#Franco Cenci
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la rassegna "ut pictura poësis": 21-25 giugno a studio poerio (roma)
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#Anna Cochetti#art#arte#Franco Cenci#Michele Marinaccio#mostra#poesia#Silvia Stucky#Studio Poerio#ut pictura poësis
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II edizione di AdottArt, arte all’Esquilino
II edizione di AdottArt, arte all’Esquilino
L’Associazione culturale Arco di Gallieno presenta, il 13 aprile 2018 a partire dalle 16, la II edizione di AdottArt, arte all’Esquilino.
Nelle botteghe, tra i monumenti, alle finestre, su una porta, in un angolo dell’Esquilino, troveranno posto le opere degli artisti dell’Associazione Arco Di Gallieno. Ogni artista adotta un sito scegliendolo per affinità, per affetto, per empatia tematica. Gli…
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IL MANUALE DEI CAREGIVER FAMILIARI. Gli approfondimenti di NNA (volume promosso dalla Fondazione Cenci Gallingani, a cura di Franco PESARESI, Maggioli editore, 2021. Indice del libro
IL MANUALE DEI CAREGIVER FAMILIARI. Gli approfondimenti di NNA (volume promosso dalla Fondazione Cenci Gallingani, a cura di Franco PESARESI, Maggioli editore, 2021. Indice del libro
Manuale dei caregiver familiariDownload
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18 gen 2021 11:10
"L'ARTISTA HA L'OBBLIGO DI ESSERE SCOMODO. NON PUO' FARE LE COSE CHE VUOLE IL MERCATO" - IL FONDATORE DEI "GIANCATTIVI", ALESSANDRO BENVENUTI: "SE PENSO AL CAZZOTTO CHE ATHINA CENCI DÀ AL NEONATO DENTRO ALLA CARROZZINA IN "AD OVEST DI PAPERINO", IN UN PAESE DI MAMME COME L'ITALIA...FRANCESCO NUTI NON È MAI STATO UN UOMO MOLTO FELICE, NONOSTANTE ABBIA AVUTO DELLE GRANDI FORTUNE. AVEVA UN GRANDE TALENTO MA POCO METODO. I SUOI FILM NON È CHE MI ABBIANO FATTO MAI IMPAZZIRE. CI HO SEMPRE VISTO IL DISAGIO CHE COVAVA DENTRO" - VIDEO
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Luca Pallanch per "la Verità"
Dopo le zone rossa, arancione e gialla, ora è la volta della zona bianca. Corsi e ricorsi storici. Nel 1977, mentre l'Italia viveva l'emergenza terrorismo, un gruppo di giovani comici, I Giancattivi, mise a soqquadro la Toscana con uno scherzo memorabile sulla Radio 3 regionale. Alessandro Benvenuti, oggi protagonista su Sky della serie I delitti del BarLume, rivendica con orgoglio il copyright della zona bianca.
I Giancattivi emisero un falso bollettino definendo la Lucchesia zona bianca...«Zona batteriologicamente bianca!».
Come vi era venuto in mente?
«Perché era l'unica provincia democristiana in una regione rossa. Fu uno scherzo che riuscì molto bene: i centralini dei Vigili del Fuoco e della Prefettura furono invasi da telefonate e ci fu un fuggi fuggi verso le province amiche di Livorno, Massa Carrara e Pistoia, che erano tutte province rosse.
Questo scherzo ci ha dato grande notorietà: la notizia fu ripresa anche nella stampa nazionale. Erano tempi in cui la satira era per pochi eletti, tanto è vero che quando fondammo il primo teatro, che oggi è il Teatro di Rifredi, lo chiamammo Humor side».
Qual era la formazione de I Giancattivi all'epoca?
«Athina Cenci, Alessandro Benvenuti e Franco Di Francescantonio».
È vero che il nome Giancattivi deriva dal terzo componente della formazione iniziale, Paolo Nativi?
«La leggenda narra che nel Settecento una colonia di ex schiavi romani liberatisi si erano trasferiti a Roccastrada, formando una colonia di mugnai, e lì cambiarono il cognome da Giancattivi in Nativi. L'etimologia è latina: iam captivus. Per noi scegliere di fare questa strada era una sorta di liberazione da quella che era stata la nostra vita passata, era la realizzazione dei nostri sogni. Aveva un significato molto profondo per noi il nome Giancattivi».
Come siete arrivati a Non stop, la trasmissione televisiva che vi ha lanciato nel 1979?
«Perché eravamo parecchio bravi! Enzo Trapani e Alberto Testa, i due autori del programma, ci videro al Teatro Verdi a Milano. Ci pedinarono per un mese intero prima di convincerci... ».
Perché?
«Non ce ne importava nulla di andare in televisione: eravamo molto puri, tutti presi dal nostro tipo di teatro sperimentale: non erano solo sketch con le barzellette, ma ci ispiravamo ai movimenti dadaisti, surrealisti e futuristi.
Poi, siccome in quella trasmissione c'era anche Massimo De Rossi che aveva portato in scena una magnifica pièce di Roberto Lerici, Bagno finale, ed era stato ospite nostro a teatro, ci siamo detto: «Se c'è De Rossi, ci si può andare anche noi!». Senti quanto eravamo scemi».
A Non Stop c'era anche Francesco Nuti.
«Nuti entrò perché il terzo de I Giancattivi di quell'epoca, Tonino Catalano del Mago Povero di Asti, che era con noi da sei mesi, non volle fare televisione, per cui eravamo rimasti Athina Cenci e io, finché un funzionario dell'Arci toscano ci dette la dritta: "Ma perché non andate a vedere questo giovane comico talentuoso che ha iniziato da poco a fare cabaret?". Andammo a vederlo e Francesco entrò nel gruppo. La prima cosa che fece con noi fu Non Stop, un bel colpo».
Giocavate alla scuola, con la maestra e i due alunni...
«Quello nella seconda trasmissione che abbiamo fatto in televisione, La sberla, per la regia di Giancarlo Nicotra. A Non stop presentammo una serie di sketch, tra i quali c'era anche quello dei due alunni e la maestra».
L'avevate già fatto a teatro?
«Erano tutti sketch provatissimi, fatti in teatro centinaia di volte. La vera novità di Non stop era dovuta al fatto che i gruppi o i singoli comici presentavano degli sketch che erano già testati con il pubblico, che quindi avrebbero funzionato di sicuro. Questa fu una grande intuizione di Enzo Trapani».
La notorietà fu immediata?
«Io so' rimasto chiuso in casa per due settimane! Andavamo in onda in prima serata, il giovedì sera, sulla Rete 1, con due soli canali, ci vedevano decine di milioni di persone: il giorno dopo eri santo, ti mancavano solo le stigmate! La prima volta che uscii ebbi la malaugurata idea di prendere un treno dal mio paese, Pontassieve, fino a Firenze. Non ti dico cosa è successo su quel treno! Sono stato preso d'assalto da due vagoni di gente: firmai autografi dalla partenza all'arrivo».
In famiglia cosa dissero?
«Erano molto soddisfatti perché guadagnavo! Erano talmente disperati del mio fallimento come studente che furono molto contenti di vedermi sbocciare come attore».
Dopo il successo televisivo, fioccarono subito le proposte cinematografiche?
«Il cinema si fiondò su di noi: ci fecero un sacco di proposte, ma erano tutte persone che ci piacevano poco, per cui inventavamo film che costavano così tanto che alla fine non ce li facevano fare.
Invece poi, quando scoprimmo i produttori giusti, Franco Cristaldi, Gianfranco Piccioli e Mauro Berardi, scrissi Ad ovest di Paperino. Con noi, I Gatti di Vicolo Miracoli, La Smorfia, Carlo Verdone, che provenivano tutti da Non Stop, si portò nel cinema italiano una ventata di novità, allontanandoci dai padri sacri, i Gassman, i Tognazzi, i Manfredi, i Sordi».
Poi Nuti andò via...
«Ad ovest di Paperino fu un film complicato perché il gruppo si sciolse dopo tre settimane di lavorazione. Arrivare in fondo fu veramente faticoso. Francesco aveva un grande talento, ma poco metodo, per cui subiva un po' la nostra personalità. Questo è stato uno dei motivi per cui ha voluto fare la sua strada, scelta più che legittima.
Gli abbiamo insegnato molto io e Athina, però Francesco è stato importantissimo per noi per avere il successo che abbiamo avuto perché dei tre era il più determinato a conseguirlo. Noi eravamo un po' più snob, ce ne fregava fino a un certo punto».
Voi due invece avete proseguito...
«Per altri due anni, molto belli, con Daniele Trambusti. Portammo in teatro un bellissimo spettacolo, Corto Maltese, facemmo un secondo film, Era una notte buia e tempestosa..., e un programma televisivo, Lady Magic, poi ci sciogliemmo».
Per quale motivo?
«Perché si muore da soli anche nella malaugurata idea che si partecipi a un suicidio collettivo!».
Dei film che ha fatto Nuti da solo quale ha apprezzato?
«I film che ha fatto Francesco, se devo essere sincero, non è che mi hanno fatto mai impazzire. Quello che mi è piaciuto di più è Tutta colpa del Paradiso, escluso il primo quarto d'ora che è tremendo. La cosa da sottolineare di Francesco è che non è mai stato un uomo molto felice, nonostante abbia avuto delle grandi fortune. Questo mal di vivere lo ha espresso in tutti i suoi film.
Siccome io ho voluto molto bene a Francesco e lo conosco molto bene intimamente, nei suoi film ho sempre visto il disagio che covava dentro. Tutta colpa del Paradiso è l'unico che mi ha veramente fatto ridere con gioia perché ho visto un Francesco solare, radioso, ho avuto il sollievo di vederlo in un momento di grazia».
Fu coniato il termine «malincomici» per definire i comici della vostra generazione...
«Siamo stati dei comici più coscienti di quelli della generazione che ci ha preceduto. Loro si sono dovuti adattare al mercato, noi abbiamo inventato un nuovo mercato. Abbiamo cercato di ricostruire la comicità attraverso l'umanità, il sociale, la vita. I Giancattivi raccontavano il surrealismo di un mondo, che stava andando verso un tipo di follia. Basta vedere quello che succede oggi sui social... ».
Poi ha avuto anche modo di lavorare con Verdone in Compagni di scuola, dove organizza un altro scherzo terribile alle spalle dei suoi compagni di liceo, spacciandosi per un disabile, un ruolo politicamente scorretto.
«Se penso al cazzotto che Athina Cenci dà al neonato dentro alla carrozzina in Ad ovest di Paperino, in un paese di mamme come l'Italia... io sono abituate a fare 'ste cose: l'artista ha l'obbligo di essere scomodo, di rompere gli schemi, non può fare le cose che vuole il mercato».
Il teatro è la linea che dà continuità alla sua carriera?
«Sono nato a teatro. Sono tuttora direttore artistico dei teatri di Siena e del teatro di Tor Bella Monaca. Non smetterò mai di fare teatro, è la mia vita, infatti ora soffro molto».
Come vive la chiusura dei teatri?
«Non ho tanto voglia di parlarne. Ogni tanto sento uno pseudo-giornalista che dice delle cose terribili, come se noi fossimo una categoria della quale si può tranquillamente fare a meno, come se il teatro fosse un lusso...
È che la gente non sa qual è il nostro lavoro, anche per colpa del mondo del teatro che si è sempre chiuso in sé stesso, anziché dire: "Venite a vedere quando si fanno le prove quanta fatica si fa!".
Venite a vedere cosa vuol dire far uscire la gente di casa per andare in un luogo dove può ascoltare delle storie e discuterne dopo: è un segno di umanità e di vitalità. È la civiltà che va avanti, non la solitudine davanti allo schermo. Il futuro non è davanti a un computer: se è così, vuol dire che ci dobbiamo preparare a diventare automi. È questo che mi fa paura: non si tiene conto delle ferite che la pandemia porterà dentro di noi, questa aberrazione di chiudersi in casa a lavorare nello stesso posto dove mangi, leggi un libro, dormi, campi, come si dice in toscano».
Ha fatto il Covid e durante il lockdown ha tenuto un diario. A settembre ha avuto la possibilità di tornare sul palcoscenico
«Ho fatto uno spettacolo meraviglioso, Panico ma rosa, tre volte e poi basta, ci hanno rinchiuso un'altra volta!».
Ha interpretato anche film drammatici, come Soldati 365 giorni all'alba di Marco Risi. Erano tentativi di uscire dai panni del comico...
«Ma io non so' comico! Se uno vuole vedere un grande attore drammatico, deve vedere un attore comico. Chi fa il drammatico e basta molto spesso diventa un trombone. Tutti i comici, quando si sono cimentati in parti drammatiche, sono sempre risultati clamorosamente bravi. Io le poche volte che ho fatto delle cose non comiche mi sono piaciuto molto di più di quando faccio il comico, ti devo dire la verità. Ho questa nomea d'orso per cui non mi capita molto spesso di avere delle proposte di fare altro rispetto a quello che faccio, ma va bene così perché mi piace stare a casa mia».
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“Sono uno che non possiede nulla e a cui non occorre nulla”: Milarepa, il santo che trasporta l’Himalaya sul nostro comodino
Qualche anno fa, ho trascritto questo canto, per tenerlo in tasca e abitare tra gli uomini come nel colmo dell’Himalaya:
Io, lo yogin che erra tra le montagne innevate, diffondo intorno a me un mandala di felicità.
Avendo purificato i cinque veleni e la malattia dell’orgoglio, non sono infelice. Sono felice.
Avendo abbandonato la ricerca di svaghi e distrazioni, vivendo solo, ho ottenuto la libertà. E sono felice.
Avendo abbandonato le azioni che tengono assorti, vivo tra la solitudine di valli deserte. E sono felice.
Avendo abbandonato la famiglia, veleno di questo mondo, non devo pensare ogni momento al guadagno. E sono felice.
Non scrivendo testi per desiderio di erudizione, ho la mente libera da preoccupazioni. E sono felice.
Non avendo sviluppato l’orgoglio per i bei discorsi, non faccio discorsi, non affronto dispute. E sono felice.
Non conoscendo ipocrisia e inganno, non devo pensare “faccio questo per avere quello”. E sono felice.
Essendo libero dal desiderio di fama e di gloria, gli uomini hanno smesso di sparlare di me. E sono felice.
Dovunque mi trovo, sono felice. Qualunque veste indosso, sono felice. Qualunque cibo mangio, sono felice. In ogni circostanza, sono uno felice.
Mi basta poco. Srotolavo la lingua, ogni mattina, ripetendo questo canto. Per dare alle cose la giusta misura – è terribile scambiare il pavone per lupo e il grifone per gallina. La felicità è fermezza, una variante della ferocia.
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La storia di Milarepa, il mistico tibetano vissuto mille anni fa, dal cui cesto di canti ho raccolto il poema che leggete sopra, è esemplare. Stagioni di leggende sono fiorite intorno ai suoi gesti: egli, come il re Davide della Bibbia e come il profeta Isaia, è stato un grande poeta. Credo che l’attitudine all’altrove, il dialogo con l’altro – che sia un dio, una fatale morgana, il trapano invisibile che ci tormenta e commuove – si espliciti nel canto. I versi, in poesia, sono ramponi per irradiare la vertigine.
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La storia di Milarepa si scinde in tre fasi: violenza; pratica; illuminazione. Orfano di padre, i parenti sottraggono ogni bene al piccolo Mila e alla madre. La madre vende una proprietà residua e invia il figlio ad apprendere la magia oscura. Mila, grande in inganno, un prodigio in mostri, evoca gli spiriti malvagi, piega al suo volere le forze del creato per vendicarsi degli odiosi parenti (“Nella scuderia essa non vide i numerosi cavalli legati, ma scorpioni, ragni, serpenti… In particolare, vide uno scorpione, grande all’incirca come un giovane yak, che aveva stretto tra le sue pinze i pilastri della scuderia e li svelleva”). Dopo aver capito a quali devastazioni porti la pratica sinistra della magia, l’indisciplina dell’individuo, l’etimo della rabbia, Mila si ravvede, si avvia al deserto della redenzione presso un maestro, Marpa. Egli costringe Mila all’umiltà e al servaggio, prima di impartirgli gli insegnamenti. L’ultima parte della vita di Mila è quella di Milarepa – cioè: Mi la ras pa, Mila che con la veste di tela vaga per le vallate e i ghiacciai, scaldato dal fuoco interiore – “uno dei più grandi maestri spirituali di tutti i tempi… l’asceta che meditando tra le pietraie desolate delle montagne… raggiunge la condizione di Buddha, il poeta che con voce melodiosa canta la sua esperienza di realizzazione e il suo insegnamento spirituale muovendo il cuore di quanti lo ascoltano” (Carla Gianotti, La vita di Milarepa, Utet 2001).
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Ogni santità – ogni salvezza – è torchiata dalla prigionia dell’errore, dall’agonia nel rancore. Milarepa è libero perché ha vissuto la povertà, il riscatto attraverso le tenebre, il sottosuolo. Soggiogato dai mostri interiori – ambizione, reputazione, legami familiari, potere, orgoglio – li ha sconfitti. “Tra i santi delle agiografie d’Occidente, la figura che più di ogni altra si accosta a Mi la ras pa, sia per lo stile di vita che per la sua diffusione nell’immaginario collettivo, è quella di San Francesco”, scrive la Gianotti. Sia Milarepa che Francesco scelgono di spogliarsi, sono santi lottatori, poeti. La brutalità di Milarepa e la sua estasi sono però più radicali di quelle di Francesco; d’altronde, il crinale, per il cristiano, è la passione, per il buddista la compassione. Uno entra nel mondo, dando in pasto a Dio la propria identità, scagliandosi nella Provvidenza; l’altro recide i rapporti con il mondo e con gli dèi, sperpera il proprio io, s’incaglia nel niente, per diventare puro essere, energia, canto.
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Jacques Bacot, studioso di cose tibetane – sulla sua Vita di Milarepa si basa l’edizione Adelphi – scrive: “Anche il cristianesimo ha le sue figure puramente speculative, i suoi mistici solitari, al margine della vita sociale. Ma la Chiesa non li ha mai incoraggiati e li propone piuttosto come esempi da ammirare che non da imitare. Per i buddhisti tibetani, al contrario, il misticismo resta l’ideale verso cui essi devono indirizzare i loro sforzi”. In particolare, direi, ci sono diversi cristianesimi, desunti dalla vita di Gesù: quello del deserto e della preghiera solitaria; quello della chiamata e della spada; quello dell’insegnamento pubblico, per strada o nel tempio; quello che converge verso Gerusalemme. E pur nella metropoli – Paolo scrive a Roma, Corinto, Efeso, fa di Cristo un avvento cittadino, tra catacombe che esondano in basiliche – c’è un cristianesimo che si svolge nelle case private, uno che si focalizza sul Getsemani e si avvia al Golgota. In ogni caso, il cristianesimo prevede un rapporto con il male – il Satana – e con il potere – Ponzio Pilato, Erode, i capi del Tempio – che sanziona in salmi sotto tortura.
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Un gruppo di cacciatori osserva Milarepa cantare sopra la sua ciotola spezzata – “Un attimo ho un vaso, un attimo e non l’ho più./ Questo esempio mostra che tutti i fenomeni sono condizionati”. Quegli uomini invitano l’eremita a mangiare con loro, lo vedono sporco, in cenci, povero. “Tu sei un uomo capace. Se tu, anziché questa miseria, avessi vissuto una vita nel mondo, avresti cavalcato il migliore tra i cavalli al pari di un giovane leone”, lo tentano. Milarepa risponde, “Ai vostri occhi sembro uno molto miserabile. Ma voi non sapete che non c’è un altro più felice e più consapevole di me in questo mondo”. Poi attacca il canto:
Nell’eremo montano che è il mio corpo, Nel tempio del mio petto, in alto, Al vertice del triangolo del mio cuore, Il cavallo della mia mente vola come il vento.
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Libero da ogni legame, Milarepa non deve rispondere ai giudizi del mondo ma risuonare nel cavo della propria scelta, inderogabile; egli è limpido, non gli manca nulla, è un re, sciolto dal carcere delle forme, dal dominio delle superfici, può tutto. Assiso sul canto, alieno alla vita e alla sopravvivenza, sfida le proprie paure, si estromette dalla gloria, è sospeso e speso in questo mondo. Non dona e non perdona, la gratuità è innaturale, perché egli è oltre le differenze: è un corpo di carne, potrebbe essere un albero, un cane, una grotta, una fioritura; una fionda di luce, che ora c’è ora non c’è.
*
Nel 2002, per la cura di Roberto Donatoni, la traduzione di Kristn Blancke e Franco Pizzi, l’introduzione di Fabrizio Torricelli, Adelphi stampa I centomila canti di Milarepa. Il canzoniere è meraviglioso – pur troncato al primo volume: quando gli altri? Certo: la poesia è, in questo caso, come per i Salmi, per Giobbe e Geremia, azione. Rinforza la scelta dell’eremitaggio, aggiorna la ricerca spirituale, irradia speranza – cioè: una più ardua prova. Non è letteratura ma lezione, elezione. Eppure, traducendo l’Himalaya sul nostro comodino, compiendo in tempio il nostro divano, possiamo leggere i canti di Milarepa come i ruggiti di William Blake, gli abissi di Dante, le gnostiche agnizioni di Montale. La poesia, se è vasta e va oltre la volontà di un uomo, avviluppa nel vigore, è vorace, porta a quotidiane escursioni nell’oscuro, nel capovolto, nel brillio. Quei versi di Milarepa, nella sacca d’alba, sono una specie di toccasana, di veleno, di balsamo. Una antologia tratta dal fuoco, con le dita che ustionano, cifrate tra enigmi ed epigrafi. (d.b.)
**
La meditazione è un continuo fluire di chiara luce: non occorrono pause nella meditazione. L’oggetto di meditazione e chi medita si sono completamente dissolti… Lo spazio del ritiro fu delimitato dalla neve, ma le dakini mi offrirono del cibo, l’acqua delle montagne innevate fu la migliore che bevvi. Osservando la mente ho visto tutto, stando in basso ho ottenuto il rango di un re.
*
La città è un recinto di fango soggetto a distruzione: in tale cimitero quanto è sciocco viverci sempre! L’unione di due coniugi è come un incontro occasionale al mercato: quanto è sciocco lasciarsi andare a ripicche e litigi! Complimenti e lusinghe sono solo suoni illusori: quanto è sciocca la cattiva inclinazione a dare loro importanza! Un nemico malevolo è come un fiore destinato ad appassire: quanto è sciocco passare la propria vita in contese! Gli aggregati corporei sono un sacco d’immondizia: quanto è sciocco indulgere a farsi belli!
*
Io, nella città illusoria dei sei stati d’esistenza ho vagato, bambino della coscienza confusa, sperimentando le manifestazioni illusorie del karman.
Io, lo yogin, sono un leone tra gli uomini: allargo la criniera turchese della buona visione. Munito delle zanne e degli artigli della buona meditazione, ho praticato sulle vette delle montagne innevate, sperando di ottenere il frutto della virtù.
Io, lo yogin, sono una tigre fra gli uomini: perfeziono le tre abilità della mente volta al risveglio. Munito del manto striato di metodo e saggezza indivisibili, ho vissuto nelle valli erbose e nelle foreste della chiara luce, sperando di giungere al frutto del bene altrui.
Io lo yogin sono un santo fra gli uomini; sono Milarepa; sono uno che sa affrontare le manifestazioni; sono uno che segue qualsiasi ispirazione sorga; sono uno yogin senza fissa dimora; sono uno che non ha rigidezze, qualunque cosa sorga; sono un mendicante, senza cibo; sono uno che vive nudo, senza vestiti; sono uno che vive di elemosine, senza ricchezze; sono uno che sta qui, ma che qui non ha dimora; sono uno che agisce con spontaneità; sono un folle felice di morire; sono uno che non possiede nulla e a cui non occorre nulla.
*
Vedo questa vita come illusione, come sogno, e, verso coloro che non hanno capito, medito la compassione. Come cibo, mi nutro della vacuità simile al cielo e rimango assorto in meditazione senza distrarmi.
*
Nelle valli deserte del mondo abbandonate dagli uomini la canzone lieta dello yogin romba come il tuono. La fama arriva a pioggia nelle dieci direzioni. I fiori della compassione sporgono i loro petali, il frutto della mente volta al risveglio matura in purezza e l’attività illuminata legata al risveglio pervade tutto.
*
Tra le alture innevate, il bianco leone delle nevi siede fieramente tra le cime bianche di neve. Non è spaventato dagli altri: sedere fieramente tra le nevi è il suo modo d’essere valoroso.
L’avvoltoio della roccia rossa dispiega le ali ella vastità del cielo. Non teme di cadere dai burroni: solcare il cielo è il suo modo d’essere valoroso.
Nei fiumi e nei laghi sottostanti il pesce cangiate esercita la sua abilità. Non teme di annegare: guizzare mutando colore è il suo modo d’essere valoroso.
Al riparo della foresta fitta d’alberi la tigre striata esercita la sua agilità. Non teme i pericoli: essere fiera della propria agilità è la sua natura.
Nella foresta di Singala Milarepa medita la vacuità. Non teme che la meditazione venga meno: prolungare la meditazione è il suo modo di essere valoroso.
*I testi sono tratti da: “I centomila canti di Milarepa”, Adelphi 2002
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Premio Pettirosso, Animavì Festival dopo Gino Strada consegna il riconoscimento a Franco Lorenzoni
Premio Pettirosso, Animavì Festival dopo Gino Strada consegna il riconoscimento a Franco Lorenzoni
PESARO URBINO – Da Gino Strada a Franco Lorenzoni. Andrà al maestro elementare che ha fondato e coordina ad Amelia la Casa-laboratorio di Cenci, un centro di sperimentazione, “villaggio educativo” per bambini e adulti, il Premio Pettirosso di Animavì Festival. Conferito al fondatore di Emergency nella passata edizione, il premio, realizzato dall’artista pergolese Walter Valentini, è il…
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PESARO – Da Gino Strada a Franco Lorenzoni. Andrà al maestro elementare che ha fondato e coordina ad Amelia la Casa-laboratorio di Cenci, un centro di sperimentazione, “villaggio educativo” per bambini e adulti, il Premio Pettirosso di Animavì Festival. Conferito al fondatore di Emergency nella passata edizione, il premio, realizzato dall’artista pergolese Walter Valentini, è il riconoscimento dedicato alla persona.
“Un premio introdotto dall’anno scorso per marcare il lato umano oltre che quello artistico del nostro festival. Le storie delle persone sono state sempre al centro della scena di Animavì al fianco delle opere artistiche cinematografiche. Al Bronzo Dorato, un premio assegnato al valore artistico e che rappresenta il simbolo della nostra città, ne affianchiamo un altro dedicato a chi nella propria vita ha inseguito il suo grande sogno carico di ideali fino a renderlo possibile. Storie che ci auguriamo siano un forte messaggio di incoraggiamento al credere nelle proprie idee. Un messaggio di cui in particolare i nostri territori interni ne hanno davvero bisogno”, spiega il direttivo dell’associazione Ars Animae che organizza il festival.
La cerimonia di consegna è in programma nella splendida cornice del teatro Angel dal Foco di Pergola giovedì 11 alle 17.30. Conducono le registe Emanuela Moroni e Manuela Cannone. A seguire proiezione del film Amaranto Documentario. Lorenzoni è nato a Roma nel 1953 ed è maestro elementare a Giove, in Umbria. Ha fondato e coordina dal 1980 la Casa-laboratorio di Cenci, un centro di sperimentazione educativa immerso nella campagna di Amelia, in provincia di Terni.
Un “villaggio educativo” per bambini e adulti dove è possibile partecipare a percorsi di conversione a una sensibilità ecologica più profonda ed imparare a sviluppare la capacità di praticare scambi interculturali fondati sull’ascolto e sulla reciprocità. Il dialogo è alla base della sua pedagogia quotidiana, è strumento funzionale per aiutare gli alunni a mettere il pensiero al centro del loro processo di apprendimento, è mezzo per dare voce alla scoperta come nuova prospettiva per imparare e conoscere la realtà.
La sua pedagogia fatta di pratica quotidiana considera centrale il dialogo con le bambine e i bambini. Un maestro che cerca di fare insieme ai suoi allievi un percorso formativo, puntellato di domande e risposte, di esperimenti e verifiche sul campo, di molte materie diverse in dialogo, dall’astronomia al teatro. Un insegnante sempre pronto a cambiamenti di rotta, laddove la curiosità dei suoi alunni li porti altrove.
Con lui, si può parlare di buona scuola. Per questa attività ha ricevuto nel 2011, insieme a Roberta Passoni, il Premio Lo Straniero. Attivo nel Movimento di Cooperazione Educativa, ha pubblicato Con il cielo negli occhi (Marcon 1991, La Meridiana 2007), L’ospite bambino (Theoria 1994, Nuova Era 2001) e, con questa casa editrice, I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica (2014) e I bambini ci guardano. Una esperienza educativa controvento (2019).
Per i ragazzi Orfeo, la ninfa Siringa e le percussioni pazze dei Coribanti (Rrose Sélavy 2017) e Quando gli animali andavano a piedi (Orecchio Acerbo 2018). Collabora alle riviste «Internazionale», «Cooperazione Educativa», «Gli Asini», «La Vita Scolastica» e «Comune-info».
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Nella scuola elementare che frequenta mia figlia, i bambini delle classi inferiori hanno due quadernoni d’italiano. Entrambi hanno la copertina blu, però uno è a quadretti e l’altro ha le righe: il primo serve a imparare a scrivere in stampatello, maiuscolo e minuscolo, il secondo a imparare a scrivere in corsivo. Non m’era mai capitato prima, in età adulta, di avere a che fare con del materiale educativo volto, beh, all’imparare a scrivere a mano, così tutto d’un tratto mi sono accorta di tre cose. Primo, esistono lettere, in corsivo maiuscolo, di cui mi ero completamente dimenticata: per esempio la F (ricordate quel tratto panciuto rivolto a destra e tagliato a metà da una linea orizzontale?), oppure la T (l’immagine speculare della F, però senza la linea orizzontale) e, peggio ancora, la H (un tratto tanto complesso che potrebbe suonare come lo slogan di una ragazza pon pon: “datemi una I maiuscola, datemi una L minuscola, datemi un trattino! Ecco la H!”). Secondo, mi sono ricordata che, in teoria, dovrebbero esistere due stili di scrittura a mano ben distinti – da un lato il corsivo, con tutti le lettere bene attaccate fra loro e corredate di quei tratti, come la H maiuscola, che nessuno utilizza più; dall’altro lo stampatello minuscolo, detto anche “script”, con le lettere staccate e più stilizzate – però nella pratica la mia scrittura a mano, come quella della stragrande maggioranze degli adulti che conosco, è una miscela tra i due: a qualche lettera in corsivo (la L, la F, la N) si alternano dei caratteri in script (la B, la P, e quasi tutte le maiuscole) e c’è persino qualche lettera che compare in entrambe le grafie (la S e la R).
La terza cosa di cui mi sono resa conto è che i ragazzini della classe, o per lo meno quelli con cui ho avuto l’occasione di fare i compiti, trovano il corsivo più difficile. Sarà che hanno imparato prima lo script (scelta delle maestre), oppure sarà che lo script è più semplice tout court (cosa che spiegherebbe la scelta delle maestre), fatto sta che i ragazzini di sei anni che conosco faticano un po’ col corsivo e il risultato è quasi comico: prima fanno le lettere staccate; poi tracciano a ritroso le astine che dovrebbero legarle fra loro; infine aggiungono i ricciolini. È un processo mostruosamente artificioso. Poi, il punto del corsivo non era permettere una scrittura fluida, con la punta della matita che non si stacca mai dal foglio? Insomma, esattamente il contrario.
In questi giorni s’è tornato a parlare di corsivo, perché è iniziata la scuola e qualcuno sostiene che i bambini d’oggi non sanno più scrivere, per colpa delle tecnologie digitali. Ne ha scritto su 7, il settimanale del Corriere della Sera, Nicola Gardini, docente ad Oxford: «Negli Stati Uniti e in Canada è partita una “campagna per il corsivo”, che ha per fine il rilancio della biro nelle scuole primarie. Anche a Harvard si trovano professori che impongono ai loro studenti di prendere appunti a mano, non con il computer (dovrei farne anch’io una regola a Oxford, dove, per la verità, gli esami vengono tuttora svolti con tecnica pre-digital)», nota. Per poi aggiungere: «È ormai dimostrato da numerosi studi che la scrittura a mano sviluppa la capacità mnemonica, organizza le informazioni nel cervello in aree specializzate, stimola il pensiero astratto e la diversità».
Ne aveva parlato, qualche tempo prima, il grafologo Claudio Garibaldi intervistato da Avvenire, con argomentazioni simili: «La prima campagna per la difesa del corsivo nacque anni fa negli Stati Uniti. Non si tratta di una battaglia di retroguardia, semmai di una lungimiranza su ciò che serve all’essere umano, specificamente al bambino, per crescere. Molte ricerche scientifiche anche in Europa evidenziano quale grande perdita sarebbe per la civiltà umana mettere da parte la scrittura manuale». Mi è capitato di sentire discorsi analoghi tra qualche amico che fa l’insegnante. Il problema, in questo dibattito, è che non si capisce quale sia il problema. Che i ragazzini non sanno più scrivere a mano? Oppure che non sanno più scrivere in corsivo? Perché sono due questioni molto diverse che, non s’è capito bene come e perché, tendiamo a confondere. Uno degli insegnanti con cui ho parlato, un quarantenne romano che insegna alle medie, si diceva molto preoccupato della scomparsa del corsivo, però quando gli ho chiesto di scrivere qualcosa su un foglio di carta ha dimostrato di utilizzare un incrocio tra corsivo e script. Un’altra insegnante mi ha raccontato che nel suo liceo c’è un dibattito molto acceso sulla scomparsa del corsivo, poi però mi ha girato la foto di una nota che dimostrava che i professori fossero i primi a scrivere più in script che in corsivo.
Il corsivo così come lo intendiamo oggi, ovvero quella grafia manuale dove dominano le linee continuate, dove abbondano riccioli e occhielli e dove la penna tende ad essere inclinata, comincia a comparire nell’Italia rinascimentale e si consolida lentamente, fino a diventare un segno distintivo della buona cultura verso l’inizio del Diciannovesimo secolo, come racconta su Nautilus il giornalista scientifico inglese Philip Ball, che poi spiega che probabilmente quel tipo di grafia si è diffuso perché «alzare un pennino delicato dalla carta avrebbe comportato danni o spargimento d’inchiostro». Quando il pennino è stato sostituito dalle stilografiche è cambiato relativamente poco, ma con la diffusione di massa delle penne a sfera, dei tratto-pen e affini, la necessità di mantenere una scrittura legata si è fatta meno pressante. Il risultato è che, lentamente e gradualmente, lo script, o una grafia più simile allo stampatello minuscolo, ha cominciato a farsi strada nelle vite quotidiane di tutti noi. È una delle ragioni per cui, probabilmente, il corsivo è più dominante nella grafia di vostro nonno di quanto non lo sia nella vostra. La grafologa Anna Rita Guaitoli sostiene che il sorpasso definitivo dello script sul corsivo risale agli anni Novanta.
Diverse ricerche suggeriscono che imparare a scrivere a mano è importante per i bambini, perché affina le loro capacità cognitive e di coordinamento. Da dove arriva però l’idea che debbano scrivere per forza in corsivo? Ho fatto un paio di domande a un maestro delle elementari e a una grafologa. Franco Lorenzoni, presidente dell’associazione Cenci casa – laboratorio e autore del libro saggio Cronaca di un’avventura pedagogica (Sellerio 2014) è molto fermo sull’importanza della scrittura manuale nell’apprendimento, ma molto meno sulla necessità del corsivo: «È importante che i bambini intendano la scrittura come un mezzo per esprimersi e se la scrittura diventa forzata questo non avviene. Oggi c’è anche chi fa scrivere i primi pensieri in stampatello maiuscolo. L’importante è che i bambini imparino a scrivere e che lo facciano con entusiasmo e naturalezza», dice al telefono. Racconta che, vero, alcuni dei suoi colleghi sono convinti che il corsivo sia prezioso di per sé, perché tracciare dei caratteri attaccati fra loro «aiuterebbe a mantenere la concentrazione», ma di avere una posizione «piuttosto neutra» sulla presunta superiorità del corsivo.
Candida Livatino, grafologa autrice di vari saggi, tra cui I segreti della scrittura e Scrivere col cuore, mi spiega che esiste in effetti una relazione tra tratto attaccato e tratto staccato: «Il tratto staccato denota un atteggiamento analitico, un soppesare i particolari, il tratto attaccato, quello che solitamente associamo al corsivo di una volta, segna una continuità di pensiero. Questo significa anche che chi lo utilizza maggiormente tende ad essere il tipo di persona che perde il filo, quando viene interrotto». La correlazione però non è biunivoca. Insomma, quando c’è una continuità di pensiero, si tende maggiormente a un tratto attaccato, ma non è imponendo un tratto che si ottiene un’attitudine piuttosto che un’altra: «Se è forzata, la scrittura perde il suo valore». Quanto al predominio dello script sul corsivo, Livatino spiega che può essere problematica, ma soltanto in alcuni casi: «Un uso esclusivo dello script, insomma una scrittura asettica che ricalca da vicino i caratteri stampati, questo indica una volontà di nascondere la propria personalità. Però la scrittura a metà strada tra il corsivo e lo script, quella che è così diffusa oggi, non rientra in questa categoria».
Secondo alcuni esperti, il corsivo potrebbe essere di aiuto per chi soffre di dislessia: «Non dovere alzare la matita» contribuisce a non confondere le lettere, ha detto una ricercatrice dell’Indiana a Nautilus, «però sono eccezioni, non la regola». Davvero è così importante se alziamo o non alziamo la mano dal foglio? In ebraico, per esempio, le lettere che compongono una parola sono sempre staccate (alcune, come la alef, si compongono di due caratteri staccati, cosa che negli occidentali provoca spesso confusione), in arabo la scrittura tende ad essere quasi sempre attaccata, però ma non risulta che i ragazzini israeliani siano più distratti né che i bambini arabi siano immuni dalla dislessia.
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Ultimi giorni per visitate la mostra The Lasting. L'intervallo e la durata, che chiude il 29 gennaio. La Galleria Nazionale, viale delle Belle Arti 131, Roma
Francis Alÿs, Barbara Probst, Hiroshi Sugimoto, Tatiana Trouvé, Franco Vimercati, accanto a protagonisti delle ultime generazioni, come Giorgio Andreotta Calò, Emanuele Becheri, Antonio Catelani, Giulia Cenci, Daniela De Lorenzo, Antonio Fiorentino, Marie Lund, Elizabeth McAlpine, Alessandro Piangiamore, Andrea Santarlasci, con l’inclusione di opere di Alexander Calder, Lucio Fontana, Medardo Rosso provenienti dalla collezione permanente del museo.
Image courtesy La Galleria Nazionale
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17 ago 2020 15:31
MATTI DA SLEGARE – COSA È RIMASTO DI FRANCO BASAGLIA, A QUARANT’ANNI DALLA MORTE DELLO PSICHIATRA CHE LOTTÒ PER LA CHIUSURA DEI MANICOMI, QUEI GIRONI INFERNALI DOVE BIMBI E ADULTI ASPETTAVANO DI MORIRE TRA PUZZA DI FECI, PISCIO E SPORCIZIA? - NEL MOMENTO CHIAVE IN CUI LA RIFORMA AVREBBE DOVUTO ESSER MESSA IN PRATICA, IL DOTTORE MORÌ. COSA AVREBBE FATTO? LA PROSPETTIVA PER CHI USCIVA DA UN OSPEDALE PSICHIATRICO ERA IL NULLA O IL MANICOMIO CRIMINALE E DI L�� A POCO...
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Antonio Stella per il Corriere della Sera"
Che cos' è rimasto, del «Dottore dei matti»? Sono passati quarant' anni dal calvario dell'agosto 1980 in cui Franco Basaglia si spense fiato dopo fiato, incurabile, nella sua casa nel sestiere di San Marco il giorno 29. «Tantissimi lo hanno letto, tanti lo hanno conosciuto, tanti lo hanno amato e tanti lo hanno anche odiato, perché in maniera semplice, bonaria, ironica questo veneziano aveva ribaltato un mondo», scrisse «Lotta Continua». Ribaltato come? Nel modo giusto o sbagliato? Polemiche roventi. Nel mondo intero. Per decenni. Con diffusi rimpianti per come era «prima».
Uno solo, però, può essere il punto di partenza per cercare di capire: che cos' erano i manicomi. «Colà stavansi rinchiusi, ed indistintamente ammucchiati, i maniaci i dementi i furiosi i melanconici. Alcuni di loro sopra poca paglia e sudicia distesi, i più sulla nuda terra. Molti eran del tutto ignudi, varj coperti di cenci, altri in ischifosi stracci avvolti; e tutti a modo di bestie catenati, e di fastidiosi insetti ricolmi, e fame, e sete, e freddo, e caldo, e scherni, e strazj, e battiture pativano», scriveva nel 1824 (come ricorderà Leonardo Sciascia sul «Corriere») l'illuminato palermitano Pietro Pisani.
Solo residui medievali? No. Un secolo e mezzo dopo, nel 1971, il verbale dell'ispezione della Commissione d'inchiesta al Santa Maria della Pietà di Roma spiega: «Ci sono bambini legati con i piedi ai termosifoni o ai tubi dell'acqua, scalzi, seminudi, sdraiati per terra come bestioline incapaci di difendersi, sporchi di feci, dovunque un lezzo insopportabile». «Non esistevano limiti d'età per il ricovero in manicomio: era sufficiente un certificato medico in cui si dichiarava che il bambino era pericoloso per sé o per gli altri», si legge nel web-doc Matti per sempre di Maria Gabriella Lanza e Daniela Sala.
«Dal 1913 al 1974 nel manicomio di Roma sono stati internati 293 bambini con meno di 4 anni e 2.468 minori tra i 5 e i 14 anni. In tutto 2.761 piccoli». Tre lustri ancora e il «Corriere» pubblica un reportage di Felice Cavallaro sull'Ospedale psichiatrico di Reggio Calabria: «Dormono con la schiena che sfiora il pavimento. Sprofondano giù perché le reti sono bucate al centro, corrose dalla pipì che con gli anni ha sciolto la maglia metallica. I materassi sono ormai sfoglie di gommapiuma sudicia. Di lenzuola nemmeno a parlarne. Puzzano anche le coperte. Tutto emana il fetore della morte in queste camerate dove quattrocento persone aspettano la fine come fossero animali».
È il 1987. La chiusura di quei gironi d'inferno è già stata decisa, sulla carta, da una decina di anni. Eppure troppe infamie, insopportabilmente troppe, sono rimaste come prima. Nel plumbeo mutismo sociale denunciato quasi un secolo prima da Anton Cechov ne L'uva spina : «Evidentemente l'uomo felice si sente bene solo perché i disgraziati portano il loro fardello in silenzio, e senza questo silenzio la felicità sarebbe impossibile. È un'ipnosi generale». Occhio non vede, cuore non duole, scandalo non urla.
È questo silenzio assordante a venire fracassato da Franco Basaglia. Nato a Venezia nel 1924, laureato nel 1949, specializzato in malattie mentali nel '52, l'anno dopo sposa Franca Ongaro, che gli darà due figli e sarà la compagna di mille battaglie. Frustrato dall'accademia («Direi che tutto l'apprendimento reale avviene fuori dall'università. (...). Io sono entrato nell'università tre volte e per tre volte sono stato cacciato», racconterà in una delle Conferenze brasiliane ), si immerge nel primo manicomio a Gorizia nel 1962: «C'erano cinquecento internati, ma nessuna persona». Ovunque «vi era un odore simbolico di merda».
Uno spazio nero dal quale trasse l'«intenzione ferma di distruggere quella istituzione. Non era un problema personale, era la certezza che l'istituzione era completamente assurda, che serviva solamente allo psichiatra che lì lavorava per percepire lo stipendio alla fine del mese». Guerra totale: «L'università, da quando io mi sono laureato, ha protetto in maniera reazionaria e fascista gli ospedali psichiatrici.
Non si è mai levata una voce, se non nei congressi, a dire che bisogna cambiare questa legge, ma nessun professore universitario si è sporcato una mano all'interno dei manicomi. Il professore universitario ha sempre avuto le mani pulite, amministrando l'insegnamento davanti ai letti d'ospedale, dicendo: questo è schizofrenico, questo è maniaco, questo è isterico».
Era insopportabile, agli occhi di chi veniva ferito da quei giudizi. Ribelle. Martellante. Cocciuto. Eppure, lavorando ventre a terra a Gorizia, Colorno, Trieste e Roma, scrivendo uno dopo l'altro, da solo o con Franca, libri ovunque amatissimi o contestatissimi, tenendo conferenze da Berlino a São Paulo, sfondando in tv con una celebre intervista di Sergio Zavoli («Le interessa più il malato o la malattia?», «Decisamente il malato»), riuscì in pochi anni febbrili a mettere in crisi l'idea del manicomio in mezzo mondo e a spingere il Parlamento italiano a cancellare le norme stravecchie del 1903 e votare il 13 maggio 1978 (cinque giorni dopo l'uccisione di Aldo Moro...) la «sua» legge 180.
Stesa materialmente dallo psichiatra e deputato democristiano, Bruno Orsini, e incardinata sulla chiusura (progressiva) dei manicomi e la cura dei pazienti non più «detenuti» in realtà il più possibile piccole e aperte.
Il tutto nel nome di un'idea: «Io non so cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia». Un'utopia. Generosa ma irrealizzabile, quindi pericolosa, saltarono su gli avversari. Su tutti lo psichiatra e scrittore Mario Tobino: «Giunge voce, si viene a sapere che diversi malati, dimessi dai manicomi, spinti fuori nel mondo, nella società, per guarire, come proclamano i novatori, per inserirsi sono già in galera, in prigione, arrestati per atti che hanno commesso. Nessuno più li proteggeva, li consigliava, gli impediva. Nessuno li manteneva con amorevolezza e fermezza, li conduceva per mano lungo la loro possibile strada. Ed ora precipitano, si apre per loro il manicomio criminale. La follia non c'è, non esiste, deriva dalla società. Evviva!».
E il dubbio su quella legge inquietò via via perfino molti che l'avevano definita «sacrosanta». Come il deputato e poeta comunista Antonello Trombadori. Che in una sofferta intervista a Giampiero Mughini raccontò la sua tragedia personale: «Non sono in grado di soccorrere la persona che più amo al mondo». La figlia disabile: «La 180 prevede due soluzioni per chi soffre di mente: o il nulla o il manicomio criminale, riservato a quelli che ammazzano».
Era disperato, Trombadori. E furente coi «fanatici khomeinisti» che secondo lui difendevano l'«intangibilità» della legge: «Io dubito che Franco Basaglia, se fosse ancora vivo, approverebbe il loro operato. Forse direbbe, come già aveva fatto Marx, " Je ne suis pas basaglien "». Questo è il nodo. Nel momento chiave in cui la riforma avrebbe dovuto esser messa in pratica, il «Dottore dei matti» (titolo della biografia di Oreste Pivetta), non c'era più.
Cosa avrebbe detto? Cosa avrebbe fatto? «Certo non avrebbe accettato che quella svolta fosse tradita», mastica amaro Peppe Dell'Acqua, discepolo e amico: «Lui aveva fatto proposte precise, suggerito soluzioni, indicato percorsi pratici. La stessa chiusura dei manicomi non fu affatto immediata. Di rinvio in rinvio arrivò vent' anni dopo. C'era tutto il tempo per fare le cose per bene. E qua e là sono state anche fatte. Ma dov' era lo Stato? Dov' erano le Regioni?
Dov' erano le aziende sanitarie?» La risposta è nel dossier della Commissione parlamentare d'inchiesta sul Servizio sanitario nazionale del 2010. Spiegava il presidente, Ignazio Marino: «Se chi è internato in un ospedale psichiatrico giudiziario è lì per essere curato, abbiamo trovato un fallimento totale. In media possiamo calcolare che ciascun paziente abbia contatti con uno psichiatra per meno di un'ora al mese...». Dalla svolta erano già passati trent' anni.
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PESARESI FRANCO, Manuale del CENTRO DIURNO. Anziani non autosufficienti e anziani affetti da demenza, volume promosso dalla Fondazione Cenci Gallingani, Maggioli editore, 2019. Indice dellibro
PESARESI FRANCO, Manuale del CENTRO DIURNO. Anziani non autosufficienti e anziani affetti da demenza, volume promosso dalla Fondazione Cenci Gallingani, Maggioli editore, 2019. Indice dellibro
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MACERATA – Un’altra giornata densa di appuntamenti venerdì 4 maggio alla festa del libro Macerata Racconta giunta all’ottava edizione e organizzata dall’associazione ConTESTO con il Comune e l’Università di Macerata. Appuntamento clou della giornata l’inaugurazione, alle 16.30, nei locali dell’ex Upim, della Fiera dell’editoria Marche Libri, giunta alla settima edizione, che ha come protagonista l’eccellenza della produzione editoriale che si realizza nelle Marche.
Unica nel suo genere nel territorio marchigiano, Marche Libri si conferma uno spazio in cui trovare le migliori produzioni editoriali dell’intera regione e non solo, visto che al suo interno saranno ospitati anche alcuni editori provenienti da altre regioni italiane.
Marche Libri rappresenta un appuntamento importante per la cultura e l’imprenditoria editoriale che presenta in questa nuova edizione 47 case editrici le quali torneranno a esporre nello spazio dell’Ex Upim in corso Matteotti, sia direttamente con propri stand che rappresentate dalla libreria del festival gestita dall’associazione Libri in città. Le case editrici che daranno vita alla Fiera Marche Libri sono:
Affinità Elettive | Altreconomia | Andrea Livi Editore | Aras Edizioni | Arpeggio Libero | Biblohaus | Bravi | Cattedrale | Claudio Ciabochi Editore | Controvento Editrice | Cromo Edizioni | Donzelli Editore | Editoria Studi Superiori | Edizioni Artemisia | EUM – Edizioni Università Macerata | EV | Fara Editore Giaconi Editore | Giometti & Antonello | I Luoghi Della Scrittura | Il Lavoro Editoriale | Ilari Editore | Infinito Edizioni | Ippocampo Edizioni | Italic Pequod | Lavieri Edizioni | Le Mezzelane | Ledra | Librati Edizioni | Libri d’aMare | Linfa Eintertainment | Lirici greci | Metauro Edizioni | Montag | Progetti Sonori | Quodlibet | Raffaello Editrice | Rivista Argo | Roi Edizioni Rrose Sélavy | Simple Edizioni | Taschen Logos | UT | Ventura Edizioni | Vydia Editore | Zefiro Edizioni.
Tra gli altri appuntamenti alle 11.30 nell’aula Shakespeare del Polo didattico Tucci a palazzo Ugolini, in collaborazione con il Dipartimento di Studi umanistici UniMc la presentazione del libro Gramsci Una nuova biografia di Angelo D’Orsi alla che verrà introdotto da Carla Carotenuto e Michela Meschini. A ottant’anni dalla morte capire la vita e la vicenda intellettuale di Antonio Gramsci può ancora servire per capire il mondo in cui viviamo, o per provare a rimetterlo in discussione
Angelo D’Orsi insegna Storia delle dottrine politiche nella facoltà di Scienze politiche dell’Università di Torino. Si è occupato di militarismo e pacifismo, di nazionalismo e di fascismo. Spesso ospite di Agorà (Raitre) e ideatore del FestivalStoria è uno dei massimi esperti di Antonio Gramsci. Una nuova biografia di Antonio Gramsci è attenta soprattutto agli aspetti intellettuali e politici della complessa personalità di Gramsci, ma non trascura l’universo affettivo in cui si colloca la breve esistenza di questo personaggio.
Il libro, diviso in quattro parti, ciascuna corrispondente a un ben preciso periodo della vita di Gramsci, si snoda secondo una narrazione lineare ma che mostra di volta in volta le riprese che Gramsci farà in epoche successive di spunti che lancia nei diversi periodi. Il libro è rivolto tanto agli studiosi quanto a coloro che di Gramsci sanno a malapena il nome, in un tentativo di farlo conoscere agli uni e farlo rimeditare dagli altri, nella convinzione da cui l’autore è animato che Gramsci sia oggi terribilmente inattuale (in quanto lontanissimo dai modelli dominanti dell’agire dei politici ma anche di quello degli intellettuali), ma nel contempo drammaticamente necessario.
Nel pomeriggio di Macerata racconta, alle 16.30, al Museo della scuola ci sarà l’incontro, valido come formazione per insegnanti, educatori e genitori, “Viaggio nella letteratura contemporanea per bambini” con Nadia Terranova, giovane autrice italiana dotata di grande talento che ha esordito nel romanzo nel 2015 con “Gli anni al contrario” – Einaudi – , definito da Roberto Saviano uno dei libri migliori del 2015 e vincitore di numerosi premi tra i quali Bagutta Opera Prima, Brancati e Fiesole. Prima di allora si era dedicata con successo alla scrittura di libri per ragazzi. Collabora con diverse riviste ed è tradotta in Francia, Spagna, Messico, Polonia e Lituania.
Gli anni al contrario di Aurora e Giovanni passano attraverso sentimenti e passioni, eventi umani potenti e delicati sullo sfondo di anni belli e terribili come gli anni Settanta, vissuti però a Messina, dove è difficile essere e sentirsi protagonisti. Di Lei Elena Stancanelli dice:” Nadia Terranova scrive un romanzo capace di nascondere, sotto una prosa leggera, un’anima robusta, una precisa idea del mondo. (…) Per fortuna che ci sono romanzi come Gli anni al contrario che ci fanno sentire meno soli”.
Alle 17 nell’aula 11 dell’Università di Macerata, introdotto da Maurizio Verdenelli e Matteo Zallocco verrà presentato il libro “Pamela Dall’omicidio al “lupo” Traini: i fatti di Macerata che hanno sconvolto l’Italia” con Giuseppe Bommarito, Gianluca Ginella, Marco Ribechi e Giovanni De Franceschi. Alle 17.30 alla Biblioteca Mozzi Borgetti , introdotto da Valerio Calzolaio, ci sarà Corrado Dottori con il suo La musica Vuota (Italic Pequod)
Edoardo Alessi, consulente finanziario di successo in crisi di identità, ritrova sette scatoloni pieni di diari, fotografie e lettere, conservati nella casa di montagna dei nonni paterni. I suoi scritti di gioventù si mescolano con le memorie del padre adolescente e rivoluzionario a formare una strana commistione di storie mai raccontate, sensi di colpa e recriminazioni. Il racconto di una storia familiare complessa. L’assenza dei genitori, militanti di estrema sinistra negli anni di piombo, tormenta Edoardo spingendolo a ricostruire il proprio passato e quello di un padre poco conosciuto, a cui lo lega una passione sfrenata per la musica rock.
Un album in particolare, “Exile On Main Street” dei Rolling Stones ritorna in maniera circolare a scandire i momenti salienti del romanzo, potentissimo catalizzatore in grado di innescare una continuità culturale e politica tra due mondi. Perché Edoardo, dopo un’adolescenza da militante nei movimenti studenteschi, spesa tra contestazione nei centri sociali, feste e concerti rock, è diventato ciò che non avrebbe mai voluto essere, un private banker? Tra viaggi in California, Marocco e Messico, tra affetti del presente (il vecchio amore mai dimenticato Maria e l’attuale bellissima compagna Raffaella, l’amico di infanzia Ceska) e di un passato che a volte incombe (il padre morto, la madre latitante, i nonni che lo hanno cresciuto e infine Joe, suo zio), “La Musica Vuota” è una sorta di memoir di un’intera generazione a cavallo e in bilico tra due secoli.
Protagonista dell’appuntamento alle 18 alla Galleria degli Antichi forni, introdotto da Renata Morresi, sarà invece Marco Benedettelli con il suo Chi brucia. Nel Mediterraneo sulle tracce degli harraga (Vydia editore). Marco Benedettelli ha collaborato come giornalista freelance con Avvenire, Il manifesto, Sole24ore.it, D di Repubblica, Popoli e Missione, Vita no profit, Il Corriere della Sera e vari quotidiani locali, specializzandosi nel genere del reportage da zone di crisi. È tra i fondatori e coordinatori di Argo, rivista ventennale di letteratura. Ha scritto su Nazione Indiana ed è stato parte del collettivo 48ore.com (oggi off-line). Ha pubblicato la raccolta di racconti La regina non è blu (Gwynplaine edizioni, 2012).
Harraga. È il termine arabo che indica i migranti che bruciano i propri documenti d’identità per attraversare illegalmente la frontiera e tentare una via d’ingresso in Europa. Marco Benedettelli, testimone attento e sensibile, ne ha seguito nel 2011, anno infiammato dalla Primavera araba, gli spostamenti, le speranze, le paure, in un lungo itinerario che lo ha condotto nelle zone nevralgiche del fenomeno migratorio tuttora in atto nel Mediterraneo e in particolare in Italia, terra di approdo e di transito per quelli che cercano una nuova vita in fuga da povertà, guerre, dittature. Dalla Tunisia a Lampedusa, dalla Libia a Ventimiglia, da Malta a Roma e fino alla problematica realtà dell’Hotel House di Porto Recanati nelle Marche, Chi brucia è un diario di viaggio coinvolgente e appassionato in cui la verità scottante del reportage s’intreccia a brani di felice invenzione narrativa.
Franco Lorenzoni, invece, maestro elementare a Giove, in Umbria sarà alle 18.30 al Teatro della Filarmonica con il suo Orfeo, la ninfa Siringa e le percussioni pazze dei Coribanti (Rrose Sèlavy) in compagnia di Lucia Tancredi. Lorenzoni ha fondato e coordina dal 1980 ad Amelia la Casa-laboratorio di Cenci, un centro di sperimentazione educativa che ricerca intorno a temi ecologici, scientifici, interculturali e di inclusione. Per questa attività ha ricevuto nel 2011, insieme a Roberta Passoni, il Premio Lo Straniero. C’è un bambino straordinario, Orfeo, che non piange appena nato ma si mette a cantare in modo così dolce da incantare gli uccelli che volano lì intorno.
C’è la ninfa Siringa, che si trasforma in canne mosse dal vento per sfuggire a Pan, il dio dei boschi innamorato di lei, che costruirà con quelle canne il primo flauto per ricordare il suo amore. C’è un gruppo di ragazzi scatenati, chiamati Coribanti, che battendo bastoni, pietre e metalli, coprono il pianto del piccolo Zeus e gli salvano la vita.All’origine della musica c’è una relazione intima e totale con la natura e gli spiriti che la abitano. Paura, amore, solitudine, struggente nostalgia e ricerca di armonia trovano nel canto e nel suono il loro primo linguaggio e, forse, la loro origine remota.
A conclusione della ricchissima giornata di Macerata Racconta, alle 19.30 alla galleria degli Antichi forni, torna Valerio Calzolaio con Enonoir: La camera chiusa.
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