Tumgik
#Dimostrarsi superiore
fa14-eb23 · 5 months
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Gianluca Mancini being the same old Gianluca Mancini ☺️
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deeonisia · 4 years
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Oggi, come fin troppo spesso accade, mi ritrovo disgustata, nauseata, incazzata, stanca ma non sorpresa, mai sorpresa.
Per quel che mi riguarda io al “brillante imprenditore” auguro la morte atroce fra imparagonabili pene. Non sarò superiore, non augurerò redenzione o semplice giustizia, gli auguro proprio di morire perché questo e solo questo si merita.
Il genere maschile non fallisce mai di dimostrarsi qualcosa di cui il mondo farebbe volentieri a meno.
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Il soldato ruffanese Rocco Gnoni e le fucilazioni sommarie nella Prima Guerra Mondiale
  di Paolo Vincenti*
  Giovani soldati che verranno cancellati dal tempo
e dimenticati come cenere dispersa nel vento
figli di una terra che non vuole più tenerseli  accanto 
cosa rimane dopo un sacrificio inutile
di questa vita già finita in un istante soltanto il mio onore
il bene più importante
(Enrico Ruggeri, Il mio onore)
  Una dolorosa pagina di storia nazionale, una delle più inquietanti della Prima Guerra Mondiale, è quella delle fucilazioni sommarie, che vide alcune centinaia di soldati morti per repressione interna, ovvero uccisi sul fronte dallo stesso esercito italiano per episodi di insubordinazione o resistenza agli ordini, diserzione o altro ancora. Nella Prima Guerra Mondiale non si moriva solo di fame, di freddo, di stenti, di malattie contratte nelle trincee, o sotto i colpi dell’esercito nemico.
In migliaia di processi sommari a discapito di soldati italiani, mandati alla sbarra per futili motivi, molti di questi soldati con estrema superficialità vennero condannati. Soldati innocenti, con un banale pretesto, venivano accusati di gravi misfatti e passati alle armi, assolvendo alla funzione di capro espiatorio, secondo la più classica concezione di derivazione ebraica.
E anzi se la guerra stessa, secondo l’interpretazione antropologica abbondantemente sviluppata da Renè Girard della violenza fondatrice della nazione, sta alla base della odierna società[1], a maggior ragione, il sacrificio di un drappello di soldati, per giunta giovani, si presenta come una specie di macabra sineddoche, pars pro toto, cioè, della guerra, che è essa stessa sacrificio di massa, secondo Roger Caillois[2].  Le motivazioni spesso addotte dai tribunali erano del seguente tenore: «il tribunale non ritiene di dover concedere le attenuanti generiche nell’interesse della disciplina militare per la necessità che un salutare esempio neutralizzi i frutti della propaganda demoralizzatrice».  Ossia, le condanne venivano comminate anche «in chiave di ammonimento e di prevenzione generale», fedelmente al motto di Mao Zedong  “colpirne uno per educarne cento”, poi fatto proprio dalle Brigate Rosse italiane negli anni del terrorismo. L’arroganza del Generale Cadorna, il senso di sfiducia e di sospetto da parte del Comando Supremo nei confronti dei soldati, generato dalla consapevolezza della palese impreparazione del nostro esercito rispetto alle forze nemiche, portarono alle sanguinose repressioni di militari sui militari. Queste repressioni avvenivano per i più svariati motivi, quali diserzione, comportamenti indisciplinati, atti di autolesionismo. Quello che è peggio è che questi severi provvedimenti venivano lasciati all’arbitrio degli ufficiali sul campo, i quali erano costretti ad assumere delle decisioni fatali senza il giusto discernimento, turbati dalla grave tensione del momento o dal timore di essere essi stessi oggetto di provvedimenti disciplinari per mancato decisionismo. Il tragico conto finale delle fucilazioni è di 750 soldati con processi dei tribunali militari e oltre 300 vittime di giustizia sommaria, come approfondiremo in questa trattazione.
Il problema era anche dovuto alla vetustà della normativa militare italiana in vigore nella Prima Guerra Mondiale. Infatti, il codice penale militare risaliva al 15 febbraio 1870 e questo, a sua volta, riproduceva, con solo lievi modifiche, quello dell’esercito sardo dell’ottobre 1859. Dobbiamo le notizie che riportiamo in questo saggio a due libri fondamentali: Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, di Enzo Forcella e Alberto Montico ne[3], e Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale, di Marco Pluviano e Irene Guerrini[4].
«L’edizione del 1914 del codice penale per l’Esercito del Regno d’Italia prevedeva la pena di morte per un’ampia casistica di reati commessi in tempo di guerra, quali lo sbandamento o l’abbandono di posto in combattimento, il tradimento, la diserzione, lo spionaggio, la rivolta, le vie di fatto contro un superiore, l’insubordinazione in faccia al nemico, la mancata consegna o l’abbandono di posto da parte di vedetta o di sentinella di fronte al nemico; la sollevazione di grida allo scopo di obbligare il comandante a non impegnare un combattimento, a cessare da esso, a retrocedere o arrendersi; inoltre lo spargimento di notizie, lancio di urla per incutere spavento o provocare il disordine nelle truppe, nel principio o nel corso del combattimento. La pena capitale era riservata anche ai comandanti, per reati particolarmente gravi, quali ad esempio la resa di una fortezza senza aver esauriti gli estremi mezzi di difesa e l’abbandono di comando in faccia al nemico»[5].
E l’Italia non era nemmeno la nazione ad avere il codice penale più obsoleto, in quanto, «ad esempio, l’esercito tedesco impiegò nella Grande Guerra il codice penale militare del 20 giugno 1872, mentre quello austro-ungarico risaliva al 1868 (modificato nel 1869 e nel 1873)»[6]. Agli ufficiali era conferito il potere di emanare dei bandi, in base all’articolo 251 del codice penale militare, ai quali tutti dovevano rigidamente attenersi. Tali bandi prevedevano delle norme di comportamento draconiane e delle pene durissime per i trasgressori. Queste pene, poi, data l’ampia facoltà discrezionale dei comminatori, si potevano trasformare in definitive, capitali. Gli inferiori erano tenuti ad ubbidire senza pensare, a dimostrarsi forti, coraggiosi, sprezzanti del pericolo in ogni circostanza.
Si può capire come questi episodi contribuiscano a smontare del tutto i luoghi comuni sulla “guerra gloriosa” che l’enfasi patriottarda ha stratificato per anni nell’immaginario collettivo che sempre si alimenta di esempi edificanti quanto edulcorati. La guerra perde così qualsiasi aura di “guerra giusta”, perde ogni legame con l’aggettivo “grande”, che la pubblicistica le ha cucito addosso, per rivelarsi ai nostri occhi per quello che essa è, cioè guerra, anzi «Guerra! Guerra!», come grida la Norma di Bellini (“guerra, strage, sterminio”), maledetta, come tutte le guerre.
La dura repressione partì da una Circolare del Generale Cadorna che nel maggio 2015 stabiliva: «Il Comando Supremo vuole che, in ogni contingenza di luogo e di tempo, regni sovrana in tutto l’esercito una ferrea disciplina». Per mantenerla, era scritto, «si prevenga con oculatezza e si reprima con inflessibile vigore»[7]. Nel settembre di quell’anno, venne emanata un’altra Circolare, col n. 3525, secondo la quale, al verificarsi di atti di «indisciplina individuale o collettiva nei reparti al fronte», bisognava rispondere con un immediato intervento di repressione, che prevedeva anche la fucilazione, come giustizia sul campo, sommaria, se i sintomi di tale insubordinazione fossero stati gravi[8]. Si lasciava cioè ai militari superiori, ufficiali e Regi Carabinieri, una enorme discrezionalità nelle decisioni da adottare e, in buona sostanza, il diritto di vita e di morte sui loro sottoposti. Se poi non fosse stato il caso di intervenire immediatamente con la condanna capitale, questi atti di insubordinazione sarebbero stati giudicati dai tribunali militari e ad essi deferiti i soldati che se ne fossero resi colpevoli.  «Il superiore ha il sacro diritto e dovere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi. Per chiunque riuscisse a sfuggire a questa salutare giustizia sommaria, subentrerà inesorabile quella dei tribunali militari. Ad infamia dei colpevoli e ad esempio per gli altri, le pene capitali verranno eseguite alla presenza di adeguate rappresentanze dei corpi. Anche per chi, vigliaccamente arrendendosi, riuscisse a cader vivo nelle mani del nemico, seguirà immediato il processo in contumacia e la pena di morte avrà esecuzione a guerra finita»: così il testo della Circolare[9].
Facendosi più cruente le fasi della guerra, anche l’autorità statale diventava più stringente e pervasiva; di pari passo con i poteri speciali del Comandante di Stato Maggiore Cadorna, aumentava la severità delle sue disposizioni, mentre veniva quasi esautorato il ruolo del Parlamento. Tutte le funzioni ricaddero progressivamente nella competenza dei tribunali militari e le pratiche autoritarie imposte dalla legislazione di guerra si facevano aberranti. «Al culmine dello sforzo bellico funzionavano complessivamente 117 tribunali militari in Zona di Guerra, marittimi, nel Paese e in Colonia»[10]. Tutto ciò, oltre ad indebolire lo stato democratico, «era funzionale alle sempre più forti pulsioni autoritarie che percorrevano la nazione. Queste, sostenute da larga parte della stampa e in particolare dal Corriere della Sera trovavano nel Generale Cadorna uno dei punti di riferimento più autorevoli»[11]. E non solo gli ufficiali che dovevano mantenere la disciplina venivano costretti ad essere inflessibili con i loro sottoposti, ma anche i giudici dei tribunali militari erano continuamente richiamati ad una maggiore severità nella comminazione delle condanne; il Generale Cadorna riteneva che molti di essi fossero troppo teneri e che la procedura concedesse troppe garanzie ai processati[12]. Al tempo stesso, se gli atti di insubordinazione si erano resi così frequenti, Cadorna era convinto che ciò fosse dipeso proprio dalla debolezza degli ufficiali superiori e poi dei giudici e propose di istituire un maggior numero di tribunali militari con una distribuzione capillare sul territorio, sicché essi, come si può capire, finirono con l’avocare a sé anche le competenze di quelli civili. In pratica, nulla di minimamente rilevante, sia civilmente che penalmente, in Italia, soprattutto nelle zone di guerra, poteva sfuggire alla giustizia militare[13]. Per l’effetto contrario di ogni inasprimento legislativo, però, i reati che si volevano colpire aumentavano. «Dall’analisi di Giorgio Mortara sull’operato della giustizia militare risultò che i reati più frequenti furono: diserzione volontaria per 162.563 casi, indisciplina per 24.601, cupidigia per 16.522, mutilazione volontaria per 15.636, resa o sbandamento per 5.325 e violenza per 3.510»[14].
Anche Bruna Bianchi, nel suo libro La follia e la guerra, riporta i dati dell’Ufficio Statistico del Ministero della Guerra pubblicati da Giorgio Mortara nel 1927, dai quali si evince che «le denunce per renitenza dal 24 maggio 1915 al 2 settembre 1919 furono 470.000 (di cui 370.000 italiani residenti all’estero); le denunce per diserzione furono 189.425», ma indica che «nell’arco del conflitto si conclusero 162.563 processi e furono emesse 101.685 condanne»[15].
Leggere la pubblicistica sulla materia ci fa capire come ai concetti alla base dei reati sopradetti fosse data dai tribunali militari una interpretazione estensiva, su sollecitazione del Generale Cadorna, in modo da colpire quanti più soldati possibile.
Pluviano e Guerrini spiegano come, fra le carte d’archivio, sia avvenuto il fortunoso ritrovamento della Relazione sulle fucilazioni sommarie durante la Prima Guerra Mondiale, redatta nel 1919 dall’Avvocato Generale Militare Donato Antonio Tommasi, sulla quale torneremo. Questa relazione, insieme agli Allegati, ritrovati da Giorgio Rochat (che firma la Prefazione del loro libro) il quale li ha messi a disposizione, hanno costituito la base del volume[16]. Nel mentre gli autori proseguivano nell’indefesso lavoro di ricerca negli archivi, essi hanno presentato una prima ricognizione del loro studio nella relazione Il memoriale Tommasi. Decimazioni ed esecuzioni sommarie durante la Grande Guerra[17]. Prima di questi lavori, le cifre sui fucilati di guerra erano piuttosto vaghe, certamente discordanti. Gli studiosi si barcamenavano fra le cifre fornite dalla politica che indicavano le vittime della giustizia sommaria in poche centinaia e quelle fornite dal giornale socialista «L’Avanti» che parlava di più di 1000 morti. Pluviano e Guerrini si sono invece basati sulla Relazione del Generale Tommasi, integrandola con le risultanze della istituita Commissione d’inchiesta parlamentare del 1919[18], e poi con molte altre fonti emerse durante il lavoro di ricerca, fra queste anche le dichiarazioni dei parlamentari durante i lavori della Commissione.
Fra le varie fonti dirette, una delle più accreditate «è la relazione “Dati di statistica giudiziaria militare” del giugno 1925. Si tratta della statistica delle sentenze e dei procedimenti penali dei tribunali militari presso l’esercito operante e di quelli territoriali fuori e dentro la zona di guerra. Secondo questa relazione, furono comminate nel corso del conflitto 4.028 condanne a morte, delle quali 2.967 in contumacia, 311 non eseguite e 750 eseguite. Di queste ultime, 391 riguardarono il reato di diserzione, 5 la mutilazione volontaria, 164 la resa o sbandamento, 154 atti di indisciplina, 2 la cupidigia, 16 per violenza, 1 per reati sessuali, le rimanenti per reati diversi. Un’altra fonte importante ai fini della quantificazione è una tabella del Reparto disciplina, avanzamento e giustizia militare del Comando Supremo dal titolo “Specchio dei giudizi durante la campagna” datata 24 dicembre 1917 e relativa al periodo giugno 1915 – settembre 1917, conservata presso l’archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Tale tabella è importante perché è l’unica a contenere anche il dato dei giudizi sommari: 112, che coincidono in buona parte con quelli riportati da Forcella e Monticone, fino all’agosto 1917. Nel settembre 1919 il ministro della guerra Generale Albricci, in sede parlamentare, ammise 729 condanne a morte eseguite durante tutta la guerra, mentre “le tristi esecuzioni sommarie superano di poco il centinaio”»[19]. Nel maggio-giugno 1916, a seguito dell’offensiva austro-ungarica, il regime disciplinare fu inasprito con l’ordine di ricorrere alle fucilazioni sommarie con ampia libertà, fino a colpire anche gli ufficiali. Dopo lo sfondamento austro-ungarico della nostra resistenza, il Comando Supremo ordinò al comandante delle truppe operanti sull’altopiano di Asiago di prendere le più energiche ed estreme misure: «faccia fucilare, se occorre, immediatamente e senza alcun procedimento, i colpevoli di così enormi scandali, a qualunque grado appartengano. […] L’altopiano di Asiago va mantenuto a qualunque prezzo. Si deve resistere o morire sul posto»[20].  Inoltre, di fronte «alle diserzioni, che sempre più numerose si manifestavano sia presso i reparti schierati in zona di guerra che all’interno, nel dicembre 1916 il Ministero della guerra decise di togliere il sussidio economico ai famigliari dei colpevoli del grave reato, i cui nomi furono pubblicati nei loro comuni natii»[21]. La pena capitale, specie per i soldati che si erano macchiati del reato più grave, la diserzione, avveniva con fucilazione alla schiena. «Altre norme legislative emanate durante la permanenza di Cadorna alla carica di capo di Stato Maggiore dell’Esercito furono il bando del 28 luglio 1915 del Comando Supremo contro la diffusione di notizie sulla guerra e la denigrazione dell’esercito o della guerra stessa ed il decreto luogotenenziale del 19 ottobre 1916 n. 1417 per la repressione dell’autolesionismo»[22].
Di fronte al numero spropositato di esecuzioni, si avvertì l’esigenza di istituire una commissione interna che vagliasse le tante condanne comminate ed i metodi usati nella spregiudicata gestione Cadorna. Questa commissione venne affidata all’Avvocato Generale dello Stato Donato Tommasi, sul modello della già costituita “Commissione d’inchiesta sugli avvenimenti militari che hanno determinato il ripiegamento al Piave”, comunemente definita “Commissione d’inchiesta su Caporetto”, di nomina regia, istituita nel 1918, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, che era nata in seguito all’ondata di paura e malcontento generatasi dopo la clamorosa sconfitta di Caporetto[23]. Già dalla Commissione d’inchiesta «il ricorso alla decimazione[24] fu stigmatizzato … e definito “provvedimento selvaggio, che nulla può giustificare” tra l’altro per via della pena di morte così ingiustamente comminata a numerosi innocenti»[25].
Il Generale Tommasi[26] stilò una Relazione, in base alla quale i fatti vennero così suddivisi: Esecuzioni sommarie che appaiono giustificate; esecuzioni sommarie che appaiono ingiustificate; esecuzioni sommarie per le quali l’azione penale è improcedibile; esecuzioni sommarie per le quali manca nei rapporti ogni elemento di giudizio[27]. Dei vari tipi, riportiamo alcuni esempi.
Per le esecuzioni sommarie giustificate: Brigata Messina, 93°reggimento, 30 giugno 1915, numero imprecisato di vittime, diserzione in complotto al nemico; Brigata Verona, 85° reggimento, 31 ottobre 1915. 1 fucilato. Abbandono del posto in faccia al nemico; Brigata Acqui, 18° reggimento, 22 aprile 1916. 3 fucilati, rivolta; Brigata Ancona, 69° reggimento, 13 giugno 1916. 3 fucilati. Sbandamento e mancata possibile difesa: Brigata Pavia, 27° reggimento, 11 novembre 1916. 1 fucilato. Insubordinazione e omicidio; Brigata Verona, 85° reggimento, 6 agosto 1916. 1 fucilato. Abbandono del posto e rifiuto di obbedienza in presenza del nemico: Brigata Catanzaro, 141° e 142° reggimento, 16 luglio 1917, 28 fucilati, rivolta. Per le esecuzioni sommarie ingiustificate: Brigata Ravenna, 38° reggimento, 21- 22 marzo 1917, 7 fucilati, rivolta. Per le esecuzioni sommarie per le quali l’azione penale è improcedibile: Brigata Salerno, 89° reggimento, 2 luglio 1916, numero imprecisato di morti. Diserzione al nemico, 3 luglio 1916, 8 fucilati, istigazione alla diserzione. Per le esecuzioni sommarie per le quali manca ogni elemento di giudizio nei rapporti e documenti esaminati: Brigata Catanzaro, 141°reggimento, 27 maggio 1916, Altipiano d’Asiago, 12 fucilati, sbandamento di fronte al nemico; Brigata Lazio, 131° reggimento, 15 giugno 1916, basso Isonzo, 1 fucilato, minacce e vie di fatto o rifiuto di obbedienza; 14° reggimento Bersaglieri, XL battaglione,16 giugno 1916, Altipiano d’Asiago, 4 fucilati, sbandamento; 5° reggimento Genio, 31°compagnia minatori, 26 luglio 1916, luogo imprecisato, 1 fucilato, vie di fatto a mano armata contro superiore;  XLVII battaglione Bersaglieri, 5 agosto 1916, quota 85 Monfalcone, 3 fucilati, diserzione; Brigata Regina, 9° e 10° reggimento, 13 maggio 1917, vallone di Doberdò, 6 fucilazioni non confermate, diserzione; Brigata Toscana, 77° reggimento, 23 giugno 1917, retrovie di Monfalcone, 2 fucilati, rivolta. Alla fine, “caddero vittime della giustizia sommaria 262.481 soldati e di essi 170.064, cioè il 62%, subirono una condanna. Furono comminati 15.345 ergastoli, dei quali 15.096 per diserzione. Le percentuali sono impressionanti: il 6% dei mobilitati fu rinviato a giudizio e quasi il 4% subì una condanna penale. Dei 262.481 processati, 177.648 passarono dai tribunali dell’esercito operante, mentre gli altri 84.883 furono giudicati dai tribunali territoriali. Sebbene i primi fossero più severi (ritennero colpevole il 66,3% dei processati), anche i tribunali territoriali condannarono il 61,8% dei giudicati”[28].
Fra le vittime della giustizia sommaria, anche un soldato salentino. E veniamo così all’oggetto della nostra trattazione.
Rocco Gnoni, questo il suo nome, era nato a Torrepaduli, frazione di Ruffano, il 6 agosto 1888. Figlio di contadini, Rocco aveva sposato una sua compaesana di nome Giovanna Crudo; il matrimonio fu celebrato l’11 gennaio 1915. Pochi mesi dopo, il 29 maggio 1915, Rocco partì per la guerra, come riportato sul suo foglio matricolare n.31904. Dal foglio matricolare apprendiamo che Rocco Gnoni, di professione contadino, già ritenuto «rivedibile» a causa della «debole costituzione fisica», viene poi arruolato nell’11 Compagnia di Sanità (44° Divisione Sanità) e viene considerato «disperso nel fatto d’armi dell’ottobre 1917»[29].
Dopo quasi due anni di servizio al fronte, Rocco ottenne con ogni probabilità una licenza, durante la quale lui e sua moglie concepirono l’unico figlio, Donato, che venne alla luce il 19 novembre 1917. Gnoni però non poté mai conoscere il bambino, perché morì pochi giorni prima della sua nascita.
Pluviano-Guerrini riportano nel Capitolo «La Relazione Tommasi. Esecuzioni sommarie per le quali manca ogni elemento di giudizio nei rapporti e documenti esaminati»[30], un corpus molto più consistente di esempi. Fra questi, oltre a quelli sopra elencati: Brigata Ivrea, 162° reggimento, 21 febbraio 1917. 2 fucilati. Diserzione; Brigata Palermo, battaglione complementare, 20 maggio 1917. 3 fucilati. Rivolta; e poi 44° sezione di sanità, 4 novembre 1917. 1 fucilato. Accusa sconosciuta. Quest’ultima è quella che a noi interessa, perché il soldato fucilato per motivi sconosciuti è Rocco Gnoni, «un ventinovenne nato a Ruffano, provincia di Lecce. L’ordine di fucilazione fu impartito dal comando della 2°armata il 3 novembre 1917, mentre la ritirata era ancora in corso. L’esecuzione sommaria avvenne presso il Cimitero di Porcia, nel Pordenonese, alle 6.15 del 4 novembre 1917, quando i reparti italiani si apprestavano ad abbandonare la zona. Il plotone di esecuzione era composto da dodici carabinieri della 128° sezione, addetta al comando della 2° armata. La scheda compilata da Tommasi e i documenti allegati non riportano la ragione della condanna, e questo è un fatto di particolare gravità perché la fucilazione avvenne per ordine di un comando d’armata»[31]. Gli autori inoltre riportano in nota che nell’Allegato 40 sono contenute «la lettera di trasmissione del comandante dei carabinieri dell’armata al comando della 2°armata, il processo verbale dell’esecuzione sommaria, a firma del tenente dei carabinieri Nicola Crocesi, comandante del plotone di esecuzione, e l’atto di morte del soldato Gnoni, redatto dal capitano medico Ario Airaghi, sempre il 4 novembre 1917»[32].  Si apre allora una incongruenza nella ricostruzione della vita di Gnoni. L’Albo d’Oro dei caduti della Grande Guerra, infatti, dice di lui che fu disperso in battaglia il 30 ottobre, «nel ripiegamento al Piave», dopo la tragica sconfitta di Caporetto[33].  E anche il foglio matricolare, come già detto, annota «disperso» e «rilasciata dichiarazione di irreperibilità»[34]. Come tale viene ricordato nella targa commemorativa del Monumento ai Caduti del suo paese, la piccola frazione di Torrepaduli. In realtà, egli fu fucilato, come dimostrano inconfutabilmente Pluviano e Guerrini sulla base dei documenti ufficiali. Fu vittima della repressione interna, uno di quei capri espiatori, di cui si diceva all’inizio.
La storia ci insegna che la guerra, come evento straordinario, che sconvolge cioè il regolare procedere del tempo ordinario, frange prassi, codici, norme di comportamento e garanzie. Ogni guerra porta esecuzioni sommarie, decimazioni, pene di morte, e non solo scombina le regole del vivere civile ma sovente calpesta la stessa etica militare. La Prima Guerra Mondiale non fa eccezione: questa fu la grande delusione che già nel 1916 si impossessò dei ragazzi che con entusiasmo e fiducia erano partiti per il fronte.  Nihil novi sub sole è il motto tragicamente fatalistico che si potrebbe trarre. E non meno che appropriato ci appare l’aggettivo fatalistico, se pensiamo che ad una vera e propria roulette russa era affidata la vita di questi soldati, nelle parole del Generale Cadorna: «non vi è altro mezzo idoneo a reprimere reato collettivo che quello della immediata fucilazione dei maggiori responsabili, allorché l’accertamento dei responsabili non è possibile, rimane il diritto e il dovere ai comandanti di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte»[35].
Subito dopo la guerra, ci fu molta confusione sul numero esatto delle vittime di esecuzioni sommarie. Questo numero oscillava fra 109, indicato dall’On. Vito Luciano alla Camera dei Deputati il 19 settembre 1919[36], 152, il numero avanzato dall’Avvocatura generale militare, e più di 1000, come sosteneva il giornale del Partito Socialista «L’Avanti».  Come già detto, Pluviano e Guerrini, utilizzando le due fonti di segno opposto, ossia quella ufficiale della Relazione sulle esecuzioni sommarie del Generale Tommasi e quella non ufficiale e antimilitarista dell’Avanti, integrandole con i tanti documenti rinvenuti nell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (USSME) e dalla memorialistica e dai resoconti di guerra, hanno calcolato questo numero in 750 fucilati[37].
Dopo il conflitto, la Relazione del Generale Tommasi restava la fonte più credibile sui fucilati di guerra, anche se il numero che presenta è in difetto e tende a colpevolizzare esclusivamente il Generale Cadorna facendo credere che col Generale Diaz la situazione fosse cambiata e le esecuzioni del tutto cessate (è invece dimostrato che vi fossero ancora dei casi), ma queste erano le pressioni che Tommasi aveva ricevuto dall’alto. In effetti, il Generale Cadorna nel frattempo era stato sostituito da Diaz.
Tuttavia, il destino della Commissione fu di essere insabbiata, analogamente a quella su Caporetto. Le sue risultanze vennero dimenticate e nessuno degli ufficiali colpevoli fu processato per i delitti commessi.
La linea del Parlamento italiano divenne quella di elogiare e ringraziare l’esercito e i suoi vertici per l’alto eroismo (dando avvio alla magniloquenza propagandistica che caratterizzerà tutto il dopoguerra fascista) e sostanzialmente perdonare i responsabili della carneficina, considerando quanto avvenuto come un male necessario, nonostante l’unica voce dissonante in Parlamento, quella del Partito Socialista, si alzasse contro simile conclusione. Di conseguenza, siffatti crimini contro l’umanità rimasero impuniti e un velo di oblio cadde sulla triste vicenda fino quasi ai giorni nostri[38]. Bisognerà attendere la pubblicazione dei libri di Forcella e Monticone del 1968[39] e di Procacci del 1993[40], basati sull’inchiesta del Generale Tommasi del 1919 fino ad allora segretata, per avere chiarezza. Queste ricerche hanno permesso anche di venire a conoscenza della vera fine del soldato Rocco Gnoni.
Nel 2016 è stato anche organizzato dall’Istituto Comprensivo Statale di Ruffano un incontro dal titolo    “I fucilati per mano amica nella Grande Guerra: verità e riabilitazione. La storia del soldato ruffanese Rocco Gnoni”.  Gli organizzatori di quell’incontro, in primis il prof. Roberto Molentino, referente del progetto “Cento anni fa… la Grande Guerra”, ed i docenti coinvolti, hanno voluto far luce sulle vere cause della morte di questo concittadino. Hanno ricercato il Verbale di esecuzione sommaria del soldato Gnoni Rocco, dal quale risulta che «detto militare venne fucilato il 3 novembre 1917 in Porcia per ordine del Comando della 2° Armata. Non vi è alcun accenno ai fatti che determinarono detto giudizio sommario e pertanto occorrerebbero nuove indagini per poter esaminare se l’ordine del detto Comando fu conforme alla legge». La fucilazione dunque avvenne nei pressi del cimitero di Porcia, paesino in provincia di Pordenone.          «Al soldato Rocco Gnoni furono sparati in due riprese complessivamente 12 colpi di moschetto M.1891, che lo resero all’istante cadavere»[41].  Sempre secondo il verbale, il cadavere del soldato fu seppellito all’interno del Cimitero di Porcia.
Per saperne di più, gli studenti del progetto scolastico coordinati da Molentino hanno intervistato il nipote del soldato, Gino Gnoni, il quale ha detto di essere a conoscenza del fatto, anche se non in grado di provarlo.
Gino ha sostenuto che suo padre, Donato, non voleva ricordare e non parlava mai di ciò che era accaduto a Rocco, anche se provò per tutta la vita sentimenti ostili nei confronti dell’arma dei Carabinieri[42]. Nonna Giovanna, vedova di Rocco, raccontava invece che un reduce le aveva riferito quanto accaduto al marito: sembra che mentre si trovava in un’osteria a rifocillarsi dopo le dure battaglie delle settimane precedenti, fosse stato redarguito da un superiore a cui, forse, rispose in modo irrispettoso. Questo segnò il suo destino.
Quanto scoperto trova un riscontro anche nel libro Nel vortice della grande guerra. Porcia nell’anno dell’invasione di Sergio Bigatton e Angelo Tonizzo, pubblicato dal Comune di Porcia nel 2010[43]. Il volume, incentrato sulla partecipazione della cittadina del Pordenonese alla Prima Guerra Mondiale, riporta nella seconda parte il Discorso pronunciato dal generale Umberto Pastore a Palse per l’inaugurazione del mausoleo ai Caduti in guerra, l’opera di don Francesco Cum Le memorie di un parroco dell’anno dell’invasione, e gli scritti di Antonio Forniz La prima guerra mondiale nei piccoli ricordi di un friulano adolescente. Sono riprodotti inoltre alcuni passi del diario del pittore futurista e scrittore Ardengo Soffici, scritti dal Castello di Porcia, dove soggiornò durante la ritirata di Caporetto. Infine, alcune memorie di Pietro Masutti e di Luigi Del Ben. In Appendice, sono riportati i nomi dei caduti di Porcia. Fra questi caduti non figura Rocco Gnoni, ma gli autori riferiscono un episodio che a Porcia era ben conosciuto e che ci fa chiaramente pensare al Nostro. Parlano della storia-leggenda di un povero soldato giustiziato di cui a Porcia girava insistente la voce, un «soldato italiano fucilato dai suoi al cimitero di Porcia durante la ritirata», individuato dagli autori grazie al ritrovamento di una planimetria del cimitero dove, fra i morti sepolti, viene ricordato anche un «Italiano fucilato»[44]. Ne parla con un fugace cenno il religioso Don Francesco Cum nel suo discorso (stampato a Udine nel 1920), che gli autori riportano nella seconda parte del libro[45].  Uno degli autori, Sergio Bigatton, contattato dagli organizzatori della manifestazione ruffanese, ha affermato che il soldato cui si accenna nel libro è senz’altro Rocco Gnoni. A maggior conferma, l’episodio dell’uccisione di Gnoni si potrebbe ricavare da un’altra fonte, che è il libro di Ardengo Soffici, La ritirata del Friuli. Note di un ufficiale della Seconda Armata[46], in cui il pittore e poeta futurista narra la sua esperienza nella prima guerra mondiale. Nella notte fra il 3 e il 4 novembre, scrive che, mentre era uscito con alcuni compagni a fare due passi nel paese, nel buio più fitto, avvertì dei rumori nei pressi del cimitero e fu attirato dalla luce di una lanterna. Incontrò alcuni uomini, dei carabinieri, e ai loro piedi un uomo morto, che Soffici ed i compagni scambiarono per una donna, in quanto l’uomo era acconciato in abiti femminili, probabilmente per sfuggire ai suoi assalitori. I carabinieri riferirono a Soffici e compagni che il loro superiore aveva ordinato di ammazzare sul posto quell’uomo, e loro avevano eseguito immantinente l’ordine, fucilando il malcapitato. Si trattava di una punizione esemplare. Anche se Soffici non fa il nome di Gnoni, è facile supporre che si tratti di lui[47].
Non sorprenderebbe che il soldato ruffanese si trovasse in un’osteria a sbronzarsi. Il vino e la prostituzione erano fin dall’inizio della guerra i soli due svaghi consentiti ai soldati nella terribilità del momento. Si trattava di svaghi autorizzati o meglio “istituzionalizzati” dalle autorità[48]. Il vino in trincea era un farmaco potentissimo, ne parla anche Emilio Lussu in Un anno sull’altopiano[49]. Utilizzato in quantità massicce dai soldati per fare fronte alla drammaticità della situazione, esso dava loro sollievo, potenziandone l’audacia e la bellicosità in alcuni casi, fungendo da oppiaceo e quindi anestetizzando la paura e il dolore in altri. Comunque, sia che lo usassero come coadiuvante per darsi forza e coraggio, sia come tranquillante per attutire nei fumi dell’alcol lo shock di un impatto emotivo devastante, tutti i soldati ne diventavano dipendenti. Tanto vero che anche nelle cosiddette Case del soldato[50], circoli ricreativi religiosi, creati dalla chiesa per contrastare le case di tolleranza (e fu una battaglia persa fin dall’inizio di fronte al proliferare delle case chiuse e al massiccio ricorso dei militari al sesso a pagamento), i soldati bevevano[51]. Anzi, una delle voci di spesa più alte negli acquisti delle Case del soldato era proprio quella per il vino, poiché i preti ritenevano che un consumo, sia pure moderato, della bevanda alcolica dovesse comunque essere permesso, anche per contrastare il ricorso alla prostituzione: come dire, si sceglieva il male minore[52]. Mons. Giuseppe Pellizzo, Vescovo di Padova, in una lettera affermava che avevano come unico pensiero quello di svuotare le cantine nei paesi abbandonati ed erano talmente attaccati alla bottiglia che se le montagne fossero state damigiane i soldati le avrebbero custodite meglio, essendo sempre aggrappati ad esse[53]. Questo scritto è anche più importante per quanto il prelato sostiene dopo[54], cioè che proprio a causa dell’ubriachezza, alcuni giorni prima un battaglione aveva rifiutato di andare avanti ed era stata sorteggiata una compagnia e decimata. Importante dappiù, questa lettera di Mons. Pellizzo, per la data in cui viene inviata, ossia il 31 maggio 1916, in un periodo in cui nessuno dei soldati dal fronte osava confessare tale pratica aberrante. L’alcol, dunque, veniva largamente usato nelle trincee e finanche incoraggiato dal Comando supremo. Esso costituiva proprio la benzina dei soldati, come dice Emilio Lussu.Ma poi, fuori dalle trincee, per somma incoerenza, specie con la gestione Cadorna, esso veniva proscritto, quasi demonizzato nelle Circolari del Generale che imponevano ai soldati, negli ambienti civili, assoluta sobrietà ed un severo contegno in ogni circostanza. Gnoni pagò con la vita la sua mancanza di contegno.
Nel 2015, gli Onorevoli Giorgio Zanin e Gian Piero Scanu hanno voluto proporre una legge sulla riabilitazione di questi caduti della prima guerra mondiale. In effetti, nel 2014, nell’ambito delle celebrazioni in occasione del centenario della Grande Guerra, si segnalava l’iniziativa di un gruppo di 50 intellettuali che inviavano un appello al Presidente della Repubblica per la riabilitazione dei soldati fucilati. Essi si costituirono in un Comitato nell’ambito del Ministero della Difesa. All’iniziativa di questo Comitato si unirono i deputati Gian Piero Scanu e Giorgio Zanin, rispettivamente primo firmatario e relatore alla Camera dei Deputati della proposta di legge n. 2741 finalizzata «ad attivare il procedimento per la riabilitazione dei soldati italiani condannati alla pena capitale nel triennio 1915-18, nonché per restituire l’onore militare e riconoscere la dignità di vittime di guerra a quanti furono passati per le armi senza processo con la brutale pratica della decimazione o per esecuzione immediata e diretta da parte dei superiori. Verrà così restituito l’onore militare e la dignità di vittime della guerra a quanti vennero fucilati. Infatti, una volta approvata la legge verranno inseriti nell’Albo d’oro del Commissariato generale per le onoranze I caduti»[55]. Giorgio Zanin venne anche invitato a Ruffano nel già citato Convegno del 2016 e in quell’occasione si è soffermato su questa triste vicenda e ha sottolineato l’alto dovere morale e civile di riaprire una delle pagine più nere della storia d’Italia.
Nella maggior parte dei casi, i sospetti e le accuse di delazione, spionaggio, intelligenza col nemico, diserzione, di cui erano fatti oggetto taluni soldati, rimasero tali, solo frutto di menti paranoiche o soggiogate. Le fucilazioni che ne seguirono furono invece reali, come molta memorialistica conferma e certa stampa dell’epoca andava denunciando. Soprattutto nelle interviste ai reduci, nelle testimonianze orali e in tanti diari pubblicati dopo la guerra, molto vivi e brucianti i ricordi delle esecuzioni sommarie[56]. Non così invece nelle lettere, quelle inviate dal fronte, che erano sottoposte a censura[57].
Alle esecuzioni dei militari, bisogna aggiungere quelle dei civili. Le fonti dimostrano che fin dai primi giorni del conflitto il nostro esercito si macchiò di vari delitti perpetrati a danno delle popolazioni di confine, uccidendo tantissimi abitanti dei territori occupati, con esecuzioni sommarie[58].
Una certa pubblicistica antimilitarista sostiene senza indugio che i veri eroi furono proprio questi, i disertori, i ribelli, i fuoriusciti. Questa pubblicistica porta a sostegno della propria posizione un abolito articolo della Costituzione, per l’esattezza l’articolo 50, poi divenuto articolo 54 che, al secondo comma, poi cassato, recitava: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino»[59]. Ma al di là delle posizioni di un certo pacifismo radicale, tutto l’orientamento dell’opinione pubblica in questi ultimi anni in Italia è stato quello di riabilitare non solo i fucilati di guerra ma anche i renitenti e i disertori, considerati anch’essi vittime della sofferenza procurata dalla guerra. Un articolo pubblicato su «La Repubblica» nel 2014 dà voce al Vescovo Santo Marcianò, Ordinario Militare, il quale parla delle diserzioni come di «un fenomeno che coinvolse tutte le forze in campo, alimentato non tanto dalla paura quanto dalla nostalgia per la famiglia e odio per l’ingiustizia delle autorità militari. Le condanne furono circa centomila. Impossibile sapere con esattezza i fucilati, almeno un migliaio»[60].
Come non vedere, in questi soldati ingiustamente massacrati, come Rocco Gnoni di Ruffano, dei martiri laici? Eroi minori di una beffarda tragicommedia.
Per concludere con le parole di Ardengo Soffici: «sono forse costoro dei vinti, dei disertori, dei rivoltosi, dei traditori? O sono, diciamo la parola, dei vigliacchi? No. Basta vederli. Basta lasciare entrare la loro anima nella nostra. Sono delle vittime. Sono degli incoscienti. Sono degli illusi – e il male non è qui. … il male è nelle radici – il male è laggiù sotto di noi: nell’ignominia di chi divide, di chi baratta, di chi mente, di chi mercanteggia. Di chi abbandona. Il male è dappertutto; ma non è qui. Qui si soffre soltanto. Non è la via dell’infamia, qui. È la via della croce»[61].
* Società di Storia Patria per la Puglia, [email protected]
  Vivamente ringrazio gli amici Francesco Frisullo, che per primo ha fatto luce sulla storia del soldato Rocco Gnoni, e Roberto Molentino, che mi ha messo a disposizione alcune fonti documentarie.
  Note 
[1] R. Girard, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 1980.
[2] R. Caillois, L’uomo e il sacro, Torino, Bollati-Boringhieri, 2001.
  [3] E. Forcella – A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza,1968, 2° ed. , 2014.
[4] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale, Udine, Gaspari, 2004, p.12.
[5] F. Cappellano, Cadorna e le fucilazioni nell’esercito italiano (1915-1917), p.1, in  www.museodellaguerra.it/wp-content/…/09/annali_23_Cadorna-e-le-fucilazioni.pdf. L’autore si rifà al libro di Forcella e Monticone, Plotone di esecuzione cit.
[6] Ivi, p.36.
[7] Circolare n. 1 Disciplina di Guerra in data 24 maggio 1915, conservato presso l’archivio dell’USSME (Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito), repertorio L3, b. 141, fasc. 3, riportato in M. Pluviano e I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p.36.
[8] Circolare n. 3525 in data 28 settembre 1915, Disciplina di guerra, USSME, Ivi, p.36.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, p.14.
[11] Ivi, p.15.
[12] Ivi, p.20.
[13] Ivi, p.21.
[14] Ivi, p.23.
[15] Ministero della Guerra, Ufficio Statistico, Statistica dello sforzo militare italiano nella guerra mondiale. Dati sulla giustizia e disciplina militare, a cura di G. Mortara, Roma, 1927, in B. Bianchi, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano 1915-1918, Roma, Bulzoni, 2001,
[16] Ivi, pp.1-6. Sulla copertina del libro è raffigurata un’immagine tratta dal film di Francesco Rosi Uomini contro, del 1970, ispirato al romanzo di Emilio Lussu, Un anno sull’Altipiano.
[17] Letta al convegno “Scampare la guerra”, tenuto a Fogliano  Redipuglia nel 1990. Questa relazione è poi confluita nel libro con cui si pubblicarono gli atti: 1914-1918 scampare la guerra : renitenza, autolesionismo, comportamenti individuali e collettivi di fuga e la giustizia militare nella Grande Guerra, a cura di L. Fabi, Ronchi dei Legionari, Centro culturale pubblico polivalente, 1994, pp.63-75. Guerrini – Pluviano sono anche autori di La giustizia militare, in Dizionario storico della Prima Guerra Mondiale, a cura di N. Labanca, Roma-Bari, Laterza, 2014, pp. 137-146.
[18] Commissione d’inchiesta Dall’Isonzo al Piave. 24 ottobre-9 novembre 1917, Roma, Stabilimenti tipografici per l’amministrazione della guerra, 1919. Istituita con R.D.12 gennaio 1918, n.35.
[19] Atti parlamentari, Camera dei Deputati, legislatura XXIV, 1ª sessione, discussioni, tornata del 12 settembre 1919, in                         F. Cappellano, Cadorna e le fucilazioni nell’esercito italiano cit., p.12.
[20] Lettera in data 26 maggio 1916 del capo di Stato Maggiore dell’Esercito al Generale Clemente Lequio – USSME, in Filippo Cappellano, op. cit., p.6.
[21] Circolare n. 32800 in data 28 dicembre 1916, Conseguenze del reato di diserzione, Comando 3ª Armata. Altre conseguenze di legge del reato di diserzione erano: interdizione perpetua dei pubblici uffici, interdizione legale con la perdita di amministrazione dei propri beni, patria podestà, autorità maritale e capacità di fare testamento: fonte USSME, in F. Cappellano, op. cit., p.7.
[22] Ivi, p.11.
[23] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p.41.
[24] La decimazione, che consisteva nel tirare a sorte il nome dei fucilati,come esempio di estrema disciplina militare inflitta ai soldati era una pratica già conosciuta dai Romani ma fu nella Prima Guerra Mondiale che se ne fece largo uso.
[25] Relazione della Commissione d’inchiesta, Dall’Isonzo al Piave 24 ottobre – 9 novembre 1917, vol. II, Le cause e le responsabilità degli avvenimenti, 1919, in F. Cappellano, op. cit., p.7.
[26] Il giurista Donato Antonio Tommasi (1867-1949), tarantino di nascita, era leccese. Stimato magistrato, durante la guerra ricoprì il ruolo di Avvocato Generale presso il Tribunale supremo di Guerra e di Marina e poi dell’Esercito. Fu parlamentare, eletto nelle file del Partito Popolare, negli anni Venti. Strenuo oppositore del Fascismo, in occasione della Marcia su Roma, redasse il decreto per lo stato d’assedio per conto del Presidente del Consiglio Luigi Facta che venne respinto dal Re Vittorio Emanuele III. Per questo, fu ostracizzato dal regime. Partecipò alla Seconda Guerra Mondiale e venne ferito dallo scoppio di una bomba lanciata sul centro militare clandestino che dirigeva a Roma, e fu onorato della medaglia d’argento al valor militare: M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p.48.
[27] Ivi, Le fucilazioni sommarie cit., p.47.
[28] Ivi, p.19.
[29]Archivio di Stato di Lecce, Vol. 194, Ruoli matricolari soldati appartenenti alla classe 1890.
[30] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., pp.113-130.
[31] Ivi,p.125.
[32]Ivi, p.129.
[33] Albo d’Oro, Volume XVIII, Puglie, N. 902. Nell’Albo d’Oro, giusta circolare del Ministero della Guerra, 8 giugno 1926, sono inclusi tutti i militari del R. Esercito, della R. Marina, della R. Guardia di Finanza, il cui decesso o scomparsa sia avvenuta per causa di guerra dal 24 maggio 1915 al 20 ottobre 1920, data di pubblicazione della pace.
[34] Archivio di Stato di Lecce Vol. 194, Ruoli matricolari soldati appartenenti alla classe 1890. La dichiarazione di irreperibilità veniva rilasciata dal CIFAG (Centro interministeriale per la formazione degli atti giuridici) di Roma, ora soppresso.
[35] Telegramma circolare nr. 2910 del 1 novembre 1916 del Comando Supremo, in Filippo Cappellano, op.cit., p.7.
[36] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p.2.
[37] Ivi, pp.2-3.
[38] Ivi,pp.5-6.
[39] E. Forcella- A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza, 1968 (poi 2014).
[40] G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, Roma, Editori Riuniti, 1993. Sulle punizioni esemplari e le fucilazioni anche: A. Cazzullo, La guerra dei nostri nonni, Milano, Mondadori, 2014, p. 24.
[41] Si veda il Verbale della fucilazione allegato.
[42] Sul ruolo dei Regi Carabinieri: F. Angeletti, Il ruolo dell’arma dei carabinieri durante il primo conflitto mondiale: il fronte interno, in  «Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali», a. IV, n. 2, 2015, pp.371-386.
[43] Nel vortice della grande guerra. Porcia nell’anno dell’invasione. Documenti e memorie sulla prima Guerra mondiale, a cura di S. Bigatton e A. Tonizzo, Pordenone, Sage Print, 2010.
[44] Ivi, pp.39-40.
[45] Ivi, pp.81-107.
[46] A. Soffici, La ritirata del Friuli. Note di un ufficiale della Seconda Armata, Firenze, Vallecchi, 1919.
[47]Ivi, pp.192-193.
[48] Sulle case di tolleranza, si veda E. Franzina, I casini di guerra, Udine, Gaspari, 1999.
[49] E. Lussu, Un anno sull’altopiano,Torino, Einaudi, 1964.
[50] Don G. Minozzi, Ricordi di guerra, Amatrice, Vol. I, 1956.
[51] E. Franzina, I casini di guerra cit., p. 192. Sull’argomento, anche P. Vincenti, Tra vergogna e onore: le prostitute di guerra, in L’officina del sentimento. Voci gesti segni femminili in Terra d’Otranto davanti alla Grande Guerra (1915-1924), a cura di G. Caramuscio, in corso di stampa.
[52] M. Pluviano, Le case del soldato, in «Notiziario dell’Istituto Storico della Resistenza in Cuneo e provincia», n.36, dicembre 1989, pp.5-88.
[53]I vescovi veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918, a cura di A. Sciottà, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1991, p.73. Mons. Pellizzo, fondatore del giornale cattolico «La difesa del popolo», scrive tra il 1915 e il 1918 ben centocinquantasei lettere a Papa Benedetto XV per informarlo sul drammatico andamento della prima guerra mondiale.
[54] Pubblicato da I. Guerrini – M. Pluviano, in Il memoriale Tommasi. Decimazioni ed esecuzioni sommarie durante la grande guerra, in 1914-1918 scampare la guerra cit., pp.63-75.
[55] Disposizioni concernenti i militari italiani ai quali è stata irrogata la pena capitale durante la Prima guerra mondiale https://www.camera.it › leg18
[56] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p. 239.
[57]Ivi, p. 240. Le lettere dal fronte avevano degli speciali censori che erano spesso gli ufficiali austriaci e tedeschi, incaricati di leggerle, allo scopo di emendarle da eventuali informazioni poco opportune e pericolose. Fra questi ufficiali, Leo Spitzer, il filologo austriaco al quale si deve il primo studio organico di carattere linguistico sulle lettere dei soldati dal fronte. Leo Spitzer, Lettere di prigionieri di guerra italiani: 1915–1918, a cura di L. Renzi, Torino 1976, nuova ed., Milano 2016. Si veda anche D. Octavian Cepraga, Scritture contadine e censori d’eccezione: le lettere versificate dei soldati romeni della Grande Guerra, in Memorialistica e letteratura della Grande Guerra. Parallelismi e dissonanze Atti del Convegno di studi italo-romeno Padova–Venezia, 8–9 ottobre 2015,a cura di D. Octavian Cepraga, R. Dinu e A. Firţa, Quaderni della Casa Romena di Venezia, XI-2016, Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia, 2016, p.189.
[58] Ivi, pp. 196 -197.
[59] https://www.nascitacostituzione.it/02p1/04t4/054/art054-011.htm
[60] P. Gallori, Grande guerra, l’ordinario Militare: “Riabilitare i disertori come Caduti”, in «La Repubblica», 6 novembre 2014
[61] A. Soffici, op. cit.,p.202.
Ringrazio gli amici Francesco Frisullo, che per primo ha fatto luce sulla storia del soldato Rocco Gnoni, e Roberto Molentino che ha messo a disposizione alcune fonti documentarie.
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IL SIGNIFICATO DEL COLORE INDACO
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La personalità di chi sceglie l’INDACO.
Subito dopo l’azzurro-blu nello spettro dei colori troviamo l’indaco, una tonalità tra il blu e il viola. Dal latino indicum, a sua volta dal greco ινδικόν (indikón), letteralmente “proveniente dall’India”, “indiano”. L’indaco era infatti un colorante ricavato dalle foglie delle piante del genere "Nerium" native dell'omonima regione. Le sue caratteristiche sono simili a quelle del blu, ma con un effetto più profondo, vista anche la sua gradazione e la sua frequenza maggiore; è  il colore legato alla visione meditativa, presiede alla funzioni più elevate del pensiero e corrisponde al terzo occhio. E’ il colore dell’intuito, qualità prettamente femminile ma presente anche negli uomini dotati di iper-connessioni fra i due emisferi cerebrali destro e sinistro.
È il colore che sostiene l’attività meditativa e la riflessione profonda.
Ha un forte potere rilassante e per la sua alta vibrazione ha la capacità di allargare la nostra comprensione e compassione oltre a sviluppare una capacità di giudizio "apollinea" ovvero priva del disturbo nascente dal coinvolgimento emotivo diretto. E’ anche simbolo di spiritualità e risveglio interiore. La persona che predilige l’Indaco, tende a elevarsi e a guardare con occhio critico la realtà che la circonda.
Questa tendenza fa in modo che la stessa realtà venga meglio compresa, per ottenere un appagamento interiore che il mondo esteriore in genere nega all’individuo. Alla continua ricerca di armonia e affinità con le persone che lo circondano, chi ama l’Indaco, può subire degli improvvisi attacchi di malinconia dalla quale riesce ad allontanarsi captando dal mondo esterno emozioni e segnali positivi.
Chi predilige questo colore è riservato e tende a vivere nel suo mondo. La persona “indaco”, inoltre, è sempre impeccabile ed ha ottimo gusto, una sorta di eleganza innata e inconsapevole.
DIFETTI PREVALENTI
I difetti di chi ama questo colore possono essere: poca fiducia nel proprio giudizio e dubbi sulla capacità della propria intuizione. La personalità in eccesso indaco è sempre alla ricerca di consigli. Può dimostrarsi ingenuo, dubbioso e suggestionabile.
APPORTI VIBRAZIONALI
E’ associato al 6° Chakra – Ajna, colore Yin, controlla la parte inferiore del cervello, gli occhi e l’ipofisi. Questo colore agisce principalmente sulla mente ma è un ottimo purificatore del sangue. Ha la capacità di equilibrare i nostri organi di senso, per renderli più sensibili e cristallini nella loro percezione. In generale ha un effetto calmante e anestetico specie a livello delle vie respiratorie, nasali e degli occhi, ecc. Questo suo potere anestetico è dovuto alla sua virtù di riuscire a portare la coscienza ad un livello superiore, ad elevarla. Aiuta la concentrazione mentale ed è utile in caso di emotività eccessiva, ipocondria, ossessione, allucinazioni. Benefico in presenza di intossicazioni, infiammazioni, dolore, ipertiroidismo. L’indaco dona intuizione e saggezza all’individuo, avvicinandolo alla propria guida interiore al proprio io profondo. Agisce sui sensi, aumentando il tono dell’umore in caso di malinconia o di leggeri stati depressivi. Il colore Indaco, inoltre, ha un forte potere di rilassamento anche solo a livello visivo e aiuta nelle pratiche meditative.
Chi lo rifiuta, chi percepisce di provare avversione per tale tonalità, ha grandi difficoltà nel trovare l’armonia e l’equilibrio sia con le persone che lo circondano, che nelle diverse situazioni del proprio vissuto quotidiano, sia più in generale con l’ambiente in cui vive. Soffre facilmente depressione dalla quale trova grandi difficoltà ad uscire, la persona che rifugge l’Indaco, e spesso, rischia di rimanere impigliato nella rete della propria emotività. Una delle tendenze principali di questi individui che rifiutano aprioristicamente l'indaco, è quella di addossare ad altri la colpa di eventuali fallimenti o la causa del proprio malessere. Questi problemi possono migliorare, interagendo con questo colore, utilizzandolo nell’abbigliamento e per arredare l’ambiente in cui si vive, si studia o si lavora. Puo’ essere anche efficace occuparsi di giardinaggio circondandosi di piante con i fiori di questo colore come ad esempio la Veronica spicata, il Raponzolo – Fiteuma (Phyteuma) Orbiculare, oppure i deliziosi “Non ti scordar di me” (Myosotis Alpestris).
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Weltschmerz #3
Presentarsi. Descriversi. Definirsi entro parametri prestabiliti, risulta, per me, impossibile. L'incapacità di rappresentare il mio essere attraverso le parole, mi attanaglia, ed inspiegabilmente mi tormenta. Un uragano di pensieri si attorcigliano attorno a questa tortura interiore. Inutilmente.
Non riuscire a descrivermi, a raccontarmi a qualcuno che non mi conosce, infastidisce la mia mente, che si sente a disagio di fronte a questo difetto. Come scrivere con la propria mano debole, destabilizzante ed irritante.
Questa maledetta inettitudine deriva da un altro mio problema: l'odio contro le antinomie.
Contraddirsi è esasperante per la mia umile mentalità, incredula di fronte alla mia ignoranza nei confronti del mio essere, dell'essenza che mi contraddistingue.
Professarsi una persona e dimostrarsi l'opposto, riecheggia nella mia testa come l'eco del peccato più grave mai pronunciato. Dalla più banale e semplice presentazione di se stessi, del proprio carattere, alla più complicata definizione delle proprie idee, fino alla spiegazione delle proprie azioni in un ipotetico futuro, appare a me inesplicabile.
Sono una persona razionale, o creativa?
Amo la razionalità dei pensieri creativi, l'ordine mentale, allo stesso tempo amo il disordine ed il caos negli enti fisici. Non amo gli orari, le regole, la prevedibilità, la matematica. Amo la follia, l'imprevedibilità, gli eventi casuali senza una logica spiegazione, ma amo trovargliela. Amo l'arte, la letteratura, la fotografia, la musica. Amo la scrittura. Amo il flusso, senza pensare troppo a quale concezione le mie dita stiano seguendo, a velocità delirante, sopra i tasti di questa tastiera. Ma allo stesso tempo, amo l'ordine della scrittura. Amo la sua punteggiatura, le sue pause, le frasi a perdita di fiato. Amo tradurre su carta, senza censura, i miei pensieri intricati che lentamente si ordinano appena la penna scorre sul foglio immacolato. Macchiandolo inesorabilmente.
Amo gli errori, i difetti, ed odio correggerli, poichè se così son nati un motivo ci sarà e non mi riterrò mai superiore ad essi per poter decidere il loro malaugurato destino.
Detesto l'assimetria, adoro la disparità.
Amo gli opposti, ma odio ammetterlo.
Detesto non conoscere le risposte, ma amo il mistero di questa effimera vita.
E come volevasi dimostrare, non riesco a definirmi entro parametri prestabiliti.
Sconosciuta a me stessa, fotografata da un mondo con migliaia di occhi di diversi colori, come riuscirò a riconoscermi tra molteplici istantanee?
Non mi conosco, ma d'altronde sono un essere in continua evoluzione. Crescerò, imparerò, verrò modellata dai più variegati eventi che la vita mi offrirà davanti, come ostacoli d'una lunga corsa. Mi sento inerme, senza possibilità di fuga finchè non scoprirò chi sono, cosa sono. O chi sarò, chissà cosa sarò. Domani. Mentre oggi mi crogiolo nel catrame dei miei deliri, cercando un indizio nella definizione di me stessa.
Inutilmente, aggiungerei.
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Il mal di testa sarà pur passato, la rabbia meno però
In giornate come quella di ieri, mi rendo conto sempre più di quanto non sia fatta per questo mondo; sarà per le esperienze di vita che ho dovuto affrontare, sarà per l’educazione ricevuta, sta di fatto che ogni volta mi sento sempre così stranamente fuori luogo. Non tollero chi si sente superiore ad altri, nonostante ciò non sia vero, o perlomeno ha avuto il vantaggio di avere basi solide nella vita e, anziché ringraziare e battersi per chi questa fortuna non l’ha avuta, preferisce innalzarsi ad eroe fasullo. Ripeto, dovrei essere felice per i risultati ottenuti ieri, dovrei gioire per aver contribuito attivamente alla vittoria; eppure l’amaro in bocca continua ad esserci, questo perpetuo peso sullo stomaco non intende abbandonarmi a quanto pare.
Sono così strana io a pensare che è già una vittoria di per sé aver trascorso quel tempo insieme e soprattutto essere riusciti a coronare il sogno, per molti di noi utopico, di “calciare” finalmente una palla?
Sarò pazza, ingenua, forse anche un po’ stupida a credere ancora nella buona fede delle persone, nel lato umano della gente; non mi capacito della cattiveria, dell’egoismo dell’essere umano, pronto solo ad autorefereziarsi a discapito di chi è deficitario nei mezzi. Siamo stati dei pessimi padroni di casa e gli unici che hanno avuto il coraggio di andare a complimentarsi per l’impegno e la tenacia avuta in campo dagli avversari, siamo stati l’allenatore, un compagno di squadra (non il capitano) ed io.
Cosa costa dimostrarsi al giorno d’oggi gentili e solidali? È così difficile mettere da parte la competitività in una partita amichevole?
Probabilmente non sono tagliata per la realtà sportiva, speravo in una maggiore onestà che a quanto pare manca finanche ai vertici della piramide e tutto questo mi sta seriamente facendo riflettere circa se è il caso di continuare o meno questo percorso.
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lamilanomagazine · 3 years
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C'è un nuovo farmaco italiano contro il COVID. La speranza? Produrlo entro i prossimi due anni
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Un farmaco in grado di sbarrare l'ingresso nel corpo umano al Coronavirus in tutte le sue varianti. Questo è l'obiettivo della ricerca congiunta - e tutta italiana, tra Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) - Scuola Superiore Sant'Anna e Università di Milano. Il meccanismo dietro alla ricerca è abbastanza complesso. A differenza di tutti gli strumenti a disposizione attualmente, che agiscono sul virus e sulla capacità di riconoscerlo, il nuovo farmaco punta sulle cellule umane, inibendo il ricettore che permette al Coronavirus di farsi strada all'interno del nostro corpo. In poche parole il virus non può farsi strada perché la porta di accesso che utilizza solitamente è sbarrata. Come? Utilizzando delle macromolecole, in particolare dei filamenti di acidi nucleici detti aptameri, che si legano con la regione K353 del recettore Ace2 bloccando il propagarsi dell'infezione. Il percorso è ancora lungo. La tecnica, appena brevettata, deve dimostrarsi dimostrarsi sicuro e le macromolecole abbastanza stabili da distribuirsi nei tessuti obiettivo del trattamento. L'orizzonte temporale? Almeno due anni. Read the full article
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È facile dire mi stai sulle palle , il difficile è dimostrarsi superiore e scavalcarli senza risposta . Angela Milana https://www.instagram.com/p/B1zBj5UC3r_/?igshid=1cpfpr5v78l6g
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Bambini ai gay, il sistema Reggio svela l'avversione alla famiglia
Nelle motivazioni del giudice che ha disposto gli arresti al centro la Cura di Bibbiano, tra maltrattamenti e irregolarità, emerge la presenza massiccia di un’ideologia antifamigliare in cui i genitori naturali vengono costantemente denigrati alla ricerca ossessiva di abusi mai dimostrati e falsi per privare i piccoli delle figure genitoriali, soprattutto paterne. E il deus ex machina di questo sistema è una dirigente del servizio appartenente «a noti movimenti Lgbt» che si batte per l’affidamento dei bambini agli omosessuali. Il caso di Silvia, tolta ai genitori senza un motivo per essere affidata a due lesbiche militanti e squilibrate, le quali l’hanno maltrattata e hanno cercato di influenzare il suo orientamento sessuale. Bambini sotto il potere dello Stato: da Alfie all'educazione gender e oggi con il fiore all'occhiello del welfare targato Emilia rossa.
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di Andrea Zambrano (29-06-2019)
È la famiglia la grande nemica della maxi inchiesta “Angeli e demoni” con la quale la procura di Reggio Emilia ha spiccato 6 ordini di arresto e posto sotto indagine 17 persone. Sono tutti accusati di reati pesantissimi che vanno dai maltrattamenti alle lesioni fino a reati amministrativi come abuso d’ufficio assistenti sociali, psicologi e medici tutti gravitanti attorno al centro La Cura di Bibbiano, una delle strutture considerate più all’avanguardia della Regione nella gestione degli affidi famigliari su bambini vittime di abusi o tolti alla famiglia d’origine per le più svariate criticità. Anche il sindaco Pd di Bibbiano Andrea Carletti è finito ai domiciliari per quello che il sistema mediatico ha già ribattezzato come un pesante macigno sul sistema del welfare “rosso” un tempo fiore all’occhiello della Regione.
Tra le carte della corposa ordinanza firmata dal giudice per le indagini preliminari Luca Ramponi figura un sistema in cui i servizi sociali, insieme a una Onlus di Moncalieri, la Hansel & Gretel, cercavano di dimostrare nei procedimenti giudiziari che i minori erano stati oggetto di violenze da parte dei genitori e per farlo si era disposti anche a utilizzare strumenti di tortura come una macchinetta a impulsi chiamata dagli psicologi “la macchina dei ricordi”. Violenze che però non hanno mai avuto alcun riscontro fattuale.
I giornali stanno raccontando con dovizia di particolari gli episodi, che mostrano come i minori, quasi tutti provenienti da contesti famigliari critici, fossero sostanzialmente indotti con metodi illegali ad ammettere casi di violenze famigliari per poi giustificare gli affidi famigliari a persone vicine ai dirigenti dei servizi sociali. Un meccanismo che - se venisse confermato l’impianto probatorio - ci rimanderebbe ai figli sottratti dai colonnelli argentini ai genitori torturati nel Garage Olimpo o che, per stare più vicini, ricorda la tragica vicenda della Bassa modenese in cui 16 bambini furono allontanati per sempre dalle famiglie d’origine per accuse mai dimostrate e rivelatesi false.
Leggendo le carte del giudice però, a fronte della mole di materiale raccolto dagli inquirenti, potrebbe sfuggire un filo conduttore che accomuna queste terribili storie. E che il giudice mette nero su bianco a pagina 253 della sua ordinanza: «Costruire un’avversione psicologica dei minori per la famiglia di origine». Togliere bambini a mamma e papà con una facilità estrema, a volte sulla base solo di sospetti e fare di loro ciò che un ente superiore, lo Stato, decide. Per capire l’inchiesta di Reggio Emilia, bisogna accettare di scendere nei bassifondi questo folle pregiudizio che porta a cosificare il bambino facendolo un oggetto di interessi superiori. Un pregiudizio, quello antifamilista, che investe il ruolo dei genitori, soprattutto maschi, da colpire con ogni mezzo e con ogni scusa, umiliando la loro libertà e amplificando le criticità che ogni famiglia presenta, ma che non sempre deve per forza essere indice di patologia.
I punti focali di questo pregiudizio, che proietta alla lunga l’ingombrante e inquietante immagine di uno Stato, qui rappresentato dai servizi sociali di un Comune, che si prende i bambini, li fagocita in un sistema perverso di dominio e di controllo, è rappresentato dai metodi della Onlus Hansel & Gretel, i cui psicologi «gli assistenti sociali erano convinti che fossero i migliori cui rivolgersi per ottenere il risultato da loro agognato dell’emersione, a tutela dei minori, del ricordo dell’abuso della cui sussistenza erano fermamente convinti». Peccato però che a fronte di questo sforzo non ci fossero abusi da far emergere.
E i servizi sociali di Bibbianosono così il principale problema di questa storia. E soprattutto la dirigente del servizio finita agli arresti domiciliari, Federica Anghinolfi, perché - come spiegato ieri ai cronisti dal procuratore capo Marco Mescolini - sussistono i requisiti di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato. Il giudice stesso conferma di ritenerla «il deus ex machina della gestione dei presunti abusi». Lei che si dimostra avversa al contesto famigliare in virtù - dice il giudice - anche delle sue «profonde convinzioni e condizioni personali a sostenere con erinnica perseveranza la causa dell’abuso da dimostrarsi ad ogni costo». Da che cosa deriva questa testardaggine? Ad esempio dalla sua carenza di equilibrio nel definire le figure maschili in famiglia dei «predatori maschi» e perché lo stesso fondatore della Hansel & Gretel, anch’egli finito ai domiciliari è stato in passato il suo terapeuta.
La donna infatti - e leggendo le carte questo emerge chiaramente - appartiene per ragioni ideologiche ad un contesto che punta alla demolizione della famiglia come è appunto l’universo Lgbt.
E’ lo stesso giudice a rimarcarlo quando dà conto di uno dei sei casi passati al vaglio degli inquirenti. Quello di Siliva (nome di fantasia), una bambina di 11 anni con crisi epilettiche data in affidamento ad una coppia di donne omosessuali unite civilmente da un anno. Due donne - una delle quale legata sentimentalmente in passato alla dirigente dei servizi sociali Anghinolfi - che prendono una bambina su cui ci sono dei sospetti mai dimostrati di abuso o maltrattamenti. Ebbene: alla fine è Silvia che viene maltrattata dalle donne, una delle quali presenta squilibri mentali evidenti.
«La bambina viene fatta oggetto di vessazioni psicologiche del tutto gratuite e nemmeno correlate a comportamenti indisciplinati della stessa, ma esclusivamente condizionati dall’esigenza di denigrare i genitori naturali ovvero dall’utilizzo della piccola come bersaglio di sfoghi o di rabbia dell’una o dell’altra affidataria». Insomma: la bambina viene allontanata dai genitori sulla base di presunti indizi di abusi, viene data in affido a una coppia di donne omosessuali, legate alla dirigente dei servizi, e viene - stavolta davvero - maltrattata dagli affidatari e fatta oggetto di utilizzo di elettrodi durante le seduta con la psicologa del centro Hansel & Gretelaffinché riacquisti la memoria sugli abusi. Abusi di cui non ci sarà mai traccia né prova.
Viene inoltre rimarcato che le donne affidatarie hanno in comune con la dirigente del servizio «gli incentivi all’affidamento di bambini a coppie omosessuali nell’ambito del noto movimento Lgbt». In poche parole: le protagoniste di questa storia sono attiviste del movimento Lgbt che si battono per l’adozione - e l’affido - dei bambini alle coppie omosessuali. Un tema di stretta attualità e che è oggetto di vibrate critiche da parte del mondo psicologico e pedagogico. Ebbene: a Bibbiano e senza tanti problemi questo avveniva con il consenso del Comune. E, come abbiamo visto, avveniva con questi risultati. Un elemento in più per rimarcare che un minore non può crescere in un contesto famigliare con due omosessuali.
«Le due donne - scrive - attivissime nel campo della tutela dei diritti della comunità lesbica hanno condizionato la minore nell'imporre di non portare capelli sciolti ispirate ovviamente dal proprio orientamento sessuale».
D'altra parte la Anghinolfi della sua attività di militante Lgbt, anche in chiave di affido famigliare, non faceva mistero. Internet conserva ancora diversi suoi interventi pubblici (convegni, interviste, manifestazioni) proprio a favore della genitorialità gay. Il punto è perché un Comune si fidi a tal punto di una donna così militante da affidarle un servizio così centrale e delicato ed è su questo che il Pd è chiamato a dare risposte, vista la fiducia concessa a paladini di cause, la genitorialità gay, che è bene tenere lontano dai bambini.  
Lo Stato onnipotente che prende i figli fragili o impotenti per farne cosa sua. Abbiamo visto questa ideologia totalitaria all'opera su altri casi legati all'educazione sessuale a scuola o alla precocità sessuale in ambito infantile. Ma anche con i tanti casi di bambini disabili - vedi Alfie Evans o Charlie Gard - in cui doveva prevalere il loro best interest che non ha coinciso con il restare in vita. L'inchiesta di Bibbiano apre uno squarcio inquietante anche su un altro modo di appropriarsi dell'infanzia. Col timbro dei servizi sociali e del "mitologico" welfare targato Emilia rossa.
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axorgath · 4 years
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🎍SCARLETT E BLAIR🎍
🎋Nomi:
Scarlett Hayez
Blair Hayez
🎋Alias:
(Scarlett)
Carly
Queen
(Blair)
Lay
Rockstar-Chan
🎋Data di nascita: 19/04/2008
🎋Luogo di nascita: Suzhou,Cina
🎋Età: 12
🎋Occupazioni: assassine mercenarie
🎋Genere: Femmine
🎋Specie: Ibrido Serval Bianco e Serval Nero
Sunny Spirit (Scarlett)
Rainy Spirit (Blair)
🎋Orientamento sessuale:
Eterosessuale (Scarlett)
Omosessuale (Blair)
🎋Religione:
Cattolicesimo (Scarlett)
Ateismo (Blair)
🎋Origini: cinesi, giapponesi, tedesche, Italiane, francesi
🎋Colore degli occhi:
Eterocromatici,neri e bianchi
🎋Colore dei capelli:
Neri e blu notte
🎋Colore pelliccia:
Bianca con macchie nere
🎋Altezza: 1.57
🎋Peso: 40kg
🎋Gruppo sanguigno:
A (Scarlett)
B (Blair)
🎍CARATTERE🎍
(Scarlett)
Scarlett è una ragazza davvero molto singolare.
Inizialmente è timida ed introversa,parla poco e ad occhi altrui può risultare persino fredda e “antipatica”
La verità è che dietro tutto questo di nasconde un mondo fatto di simpatia,gioia e allegria.
Scarlett è una delle persone più allegre che puoi trovare al mondo,sempre con la voglia di scherzare e sempre disposta a fare battute e mettere allegria anche durante i momenti difficili.
Al contrario della sorella, molto ferrea in tutto,lei si gode la vita come viene,non sente di dover essere superiore a nessuno e non si sente inferiore, anzi in realtà non le interessa neanche più di tanto.
Per via del suo carattere e di quello della sorella,tende spesso a lasciarsi trasportare da lei,e il fatto stesso che la segue ovunque (anche per proteggerla) ne è la prova.
Il suo idolo è Orion,e vorrebbe tanto essere come lui,anche se sa che non potrà mai completamente essere come lui,ma la cosa non sembra disturbarla minimamente.
La sua parte più nascosta è la sua parte protettiva verso la sorella.
Anche se superficialmente si può pensare che a lei della sorella non importi,e che anzi le lasci fare quello che vuole,anche mettersi nei guai,in realtà lei davvero molto protettiva.
Appena vede che qualcuno le tocca la sorella lei diventa una macchina da guerra senza pietà,e non si fa scrupoli addirittura ad uccidere il malcapitato.
Oltre questo,lei è razionale, molto più della sorella,per questo usa il poco che ha al meglio.
Ha qualche problema con l’alcol.
(Blair)
Blair è una ragazza davvero molto complicata.
È sicuramente la più socievole delle due,la prima che quando si tratta di conoscere nuove persone si fa sempre avanti.
Spiritosa, sarcastica ed estroversa,Blair sa di sicuro come conquistare la simpatia di ogni persona.
È molto affettuosa,e da molti può essere considerata addirittura “appiccicosa”,ma a lei non importa.
Nascosti invece ci sono i suoi problemi.
Blair ha seri problemi di gestione della rabbia,e tende ad esplodere ogni volta che le succede qualcosa.
Quando succede tende a diventare sboccata, offensiva fino ad arrivare alla violenza fisica,colmata dalla sorella che usa come sfogo.
Quando si innervosce inizia anche a sprigionare inconsciamente i suoi poteri.
Ancora più in basso troviamo invece i suoi seri problemi di inferiorità e derivata la sua sindrome della prima donna.
Si sente inferiore alla sorella perché è lei la più lodata delle due,e considerata la più bella;
Per questo lei fa di tutto per dimostrarsi in qualche modo migliore di lei.
Nonostante questa “rivalità”,Blair vuole un bene dell’anima alla sorella e non lo nasconde affatto.
Infine,mentre la sorella si limita ad idolatrare Orion,lei fa di tutto per imitarlo,e anzi si è messa in testa di volerlo superare ad ogni costo.
Oltre a questo,Blair è una fredda calcolatrice, intelligente e molto potente,fin troppo,e spesso usa tutto questo male,per via del poco raziocinio che si ritrova.
Ha problemi col fumo.
🎍STORIA🎍
Scarlett e Blair nascono entrambe in una famiglia cinese il 19/04/2008.
Ultime di 8 fratelli, Scarlett e Blair sono sicuramente quelle che sono riuscite a fare la differenza nella famiglia.
Nate in un contesto familiare molto difficile,non sono state cresciute dai genitori,ma da due dei loro fratelli, dato che i genitori si erano completamente dimenticati della loro esistenza.
La loro prima parola è stata detta a 9 mesi,e a tre anni potevano già fare un discorso completo e sensato; oltre questo Blair verso i quattro anni poteva risolvere problemi matematici a livelli delle medie, mentre Scarlett poteva tranquillamente smontare e rimontare un oggetto.
Chiaramente queste due bambine erano molto intelligenti,e i genitori se ne accorsero,e decisero di sfruttarle.
Scarlett e Blair non avevano una vera e propria infanzia, dato che non facevano altro che partecipare a concorsi,essere analizzate da scienziati o cose del genere.
Non hanno mai toccato un giocattolo ne socializzato con altri bambini, dato che i genitori consideravano tutto questo “da bambini”
Intorno ai 6 anni cominciarono invece a ribellarsi alle ferree regole imposte,e cominciarono ad uscire di casa di nascosto e parlare e giocare con altri bambini.
Cominciarono anche a rispondere ai genitori,dire la loro nei confronti dei concorsi e di tutto quello che stavano passando.
Per colpa di ciò i genitori diventarono sempre più severi fino a diventare abusivi.
Le bambine erano costrette a non parlare se non interrogate,non muoversi da camera loro se non per fare test o per andare a concorsi e a volte erano costrette a stare ferme in un punto senza dover muovere neanche un muscolo,per divertimento dei genitori;
La pena era essere picchiate a sangue, essere prese con la mazza o con bastoni di ferro.
In questi anni entrambe svilupparono parecchi problemi mentali che poi sfoceranno nei comportamenti e nelle dipendenze che avranno in futuro.
In questi anni inoltre i due fratelli che badavano a loro verranno cacciati di casa, quindi rimarranno sole con i genitori.
Verso i 7 anni, Scarlett disobbedisce ai genitori e per questo verrà picchiata a sangue.
Questo scatenerà la rabbia che sfocerà in furia omicida di Blair che per proteggerla accoltellerà a morte entrambi i suoi genitori.
Le due dopo questo evento decideranno di scappare e non lasciare più traccia di loro.
Cammineranno fino ad un deposito della Wish e si infileranno in un pacco per poi essere spedite dall’altra parte del mondo.
Appena arrivate dopo ore di viaggio si ritroveranno fuori ad un tempio dove ad attenderle ci saranno due ragazze,Sayuki e Kanna con l’aggiunta del fratello Rubit.
Appena inizieranno a convivere con Rubit, fratello che non sapevano di avere, scopriranno dell'esistenza dei restanti 4 fratelli che non hanno mai conosciuto.
Uno tra questi è Orion,che nonostante fino ai 11 anni non sapranno neanche che aspetto ha, cominceranno ad idolatrare.
Cominciarono ad andare a scuola normalmente,anche se i loro traumi non riescono a farle socializzare bene.
Blair vive nella costante paura che qualcuno la scopra per quello che ha fatto e la colpevolizzino, mentre Scarlett semplicemente non si fida di nessuno e non parla con nessuno.
Faranno solo un anno di elementari Perché gli insegnanti noteranno la loro incredibile intelligenza,e dopo altri test ancora si decreterà che la loro età mentale è di 15 anni,non di 7 e il loro QI va intorno al 200,per questo momentaneamente faranno un salto dalla seconda elementare alle medie.
In questo periodo ci sarà una profonda crisi economica al tempio,dato che si trovano al lastrico e in più degli strozzini li minacciano.
Per questo,a 9 anni prenderanno la decisione di intraprendere la carriera come assassine mercenarie,dato che si rendono conto di non provare alcuna empatia verso le vittime.
Verso questi anni inoltre Scarlett scoprirà di avere delle competenze da Hacker mentre Blair da armaiola.
Prenderanno la licenza media a 11 anni,e il governo deciderà che le due ragazze possono tranquillamente frequentare il liceo partendo dal terzo anno.
Sceglieranno lo scientifico data la loro passione per le materie scientifiche.
E in un anno diventeranno molto popolari nella scuola,dato il fatto che avevano solo 11 anni ed erano molto intelligenti e mature.
Le due ragazze inoltre si faranno un gruppo di amici di cui rimarrà soltanto una persona attualmente,Angie.
Nell’età del liceo riusciranno a ristabilirsi anche mentalmente,ma ciò non toglie che entrambe diventeranno le “casinare” della scuola, accompagnate dal loro gruppetto.
In più entrambe avranno un grosso primato in atletica,seconde soltanto alla loro amica Angie.
Passato un anno,nei primi mesi del quarto anno Scarlett prova a fare un attacco hacker alla scuola, fallendo miseramente e per giunta venendo espulsa dalla scuola.
Questo scatenerà ancora una volta la rabbia e l’istinto omicida di Blair,che ucciderà uno dopo l’altro tutti gli alunni della scuola ad eccezione di qualcuno o qualche classe, evento che sarà mascherato come attentato terroristico.
Dopo questo tutti gli alunni e professori restanti furono costretti a cambiare scuola,e quindi le due ragazze compresa Angie decisero di andare al classico,che anche se non si studiavano esattamente le materie che volevano loro, comunque trovavano interessante quella scuola.
In quel periodo,il loro lavoro aumenta ma la situazione nel tempio si ristabilisce e insieme a loro entra a far parte del tempio anche una bambina,Jing,che diventerà fin da subito la loro migliore amica.
🎍POTERI E ABILITÀ🎍
🎋 INTELLIGENZA: Scarlett e Blair sono davvero delle ragazze fin troppo intelligenti e furbe, sanno sempre come uscire da ogni situazione e la sfruttano entrambe abbastanza bene.
🎋FORZA FISICA: Entrambe hanno un incredibile e inumana forza fisica nonostante il loro corpo gracile.
🎋ELECTRIC SHOCK: questo è il loro potere principale nonché quello che usano più spesso.
Blair è più potente di Scarlett, dato che può rilasciare una scarica di 22.500 MW, mentre Scarlett di 10.000 MW.
🎋EMOTION DETECTOR: è un potere molto stupido che entrambe condividono.
Consiste nel guardare una persona e rilevare le emozioni che quella persona prova per una seconda persona.
🎋 RIGENERAZIONE: nonostante abbiano questo potere non funziona per niente bene,dato che la rigenerazione dovrebbe essere istantanea,ma a loro due il loro corpo si rigenera dopo tanto tempo.
🎋 CONTROLLO MENTALE: non c'è molto da spiegare, possono entrambe controllare la mente delle persone anche solo guardandole. Non usano spesso questo potere per via degli effetti sulla loro psiche.
🎋ALTRI POTERI MINORI CHE HANNO IMPARATO OGNUNO PER CONTO PROPRIO.
🎍CURIOSITÀ🎍
🎋Il loro primo giorno di scuola alle superiori vennero messe in classe diversa.
Per protesta iniziarono a vestirsi totalmente uguali e a fare credere che di tanto in tanto si scambiassero.
Alla fine furono costretti a metterle nella stessa classe,ma le abitudini non cambiarono.
🎋Sono abituate a vestirsi completamente uguali per confondere la gente.
🎋L’unico modo per distinguerle la prima volta è osservare la coda, Scarlett la ha più lunga.
🎋Il loro accento è un misto tra l’accento cinese,giapponese, italiano, francese e tedesco.
(Blair)
🎋Soffre di una lieve forma di xantofobia,la paura del giallo.
Infatti non sopporta anzi rifiuta questo colore su di sé,mentre sugli altri la disgusta soltanto.
🎋Ha la tendenza di innamorarsi subito, solitamente se riceve attenzioni.
🎋 Suona il basso e considera il suo basso “Hallen” il suo vero amore.
🎋Nel suo referto psichiatrico c’è scritto “la sua intelligenza è direttamente paragonabile al suo disprezzo celato verso l’umanità”
🎋Odia a morte i vestiti femminili.
🎋Ha una voce molto acuta e si vergogna così tanto da volerla camuffare in tutti i modi.
🎋Il suo soprannome "Rockstar-Chan" è un riferimento al fatto che si definisca spesso e volentieri una rockstar,per via della sua vita spericolata.
(Scarlett)
🎋 È un ottima parrucchiera ed estetista, oltre ad essere una make-up artist eccellente.
🎋Il suo sogno più grande è essere una Idol e formare un gruppo con almeno un'altra ragazza.
🎋 Ha una seria difficoltà nel pronunciare le parole che finiscono con “-ish”.
🎋 Ha una grandissima passione per il cibo,e mangerebbe qualsiasi cosa.
🎋La sua più grande passione sono i videogames,anche se dedica poco tempo a loro giornalmente,sa tutto di qualsiasi titolo le venga proposto.
🎋È una delle hacker più temibili in tutto il mondo.
🎋"Queen" è come veniva chiamata alle medie per via dei suoi ironici comportamenti da reginetta.
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Scarlett (sinistra)
Blair (destra)
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pangeanews · 5 years
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“I suoi quadri si dovrebbero toccare”. Ora vi spiego perché il film su Van Gogh è un capolavoro (ma prima dovete leggere le lettere)
Dall’articolo di Davide Brullo di scorsa settimana su Van Gogh mi viene in mente di rispondere a modo mio, in particolare quando dice che il film “Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità” non gli è piaciuto, lo trova contemplativo, quindi lento.  Dato che quando ero andata al cinema a vederlo pure gli amici che erano con me hanno più volte sbadigliato, hanno detto che Dafoe certo era maestoso, ma il film lento, a tratti noioso, troppo poetico. Allora mi sono chiesta perché io mi fossi così entusiasmata per quel film. La risposta è semplice: avevo letto le lettere di Van Gogh.
*
Il film in questo senso è elitario, non perdona l’ignoranza. Non puoi davvero apprezzarlo se non hai letto e riletto, studiato e contemplato le lettere di Van Gogh. Nelle lettere c’è veramente tutto. Dall’idea, al processo creativo, alla confessione più intima. L’uomo e arte sono insieme, una unica retta verticale che spacca quadro e carne. E Van Gogh era un uomo che sentiva l’arte sulla carne. Aveva rispetto per l’arte, dipingeva solo quando si sentiva in equilibrio completo. Diversamente non si avvicinava nemmeno ai pennelli, quindi toglietevi pure la fissazione dell’artista pazzo, della creazione nel disequilibrio. Sono belle favole, esaltanti, accattivanti ma dannatamente false.
*
Van Gogh scrive in una delle tante lettere a Theo “quale è mai la vita che io considero la migliore? Indubbiamente è una vita fatta di lunghi anni di comunione con la natura in campagna – e con Qualcosa di Alto – inconcepibile, “orrendamente innominabile” – perché non è possibile dare un nome a quanto è più alto della natura”. Allora la lentezza del film è necessaria, scrive di lunghi anni di comunione con la natura, di un tempo estraneo all’uomo, di un tempo proprio di Qualcosa di Alto, forse solo di Dio. O del Dio che lo visita durante la creazione, in quel momento di pace disumana. “Sii un contadino (…), sii pittore, e come essere umano, dopo anni di vita in campagna e di lavoro manuale, già essere umano nel corso di questi anni, alla fine sarai divenuto qualcosa di migliore e di più profondo”.  Quindi, sperimentare la vita nel sudore e nella fatica, nelle mani sporche di terra, nel toccare le spighe di grano in senso contrario, con quella sensazione ruvida di fastidio e piacere insieme. Nel film ci sono tante scene che rappresentano Vincent che cammina per ore e ore nei campi, sembra non fare niente, ci annoiano forse le immagini, vogliamo velocità e azione, vogliamo subito arrivare al taglio dell’orecchio, alle crisi. Ma è dalla lentezza e dalla solitudine che si apre la crepa, che si fanno strada le voci. Non potete avere Van Gogh pazzo senza averlo prima steso su un campo a farsi scorrere le formiche sul corpo. “Si sa che è impossibile conquistare la natura e renderla più malleabile senza una lotta terribile e senza avere una pazienza superiore all’ordinario”.
*
Una delle lettere che più ho amato è quella che descrive il processo creativo, il pensiero, l’intento che sta dietro ai Mangiatori di patate: “Ho cercato di sottolineare come questa gente che mangia patate al lume della lampada, ha zappato la terra con le stesse mani che ora protende nel piatto, e quindi parlo di lavoro manuale e di come essi si siano onestamente guadagnato il cibo. (…) Potrà dimostrarsi un vero quadro contadino. So che lo è. Chi preferisce vedere i contadini col vestito della domenica faccia pure come vuole”. Ecco che allora Vincent si sporca le mani, le affonda nella terra, cerca di trovare un modo per estrarre dalla terra il colore, deve viversi tutta la natura sulla pelle, sfondare il giorno fino al tramonto nei campi, farsi bruciare la pelle dal sole e dal freddo.
*
I suoi quadri si dovrebbero poter toccare, è fastidioso vederli nella teca, innaturale direi, si dovrebbe sentire il colore come si aggruma sulla tela, seguirlo nei suoi solchi come toccare delle rughe, annusarli questi quadri, perché “se un quadro di contadini sa di pancetta, fumo, vapori che si levano dalle patate bolloni – va bene, non è malsano; se un campo sa di grano maturo, patate, guano o concime – va benone, soprattutto per gente di città”.
Clery Celeste
*Il film di Julian Schnabel, “Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità”, è visibile su Sky. Qui i giorni in cui è programmato.
L'articolo “I suoi quadri si dovrebbero toccare”. Ora vi spiego perché il film su Van Gogh è un capolavoro (ma prima dovete leggere le lettere) proviene da Pangea.
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saggiosguardo · 5 years
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Il Presidente di Nikon svela i piani di realizzazione di una mirrorless top di gamma del calibro della D5
Mirrorless e full-frame, due parole che viaggiano sempre più spesso a braccetto. Sembra incredibile che un anno fa ci fosse solo Sony in questo segmento, mentre oggi la competizione si è allargata moltissimo ed include anche Panasonic oltre che Canon e Nikon. Per queste ultime la vita è un po' più complicata, poiché hanno una sterminata eredità nel mondo reflex che non possono ignorare da un giorno all'altro. Ma non è neanche possibile prendersela comoda, perché già il ritardo accumulato rispetto a Sony pesa parecchio. È evidente che entrambe le aziende abbiano sfruttato l'attesa per presentare dei sistemi con caratteristiche tecniche molto valide ed ampio margine di sviluppo, ma al momento sono comunque indietro per offerta di corpi e soprattutto lenti. Su quest'ultimo aspetto, però, le potenzialità ci sono tutte e anche solo il fatto di poter usare gli adattatori per le lenti reflex aiuta. Nessuna delle due storiche case ha però presentato ancora una mirrorless full-frame professionale, del calibro della Sony A9 o anche superiore in termini di corpo.
Dopo un primo exploit in fascia media con Canon EOS R e Nikon Z6/Z7, il successivo step è stato quello di guardare in basso, con la RP da una parte (recensione) ed una ipotetica Z1 dall'altra. Quest'ultima è stata persino avvistata in qualche leak ma tarda ad arrivare e qualcuno ha anche ipotizzato che possa essere basata sul formato APS-C (?), ma dall'oriente arrivano notizie ben più interessanti sui prossimi piani della casa giallo-nera. Il Presidente di Nikon si è infatti sbottonato più del solito in una intervista rilasciata ad un giornale giapponese, asserendo di essere già al lavoro per il lancio di una mirrorless top di gamma, praticamente equivalente alla D5. Difficile prevedere i tempi ma sarebbe importante che arrivasse prima delle Olimpiadi 2020, altrimenti potrebbe essere controproducente privilegiarla rispetto ad una ipotetica D6 di cui già si è iniziato a parlare qualche mese fa, proprio in vista dei giochi olimpici.
Tutte le volte che mi è capitato di parlare con rappresentati di Canon Italia ho notato una certa reticenza nel dimostrarsi pienamente coinvolti nel passaggio alle mirrorless, come se questo potesse in qualche modo apparire come un tradimento per la loro vasta base di utenti reflex. Tuttavia è chiaro che, presto o tardi, anche loro si muoveranno in tal senso e siamo abituati a vedere anche tempistiche piuttosto allineate con Nikon. Ritengo però che l'arrivo nel segmento high-end possa fare la differenza per loro, ben più di quanto non sia successo per Sony. Quest'ultima si è costruita una propria clientela rapidamente, in parte strappata alle case rivali e in parte costruita con nuovi fotografi partiti dai segmenti più bassi. Oggi iniziamo a vedere sempre più A9 anche a bordo campo e negli altri settori della fotografia professionale, ma qui l'inerzia per il cambio di brand ed attrezzatura (acquistata o noleggiata) è ben più importante. Ecco perché un corpo highend di Nikon o di Canon può ancora pesare molto sul piatto della bilancia.
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cheapshoesggdb-blog · 6 years
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outletggdbsale-blog · 6 years
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sportpeople · 8 years
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Un popolo che non ha memoria non è più popolo. Un popolo che non si aiuta e si dà conforto non può semplicemente esistere. Un popolo che si fa costantemente la guerra civile, per dimostrarsi ogni minuto di essere gli uni migliore degli altri è destinato a soccombere, quasi certamente tra le grinfie del peggior nemico.
Mi chiedevo ieri sera, al termine di Roma-Cagliari, cosa volesse dire ancora andare all’Olimpico nel 2017? Ho rifugiato spesso questa domanda, perché credevo di aver risposto in maniera abbondante, forse anche stucchevole, nel recente passato. Forse perché l’apatia e l’atavismo con cui ogni volta mi avvicino a quel quadrante di Roma mi danno sempre le loro risposte tristemente scontate.
Eppure c’è da dire che lasciandoci scorrere il tempo davanti non ci siamo accorti di tante cose. Abbiamo tralasciato quel cambiamento antropologico e culturale che repentinamente ha reso una tifoseria un tempo decisiva e determinante in uno strano groviglio di spettatori teatrali, criticoni dell’ultima ora e semplici birdwarcher, che di tanto i tanto si divertono a seguire le gesta dei loro uccelli ridendo per una planata spettacolare e, se possibile, sparandogli da vicino per poi dileggiarsi in cuochi d’alto borgo. Insomma, a ognuno il suo compito. A ognuno il suo ruolo. Ma sempre meno vicino a quello di tifoso fedele e costante.
Nessuno se ne abbia a male. Non si tratta di fare i conti precisi e algoritmici se contro il Cagliari a fischiare i giocatori perché non sbloccavano il risultato sono state 100 o 20.000 persone. Ma di capire il perché questo avvenga sistematicamente a quasi ogni partita interna della Roma, e spesso non solo da un settore tradizionalmente freddo e “nobile” come la Tribuna Monte Mario. Si tratta di vedere il tutto dalla lunga distanza, in maniera obiettiva. Bisognerebbe chiedersi innanzitutto (Curva Sud o meno) come può una squadra seconda in classifica, reduce da un rendimento eccellente, generalmente non abituata certo a palcoscenici vittoriosi o prestigiosi, avere anche una piccola percentuale pronta a criticare tutto e tutti. A prescindere. Come è possibile che quel vasto circo mediatico attivo nella Capitale altro non aspetti che poter gettare fango e ignominia su determinati personaggi.
Qualcuno vuol negare le offese gratuite a Dzeko, iniziate lo scorso anno e proseguite, spesso e volentieri, anche in questa proficua stagione per l’attaccante bosniaco? Come si fa a dar contro all’atteggiamento di De Rossi? Sebbene il suo rivolgersi al pubblico in maniera “scurrile” dopo la rete dell’ex Manchester City all’Internazionale possa suscitare polemiche a ragionarci bene perché il tifoso deve mettere in condizioni un proprio giocatore, in maniera del tutto aprioristica, di far male e innervosirsi ancor più in un momento in cui le cose non vanno? Esiste una scuola di pensiero, che sembra esser ormai preminente e che vede protagonista il supporter voglioso di vincere a tutti i costi (quello mosso dallo stesso sentimento per anni criticato ad altre tifoserie) e per il quale è impensabile dar tempo a un giocatore. Soprattutto se questo giocatore è arrivato con un credito infinito (spesso pompato dalla stampa). Deve segnare tanto e subito. La sua media deve essere subito superiore al 7. Altrimenti critiche, insulti e prese in giro attraverso confronti, spesso poco edificanti, con cessioni effettuate nella precedente sessione di mercato (“Non era meglio tenersi Destro?”. Cit.).
Nessuno può permettersi di assegnare patenti da tifosi, ma certamente è innegabile che quel tifo viscerale, attaccato nonostante risultati e vicissitudini e in grado di spingere e sostenere anche i giocatori più infimi e scarsi transitati a queste latitudini sia ormai un ricordo lontano e quasi svanito. Eppure sembra che all’ombra del Colosseo i Batistuta, i Montella, i Falcao, gli Aldair, i Samuel e i Cerezo siano passati ogni anno. Sembra che qualcuno si sia dimenticato di quanto questa piazza, al contrario di oggi, abbia saputo affezionarsi e supportare gente che spesso usava il pallone come soprammobile di casa più che come strumento di lavoro.
Quanto l’assenza della Curva Sud abbia influito a far emergere il modus vivendi di molti tifosi sempre più tecnici e imprenditori non sta a me dirlo. Di sicuro c’è un dato: determinati brusii con i cori della curva venivano spesso annullati. Determinate difese del proprio “orticello” e delle proprio “idee” (spesso indotte via etere) venivano presto sradicate da qualcosa che fondamentalmente contraddistingue il tifoso dallo spettatore: l’amore incondizionato per la propria squadra e per quello che essa rappresenta. Un sentimento che deve andare giocoforza oltre i risultati e i periodi negativi. Altrimenti quale sarebbe l’aiuto dato dal pubblico alla squadra? Che senso avrebbe proprio il concetto di “tifoso”?
Come si può rimanere impassibili e far passare per normale uno stadio che (salvo qualche focolaio proveniente, guarda caso, da zone occupate da chi l’Olimpico lo vive da anni ed ha continuato a entrare nonostante le ultime vicissitudini) il 19 gennaio dimentica quasi totalmente il Presidente Dino Viola? Forse il passato recente è stato archiviato troppo velocemente. Forse nessuno è più memore di cori e striscioni che apparivano a iosa proprio nell’anniversario della morte di quel personaggio che ai tifosi, alla Curva Sud, ha dedicato un pezzo della propria vita. Ha sbagliato anche lui (sbagliare è umano) ma ha voluto bene all’idea Roma. Ha voluto bene a quei ragazzi che lo seguivano ovunque. Erano in 23.000 contro la Sampdoria (33.000 il dato ufficiale a cui vanno sottratti i numerosi tifosi non entrati e in possesso dell’abbonamento che permetteva l’ingresso gratuito) e sapere che soltanto un migliaio scarso conosceva Dino Viola o ha sentito l’esigenza di celebrarne il ricordo la dice lunga su un’evoluzione ormai quasi completata.
Non importa conteggiare chi ha pensato bene di fischiare e gesticolare contro Dzeko nel primo tempo di Roma-Cagliari o brontolare per il risultato che non si sblocca. Importa constatare come l’evoluzione delle cose sia ormai quasi ultimata. Molto più velocemente di quanto si pensasse. Perché tutto è concatenato. I fischi al “piccolo uomo” Spalletti sono legati a quelli dell’aprile scorso sempre nei confronti del tecnico, incastonati in una battaglia interna utile solo ad alimentare giornaletti di gossip e fronde interne che da sempre rappresentano il male del calcio a Roma. Così come i fischi a scena aperta per una Roma che sta battendo il Palermo per 3-0 ma non butta fuori il pallone per far entrare Totti (ergo: a Roma si è fischiata la propria squadra che in quel momento stava giganteggiando in campo, tutto normale?).
Il voler essere esclusivi e non inclusivi ha da sempre rappresentato il punto debole di un universo già di suo fragile e variegato come quello del tifo giallorosso. Un universo dove falsi comunicatori stornellisti e menestrelli sguazzano spesso felici e contenti per le loro malefatte utili a portar visite, pubblicità e quella notorietà fatta di finti lustrini da spargere per tutto l’etere. Ed oggi più che mai assistiamo al punto d’arrivo di un percorso partito qualche anno fa. Dividi et impera. Il gioco è servito.
Anche la componente del tifo ha le sue colpe, sia chiaro. Pur essendo oggi vittima a tutti gli effetti, in passato si è agito spesso ciecamente e senza lungimiranza. Dando spago a chi altro non aspettava che prendere la palla al balzo per eliminare una certa maniera di andare allo stadio. Il tifo oggigiorno paga lo scotto di quella poca unità d’intenti racimolata negli anni precedenti, pur essendosi immolato in una battaglia lodevole e lineare. Il problema, è inutile negarlo, sono pur sempre gli interlocutori. Istituzioni sorde e mal disposte, che storicamente non hanno quasi mai fatto passi indietro sulle proprie scelte. Pur folli e senza senso che siano state.
Ognuno può pensarla come vuole, sia chiaro. E il compito di chi scrive è anche e soprattutto quello di aprire dibattiti per migliorare situazioni contingenti. Sebbene ormai ci siano più comunicatori inclini al prendersela per una critica per un articolo o un pensiero. Mi chiedo però come si faccia ancora a parlare di ambiente allo stadio Olimpico? Salvo qualcuno che in maniera sporadica e quasi sempre nelle fasi di attacco della Roma prova a lanciare qualche coro di tanto in tanto, il clima che regna è quello di silenzio. Rotto di tanto in tanto da applausi e più consono al Sistina che alle gradinate di uno stadio. La voce dei giocatori udibile in maniera distinta dalle tribune e spesso i cori di quella dozzina di tifosi ospiti che ormai abitualmente occupano il settore ospiti completano lo scenario.
È un discorso che va ben al di là delle barriere e della protesta. Il tifoso della Roma medio che va allo stadio è ormai vicino al prototipo del tifoso medio dei grandi club europei. Spesso non “indigeno”, sicuramente poco incline a donare parte della sua esistenza alla squadra (lo dimostrano e “fughe anticipate” quando il risultato è negativo) e probabilmente infastidito a morte da chi vuol provare a fare tifo come si è fatto per cento anni in tutti gli stadi italiani. Non ammettere questo vuol dire avere una visione mozza delle cose. Oppure non conoscere minimamente cosa vuol dire la parola “ambiente” all’interno degli stadi.
Fortunatamente ho la possibilità di visitare tutti i fine settimana molti impianti italiani. Di ricordarmi domenica dopo domenica quanto l’Olimpico sia la cosa più lontana da un contenitore aggregante e ludico per il tifo calcistico. È per questo che non importa sapere se contro il Cagliari a fischiare erano in venti o in ventimila, perché qualcuno che lo fa ormai c’è sempre ed è una mentalità che lentamente sta diventando normale ed accettata. Persino con una squadra in lotta per lo scudetto. Un secondo posto che vale 23.000 spettatori ufficiali col Cagliari (21.000 circa registrati agli ingressi). Forse è questo il dato più inquietante e significativo. E sul quale non si può fare nessuna riflessione “numerica”.
Dispiace che senza accorgersene Roma stia accettando tutta la mediocrità sportiva di cui si sta adornando.
Simone Meloni
Roma-Cagliari (foto di Lorenzo Contucci)
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Roma-Sampdoria (foto Cinzia Lmr)
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  Roma-Sampdoria e Roma-Cagliari: l’evoluzione della specie Un popolo che non ha memoria non è più popolo. Un popolo che non si aiuta e si dà conforto non può semplicemente esistere.
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