di futuro «La vasta organizzazione dei servizi marittimi nazionali ed il crescente arricchirsi di quelli aerei disimpegnati dalle possenti ali italiane, creano collegamenti che, avvicinando l’Impero alle porte di casa, assicurano anche al regolamento dei rapporti economici l’ausilio di un tramite bancario cosi rapido ed ordinato quale in altri tempi sarebbe parso illusione prevedere».
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