#Deriva industriale italiana
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La siderurgia così per come la conosciamo oggi, ha avvio in tempi lontanissimi e non sospetti: nel lontano 1150 d.C.
Per secoli e fino ad oggi ha permesso di produrre ghise, acciai e ferrite fondamentali per lo sviluppo industriale, economico e sociale.
Senza voler troppo dilungarsi, un complesso siderurgico permette, a partire dal minerale di ferro Fe2O3, di ottenere ghise grezze grazie al processo di ossidoriduzione che si sviluppa negli altiforni in presenza del carbon coke, fonte di energia e di CO essenziale alle reazioni.
I successivi processi di riduzione del carbonio in lega con la ghisa, attraverso l'insufflaggio di ossigeno in apposite strutture di reazione (convertitori Thomas, Bessemer, Rotor, Kaldo-Ld) permettono di ottenere l'acciaio destinato alla produzione. L'immensa energia termica per le reazioni, ma tutta l'energia di processo, viene ricavata e fino all'80% dall'impianto siderurgico stesso, anche e grazie al recupero della CO di reazione dagli altiforni (combustione nelle torri di Cowper).
Un processo parallelo di produzione della ghisa grezza nacque proprio in Italia (metodo Stassani) utilizzando un arco elettrico in forni di minori dimensioni, definiti bassiforni. Un processo che richiede un incredibile apporto di energia elettrica per la generazione dell'arco elettrico necessario per la fusione del minerale grezzo e continuando a fare affidamento alle polveri, in questo caso, di carbon coke, per ottenere la fondamentale ossidoriduzione.
Un processo che oggi richiede, circa 150 MWh di energia elettrica per tonnellata di carica inserita.
La follia ambientalista pretende, a fini ambientali e riduzione delle emissioni di CO2, di fare affidamento solo ai forni elettrici ed alle energie rinnovabili (solare + eolico) per sostenere la produzione della ghisa grezza. A tale follia se ne aggiunge una seconda: utilizzare idrogeno in luogo del carbon coke per sostenere i processi di ossidoriduzione. Idrogeno da produrre sempre e solo grazie all'apporto di energie rinnovabili.
Da subito appare evidente il costo di produzione di tali acciai, perché la potenza da impegnare nel tempo è mostruosa, così come la capacità eventuale di accumulo per sostenere un processo che, negli altiforni, ha una durata multidecennale.
La follia ulteriore è pretende di applicare l'idrogeno da fonti rinnovabili, una criterio che impone, dati i bassi rendimenti del processo elettrolitico a freddo, di impegnare ulteriori incredibili installazioni di energie rinnovabili (il rapporto energia ricavata : energia applicata è di 1 : 3.5/5.5).
Non scendo nei dettagli della notevole fragilità degli acciai ottenuti, dato che da sempre l'inclusione dell'idrogeno nella struttura reticolare del Ferro è considerata dannosissima (fiocchi di idrogeno), ma solo nei costi: un acciaio, definito ipocritamente verde dai politici e dagli ambientalisti, raggiungerebbe costi da 4 a 8 volte superiori rispetto alla produzione convenzionale, senza considerare la necessità di espandere il parco delle energie rinnovabili, senza considerare gli idrolizzatori per l'idrogeno, senza considerare l'accumulo per sostenere una produzione continua nel tempo.
Un esempio della follia proviene dagli Stati Uniti, dove il colosso dell'acciaio Cliveland-Cliffs ha già ricevuto una sovvenzione di 500 milioni di dollari per produrre acciaio "verde", ed una ulteriore sovvenzione è in arrivo dal DoE per ulteriori 75 milioni di dollari.
Il colosso, però, pur avendo ricevuto queste sovvenzioni generose, sembra non intenzionato a procedere per la produzione "verde", perché gli acquirenti non sono intenzionati a spendere almeno 4 volte in più per l'acquisto di questo prodotto finale. Le intenzioni del suo CEOo son quelle di procedere con la classica produzione dell'acciaio attraverso l'uso del carbon coke, non avendo intenzione di perdere quote di mercato in favore di Cina e India, dove non ci si preoccupa assolutamente delle emissioni di CO2, ma di produrre in modo economico e di qualità, e nessuna sovvenzione potrà mai coprire, intanto i costi di conversione degli impianti (oltre 1.5 miliardi di dollari per ogni linea) quindi contenere i costi di produzione e mantenere elevata la qualità del prodotto finale. Chiaro? Fernando Arnò. ============================================
Follie che, per fortuna dell'umanità, saranno seguite solo dagli euroidioti, mentre tutto il resto del mondo continuerà a bruciare carbone per le necessità industriali.
E noi?
Noi forse sopravviveremo coltivando ravanelli bio, molto apprezzati in Cina.
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Marco Zanuso Architettura e design
Archivio del Moderno, Accademia di architettura, Università Svizzera italiana
a cura di Luciano Crespi, Letizia Tedeschi e Annalisa Viati Navone
Officina Libraria, Milano 2020, 258 pagine,brossura con alette , 20 x 25 cm , 180 ill. b/n e colori, ISBN 978-88-3367-051-5
euro 35,00
email if you want to buy :[email protected]
Il volume propone una lettura critica dell’opera e del pensiero di Marco Zanuso, professore al Politecnico di Milano e tra i protagonisti dell’architettura e del design italiani del Novecento. Fin dagli anni della sua formazione Zanuso coniuga un’intensa attività professionale negli ambiti dell’architettura e del design, condotta a stretto contatto con i settori più innovativi dell’industria italiana, con un’attiva partecipazione al dibattito architettonico del dopoguerra come membro del CIAM, del Movimento di Studi dell’Architettura, dell’ADI e dell’INU. Nella sua veste prima di capo-redattore della rivista “Domus” (1946-1948) poi di redattore di “Casabella-Continuità” (1953-1956), partecipa al dibattito architettonico di quegli anni, introducendo temi dei quali sarà uno dei più brillanti interpreti nel corso degli anni successivi: dall’urgenza della ricostruzione alle potenzialità della prefabbricazione edilizia, dalla conoscenza dei processi produttivi industriali al rapporto tra architettura e design, dalla sperimentazione sui nuovi materiali alla collaborazione dell’architettura con le arti, dal ruolo dell’architetto nella società industriale alla “progettazione integrata”. Ai moltissimi progetti di design diventati icone del Novecento – dai mobili Arflex e Gavina, agli apparecchi radiotelevisivi Brionvega, alle macchine per cucire Borletti – affianca una originale attività di architetto, improntata a un “peculiare umanesimo”. Attraverso l’analisi dei materiali d’archivio, gli autori hanno indagato la complessità della metodologia progettuale dell’architetto-designer, connotata da una ricerca d’avanguardia incardinata sul sinergico intreccio tra due polarità: le «tecniche costruttive» e le «tecniche di progettazione». L’unicità di Zanuso deriva in larga parte, inoltre, dalla ibridazione tra le «tecniche di progettazione» dell’architettura e quelle dell’industrial design, secondanti un pensiero orientato da un approccio sistemico la cui datità sperimentale è di derivazione scientifica.
02/12/20
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#Marco Zanuso#design italiano#italian design#architettura italiana#Arflex#Gavina#Brionvega#Borletti#tecniche costruttive#tecniche progettazione#designbooksmilano#fashionbooksmilano
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https://www.regesta.com/2013/04/09/9-aprile-1969-la-rivolta-di-battipaglia/
9 aprile 1969, Sciopero Generale, in città c’è una sana e democratica volontà di protesta e l’adesione totale alla richiesta del fondamentale diritto dell’uomo al “Lavoro”
Battipaglia era diventata nel 1929 una “Città Nuova” del regime e nel 1969 godeva di una discreta presenza industriale, avendo vissuto un poderoso boom tra gli anni 50 e 60, tanto più rilevante se si pensa che a causa della sua posizione era stato uno dei principali campi di battaglia nel corso dell’operazione Avalanche, lo sbarco alleato del 9 settembre 1943, risultandone quasi interamente distrutta come si può osservare in questo Combat Film dell’Istituto Luce.
All’inizio del 1969 si paventa la chiusura di molte fabbriche e per il nove aprile i dirigenti politici erano attesi a Roma per un incontro. In loro sostegno la città è tutta in piazza ma quando un gruppo si dirige verso la stazione ferroviaria un commissario, con estrema rigidità, indossa la fascia tricolore e ordina lo squillo di tromba, segnale della carica. La polizia interviene pesantemente ma la gente comune non ci sta, è esasperata, si ribella e come qualche mese prima ad Avola, uomini dello stato sparano: due innocenti vengono per sempre tolti ai loro affetti.
Muoiono Carmine, 19 anni colpito alla testa e Teresa, giovane professoressa, raggiunta da una pallottola in dotazione alle forze dell’ordine, al terzo piano della propria abitazione. Le Forze dell’ordine vengono letteralmente cacciate via da Battipaglia e la città diventa, di fatto, indipendente per qualche ora.
In fondo all’articolo si può trovare un lungo saggio su quella giornata per cui non mi dilungherò nella descrizione di quei giorni su cui molto (ma forse non tutto!), è stato scritto, questo post è dedicato principalmente al loro ricordo e a cercare di ricostruire il contesto in cui quegli eventi maturarono, per capire quanto e se la loro scomparsa fu “solo” una tragica casualità.
C’è però ancora un ultimo sincero omaggio da fare anche a tutti coloro i quali scesero in piazza allora e ne subirono le conseguenze, più di un centinaio di feriti in una città che non aveva neppure un ospedale, tra essi il fotografo Elio Caroccia, che compare nel video che segue, picchiato dagli agenti perchè aveva ripreso scene di violenza troppo compromettenti per la Polizia. Rimarrà colpito per sempre, nel fisico e nello spirito, da quell’esperienza.
Il giornali più conservatori di allora bollarono la protesta come eversiva mentre l’ufficio propaganda del PCI produsse un documentario, ripreso e ampliato nel 70, per raccontare il disagio popolare. Quel documentario si chiamava proprio “Ritorno a Battipaglia” .
Oggi la ricchezza di fonti di informazione d’archivio è un fatto consolidato e a queste fonti abbiamo cercato accesso per dare dei fatti una lettura obiettiva. La “rivolta di Battipaglia” non può essere correttamente letta se non si ricostruisce il clima di quel tragico 1969 che proprio da Battipaglia vede partire una escalation di tensione che culminerà nella strage della Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano.
L’anno comincia con un episodio tragico che anche in questo caso vede protagonista un ragazzo, un semplice cittadino che si sacrifica per la sua gente. In questo filmato dell”Archivio Luce si parla sia del suicidio di Jan Palach (19 gennaio 1962) e della primavera di Praga, così dilaniante per la sinistra italiana, sia dell’elezione del controverso Nixon alla Casa Bianca (unico presidente Usa dimessosi per uno scandalo, il Watergate).
“ti alzasti felice come non mai […] poi sempre più felice, mi hai salutato
Ciao sorellina, oggi si scende in piazza, oggi si protesta, ma tu ignoravi che quel tragico giorno sarebbe stato l’ultimo della tua vita. […] Liliana, vedrai, un giorno cambierà tutto, saremo liberi nel Socialismo ed in un mondo di eguali”. […] Invidiavi i giovani coraggiosi che morivano da eroi, ma di questo adesso non ne puoi dubitare perché anche tu sei morto come un vecchio partigiano nel fiore degli anni più belli.” (Liliana Citro)
Il suicidio di Jan si scolpì nel cuore di Carmine, come ricorda la sorella Liliana in quel filmato, e lo spinse con coraggio a essere in piazza con tutti, purtroppo ad andare incontro al suo tragico destino
Il 27 febbraio Roma è sconvolta dalle proteste per la visita di Nixon e studenti di destra irrompono nella facoltà di Magistero, nel tentativo di fuga muore uno ragazzo di 23 anni, Domenico Congedo , studente mentre il 31 marzo si insedia la Commissione Parlamentare che dovrà indagare sul piano Solo del 1964 e sulle schedature del famigerato SIFAR
E’ proprio nel 1969 che Almirante comincia a dirigere l’ MSI, in Grecia c’è una giunta militare, la terribile dittatura dei “colonnelli”, e l’Italia si trova a rappresentare la terra di confine tra i due blocchi USA e URSS, si succedono eventi che nascono dalla protesta giovanile o dal torbido rimestare di molti servizi segreti come la rete Gladio, attiva già dal 1964, ma riconosciuta, solo dopo molte reticenze, dall’allora Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, nell’ottobre del 1990. La Commissione Stragi ipotizzò però ceh Gladio non fu l’unica struttura segreta e che ci furono strutture simili fin dal primo dopoguerra.
Il 9 aprile la violenza si abbatte sui cittadini di Battipaglia, qualche giorno dopo, alla Camera dei Deputati, Sandro Pertini, commosso presidente dell’Assemblea, ricorda i morti di Battipaglia
“Onorevoli colleghi, sono certo di interpretare il sentimento vostro, se rinnovo da questa tribuna i l profondo cordoglio per le vittime dei tragici fatti di Battipaglia, fatti che hanno scosso e turbato la coscienza dell ‘intera nazione.
Ma non basta manifestare la nostra pietà per le vittime e la nostra costernazione per quanto è accaduto. Dalla nostra qualità di rappresentanti del popolo ci deriva un preciso dovere : impedire che fatti simili possano ancora ripetersi […] Solo pensando ai vivi non sicuri del loro domani possiamo degnamente onorare i morti, povere vittime innocenti.”
Il ministro Restivo difende senza dubbi l’operato della polizia e i deputati conservatori evocano i fantasmi della rivoluzione e pretendendo un’inasprimento del cosiddetto “ordine”, ragion per cui il dibattito si trasforma in uno scontro tra le tesi del governo e la sinistra che chiede invece con molta forza che la polizia non usi più le armi nel corso di manifestazioni di piazza. Presidente del Consiglio è Mariano Rumor, coinvolto (e poi prosciolto) anni dopo nello scandalo Lockheed, intervengono nel dibattito, tra gli altri, su opposte posizioni Almirante, Andreotti, Avolio, Covelli, Ferri, Guarra, Malagodi, Pajetta, Scalfari, Donat Cattin e D’Alema.
Battipaglia è lontana dalle tensioni delle grandi città come Roma e Milano e ancora oggi le testimonianze raccontano di una rivolta popolare che allontanò spontaneamente politici, giornalisti e provocatori. Eppure una inchiesta indipendente condotta dopo la strage di Milano rivelò che il giorno prima l’agenzia OP di Pecorelli avrebbe previsto disordini molto seri a Battipaglia (come purtroppo accadde) e annunciato la presenza di numerosi attivisti di Avanguardia Nazionale di Stefano delle Chiaie.
Pecorelli era un giornalista scomodo, con molte informazioni di prima mano dei “servizi”, in genere non parlava a caso e la sua rivista era spesso un’arma di ricatto, ragion per cui era seguito e temuto negli ambienti politici. Pecorelli ritrattò successivamente e accusò dell’incauta pubblicazione Pacciardi ma la previsione, rivelatasi tristemente esatta, non fu mai riportata da alcun giornale nazionale. Pecorelli morì, ucciso, 10 anni dopo e il 20 marzo 1979 alla Corte di Assise di Perugia ci saranno condanne importanti per quell’assassinio, come quella del senatore Andreotti, annullata successivamente dalla Corte di Cassazione.
La nota di OP indice a pensare che un pezzo della strategia della tensione, che ha insanguinato l’Italia, sia passato anche per le strade e le piazze inconsapevoli di Battipaglia. Di contro abbiamo avuto la fortuna di realizzare un’intervista all’allora comandante dei Carabinieri della stazione di Battipaglia il maresciallo De Marco. Il maresciallo tende ad escludere una presenza determinate di “agitatori” in quanto, a causa della sua attività, conosceva la gran parte delle persone in piazza quel giorno. Il ruolo di mediazione dei carabinieri, riconosiuto da diverse fonti, gli valse un trattamento meno aggressivo da parte dei manifestanti ma il maresciallo De Marco è testimone dell’espasperazione della gente in quelle giornate.
Se nulla si è mai saputo con certezza di trame oscure è certo però che quei fatti diedero il via a una stagione continua di grandi manifestazioni, nelle quali forte fu la contrapposizione tra polizia e manifestanti, una stagionee di attentati come alla Fiera di Milano, alle stazioni ferroviarie e ai treni, con il tragico epilogo di due ragazzi di 22 anni morti il 27 ottobre e il 19 novembre.
A Pisa lo studente Cesare Pardini viene colpito al petto probabilmente da un candelotto lacrimogeno sparato ada altezza uomo, a Milano l’agente Antonio Annarumma perde la vita a bordo della sua jeep per un colpo inferto alla testa. Anche in questo caso la versione ufficiale che parlò di tubi innocenti lanciati dai dimostranti e gli fu si contrapposta una versione che faceva ricadere la causa della mort sull’urto accidentale della jeep. Non venne mai condannato alcun responsabile.
Quel terribile 1969 conosce il suo culmine poi con la bomba di piazza Fontana a Milano, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura ricordata di Gianni Bisiach in “un minuto di storia”.
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NASCE AIDA46, LA NUOVA JOINT VENTURE DI DIGITALPLATFORMS E ASC27
Intelligenza Artificiale e Cyber Security per le infrastrutture critiche
Roma, 03 NOV. – Dalla joint venture tra DigitalPlatforms S.p.A. e ASC27 S.r.l è nata AIDA46, una nuova società high tech che, grazie al supporto della Intelligenza Artificiale, punta a soluzioni sempre più avanzate nel settore della CyberSecurity per le infrastrutture critiche. DigitalPlatforms, attraverso AIDA46, svilupperà soluzioni e prodotti per CyberSec, Cyber Intelligence, Smart/Safe Cities, Critical Infrastructures rivolte in particolare alle aziende e agli enti che fanno parte del perimetro di sicurezza nazionale e al mondo della difesa di Italia e Nato.
AIDA46 nasce con un portfolio di prodotti sviluppati e conferiti da ASC27, tra cui Safe People (software che impiega Intelligenza Artificiale per scenari di Smart/Safe Cities attraverso un’applicazione AI IMINT - Image Intelligence); AI Black Box (software con il quale si può ispezionare sicurezza e vulnerabilità di firmware IoT di cui non si dispone di codici sorgenti); Qnetic (piattaforma di ottimizzazione per il trasporto pubblico); ATM-SEC (piattaforma per la sicurezza degli sportelli ATM); Osint/Closint Platform (già in uso presso alcune Istituzioni Nazionali); AuthSpine (device da collegare ad un normale telefono mobile che permette un’autenticazione sicura, basato anche sul comportamento del soggetto); software di Manutenzione Predittiva di sistemi complessi industriali e militari; Digital Twins.
La nuova società si avvarrà di tecnologie proprietarie, frutto di comprovate competenze CyberSec, e dell’utilizzo spinto dei più innovativi sistemi legati all’Intelligenza Artificiale. La produzione del software è 100% Made in Italy deriva dall’esperienza di un team di lavoro proveniente da 20 anni di attività nel settore. La joint venture, realtà unica in Italia, sarà controllata al 51% da DigitalPlatforms e al 49% da ASC27. Ceo di Aida46 sarà Nicola Grandis, alla guida già di Asc27.
“Accolgo con estrema soddisfazione la nascita di Aida46 grazie al lavoro congiunto con ASC27. Sin dal primo giorno dalla sua nascita, DigitalPlatforms ha tra i suoi obiettivi quello di sostenere e promuovere la ricerca su temi cruciali per il futuro del nostro Paese come la CyberSecurity, l’AI e l’Internet of Things”, ha dichiarato Claudio Contini, Amministratore Delegato di DigitalPlatforms.
“L'obiettivo di AIDA46, che nasce dalla sinergia di due partner strategici – spiega Nicola Grandis, Ceo di Asc27 e Aida46 - è quello di portare innovazione per risolvere le sfide sempre più importanti che il mercato imprenditoriale e istituzionale cercano. Il portfolio CyberSec e la competenza di ASC27 relativamente all’'Intelligenza artificiale, unite alle soluzioni sviluppate da un gruppo industriale italiano di primaria importanza come DigitalPlatforms, rafforza le risposte in tema di CyberSecurity a disposizione delle strutture nazionali italiane ed internazionali. Questo incontro punta a rafforzare un ecosistema in via di espansione e di primaria importanza in termini di sicurezza, sviluppo, competitività e innovazione del Paese”
DigitalPlatforms S.p.A. è un gruppo industriale italiano nato nel 2018 e in costante e rapida crescita, con più di 430 risorse altamente qualificate che operano in sette aziende/business unit, tutte basate interamente in Italia. Il Gruppo DP è focalizzato sull’Internet of Things (IoT) e sulla Digital Transformation, partendo dalla ideazione e produzione di device e sensori, ai sistemi di comando e controllo, fino alle piattaforme digitali e alla CyberSecurity. Il target primario di clienti è rappresentato dai gestori di infrastrutture critiche, in particolare nei settori energia/utilities, telecomunicazioni, trasporti, Pubblica Amministrazione e Difesa.
ASC27 è una startup italiana, pluripremiata a livello internazionale, specializzata in Intelligenza Artificiale e CyberSecurity. Con un portfolio di prodotti amplissimo e la capacità di costruire intelligenze artificiali “su misura”, opera principalmente nei settori della Security, Salute, Retail, Logistica, Smart cities e Cyber Security. Tra gli altri riconoscimenti, nel 2021 ha vinto la Shanghai World AI Conference (WAIC) con il sistema ASIMOV, rientrato nella Top 10 dei software AI dell’anno e nel 2022 è arrivata prima, nella categoria eHealth, al "Noovle Cloud Challenge" organizzata da TIM, Noovle e Google Cloud. È partner tecnologico anche di Nvidia, Microsoft, Amazon AWS, OVH, Scaleway e Noovle.
Per ulteriori informazioni:
DigitalPlatforms S.p.A.
Marketing & Communication Manager
Giada Rossetto
+39 331 6849616
Asc27 srl
Marketing & Communication Manager
Renata Yusupova
+39 340 9967402
Ufficio Stampa DigitalPlatforms
Tommaso Accomanno – Comin & Partners
+ 39 340 770 1750
Ufficio Stampa Asc27
Cristina Calzecchi Onesti – Asc27
+39 333 653 8300
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Milano, premio Aretè: Renzo Rosso e Arianna Alessi nominati maestri della responsabilità
Milano, premio Aretè: Renzo Rosso e Arianna Alessi nominati maestri della responsabilità. Premio Aretè, alla sua 19esima edizione, si pone come occasione di confronto sul tema della finanza sostenibile attraverso alcune testimonianze e la premiazione dei migliori esempi della sostenibilità e della responsabilità in tutti i campi economici, sociali e culturali. “Una straordinaria impresa che fa onore alla moda italiana nel mondo. Un gruppo industriale che ha tracciato un percorso di sostenibilità a 360 gradi. Intensa e concreta interpretazione della responsabilità con centinaia di progetti di sviluppo in tutto il mondo, grazie all’impegno di OTB Foundation.” recita la motivazione con cui Renzo Rosso e Arianna Alessi sono stati riconosciuti Maestri della Responsabilità. OTB Foundation, onlus del gruppo OTB, sostiene progetti di sviluppo sociale che ruotano attorno a tre tematiche principali: donne in difficoltà, bambini e giovani in situazione di disagio integrazione. Inoltre, interviene quando si presenta un’emergenza, con azioni mirate e concrete che rispondono a bisogni urgenti dei beneficiari: dallo scoppio del conflitto in Ucraina, così come dopo il ritorno al potere dei talebani in Afghanistan, la Fondazione ha attivato progetti in aiuto alle popolazioni in difficoltà. garantendo che tutti i fondi raccolti vadano ai beneficiari senza disperdere nulla. Tra le tante iniziative di OTB Foundation a supporto delle donne, c’è il servizio per le vittime di violenza Mai Più e il recente progetto Brave Women Awards che finanzia master per ragazze meritevoli, con l’obiettivo di contribuire a una presenza paritaria delle donne nella futura classe dirigente del nostro Paese. “Sono molto contento di questo premio. Oggi tutti parlano di sostenibilità ma per me questo concetto arriva da lontano. Ho avuto la fortuna di nascere sostenibile e avere un padre che mi ha insegnato a rispettare e aiutare gli altri. Con questi valori ho fondato e guido ogni giorno le mie aziende e così ho voluto formare i miei manager attraverso dei corsi proprio qui all’Università Bocconi, perché la sostenibilità deve essere per tutti uno state of mind. Come imprenditore, credo in un mondo circolare dove un’azienda produce, consegna, crea valore e ne restituisce una parte alla società. Da questo principio deriva l’operato del Gruppo OTB e della sua Fondazione.” ha dichiarato Renzo Rosso, Fondatore e Presidente del Gruppo OTB. Arianna Alessi, Vicepresidente di OTB Foundation, ha aggiunto “Guidiamo la Fondazione OTB secondo i principi di responsabilità sociale di Renzo. Siamo profondamente orgogliosi di ciò che abbiamo creato e questo premio riconosce l’impegno di OTB Foundation. A differenza di altre organizzazioni non abbiamo costi amministrativi e tutte le donazioni vengono devolute ai progetti. Abbiamo la grande responsabilità di restituire qualcosa al territorio, per questo agiamo in tanti ambiti: aiutiamo bambini e giovani, abbiamo attivato progetti di integrazione e di supporto ai ragazzi, di prevenzione, e di sostegno alle donne che – come mai prima d’ora – sono discriminate e devono lottare per il riconoscimento di diritti fondamentali. Il nostro settore, quello della moda, ha la responsabilità di valorizzazione la figura della donna, ma ha anche il dovere di aiutarle, proteggerle e responsabilizzarle”.... Read the full article
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Cina: gelato che passione, i nuovi gusti che fanno impazzire la generazione Z
07/09/2021
SONO BASTATI POCHI ANNI PERCHÉ IN CINA SCOPPIASSE LA PASSIONE PER IL GELATO. OGGI DETIENE UN TERZO DEI CONSUMI GLOBALI, E L'INTERESSE SPINGE A CERCARE NUOVI GUSTI, TUTTI PROFONDAMENTE CINESI.
La storia del gelato in Cina è abbastanza recente e la sua crescita veloce se non consideriamo quanto avvenuto nell’antichità, quando cioè, circa 2000 anni fa, si può intercettare il progenitore del gelato.
Un salto nella storia del gelato
Tornando per un momento al passato, aiutandoci con un testo fondamentale quale Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond, scopriamo che l’origine della civiltà dell’Antropocene è da ritrovarsi nell’Asia minore, detta anche della Mezzaluna fertile, e nel continente cinese. Ebbene, il prototipo del gelato ha avuto origine proprio in queste aree. Il processo di fabbricazione e i relativi sapori si legavano alle rispettive tradizioni e in Cina, 2000 anni fa, venivano utilizzati i succhi di frutta attraverso una forma di ghiacciatura che ha poi trovato nel XIII secolo un ulteriore passaggio con il congelamento sottoterra di un’amalgama di riso, latte e spezie. Se si escludono questi precedenti bisogna aspettare molto perché la gelateria conquistasse un profilo simile a quello che ha in Europa e in Italia e che da anni monitoriamo attraverso la nostra guida Gelaterie d’Italia. Oggi ritroviamo una sorta di eredità identitaria sfogliando anzi cliccando sulle pagine dei social con la narrazione dei diversi sapori.
La gelateria contemporanea, una storia recente che corre veloce
Recente perché sino agli albori degli anni novanta era ancora prevalente il gelato prodotto localmente con lo stecco: pochi gusti apparentemente simili. Qualche tentativo, specialmente da parte di piccole imprese familiari italiane era stato fatto a Pechino e Shanghai senza risultati soddisfacenti tanto da portare poi alla chiusura delle attività.
Nel frattempo alcune multinazionali si erano affacciate al mercato cinese, per tradizione poco avvezzo a sapori molto zuccherini e prodotti a base di latte. Sono nate quindi le prime catene di gelaterie industriali con una gamma di prodotti prima importati e successivamente prodotti in loco, quando nei consumi si è passati dal latte di soia a quello animale.
L’evoluzione nel mercato cinese è molto veloce: dal 2014 il consumo del gelato è esploso e, oggi, un terzo di tutto il gelato venduto nel mondo è consumato in Cina. Per comprendere meglio il progresso del dato, stimato nel 2016 a 6.65 miliardi di dollari Usa con una quota di mercato nelle città di prima fascia (quelle cioè più importanti, estese, e dalla maggiore densità abitativa) del 23,4%, dobbiamo scomporlo e soprattutto guardare a come il marketing e l’arrivo di prodotti innovativi abbiano condizionato i consumi.
Gelato industriale e artigianale
Nella categoria del gelato industriale sono presenti cinque players: due cinesi, Yili e Mengniu con una buona quota di mercato negli yogurt e nel latte, e tre internazionali, Nestlè, Unilever che controlla Walls e anche GROM, posizionata nella fascia premium come Haagen-Dazs, senza trascurare brands locali che si sono sviluppati in diverse città cinesi di seconda e terza fascia.
Per quanto riguarda il gelato definito artigianale – principalmente secondo la tradizione produttiva italiana – c’è una certa continuità, con dolci prodotti a partire da basi importate dalle nostre aziende leader e con vendite in canali distributivi di negozi con marchio.
Il gelato e le nuove richieste della generazione Z
La generazione Z rappresentata dai millenials non si accontenta più di questa tipologia di prodotti: aspira insaziabilmente a qualcosa di più stimolante e curioso alimentato anche e soprattutto dalle piattaforme digitali dei social media con i loro KOL (Key Opinion Leader) e KOC (Key Opinion Consumer). Ancora una volta lo smarphone assume il ruolo di strumento di mediazione anche per l’acquisto del gelato.
Ed ecco che a Shanghai, oggi il centro più trendy per chi cerca novità giornaliere, nasce per esempio Il gelato Dal cuore, denominazione italiana per un luogo diventato icona per i millenials, nato sulle ceneri di una gelateria gestita tradizionalmente da un partner italiano che, armato di buone intenzioni, non ha riscosso il successo sperato.
La peculiarità che caratterizza questo fenomeno di marketing deriva da due elementi: il limitato valore zuccherino – circa il 30% in meno di un gelato industriale o artigianale tradizionale – e la scoperta di gusti nuovi di cui una parte trova il proprio fondamento nella tradizione cinese. La veste diversa è quella dei KOL: gli opinion leader sono fondamentali per determinare il successo di un prodotto, soprattutto se studiato con attenzione.
La Cina si trova stretta tra due tendenze originate dal paradigma della Dual circulation: da un lato la ricerca a tutti i costi di quel qualcosa di nuovo che fa scattare la molla del consumo, unica ragione che giustifica la variazione mensile del PIL di cui i consumers giocano un ruolo determinante, dall’altro il ripristino della tradizione (forse rivisitata) ma ancora immanente nella sua totalità. Nel gelato assistiamo a questo processo di sintesi che spariglia i nostri fondamentali ma per il consumatore cinese diventa motore delle decisioni nella scelta dei prodotti.
Cina: gelato tradizione e nuovi sapori
Non dobbiamo stupirci se l’elenco appare per noi quantomeno stravagante ma è questo che crea il successo del momento: accanto ai gusti tradizionali dobbiamo annoverare il caramello salato e un sorbetto al limone con un alto grado di acidità; possiamo continuare con un estroso simil foie gras o ananas con peperoncino piccante del Sichuan, la provincia cinese dove vige la regola quotidiana del piccante. Si passa poi a un mascarpone e fichi sino al gusto al Pei Pa Koa, sapore racchiuso nello sciroppo della tradizionale medicina cinese come rimedio per la tosse piuttosto che la ripresa rivisitata del gusto del White Rubber, una caramella tipica nata e prodotta a Shanghai da almeno mezzo secolo.
Non possono mancare i gusti alla soia rossa e al fagiolo verde, al tuorlo d’uovo salato, alla noce cinese e al vino giallo di riso. Per chi si vuole sbizzarrire è a disposizione un gelato al gorgonzola con anacardi, quello al ribes nero, al durian, frutto esotico polposo ma con un afrore repellente, il gelato al Maotai, la grappa cinese per eccellenza, all’hotpot, anche questo rimanda alla tradizione di intingere carni, interiora e verdure in un brodo piccante e per chiudere il cono Dal cuore con latte di avena con riccioli di vegetali che rappresenta la nostra Terra.
Le prospettive di sviluppo
Con le limitazioni a viaggiare, imposte dalla pandemia, ormai da oltre un anno e mezzo (e con una reiterazione, da stime presentate, sino alla fine del 2022) si assiste in Cina a un processo a U verso la precipua innovazione cinese nella moda, nell’automotive (con le vetture EV) e nel settore alimentare da retail o da Horeca. Il Piano quinquennale (2021 – 2025) incoraggia lo sviluppo dell’alleanza tra industrie con caratteristiche collegate alle condizioni locali per favorire l’occupazione e gli Istituti tecnici industraiali locali per la formazione tecnica e l’utilizzo degli strumenti di marketing. Jiang Hao, partner di Roland Berger – società tedesca di consulenza strategica e aziendale –sostiene che questa alleanza creerà una piattaforma professionale per il prodotto alimentare cinese creando valore nei differenti settori. E ancora una volta è quello che sta accadendo nel mondo del gelato.
Dal cuore – Cina – Shanghai – 600,Shan xi Road – +86 21 138 1858 7747
a cura di Marco Leporati
Fonte: Gambero Rosso
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Il 60% delle acque Italiane sono chimicamente inquinate
Dagli antibiotici ai pesticidi: ecco la chimica che inquina il 60% delle acque italiane. Anche microplastiche e creme solari: tante le sostanze e i composti chimici di quotidiano utilizzo che inquinano i corpi idrici. Un dossier di Legambiente fotografa l'inquinamento industriale.
Il fiume Seveso (foto: Mauro Lunardi, via Wikimedia Commons) Nei giorni del lockdown abbiamo visto le acque più limpide, dai fiumi alla Laguna. Ma cosa c'è che le inquina? E con quali impatti su salute e ambiente? Il dossier di Legambiente dal titolo "H2O – la chimica che inquina l’acqua" (qui il .pdf) fa il punto sulle sostanze inquinanti immesse nei corpi idrici, con numeri, dati e un focus dedicato alle sostanze emergenti: tra queste fitofarmaci, farmaci a uso umano e veterinario, pesticidi di nuova generazione, microplastiche. Sono 46 le storie raccolte a testimonianza della contaminazione. Lo sversamento incontrollato In Italia circa il 60% dei fiumi e dei laghi non è in buono stato e molti di quelli che lo sono non vengono protetti adeguatamente. Su dati del registro E-PRTR (European Pollutant Release and Transfer Register), l’associazione ambientalista calcola inoltre che dal 2007 al 2017 gli impianti industriali abbiano immesso, secondo le dichiarazioni fornite dalle stesse aziende, ben 5.622 tonnellate di sostanze chimiche nei corpi idrici. Acque inquinate d'Italia: il dossier di Legambiente Alla vigilia della Giornata mondiale dell’Ambiente, l’associazione ricorda che la corretta gestione e la cura della risorsa idrica devono essere una priorità del Paese insieme alle bonifiche e al rafforzamento della Direttiva Quadro Acque per mantenere gli obiettivi, senza nuovi slittamenti e sotto la revisione degli Stati membri. E
lancia un appello al Governo, affinché una parte considerevole dei mille miliardi di euro stanziati dall’Ue per le politiche ambientali e climatiche finanzi il Green New Deal italiano per favorire il recupero dei ritardi infrastrutturali, l’adeguamento ed efficientamento degli impianti di depurazione e della rete fognaria e acquedottistica, gli interventi di riduzione del rischio idrogeologico. "Per anni utilizzati come discariche dove smaltire i reflui delle lavorazioni industriali, i nostri fiumi, laghi, acque marino-costiere e falde sotterranee sono stati contaminati da scarichi inquinanti: ma oggi, alle minacce di ieri se ne aggiungono di diverse e non meno insidiose". L'obiettivo, in questa Fase 2 che vede ripartire la gran parte delle attività, è imporre una ripartenza diversa. A cominciare delle industrie che continuano a perseguire metodi e attività incompatibili con la tutela dell’ambiente e delle risorse idriche in particolare, come dimostrano casi ancora aperti quali gli sversamenti illeciti nel fiume Sarno, in Campania, il più inquinato d’Europa, o quello del bacino padano, area di maggiore utilizzo europeo di antibiotici negli allevamenti, i cui residui si ritrovano nelle acque. I laghi dei veleni alle pendici del Vesuvio: il videoreportage sull'inquinamento del Sarno "La riapertura delle attività produttive – commenta Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente – ci ha restituito in diverse situazioni anche la riattivazione di scarichi inquinanti nelle acque. Un fenomeno che ha un impatto notevole su corpi idrici in molti casi già compromessi da decenni di inquinamento e oggi minacciati anche dalla presenza dei nuovi 'contaminanti emergenti', un rischio per la salute, oltre che per l’ambiente. Di certo non può essere il lockdown la misura per restituirci acque limpide, ma ora che abbiamo tutti visto come sia possibile ritornare ad avere fiumi e laghi puliti, occorre puntare sulle giuste politiche e misure a livello nazionale fin da questa fase di ripartenza".
"Servono un sistema di controllo e monitoraggio sempre più accurato e uniforme su tutto il territorio nazionale e un’azione di denuncia degli scarichi illegali. - prosegue Zampetti - Per questo abbiamo deciso di iniziare a raccogliere le segnalazioni sugli scarichi inquinanti da parte delle persone che continueranno ad essere sentinelle sul territorio. Le storie che abbiamo raccolto in questo dossier ben ci raccontano le pratiche legali e illegali che tutt’oggi continuano ad avvelenare acque, persone e territori. Condotte che non sono più tollerabili, specie in settori che dovrebbero essere protagonisti di una nuova fase di transizione ecologica”. La Direttiva Acque e gli obiettivi mancati "Il raggiungimento di una buona qualità ecologica e chimica dei corpi idrici in Europa, che la Direttiva Quadro Acque (2000/60/CE) aveva fissato al 2015, non è più procrastinabile – dichiara Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente –– Diverse le cause del mancato conseguimento dei risultati, tra cui gli scarsi finanziamenti erogati, un’attuazione troppo lenta della direttiva da parte degli Stati membri e un’insufficiente integrazione degli obiettivi ambientali nelle politiche settoriali. L’Italia, da questo punto di vista, è in forte ritardo. La piena attuazione della Direttiva Acque, peraltro, è fondamentale per contrastare i cambiamenti climatici: serve a migliorare lo stato ecologico dei corpi idrici, restituire spazio ai fiumi, mitigare il rischio alluvioni ed evitare alterazioni dei corridoi fluviali rispettando la naturalità. Per una ripartenza post-Covid, occorre che anche le aziende facciano la loro parte”. L'effetto cocktail
L’Ue ha individuato inoltre 45 sostanze prioritarie che rappresentano un "rischio significativo per l’ambiente acquatico o proveniente dall’ambiente acquatico" che gli Stati membri sono tenuti a monitorare: per lo più nelle nostre acque se ne individuano due famiglie, sostanze organiche e metalli pesanti, immesse tramite i processi produttivi o gli impianti di depurazione delle aree urbane. Non meno impattanti, ma considerati emergenti, sono invece le migliaia di contaminanti cui Legambiente dedica un capitolo a parte: inquinanti dai potenziali effetti avversi su salute e ambiente stimati in oltre 2.700 in commercio, in gran parte non regolamentati. Tra questi, fitofarmaci, farmaci a uso umano e veterinario, pesticidi di nuova generazione, additivi plastici industriali, prodotti per la cura personale, nuovi ritardanti di fiamma e microplastiche. Sostanze magari presenti nelle acque in piccole concentrazioni, ma che interagendo per molto tempo possono creare un 'effetto cocktail'. Allarme pesticidi
Sono 130 mila all’anno, invece, le tonnellate di pesticidi usate nella filiera agricola italiana: secondo l’Ispra, quantità significative di principi attivi e metaboliti di questi fitofarmaci si ritrovano in acque superficiali (67%) e sotterranee (33%), evidenziando la correlazione fra chimica nelle filiere tradizionali e impatti negativi sul sistema idrico, come sostenuto da sempre anche da Legambiente. Altro rischio sanitario deriva dai contaminanti nelle attività agrozootecniche: una ricerca pubblicata da The Lancet nel 2018 rivela che in Italia avviene un terzo delle 33 mila morti annue nell’Ue da infezioni da Amr (agenti resistenti agli antimicrobici). Nel 2019 l’Agenzia Europea del Farmaco ha evidenziato un uso di antibiotici sproporzionato nei nostri allevamenti: 1.070 tonnellate all’anno, il 16% dei consumi Ue, con il bacino padano area di maggiore utilizzo europeo.
La mappa dei casi italiani di acque inquinate non è affatto rassicurante. Il dossier fotografa casi che da decenni aspettano bonifiche e riqualificazioni. Partendo da Porto Marghera in Veneto, primo sito nazionale da bonificare individuato nel 1998, passando per la Sardegna con il forte inquinamento da metalli pesanti nella zona industriale di Portoscuso e quello da sostanze organiche, solventi clorurati e idrocarburi nella zona industriale di Porto Torres, per arrivare in Sicilia, a Milazzo, Gela, Augusta Priolo e Melilli, devastate dalle industrie del petrolchimico. In mezzo, tanti altri siti d’interesse Nazionale: dalla laguna di Grado e Marano in Friuli alla Caffaro di Brescia in Lombardia; dai siti toscani di Piombino, Livorno e Orbetello a quelli marchigiani di Falconara Marittima; dalla Valle del Sacco nel Lazio ai siti pugliesi di Brindisi, Taranto e Manfredonia. Tutte aree dove IPA, PCB, metalli pesanti, diossine, pesticidi e idrocarburi hanno portato a problemi sanitari oltre che ambientali. E ancora, la Campania, con l’inquinamento del fiume Sarno e delle falde del Solofra, e la Terra dei Fuochi; la contaminazione del lago Alaco in Calabria, quella delle acque potabili dei comuni metapontini in Basilicata, del lago d’Orta in Piemonte o dell’acquifero del Parco Nazionale del Gran Sasso, in Abruzzo, dove Legambiente è parte civile nel procedimento penale in corso. L'emergenza Pfas
Sono solo alcune delle decine di casi segnalati nel dossier, che si avvale dell’apporto dei circoli locali e regionali di Legambiente. Come per il focus sui pesticidi e sul glifosato in Emilia Romagna. O, ancora, per gli approfondimenti sull'inquinamento da Pfas (composti chimici che rendono le superfici trattate impermeabili ad acqua, sporco e olio), con i casi della provincia d’Alessandria, dove è in fase di autorizzazione un progetto che prevede l’utilizzo di una nuova sostanza (cC604) dagli effetti potenzialmente dannosi in un’area in cui “l’eccesso di ricoveri e di mortalità è segnalato da anni”; del Veneto dove l’inquinamento da Pfas è storicamente dovuto allo scarico di un’industria chimica e interessa le province di Vicenza, Verona e Padova, minacciando la salute di 300 mila persone; della Lombardia, dove l’Arpa ha rilevato Pfas in tutti i bacini della pianura. Le proposte di Legambiente Oltre all’appello al Governo, l’associazione ambientalista rilancia alcune sue proposte. Secondo Legambiente, le microplastiche devono rientrare tra i criteri di valutazione del buono stato delle acque interne. Serve, inoltre, dare spazio all’innovazione tecnologica e ridurre drasticamente l’uso di sostanze di sintesi pericolose in agricoltura. Per farlo occorre approvare i decreti attuativi della Legge 132/2016 che ha istituito il Sistema Nazionale a rete per la Protezione Ambientale (Snpa), consentendo di potenziare, uniformare e migliorare i controlli sul territorio incidendo sulla prevenzione dall’inquinamento. Read the full article
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La top 20 del Guardian, i venti libri che hanno cambiato il mondo
1. Stephen Hawking, Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo Un popolare saggio scientifico dell’ astrofisico britannico, pubblicato nel 1988. L’intento del libro è di rendere nota e comprensibile la moderna teoria cosmologica, fornendo dapprima al lettore le basilari nozioni della fisica, corredate da un esauriente profilo storico. Nonostante il genere di nicchia, il saggio divenne un best-seller, vendendo in tutto il mondo oltre nove milioni di copie e rendendo estremamente popolare il suo autore.
2. Mary Wollstonecraft, La Rivendicazione dei diritti della donna Scritto dalla femminista britannica del diciottesimo secolo Mary Wollstonecraft, è una delle prime opere di filosofia femminista. In essa, l’autrice risponde a quegli intellettuali, teorici politici ed educatori dell’epoca che hanno voluto negare l’istruzione delle donne.
3. Immanuel Kant, La Critica della ragion pura Uno degli scritti più importanti del filosofo prussiano. La Critica della ragion pura viene definita come un’analisi critica dei fondamenti del sapere.
4. George Orwell, 1984 1984 (Nineteen Eighty-Four) è uno dei più celebri romanzi di George Orwell, pubblicato nel 1949 ma iniziato a scrivere nel 1948 (anno da cui deriva il titolo, ottenuto appunto dall’inversione delle ultime due cifre). È stato definito il romanzo distopico per eccellenza
5. Charles Darwin, L’origine delle specie (Titolo completo: Sull’origine delle specie per mezzo della selezione naturale o la preservazione delle razze favorite nella lotta per la vita) è una tra le opere cardini nella storia scientifica, e indubbiamente una delle più eminenti in biologia.
6. Edward Said, Orientalismo Un saggio pubblicato nel 1978, che tentò di spiegare e ridefinire le modalità con cui l’Europa rappresenta, nella sua storia, l'”Oriente”.
7. Rachel Carson, Primavera silenziosa Pubblicato nel settembre del 1962, il libro è comunemente ritenuto una sorta di manifesto antesignano del movimento ambientalista e descrive con tanto di ricerche e analisi scientifiche i danni irreversibili del DDT e dei fitofarmaci in genere sia sull’ambiente che sugli esseri umani.
8. Karl Marx e Friedrich Engels, Il Manifesto del Partito Comunista Scritto fra il 1847 e il 1848, fu pubblicato a Londra il 21 febbraio del 1848. La prima e parziale traduzione italiana fu pubblicata nel 1889. Una successiva traduzione, ancora parziale, nel 1891, mentre nel 1892 fu pubblicata a puntate nel periodico “Lotta di classe”, ad opera di Pompeo Bettini, la prima traduzione completa del Manifesto.
9. William Shakespeare, Opere complete Shakespeare, fatta eccezione per i due poemetti giovanili Venere e Adone e Il ratto di Lucrezia, non curò mai la pubblicazione delle proprie opere. I Sonetti e altre sedici composizioni teatrali, frutto probabilmente di trascrizioni clandestine, furono pubblicate senza il consenso dell’autore prima della morte di Shakespeare (1616). Nel 1623 gli attori ed amici di Shakespeare John Heminge e Henry Condell curarono un’edizione in-folio intitolata Mr. William Shakespeare’s Comedies, Histories & Tragedies, successivamente denominata “First Folio”. La stampa include tutte le opere teatrali di Shakespeare attualmente riconosciutegli
10. Germaine Greer, L’eunuco femmina Edito nel 1970 e divenuto un bestseller internazionale, fu accolto da critiche sia positive che negative. Rimane ancora oggi un libro importante nella letteratura femminista
11. EP Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra Edward Palmer Thompson è stato uno storico, scrittore e pacifistabritannico. Di idee socialiste, è noto per i suoi lavori sui movimenti radicali britannici di fine Ottocento e inizio Novecento, e in particolare per il suo libro The Making of the English Working Class (1963), una pietra miliare della storia sociale e della storia del lavoro
12. Albert Einstein, La teoria della relatività generale Si basa essenzialmente sulla nozione che tutte le leggi della fisica possono essere espresse da equazioni «covarianti», cioè da equazioni che conservano la stessa forma matematica indipendentemente dal sistema di riferimento scelto e dalle variabili spazio-temporali usate. Per il resto della sua vita Einstein si dedicò all’elaborazione di una teoria «del campo unificato», vale a dire di una teoria che potesse render conto sia delle forze gravitazionali sia di quelle elettromagnetiche. Le tre appendici alla fine del volume rappresentano, appunto, i successivi tentativi compiuti da Einstein in tal senso fino a poco prima della sua scomparsa.
13. Desmond Morris, La scimmia nuda La fama mondiale per Desmond Morris arrivò nel 1967 con la sua pubblicazione La scimmia nuda. Il libro è rivoluzionario per lo sguardo sconvolgente e al contempo molto scientifico con il quale affronta l’evoluzione del comportamento umano sin dalla preistoria, analizzando l’uomo in quanto primate. Pur essendo l’unica scimmia priva di peli (da qui l’aggettivo nuda) il comportamento dell’uomo è sostanzialmente analogo a quello degli altri primati. Ristampato numerose volte e tradotto in molte lingue, il libro continua ad essere un best-seller.
14. Niccolò Machiavelli, Il Principe Il Principe (titolo originale in lingua latina: De Principatibus, “Riguardo i Principati”) è un trattato di dottrina politica scritto da Niccolò Machiavelli nel 1513, nel quale espone le caratteristiche dei principati e dei metodi per mantenerli e conquistarli. Si tratta senza dubbio della sua opera più nota e celebrata, quella dalle cui massime (spesso superficialmente interpretate) sono nati il sostantivo “machiavellismo” e l’aggettivo “machiavellico”.
15. Platone, La Repubblica La Repubblica (in greco antico Πολιτεία, traslitterato in Politéia) è un’opera filosofica in forma di dialogo, scritta approssimativamente tra il 390 e il 360 a.C. dal filosofo greco Platone. Ha avuto enorme influenza nel pensiero occidentale.
16. Thomas Paine, I diritti dell’uomo I diritti dell’uomo (Rights of Man) è un’opera di Thomas Paine del 1791. Il libro asserisce in sintesi che un popolo deve rovesciare il regime che non è in grado di salvaguardare i diritti dell’individuo e gli interessi della nazione.
17. Simone de Beauvoir, Il secondo sesso Il secondo sesso (Le Deuxième Sexe) è un saggio della scrittrice francese Simone de Beauvoir pubblicato a Parigi nel 1949 (Gallimard editore) e in Italia, dalla casa editrice il Saggiatore, nel 1961. È una delle opere più celebri e più importanti per il movimento femminista e, ai giorni nostri, è spesso citata come riferimento nei discorsi femministi.
18. Richard Hoggart, The Uses of Literacy Quando una società diventa più ricca, si perdono altri valori? Le competenze che l’istruzione e l’alfabetizzazione sono state spazzate via dalla cultura pop? I media ci costringono in un mondo superficiale e materiale – o possono essere utilizzati a fin di bene? Il libro pone queste domande.
19. Adam Smith, La ricchezza delle nazioni La ricchezza delle nazioni o Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, pubblicata il 9 marzo 1776, è la principale opera di Adam Smith, ritenuto il fondatore dell’economia politica liberale.
20. John Berger, Punti di vista Nel corso della storia, nessuna società è mai stata dominata dai messaggi visivi quanto la nostra. Eppure, paradossalmente, siamo sempre meno capaci di vedere le immagini per quello che sono. Da un lato accettiamo acriticamente i messaggi della pubblicità, dall’altro attribuiamo alle immagini dei quadri del passato un’importanza e un contenuto che va oltre ciò che tali immagini realmente mostrano. Da quando l’opera d’arte è diventata riproducibile attraverso mezzi meccanici, essa ha perso gran parte dell'”aura” che le derivava dall’essere unica e originale. Quello che resta sono le semplici immagini, a prescindere da chi le ha create, e il loro linguaggio, che può essere utilizzato per vari scopi. John Berger dimostra come le opere d’arte del passato e la pubblicità moderna siano due mondi molto più vicini di quanto ci hanno insegnato o siamo abituati a credere
Definizioni da Wikipedia, Ibs, laFeltrinelli.com
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Sindaci coraggiosi e conigli muscolosi
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Sindaci coraggiosi e conigli muscolosi
Quanto coraggio, che alto grado di civiltà e che enorme carica umanitaria occorre per schierarsi contro il DL Sicurezza “Salvini” . Occorre avere le palle per mettersi contro questa trovata del Governo Conte-Salvini-Di Maio in materia di regolamentazione delle politiche di accoglienza e integrazione degli immigrati. Sicché una pletora si sindaci di città grandi e piccole, da Milano a Palermo, da Napoli a Crotone, le palle le hanno tirate fuori e addirittura alcuni di questi sindaci hanno annunciato disobbedienza civile a oltranza se il Dl Sicurezza non verrà ritirato o modificato. Ma quanto sarebbe stato bello e condivisibile se questo irrefrenabile slancio di democrazia, libertà e solidarietà dimostrato dai primi cittadini, da alcuni governatori di regione, ovvero da massimi esponenti di enti locali si fosse registrato allorché è stato introdotto in Italia il famigerato “Patto di stabilità interno” . Un marchingegno infernale servitoci dalla Unione Europea, come una mela della strega di Biancaneve, nell’ormai lontano 1999 con l’adozione della moneta unica. Da allora a oggi il solo e unico “Principe” che abbia tentato di levare il boccone fatale dalla trachea di sindaci, presidenti di regioni e province è stato nientemeno che Romano Prodi che per l’Unione Europea si sarebbe fatto scuoiare vivo come San Bartolomeo. Insomma il “Mortadella” si pronunciò contro l’eccessiva rigidità del Patto di Stabilità imposto dalla UE. Intervennero alcune modifiche, ma nel senso peggiorativo. Sindaci, presidenti di provincia e governatori di regione nel corso degli anni dall’entrata in vigore di quella trappola infernale a oggi, hanno solo guaito e neppure tanto nonostante la gravissima e irreversibile entità del danno arrecato alla vita degli enti locali, ai cittadini e allo stesso ordinamento democratico della Repubblica Italiana. Nessuno di essi ha mai dichiarato apertamente disobbedienza e disapprovazione come accade adesso per il “Decreto sicurezza di “Salvini”. Posto che in Italia al cosiddetto “terzo settore” gli rode e anche parecchio dover mettere mano a una “riconversione industriale” non più basata sulla accoglienza e assistenza dei migranti (l’integrazione di quei milioni di poveri cristi che giungono da noi è cosa della quale il Terzo settore non può che lavarsene le mani) l’aver ripiegato sul quella “fabbrica dell’infelicità” come comparto produttivo discende direttamente dalla entrata in vigore del Patto di Stabilità interno contro il quale sindaci, presidenti di provincia e governatori di regione avrebbero dovuto innalzare barricate. Senza quella maledizione piombata sull’ Italia avrebbe davvero avuto un senso far arrivare migranti con la prospettiva di integrarli con il lavoro. Ma questo, all’Italia obbediente ai dettami europei, non riesce neppure con i suoi cittadini. Fermo restando che la “rivolta” dei sindaci buonisti contro il decreto Salvini sta assumendo toni da tragicommedia, giova leggere un riassunto degli effetti del Patto di stabilità ancora funzionante a pieno regime; potrebbe servire a farsi un’idea di quanto ci stiamo allontanando dalla realtà.
Il Patto di stabilità interno fissa le regole cui devono attenersi gli Enti Locali per concorrere al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica fissati dalle Leggi finanziarie (ora Leggi di stabilità), in relazione ai parametri di deficit e debito pubblico che derivano dagli impegni assunti a livello europeo…
In un primo periodo (1999-2005) il patto di stabilità interno ha avuto come obiettivo primario la riduzione della spesa per il personale: si è così passati dall’ingresso di un nuovo lavoratore ogni due che andavano in pensione, al rapporto 1 a 5, fino al definitivo blocco del turn over…
Secondo i dati Istat, dal 2001 al 2011, i lavoratori pubblici passano da 3.209.125 a 2.840.845; la contrazione maggiore si ha negli enti locali dove gli addetti passano da 478.805 a 428.218, con una riduzione del 10,6%. In particolare, in tutto il settore pubblico si registra una contrazione significativa del personale in settori cruciali nel sistema di welfare italiano: istruzione (-130.000), sanità/assistenza sociale (-65.000)…
In una seconda fase (2006-2010) l’obiettivo del patto di stabilità interno si allarga verso la drastica riduzione delle possibilità di investimento da parte degli enti locali. Uno studio di IFEL (Fondazione dell’ANCI) sulla situazione finanziaria dei Comuni, dimostra come nel triennio 2008-2010 il saldo finanziario medio nazionale dei Comuni sia stato di 26,5 euro procapite, realizzato attraverso la concomitante riduzione delle entrate (-12,5 euro procapite) e delle spese complessive (-39 euro procapite). Quest’ultimo risultato, peraltro, deriva da una crescita delle spese correnti (+39 euro) e da una riduzione delle spese in conto capitale (-78 euro). Detto in altri termini, in quel triennio i Comuni hanno sostanzialmente bloccato gli investimenti e ritardato i pagamenti degli stessi…
Agli inizi del 2013 i Comuni italiani avevano 9 miliardi di euro di disponibilità liquide e 9 miliardi di debiti verso le imprese. La logica avrebbe voluto che questi ultimi fossero saldati, ma molti enti non hanno potuto farlo perché il patto di stabilità interno glielo ha impedito.
Per chi volesse leggere il documento per intero ecco il relativo link: https://www.italia.attac.org/attachments/article/10328/SK4%20P~.pdf
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“Rimane la realtà, cruda come un chiodo”: Paolo Universo, ritratto di un poeta radicale, che ha fatto di tutto per scomparire, “il Rimbaud triestino”
Di Paolo Universo sono venuto a conoscenza durante uno degli innumerevoli momenti di flânerie trascorsi per i vicoli di Trieste. La gloriosa e deceduta libreria “In der Tat”, nei pressi di Piazza Hortis, conservava ancora due copie, salvate dal macero, del poema Dalla parte del fuoco di questo Poeta deragliato, visionario, consanguineo della follia, semignorato dai suoi stessi concittadini.
Chi era dunque Paolo Universo?
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Sappiamo che nacque nella Pola in orbace del 1934 e si spense (se una stella si spegne di un Universo dovremmo forse dire che collassa?) a Trieste nel 2002. Della sua fisionomia restano sparute fotografie in un bianco e nero che odora già di epigrafe. “Il Piccolo”, storico quotidiano locale delle città giuliana, lo definisce in un articolo commemorativo del 2005 ‘il Rimbaud triestino’. Eppure, se il maestro d’oltralpe decide di non lasciare traccia di sé dopo la sua deflagrazione letteraria (a tal proposito Jean Cau avrà a scrivere: «Ci sono mille modi di suicidarsi. Balzac scelse il caffè, Verlaine l’assenzio, Rimbaud l’Etiopia»), Universo imbocca la via del silenzio già in vita.
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Le juvenilia della sua produzione poetica – non più di 50 componimenti – trovano eco solo sulla rivista “Nuovi Argomenti” nel 1971 e sull’“Almanacco dello Specchio” mondadoriano nel 1972. All’indomani della scomparsa dell’Autore altre poesie, espunte dalla parva pubblicazione, faranno capolino in una pubblicazione postuma: Poesie giovanili 1967-1972, a cura di Giorgetta Dorfles. Stop.
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Quando Universo viene pubblicato sullo Specchio del 1972, accanto al suo nome campeggiano dei ‘mostri sacri’ della poesia italiana e straniera: Pound, Montale, Bertolucci, Sereni, Mandel’stam, Kavafis ecc. La vis polemica del triestino appare subito evidente:
io ti vedrei piuttosto in una parodia di Franz Lehar vedova allegra con lo sguardo gaio in una grande birreria di Marsovia scintillante di cristalli di Boemia brindare ad un peto asburgico di Magris
Universo odiamava Trieste:
Trieste… io ti vorrei vedere distrutta casa per casa al suolo vorrei che un nuovo Scipio ti mettesse a ferro e fuoco come Cartago vorrei che vere orde di barbari ti mettessero a sacco vorrei vederti squassata dal mare come Messina vorrei che sulla tua austroungarica rovina fosse cosparso il sale
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Il porto dell’Impero simboleggia tutto quell’ideale borghese che il Poeta detesta, declinato nella nostalgia del ripiegamento sui passati splendori che conducono alla mitizzazione della città asburgica. MITTELEUROPATICA; questa è la diagnosi implacabile che Universo fa della sua città adottiva. Luigi Nacci, classe 1978 e rigorosissimo studioso della letteratura giuliana del secondo Novecento, nel suo impagabile Trieste allo specchio ricorda un aneddoto – e l’aneddotica su Universo è ben più corposa della sua produzione letteraria, quantomeno di quella edita – a sua volta ricevuto dalla vedova del Poeta: « […] Universo, invitato a presentarsi a Milano per firmare un importante contratto di pubblicazione ed essere così introdotto nei salotti “bene” degli intellettuali più in voga, giunto alla stazione lombarda, voltò le spalle alla fama per ritornare immediatamente a Trieste» [citato in L. Nacci, Trieste allo specchio, Battello Stampatore].
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Lo sberleffo supremo è in una poesia lanciata come una granata contro Vittorio Sereni, proprio colui che tanto si era prodigato per includerlo nel mazzo degli autori da dare alle stampe sullo “Specchio” del 1972:
in attesa di una tua risposta da milano passavano i postini i frutti di stagione le settimane i mesi io invecchiavo a vista d’occhio ma tu col cavolo che mi rispondevi
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Universo è una rivolta permanente, contro tutti i dogmi: il capitalismo, peculiarmente nella sua deformazione borghese, il cristianesimo (rivolgendosi a Dio il Poeta scrive: «tu/ solitario come un verme/ non ci interessi più»), le convenzioni e la pubblica morale («ho già pronto/ il dito/ infilami/ una fede/ sicura/ faremo tanti figli per sfamarci/ con cura ho tirato/ le somme/ puoi lasciare la pendola/ madonna/ ritornare con me/ sedentaria/ respirare l’aria pura/del bidet»). Una dissacrazione voluta, inseguita e portata alle estreme conseguenze: di Universo, come Rimbaud tra le sabbie di Aden, si sono perdute le tracce. Dopo la frammentaria pubblicazione delle poesie giovanili l’Autore sceglierà di trascorrere (ancora da Nacci, op. cit.) «i suoi ultimi anni tra i “matti” del Padiglione M di S. Giovanni, in mezzo ai reietti, gli emarginati». Risalgono a questo momento storico (non sarà superfluo rammentare che negli anni in cui Universo si emargina, a Trieste esercita Franco Basaglia) le ultime ‘pubblicazioni’ dell’Autore: «decine di slogan aforistici ideati per la realizzazione di maglie stampate all’Opp» (Nacci, op. cit.).
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Dalla ricognizione storica di Nacci resta escluso – per ragioni metodologiche adottate dal critico e poeta nella sua trattazione – il poema cui Universo si dedicherà per tutta la vita e che sarà dato alle stampe dopo la morte dell’Autore in virtù di una iniziativa editoriale commemorativa: Dalla parte del fuoco (Hammerle Editori, 2005). Il testo è corredato da una serie di testimonianze di amici ed estimatori dell’opera universale. Ed è proprio da questi testi che si possono cogliere altri scorci di una esistenza al ‘termine della notte’: «Benché ostentasse una preferenza per gli animali, quei “nostri fratelli minori” di cui in gran numero era popolata anche la sua casa, amava gli uomini e amava l’infinita varietà di storie con cui essi sono capaci di animare il teatro del mondo. Sembrava averne collezionati di tutti i tipi, dai più comuni ai più singolari ed eterogenei. Nella mia lunga frequentazione con lui, non mi era mai capitato di vedere altrettanta abbondanza di tipologie umane tra le più anomale e disparate come nella sua casa» [Nicoletta Brunner Tamburini, in Dalla parte del fuoco, op. cit.)
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Dalla Parte del fuoco è un poema in prosa ‘sinfonico’, costruito in 6 movimenti/capitoli contrappuntati da annotazioni di tempo all’inizio di ogni sezione. I primi 5 movimenti si concentrano sullo squallore della metropoli industriale – quella Milano alle cui lusinghe aveva rifiutato di cedere: «bisogna inventare bisogni indurre in tentazione nutrire i satolli darle a bere agli assetati vestire i nudisti subornare le nonne stimolare gli stitici – dovunque… anche in tram. statistiche interviste ricerche di mercato indagini demoscopiche vendite di propaganda campagne campione sondaggi d’opinione buoni premio punti qualità…» [Dalla parte del fuoco, I, Sinfonia della città – allegro vivace].
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La scrittura ha un andamento frantumato, come di appunti sulla distruzione, fortemente onomatopeico e con abbondante uso di calembour, allitterazioni e rime interne. Mi richiamo al docufilm ispirato a La distruzione di Dante Virgili perché la sperimentazione linguistica di Universo si approssima molto a quella del Céline italiano. La città è percorsa come un girone infernale guidato dal Capitale cui nulla e nessuno può sfuggire se non con un atto di rivolta camusiano. I sintagmi attingono alla poesia beat tanto quanto alle avanguardie ma le tematiche sono più affini a La vita agra di Bianciardi che ai mantra lisergici di Ginsberg. L’umanità che vi è dipinta – come in una raffigurazione di Bosch – è una umanità alla deriva, in malora.
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L’ultimo movimento, il solo ad avere carattere non prosastico – si intitola profeticamente “L’isola che non c’è”. Dalla città apocalittica all’Ospedale Psichiatrico. Mondi lontani che si toccano nel dolore e nello squallore. La tensione delle prime 5 sezioni si stempera in un ‘Adagio’ amaro, una ballata ininterrotta da misantropo innamorato dell’uomo:
scelto nel dolore sono stato ma l’enorme privilegio più non sento sempre dentro dentro dentro dentro quattro pareti ingabbiato tutto finisce troppo presto in un precipitare di parole rimane la realtà cruda come un chiodo il vuoto…
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Questo era Paolo Universo, il poeta senza voce che urlava al mondo dalle abissalità del bigbang. In Francia, che di poesia se ne intendono gli è stata dedicata da una piccola editrice una antologia di ottima fattura, Dans un lieu commun j’ai fini par te trouver, poésie, che racchiude tutto il corpus poetico giovanile, gli aforismi dell’OPP e l’ultima sezione di Dalla parte del fuoco.
*
«la mia vita da poeta drammatico – lirica fino alla pazzia. ora suono la cetra teutonica dentro una grande cattedrale nera stracarica d’oro in una città dal cranio di madreperla che aizza le sue teste bionde nell’urlo della bora…» [Dalla parte del fuoco, I, Sinfonia della città – allegro vivace]
Luca Ormelli
*Desidero ringraziare Luigi Nacci per le preziose indicazioni cimiteriali e Gianfranco Franchi per la fratellanza concessa ad un triestino infiltrato come il sottoscritto.
***
Indicazioni bibliografiche:
Paolo Universo, Dalla parte del fuoco, Hammerle Editori, 2005, Trieste.
Paolo Universo, Dans un lieu commun j’ai fini par te trouver, poésie, ERES Edizioni, 2015, Tolosa.
A.A.V.V., Almanacco dello Specchio, Mondadori, 1972, Milano.
Luigi Nacci, Trieste allo specchio, Battello stampatore, 2006, Trieste.
*In copertina: un’opera di Roland Topor (1938-1997)
L'articolo “Rimane la realtà, cruda come un chiodo”: Paolo Universo, ritratto di un poeta radicale, che ha fatto di tutto per scomparire, “il Rimbaud triestino” proviene da Pangea.
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Il Museo Nicolis rilancia la Cultura come “bene comune”, un valore che apre la mente e rigenera lo spirito.
Trascorrere del tempo, con i figli, con gli amici ma anche soli, in un posto bello, pieno di cose straordinarie da vedere, regala grandi emozioni.
Riempire il cuore e la mente attraverso nuove scoperte fa stare bene e rende felici. Ecco perché il Museo Nicolis, per tutto il mese di marzo, apre le porte GRATUITAMENTE A TUTTI i ragazzi da 0 a 10 anni, che potranno fare un viaggio nel tempo lungo 1km attraverso le 10 collezioni.
“Cultura e Società sono capisaldi della vita umana” afferma Silvia Nicolis, presidente dell’omonimo museo “una cultura presente e attiva forma gli individui, illumina la mente e regala la consapevolezza di ciò che siamo e di quello che possiamo ancora fare. Un Museo è proprio il luogo ideale per far star bene le persone e dare forma a nuovi progetti”.
Un percorso nella storia del Novecento fra storie, stili di vita, sport e miti nei diversi periodi storici. L’opportunità di conoscere i nostri tesori che compongono le dieci prestigiose collezioni: ore speciali per ricaricarsi, pronti a tornare alle occupazioni quotidiane con un’esperienza unica nel proprio bagaglio.
Sono centinaia le auto d’epoca, le moto e le biciclette che potrete ammirare insieme ai ragazzi, in un’esposizione che racconta l’evoluzione di questi mezzi e i progressi dell’intera società.
Ma al Museo Nicolis c’è molto di più: 500 macchine fotografiche, 100 strumenti musicali, 100 macchine per scrivere, aeromobili e una rara collezione di oltre 100 volanti delle monoposto di Formula 1.
Impossibile non rimanere sorpresi e affascinati da oggetti e opere d’arte che l’ingegno dell’uomo ha saputo creare.
Tra le più emozionanti e suggestive esposizioni private nel panorama internazionale, il Museo Nicolis di Verona narra la storia della tecnologia e del design del XX secolo. Il riconoscimento dell’eccellenza gli deriva oggi dall’attribuzione del più ambito e prestigioso premio nel panorama mondiale dell’auto classica indetto dagli esperti del Magazine Octane: Museum of the Year 2018 a The Historic Motoring Awards.
La nascita del Museo si deve alla grande passione di Luciano Nicolis. La storia di una vita che ha trovato la sua collocazione in uno spazio espositivo di 6000 mq nel duemila, anno della sua inaugurazione. I suoi capolavori sono stati suddivisi in dieci diverse collezioni con l’obiettivo di costruire un percorso organico, professionalmente qualificato e strutturato per soddisfare il visitatore più esigente.
Il patrimonio delle collezioni è di grande spessore e rappresenta una realtà esclusiva: oltre 200 auto d’epoca, 110 biciclette, 100 motociclette, 500 macchine fotografiche, 100 strumenti musicali, 100 macchine per scrivere, aeronautica, oltre 100 volanti delle sofisticate monoposto di Formula 1 e innumerevoli opere dell’ingegno umano esposte secondo itinerari antologici, storici e stilistici.
Non è un caso che il Museo Nicolis rappresenti un “unicum” nel suo genere e venga indicato come emblematico della moderna cultura d’impresa.
Silvia Nicolis ricopre il ruolo di vice presidente di Museimpresa, l’associazione che fa capo ad Assolombarda e Confindustria per la valorizzazione del patrimonio di storia industriale italiana. E’ inoltre componente di Giunta di Camera di Commercio Verona con delega al Turismo.
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La Cultura non si ferma: al Museo Nicolis di Villafranca ingresso omaggio 0-10 anni per tutto il mese di marzo. Il Museo Nicolis rilancia la Cultura come “bene comune”, un valore che apre la mente e rigenera lo spirito.
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ROMA – Frutto di una attenta analisi e indagine dell’ufologo ligure Angelo Maggioni che , dopo aver fatto esperienza per oltre 20 anni , ha deciso di fare un punto della situazione sullo stato di salute dell’ufologia Italiana e sugli avvistamenti .
Ufologia a che punto siamo?
“ Senza ombra di dubbio -risponde Maggioni- la situazione ufologica Italiana non è delle migliori , in questi ultimi anni si sono riaccesi vecchi casi che non hanno fatto altro che rendere imbarazzi e scontri eterni sulla loro stessa attendibilità. Tra le tante cose che si possono evidenziare , quelle più gravi sono il fatto che associazioni , federazioni o centri non rispettino più le linee guida della raccolta sia dei dati che delle indagini su segnalazioni di avvistamenti anomali.
Spesso ci si trova a scoprire che non vengono compilati moduli appositi e che non vengano fatti i dovuti riscontri sulle segnalazioni ne sui testimoni. Accertato il fatto che il potenziale testimone non è professionale sulla tematica ufologica e che dunque ha diritto legittimo di sbagliare o confondersi, al contrario , invece di chi opera e divulga materiale sul fenomeno ufologico che con leggerezza eccessiva sembra non riconoscere più l’importanza strutturale delle indagini stesse.
Fatto grave è che una parte di questa ufologia, rappresentata da nomi altisonanti di ufologi che dovrebbero non solo avere esperienza ma anche un codice etico che li differenzi da chi invece cerca spazi solo per apparire , per compiacere il proprio ego personale. Invece proprio loro sono i primi a tuffarsi in questa melma che affonda l’ufologia , trascinandola nel baratro del ridicolo.
Così succede che ad un tratto sorgono convegni dove si annunciano contatti e avvistamenti ufo in America Latina , in realtà inesistenti e inventati di sana pianta o si riciclano casi farlocchi come il famoso Caso Amicizia(conosciuto meglio come W56) palesemente falso e con risvolti giudiziari che ne definiscono la vera natura , o il caso Caponi , controverso pieno di inesattezze e con una confessione fatta davanti al P.M. e ai Carabinieri che alcuni colleghi ufologi indicano come i responsabili di una confessione forzata, ma non solo il caso viene presentato in vari programmi tv nel tempo e alcuni di questi mentendo spudoratamente(senza contare delle analisi esposte su un programma televisivo che farebbero ridere pure i bambini).
Cosa dire anche dei casi di Canneto di Caronia? imbarazzante l’episodio trasmesso in tv recentemente ad opera di Elizondo e Tom De Longe,ma anche della difesa di alcuni ufologi nostrani che , senza tener conto dei fatti oggettivi giudiziari che hanno coinvolto il loro principale testimone , oggi sotto processo con l’accusa di procurato allarme e di aver causato i famosi incendi , continuano in qualche modo a non tener conto quanto invece è emerso dalla procura italiana e delle condanne che certamente saranno emesse in quanto reo confesso di una buona parte di quei reati.
Non solo non sono mai state esibite prove inconfutabili che vi siano coinvolgimenti alieni ne dei militari (per capirci si possono solo ipotizzare determinate situazioni)Un altro zoccolo inquinato è senza dubbio la Valmalenco, che recentemente sto indagando grazie a cinquanta file sensibili e che mi hanno portato ad avere una chiara idea su cosa stia succedendo in quella zona.
Anche in questo caso il web è inondato di foto di alieni farlocchi che si specchiano o che spuntano tra alberi e rocce , di dubbio colore con teorie tra le più disparate come quella degli alieni eterici . Una cosa che salta all’occhio,ad esempio , è la particolarità dei casi di abduction che vengono riesumati e riproposti ai convegni ufologici, sono casi datati e che oggi possono portare ad oggettive difficoltà nel poter riscontrare e verificare le notizie e gli andamenti dei fatti, con testimoni ormai deceduti o scomparsi.
Credo che sia principalmente questa la causa che porta certi ufologi e rispolverare questi casi controversi, proprio per la difficoltà di poterli analizzare e verificare ogni tipo di fonte e notizia .Un altro fenomeno nostrano di questi ultimi anni è anche quella di far credere , durante lo svolgimento di un convegno, che gli addetti al lavoro siano sotto pressione e minacciati da poteri occulti, o man in black nostrani che compaiono intimidendo e ammonendo chi osa esporre al pubblico certe tematiche , un divieto di divulgazione che però stride poi con il racconto e la stessa divulgazione di quei fatti top secret durante gli stessi convegni.
Sembra invece, e questa posso definirla una buona notizia, cessato il costume di far credere che ad ogni convegno appaiono magicamente oggetti volanti non identificati, infatti fino all’anno scorso quasi tutti i convegni venivano accompagnati immancabilmente da visite aliene. Ovviamente questa tattica serviva per far parlare non del fenomeno ufologico ma per dar risalto all’organizzatore del convegno e dunque acquisire più visibilità attraverso i media!
Oggi si potrebbe dire (senza offendere nessuno ma semplicemente per dare un’idea) che si prostituisce l’ufologia accontentandosi di ospitate di programmi che non solo non sono all’altezza della tematica ma che ne sfruttano la mancata controprova scientifica per schernire e deridere il fenomeno , ma per alcuni ufologi evidentemente l’apparire conta più della reputazione stessa ufologica.
Insomma credo che il quadro generale sia davvero preoccupante e che abbia preso una deriva pericolosa che porterà certamente l’ufologia si ai confini ma non dell’universo ma come fenomeno da baraccone! Eppure il fenomeno è dannatamente reale e consistente ma non così frequente come sembra. I cari colleghi ufologi dimenticano spesso , quando si relazionano, di menzionare alcune parole magiche come: Ipotesi, Teoria,considerazioni personali , passando ad un uso abnorme invece di altre parole come UFO, extraterrestre , alieni, per poi crearne semplicemente un business con libri pieni di fumo e poco arrosto (per capirci).
Un dato di fatto e inequivocabile è che nessuno fino ad ora ha la pistola fumante sul fenomeno ufo e di presenza aliena, in compenso il web e i convegni spesso sono pieni di fuffa , come viene definita dagli scettici incalliti. Come se non bastasse ecco anche arrivare da oltreoceano notizie confuse e distorte , il caso della Nimizt è un lampante esempio, il video risalente al 2004 ma reso in realtà pubblico su server tedeschi già nel 2007 , il documento poco chiaro e quello mostrato palesemente falso ( privo di riferimenti, matricole e timbri vari) per arrivare a moduli DD1910 compilati che segnalano droni e palloni sonda, ad ipotetici resti di astronavi aliene che lo stesso De Longe con tanto di fanfara annuncia di averli acquistati al costo di ben 35 mila dollari e che sono sotto analisi, in realtà quei resti sembrerebbero appartenere a materiale bismuto di fabbriche per la preparazione di leghe metalliche facilmente fusibili.
Tanta la confusione pure sulle dichiarazioni da parte del Pentagono , che proprio recentemente ha affermato e disconosciuto l’AATIP come organo che studiava il fenomeno UAP , anzi sarebbe stata creata in realtà per studiare armamenti spaziali di nazioni nemiche, e della Marina Militare Americana,. Tutto questo viene utilizzato qui in Italia per creare sensazionalismo tra vari ufologi che senza scrupolo omettono di esporre i fatti completi e non solo parziali.
Sugli avvistamenti è chiaro invece, che in linea con il continuo sviluppo tecnologico industriale e militare,siano aumentati i falsi casi . Questa tecnologia sconosciuta alla maggior parte della popolazione , viene spesso confusa come oggetto volante non identificato riconducibile agli extraterrestri.
Un esempio chiaro lo fornisce la Valmalenco , dove il fenomeno è davvero impressionante ma è accompagnato da fattori terrestri , infatti ,come spesso ho riferito nelle cronache dei media locali , assieme alla comparsa di questi oggetti sconosciuti , ci sono anche oggetti militari dalla tecnologia evoluta e top secret. Nella famosa base militare di Cameri a Novara (considerata l’Area 51 Italiana) dove vengono assemblati gli F35 , pare si testino anche mezzi volanti similare strutturalmente agli oggetti non identificati, cercando di crearne forma e composizione per poter non solo competere con gli stessi ma poterli anche catturare e studiare per carpire meglio la tecnologia evoluta sconosciuta.
A questo punto diventa davvero difficile capire , per chi indaga e studia il fenomeno in modo serio, distinguere quello terrestre da quello ipotetico extraterrestre.Se a tutto questo ci aggiungiamo i migliaia di casi fake con tanto di foto di alieni ecco che si crea un minestrone che va a inficiare il fenomeno stesso ufologico.Una mia personale ipotesi, sul fenomeno di presenza assidua su determinate zone potrebbe essere spiegata dal fatto che questi presunti oggetti siano interessati ad una forma di energia che noi o sottovalutiamo o non conosciamo ancora.
Oggetti che molto probabilmente non sono pilotati all’interno da presunti alieni, o telecomandati, anzi il loro movimento bizzarro e a noi spesso privo di significato o incomprensibile , mi porta a supporre che siano auto guidati da un computer di bordo con comandi automatici. Rimane certamente il mistero della loro reale provenienza e appartenenza ad una presunta razza aliena, anche se molti colleghi, pur di vendere libri , descrivono usi e costumi di questi visitatori dello spazio, usi e costumi che rimangono privi di riscontro.
Sulla questione abduction il terreno è ancor più accidentato, dal Caso Amicizia praticamente fasullo al Caso Caponi ricco si di contraddizioni e incongruenze , dove si menzionano fatti mai comprovati o di abbattimenti di fantomatici aerei militari inesistenti come MX , a garze sparite ( garze mediche che in realtà sono prettamente di uso terrestre) ma anche di inesattezze su alcune documentazioni esposte anche in programmi televisivi, che sbugiardano di fatto il racconto stesso.
Anche gli ipotetici messaggi alieni , a mio avviso, non sono altro che frutto dell’immaginazione umana , tra le contraddizioni ufologiche le famose affermazioni sul patto di non interferenza per poi affermare esattamente il contrario collocandoli tra i poteri forti e nei vari governi mondiali , ad improbabili disinneschi nucleari per poi non intervenire ad esempio sulle calamità climatiche che mietono vittime ogni anno , messaggi scontati sulla condizione di sofferenza del nostro Pianeta e del rischio sulla nostra autodistruzione, cose che in realtà sappiamo benissimo già da noi.
Ma quali potrebbero essere i veri messaggi alieni? Proviamo ad immaginarci noi come visitatori di altri mondi , cosa diremmo agli esseri viventi che incontriamo durante la nostra esplorazione? In primis dobbiamo tener conto di alcuni fattori , il livello di evoluzione raggiunto e di conseguenza di cultura dei popoli, il loro sviluppo tecnologico sia militare ma anche della comunità come mezzi di spostamento, sanità cure mediche ecc ecc.
Questi fattori fanno variare di conseguenza il modo di un presunto approccio che , se non fatto con una certa accortezza , otterrebbe l’effetto contrario.Nella storia Terrestre abbiamo capito e visto che i popoli meno evoluti venivano schiavizzati e poi subivano l’estinzione da parte di quei popoli più evoluti. Potremmo dire che loro probabilmente ci contattano ma noi non siamo in grado , del tutto, di comprenderli o di identificarli.
Io personalmente credo che molte risposte sui quesiti alieni potrebbero arrivare solo se fossimo davvero in grado di analizzare il nostro passato senza censure e omissioni varie. Io sono affascinato dal complesso, considerato il più antico sulla Terra, archeologico chiamato Gobekli tepe , situato tra la Turchia e la Siria nella famosa linea Sumera…questo sito in realtà sembrerebbe sconfessare la storia stessa o almeno in gran parte di quello che pensavamo di conoscere , di certo i popoli già a quei tempi hanno dimostrato uno stato evolutivo maggiore di quanto immaginato fino ad ora.
Poi potrei anche dire , ad esempio restando sempre nella zona Sumerica , che il fantomatico racconto degli Anunnaki potrebbe avere dei riscontri , dalle famose traduzioni di Zecharia Sitchin, con un pianeta vicino a noi più di quanto possiamo immaginare, è tra le mie convinzioni che Nibiru non sarebbe altro che Marte (indicato anche successivamente come Dio della guerra e dei duelli dagli antichi Romani ) un tempo il pianeta sarebbe stato ospitale e teoricamente adatto allo sviluppo di vita, secondo le recenti scoperte infatti Marte avrebbe avuto un campo magnetico che avrebbe garantito sia la presenza di ossigeno che di acqua scorrevole , elementi necessari per la vita.
Se con l’ufologia volessimo forzare la presenza aliena ecco Marte (ma anche Venere che è risultato simile a Marte) sarebbe il candidato ideale. Ecco che il cedimento del campo magnetico causa la perdita dell’ossigeno portando al collasso il Pianeta stesso, nel racconto di Zecharia troviamo una situazione similare a quella di Marte, gli Anunnaki erano preoccupati della perdita di ossigeno del loro Pianeta e decisero di “invadere” la Terra in quanto l’oro sarebbe stato l’elemento utile a riparare tale perdita… Ma quando sarebbero arrivati sulla Terra ? e l’essere umano esisteva o davvero lo hanno creato loro in laboratori? Anche qui ci si divide fra ufologi a favore di tali tesi e a sfavore , io stesso appartengo a quella a sfavore in quanto sono convinto che loro arrivarono sulla Terra con noi già presenti e solo l’ibridazione è poi stata la molla che ci ha evoluto in breve tempo.
La loro presenza è stata certamente utile a “tramandare”o donare la conoscenza evolutiva ai popoli presenti come quelli successivamente identificati come Sumeri ed Egizi( in particolare il popolo Egizio conosceva certamente l’uso della tecnologia avanzata , basta pensare che erano in grado di illuminare la città senza aver bisogno di cavi elettrici ,pannelli solari?, la lampada di Dendera ecc) , ma questo concetto viene esteso in tutto il globo , anche se probabilmente le entità , seppur iniziali erano forse due , poi sono aumentate nel breve tempo con la colonizzazione Terrestre.
Questo concetto ipotetico potrebbe essere successivamente esteso a Tesla , Leonardo da Vinci e Gesù che io considero dei ricettori o meglio canalizzatori della conoscenza aliena. Qui , ritornando al discorso dei messaggi alieni, mi convinco che probabilmente più che a ricordarci di cosa stiamo combinando sulla Terra , loro ci abbiano fornito conoscenza da utilizzare per curare e prevenire. Le invenzioni di Tesla, Da Vinci ad esempio , sono stati certamente utili e indispensabili per il nostro balzo evolutivo tecnologico di oggi!!
In conclusione è mia convinzione che l’ufologia oggi più che mai debba ricercare le risposte tra ipotesi e teorie scientifiche se vuole acquistare credibilità altrimenti sarà confinata nel settore del cabaret e fantascientifico del collettivo umano. Nel 2019 A.R.I.A, associazione ricerca italiana aliena ( ancora in fase di costituzione e successivamente di registrazione) comunica un drastico calo su segnalazioni di oggetti volanti non identificati , si stima ad una manciata di avvistamenti reali in tutto l’anno, seppur pochi vero è che sono diventati più sofisticati gli oggetti avvistati. Per contattare l’associazione A.R.I.A scrivere alla mail [email protected]”
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Posto in posizione strategica fra il mare e la collina (alta circa 300 m s.l.m.) a 18 km da Rimini, Verucchio sorge nella vallata del Marecchia che domina da posizione rialzata. Il territorio comunale comprende anche un'exclave: la frazione di Pieve Corena, separata dal resto del comune dallo Stato di San Marino e distante 12 km da Verucchio.
Origini e antichità L'ingresso del Museo civico archeologico che raccoglie i reperti archeologici provenienti dalla zona di Verucchio
L'origine di Verucchio risale a tempi molto antichi. Le campagne di scavo effettuate fra il 1893 e il 1894, poi negli anni settanta, e infine riprese nel 2005, hanno restituito oltre 600 sepolture databili tra il X e il VII secolo a.C. I ricchi corredi funerari, (monili, fibule, vestiario, vasellame, armi, finimenti per cavalli) e le complesse attività rituali, consentono di riconoscere nelle tombe una manifestazione della Civiltà villanoviana, (da alcuni studiosi attribuita agli Etruschi, da altri considerata una realtà talvolta distinta e legata a situazioni locali diverse e specifiche).
Tramite i corredi funebri è stato possibile riconoscere alcuni tratti che caratterizzavano la vita dei gruppi aristocratici. Verucchio rappresentava durante l'età del ferro e fino all'età orientalizzante un punto centrale nel controllo delle rotte adriatiche che collegavano la Grecia e l'Oriente con l'Europa centrale e settentrionale, in particolar modo per i traffici commerciali legati all'ambra baltica. Inoltre il letto ampio del Marecchia offriva un attracco sicuro e adatto alle navi che risalivano il fiume, tanto che questo tratto venne chiamato il "piccolo mare". Le testimonianze di quest'epoca sono state talmente abbondanti da aver permesso la creazione del Museo civico archeologico, che espone i reperti provenienti dalle necropoli limitrofe
Verucchio conobbe il tramonto della società Etrusca e fu presto influenzato da quella romana godendo della vicinanza con Rimini (Arimmna per gli Etruschi); quest'ultima godette di un notevole sviluppo sotto i romani (che la ribattezzarono Ariminum), data anche la sua posizione sulle vie consolari Flaminia ed Emilia.
Il centro del paese si sviluppò ai piedi dello sperone su cui oggi sorge il centro abitato in quanto i Romani erano interessati a controllare le vie di comunicazione verso l'interno. Il nome del sito deriva dal latino "verrucula-verruculus" "piccola verruca" che ne indica la capacità di godere di una vista privilegiata sulla campagna circostante, su Rimini, data la posizione rialzata (330 s.l.m.).
Nel periodo delle Invasioni barbariche, tutta la zona di Rimini passò prima sotto il controllo dei Goti poi di nuovo sotto il dominio bizantino dopo la “restaurazione” di Giustiniano rimanendo sotto il controllo dell'Impero Bizantino, assieme alle altre città (Esarcato e Pentapoli) che costituirono il primo nucleo della Romania (o terra di Roma) divenuta poi Romagna. Fu in quest'epoca che il centro abitato di Verucchio lentamente tornò a spostarsi in cima alla collina per ragioni difensive. Il paese nel 962 sarebbe stato donato dall'imperatore Ottone I ai duchi di Carpegna[3], una delle prime grandi casate che, insieme ai duchi del Montefeltro, riuscirono a stabilire un controllo stabile sul territorio di Rimini e delle vallate dell'entroterra.
Il periodo di decadenza del territorio durò fino al XII secolo: nel 1114 Verucchio era già un castrum (ovvero un centro fortificato) e di quell'epoca sono le tracce dell'avvento della famiglia dei Malatesta, che diede nuovo impulso alla Romagna e quindi anche a Verucchio
Medioevo ed Età Moderna
Verucchio Borgo e Chiesa Collegiata
Con la dominazione della potente signoria, Verucchio diventa strategicamente interessante potendo da essa dominare e controllare la vallata del Marecchia e le pianure circostanti e quindi essere allo stesso tempo avamposto per l'avvistamento degli eserciti nemici e baluardo in caso di attacco. I Malatesta, in lotta con il Ducato di Urbino, ne fortificarono la rocca facendo divenire Verucchio un baluardo della potente famiglia riminese.
Nel 1353 papa Innocenzo VI affidò al cardinale Egidio Albornoz la riconquista dei territori della Romagna che, a causa della lontananza del papato dall'Italia (sono gli anni della cosiddetta "Cattività Avignonese"), stavano sfuggendo al controllo della Chiesa. Nel 1355 il cardinale Albornoz sconfisse i Malatesta e riportò i loro domini sotto il controllo diretto della Chiesa. Anche Verucchio rientrò sotto il dominio pontificio, ma rimase sostanzialmente nella disponibilità della famiglia Malatesta, il cui rappresentante, Galeotto, venne nominato vicario della Santa Sede per le città di Rimini, Fano e Pesaro.
Verucchio venne perduta dai Malatesta per due volte, prima a seguito della sconfitta di Carlo I Malatesta nella battaglia di Zagonara (1424) passando sotto la dominazione dei Visconti, poi definitivamente nel 1462 quando Sigismondo Pandolfo Malatesta (1431-1462) dopo un lungo assedio da parte di Federico da Montefeltro perse la rocca per tradimento.
Verucchio conobbe un periodo di decadenza passando di mano in mano a diversi Signori: dopo la conquista della Romagna da parte di Cesare Borgia (1501 - 1503), la sua caduta e l'altrettanto breve domino dei Veneziani (nov. 1503 - mar. 1506), nel XVI sec. Verucchio ritornò allo Stato della Chiesa divenendo “mezzo per compensare economicamente e politicamente i servigi e i crediti di personaggi dell'entourage papale”
Nel 1516, Leone X (Giovanni de' Medici) lo infeudò a Giovanni Maria Giudeo di Domenico Alemanno, ebreo convertito di origine tedesca, eccellente suonatore di liuto. Furono forse proprio queste sue doti di musicista ad attrargli i favori del Papa che prima di nominarlo governatore e conte di Verucchio, gli aveva anche conferito il nome e lo stemma dei Medici. Lo stesso Leone X con bolla del 21 marzo 1518 attribuì a Verucchio il titolo di città. A Giovanni Maria subentrò il figlio, Camillo, ma, alla morte di Leone X, il nuovo papa, Adriano VI, nel 1521, avocò alla Santa Sede il dominio diretto della città. Il suo successore, Clemente VII altro papa della casata dei Medici, nel 1525 rinfeudò Giovanni Maria, ma questi vendette il feudo ad un altro Medici: Zenobio
Questi pare che acquistasse il feudo grazie alla dote della moglie Ippolita Comnena, che gli subentrò alla sua morte, nel 1530, e lo trasmise, con il matrimonio avvenuto nel 1532, a Lionello Pio da Carpi. Il matrimonio si inseriva in una precisa politica dei Pio che, cacciati da Carpi, erano stati investiti dal Papa della titolarità di diversi centri della Romagna ed in quest'area stavano tentando di consolidare il loro potere. L'importanza e l'interesse della Comneno e dei Pio per Verucchio è dimostrato anche dalla corrispondenza tra questi e la Comunità di Verucchio[7]. Da Lionello Pio, dopo la morte della moglie Ippolita, il paese passò a suo figlio terzogenito Alberto ma nel 1580, con la bolla di revisione dei titoli feudali di Gregorio XIII del 1º giugno, Verucchio, come altri feudi, rientrò nei domini diretti della Chiesa[8], sotto cui rimase, nella Legazione di Romagna (con capitale Ravenna) controllata da reggenti dello Stato pontificio.
Per tutto il XVIII secolo il territorio di Verucchio è terra di passaggio di eserciti austriaci, spagnoli e napoletani, fino al 1797 quando con l'arrivo in Italia dell'esercito francese, Verucchio subì i rapidi rivolgimenti del periodo napoleonico. Il paese entrò a far parte della Repubblica Cispadana, e dopo il breve periodo (1799 - 1800) di occupazione austriaca e di governo della Cesarea Regia Reggenza, a seguito della pace di Lunèville (9 febbraio 1801), Verucchio (con gli altri territori della Legazione di Romagna) rientrò stabilmente nella Repubblica Cisalpina (Dipartimento del Rubicone), che nel 1802 prese il nome di Repubblica Italiana e nel 1805 si trasformò in Regno d’Italia.
Con la caduta di Napoleone e la Restaurazione Verucchio, come il resto delle Legazioni e le cosiddette “Provincie di Seconda Recupera”, venne restituito allo Stato Pontificio solo a seguito dell'atto finale del Congresso di Vienna (giugno 1815) dopo un periodo di occupazione napoletana ed austriaca (1814-1815)[9]. Dopo essere insorto nel giugno 1859 contro lo Stato pontificio, nel marzo 1860 Verucchio, come il resto della Romagna, venne, ufficialmente annesso, a seguito dei plebisciti, al Regno di Sardegna, che l'anno seguente, 1861, si trasformerà in Regno d'Italia
Dal Novecento a oggi
Nella Seconda guerra mondiale Verucchio subì il peso dell'occupazione e delle rappresaglie nazi-fasciste. L'episodio più grave fu l'eccidio dei “Nove martiri di Verucchio”, nove cittadini verucchiesi fucilati per rappresaglia da soldati tedeschi in ritirata il 21 settembre 1944.
Durante i drammatici giorni del passaggio della Linea Gotica si assistette ad un durissimo scontro tra le forze Alleate e i Tedeschi in ritirata. Numerosi sfollati riminesi trovarono rifugio in paese e, soprattutto, nella frazione di Villa Verucchio.
Il paese attualmente è diviso in due parti, al centro storico di antica costituzione e di grande interesse storico culturale, si aggiunge la frazione di Villa Verucchio, che oltre ad ospitare la maggior parte degli abitanti è centro dell'attività economico-industriale del paese.
Architetture religiose
La Chiesa Collegiata di San Martino è stata costruita nel 1863 su progetto degli architetti Antonio Tondini e Filippo Morolli[10]. Di pregio le opere all'interno, tra le quali due Crocifissi di legno del XIV, XV secolo (il primo attribuito al Maestro di Verucchio), e una tela del pittore Francesco Nagli (1600 circa) raffigurante San Martino dona il mantello al povero.
Il Monastero di Santa Chiara La Chiesa del Suffragio
La Pieve Romanica di Sant'Antonio è una delle costruzioni più antiche di Verucchio. Si pensa sia databile al 990 e si raggiunge prendendo la strada che dal Paese di Verucchio scende a valle fino alla frazione di Villa Verucchio.
Il Convento di San Francesco a Villa Verucchio, con al centro del chiostro un monumentale cipresso, la cui età è stimata attorno ai settecento anni, piantato secondo la tradizione da Francesco stesso.
La Pieve di San Martino in Rafaneto, risalirebbe al XI secolo.
Architetture civili e militari
La Rocca Malatestiana o "Rocca del Sasso" (data la sua posizione sullo sperone del monte che ospita l'abitato di Verucchio) è una delle più grandi e meglio conservate della Signoria. Costruita intorno al secolo XII, ha visto il sovrapporsi di successive e sempre più complesse opere di fortificazione ed ampliamento; è la parte più antica che desta maggior attenzione, il borgo medioevale ben conservato riporta all'atmosfera del tempo. La Rocca cade sotto il dominio dei Malatesta che la conservano per circa 300 anni e la fanno divenire il baluardo del loro regno ponendo a Verucchio un'attenzione degna di nota. Nel 1450 la Rocca subì un ulteriore ampliamento grazie a Sigismondo Malatesta. Di notevole interesse la visita alla Sala Grande, il maschio e le segrete.
La Rocca del Passarello con l'annessa porta costituisce il secondo nucleo fortificato di Verucchio. Può ben considerarsi la seconda rocca dei Malatesta, sulla quale però nel 1600 è stata costruito il Monastero delle Monache di Santa Chiara. Splendida la ricostruzione dell'antica porta dalla quale si entra in Verucchio costeggiando le mura dette di San Giorgio.
Rimasti intatti anche la Torre civica e gran parte delle mura con diversi bastioni difensivi.
Sulla piazza Malatesta, la principale del paese, si affaccia l'assai ben proporzionato palazzo Giungi, risalente al XVII / XVIII secolo, con il portale e le finestre caratterizzati dai tipici elementi architettonici dell'epoca.
Visita al castello
ORARI
Dal 1 ottobre al 31 marzo.
sabato dalle 10.00 alle 13.00. e dalle 14.30 alle 18.30.
domenica e festivi. dalle 10.00 alle 13.00. ...
Dal 1 aprile al 30 settembre.
aperto tutti i giorni. dalle 10.00 alle 12.30. e dalle 15.00 alle 19.00.
Luglio e Agosto. tutti i giorni. dalle 10.00 alle 13.00. e dalle 15.00 alle 19.0
Biglietto d' entrata al castello
Rocca Malatestiana e Museo civico Archeologico di Verucchio € 7,50 al 2018
Verucchio e Valmarecchia
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Dalla follia dell’energia dal cibo alla rivoluzione del “biogas-fatto-bene”
Nei primi anni 2000 la presidenza di George W. Bush ha assecondato la folle tendenza spontanea del mercato agroindustriale americano verso il bioetanolo (alcool) da mais e cereali, resa conveniente dal prezzo del petrolio sopra i 130 $/barile. La grande richiesta di mais per produrre alcool da aggiungere alla benzina, o per sostituirla, ha causato un forte aumento del prezzo del granturco, che ha affamato i poveri del Centro e Sud America, privandoli delle tortillas e di altri prodotti essenziali nella loro tradizionale alimentazione. Ma non è stata una decisione politica a mandare fuori mercato l’alcool derivato dal mais e dai cereali in Nord America, bensì lo sviluppo del fracking (che è la fatturazione idraulica di rocce bituminose per estrarre metano e petrolio).
Anche in Italia il granturco e altri cereali sono stati sottratti al mercato agricolo per essere destinati alla produzione di elettricità da biogas: ciò è avvenuto durante la parte finale della corsa agli incentivi alle fonti rinnovabili erogati dal GSE, iniziata alla fine degli anni 2000, che aveva già creato una grave “bolla speculativa” con il dilagare degli impianti fotovoltaici su suolo agricolo.
foto dal sito https://www.gse.it/
Tuttavia la viva preoccupazione iniziale e poi la lungimiranza e l’approccio multidisciplinare del Consorzio Italiano Biogas (CIB) hanno creato le condizioni per invertire questa situazione iniziale e hanno creato un’eccellenza italiana che sicuramente riuscirà ad affermarsi sempre più come reale alternativa all’agricoltura “tradizionale” della nostra era industriale, che garantisce prezzi bassi nei paesi sviluppati, ma a costi ambientali enormi, e che distrugge le economie agricole dei paesi poveri.
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Nel 2017 il Consorzio Italiano Biogas ha festeggiato i primi dieci anni di attività, avviata con l’indirizzo degli incentivi del GSE (Il Gestore dei Servizi Elettrici) verso il riciclo energetico di enormi quantità di liquami o scarti vegetali da smaltire, facendo decollare con grande successo la loro “digestione anerobica”, specie nelle aree padane con grandi allevamenti intensivi, e creando una originale economia circolare di grande successo.
Il biogas si produce con una prima fase di compostaggio dei residui vegetali o animali e poi con la loro fermentazione in un ambiente chiuso, in cui l’assenza di ossigeno favorisce un grande sviluppo di quei batteri che vivono bene solo senza aria e che si chiamano perciò “anaerobi”. I batteri anaerobi si sono specializzati in natura soprattutto a “digerire” i residui vegetali o animali. Questa loro digestione produce un gas composto principalmente di metano e di anidride carbonica, mentre il residuo della loro digestione, chiamato “digestato”, è un ottimo fertilizzante agricolo, che “nutre” anche il suolo agricolo, oltre a nutrire le piante, che è invece l’unica funzione svolta dai concimi “chimici”, cioè granuli prodotti dalle industrie chimiche, tramite la sintesi chimica di gas estratti dall’aria o di minerali estratti dalle miniere.
Come dicevamo, il digestato nutre invece anche il suolo agricolo, perché lo aiuta a sviluppare, nel punto di contatto tra la terra e il cielo, uno strato di materia organica scura e ricca di vita, chiamata “humus”. Lo sviluppo dell’humus consente al suolo agricolo di dare migliore ospitalità ai lombrichi e a tanti altri animali utili, e di moltiplicare i microscopici organismi viventi che contribuiscono a rendere disponibili alle piante coltivate le sostanze nutrienti, già presenti nel suolo stesso. Negli anni, poi, l’humus consente soprattutto al suolo agricolo di aumentare la sua “ritenzione idrica”, cioè la sua capacità di trattenere l’acqua piovana e di metterla a disposizione delle piante coltivate nelle settimane (e in certi casi anche nei mesi) successivi.
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Il biogas può essere utilizzato per alimentare un generatore elettrico installato nell’impianto dove il biogas viene prodotto, o può anche essere purificato, dall’anidride carbonica e da altri componenti (ad esempio lo zolfo), negli impianti di produzione di biometano, che è un biogas purificato fino ad avere le caratteristiche necessarie per essere utilizzato per rifornire le auto a metano, o per essere immesso nella rete nazionale di distribuzione del metano di origine fossile.
Per superare il problema iniziale della competizione con la produzione agricola alimentare da parte degli impianti di produzione di elettricità da biogas o di biometano, è stata fondamentale l’instancabile attività “maieutica” del CIB, cioè di “l’arte di far nascere” competenze, conoscenze e propensione alla sostenibilità negli agricoltori, negli investitori, nei ricercatori, nei comunicatori e negli addetti di tutta la filiera del biogas e del biometano, ma anche nei legislatori e nei decisori locali.
Già nel 2011 il CIB, con i suoi partner istituzionali e associativi, ha promosso “un progetto per il biogas fatto bene” in tre punti:
1) Il biogas è una filiera ad elevata intensità di lavoro italiano,
2) Il biogas è una “filiera riciclona ed efficiente nell’uso del suolo agricolo” e
3) Il biogas è una energia “talentuosa”, molto flessibile nell’uso finale. http://ift.tt/2o1jxlN
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In sintesi, il “biogas-fatto-bene” è un’agricoltura di grande precisione, che utilizza ogni anno il periodo tra la trebbiatura dei cereali ai primi di giugno e la semina di nuovi cereali a fine ottobre, per ottenere i prodotti di una nuova coltura estiva, alternando negli anni, come colture estive, diverse produzioni di pregio, che hanno maggior valore nel mercato agricolo dei cereali e “rinnovano” il terreno: questo consente di poter riseminare i cereali (come secondo raccolto) sullo stesso terreno, dopo pochi mesi dalla trebbiatura della precedente coltura di cereali. Alla base di questo sistema produttivo c’è la periodica e ben dosata somministrazione, nei terreni aziendali, del digestato, sottoprodotto della “digestione” da cui deriva il biogas, un ottimo fertilizzante che, alla fine della coltivazione, le radici delle piante trebbiate lasciano, decomponendosi, nelle profondità del terreno. Questa materia organica è la vera ricchezza del terreno, perché non solo ne aumenta la fertilità e la sua naturale capacità di trattenere l’acqua delle piogge, favorendo lo sviluppo dell’humus superficiale, ma costituisce anche una grandissima quantità di carbonio “sequestrato sotto terra”, che non va a finire nell’atmosfera sotto forma di anidride carbonica e di altri gas che ne aumentano la temperatura e che causano gravi cambiamenti climatici.
C’è ancora un altro doppio vantaggio con il ciclo del biogas-fatto-bene delle due colture agricole all’anno sullo stesso terreno, invece di una coltura sola: non avere mai il terreno nudo e soggetto a erosioni, dilavamenti e sviluppo di malerbe, mentre la costante copertura vegetale estende a tutto l’anno la presenza di fotosintesi, che le piante realizzano usando le foglie (come pannelli fotovoltaici, o meglio fotochimici!) per scindere in carbonio e ossigeno l’anidride carbonica dell’aria, utilizzando l’energia catturata dalla luce solare. Il carbonio serve a far crescere le piante, mentre l’ossigeno viene restituito all’aria, rendendola più piacevole e “frizzante”, come siamo abituati a respirarla in un bosco o in prato…
Certo serve acqua per l’irrigazione e molte attrezzature agricole d’avanguardia, per il biogas-fatto-bene, ma è un investimento che si ripaga bene con il valore aggiunto della coltura estiva di pregio, nel mercato agricolo… anche se il biometano ha ancora bisogno di incentivi, per essere competitivo con i prezzi attuali del gas naturale da fonte fossile.
Nel sito del Senato è disponibile il documento “Il ruolo del biometano nella decarbonizzazione del paese”, che sintetizza perfettamente la strategia del biogas-fatto-bene e i suoi primi risultati e che è stato depositato per l’audizione al Senato del 22 marzo 2017 del Consorzio Italiano Biogas.
La slide di apertura conferma che l’utilizzo di rifiuti e fanghi è stato nettamente prevalente in Italia tra il 2007 e il 2010, per la produzione del metano contenuto nel biogas ed è aumentato molto poco dal 2012 al 2015, mentre l’utilizzo di prodotti agricoli, minimale prima degli incentivi GSE, ha pareggiato l’utilizzo di rifiuti e fanghi nel 2011 e nel 2015 è servito a produrre l’80% del metano da biogas in Italia.
immagine dal sito https://www.senato.it
La seconda slide chiarisce che in realtà, grazie al successo delle iniziative del CIB, tra il 2010 e il 2015 è molto diminuito, nella produzione di biometano, l’utilizzo del mais e dei cereali (il cosiddetto “primo raccolto”), sostituito nel 2015 per poco meno della metà da sottoprodotti agricoli e da colture di secondo raccolto (cioè una seconda produzione fatta nello stesso anno, sullo stesso terreno). In più, le previsioni del CIB per il 2030 per il “biogas fatto bene” sono di aumentare di quasi quattro volte la produzione di biometano realizzata nel 2015, utilizzando solo per un terzo mais e cereali di primo raccolto, per un terzo colture di secondo raccolto e per un terzo sottoprodotti agricoli.
immagini dal sito https://www.senato.it
Gianbattista Zorzoli, anziano padre nobile delle Rinnovabili italiane e presidente onorario del Coordinamento FREE (Fonti Rinnovabili ed Efficienza Energetica), in un articolo del 4 marzo 2017 su Staffettaonline (riservato agli abbonati, ne riportiamo infra uno stralcio), critica aspramente l’importazione in Europa di pellet di legno dal Nord America e di olio di palma dal Sudest dell’Asia ed elogia le “biofabbriche” italiane, perché hanno sviluppato in proprio tecnologie di altissimo livello per produrre “biopolimeri, fitofarmaci, coloranti, biocaburanti, biolubrificanti”, utilizzando come materie prime “biomasse provenienti da filiere specifiche” e “rifiuti”, ed elogia altrettanto il biogas-fatto-bene:
“Le biomasse non sono tutte uguali – Biogas e biomateriali per sfruttarne le potenzialità
… Considerazioni analoghe valgono per i digestori anaerobici, quando la loro produzione di biogas è parte integrante di un ciclo agricolo in cui, dopo il raccolto per il mercato, si effettua una seconda coltura, destinata appunto, insieme a residui vari, a generare biogas, mentre l’altro prodotto della digestione anaerobica (il digestato) sostituisce in larga parte i concimi chimici, arricchendo il terreno di carbonio (soil carbon sequestration). Questo modello virtuoso sotto il profilo sia economico che ambientale (denominato “biogasfattobene”), adottato da un numero ormai consistente di produttori agricoli e zootecnici italiani, è attualmente oggetto di studio da parte di un gruppo di lavoro, costituito da docenti della Penn State University, della Michigan State University, dell’Imperial College di Londra e dell’Istituto de Ingenierìa Rural di Buenos Aires, interessati all’applicazione in altri paesi di questa innovazione italiana. …”
Fonti:
https://www.consorziobiogas.it/ https://www.consorziobiogas.it/wp-content/uploads/2016/12/Filiera-biogas-biometano-2020-il-Biogas-fatto-bene-2011.pdf https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg17/attachments/documento_evento_procedura_commissione/files/000/004/611/2017-01-17_-_Consorzio_italiano_biogas.pdf http://www.staffettaonline.com/articolo.aspx/articolo.aspx?ID=271118
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🎤 Nel Libro "Geopolitica del Mare" (Mursia) dieci interventi per definire una strategia marittima a difesa degli interessi nazionali
Non c’è tema del nostro presente che non abbia una declinazione marittima: dall’energia alla sicurezza, dal commercio all’ambiente, dal fabbisogno alimentare all’industria manifatturiera. Nel volume Geopolitica del mare, edito da Mursia (pagg. 216, euro 25,00. In libreria dal 10 maggio) i maggiori esperti di tematiche marittime, in dieci interventi, tracciano la rotta su argomenti che riguardano da vicino tutti, e non solo chi sul mare vive e lavora.
In Italia sono 190 mila le imprese marittime che rappresentano circa il 3% del Pil, 800 mila gli occupati nel settore. Basterebbero questi dati per segnalare l’importanza che ha la Blue economy, cioè l’economia del mare, nel nostro Paese. Se poi dai confini nazionali si allarga lo sguardo al mondo si deve concordare con gli studiosi che da tempo parlano del nostro secolo come del Blue Century: il 90% del commercio mondiale per volumi e l’80% per valore avviene via mare; il 95% del traffico dati e telefonico passa sotto il mare dove corrono anche le pipelines che trasportano petrolio, gas e acqua. E ancora: il 60% delle risorse petrolifere globali sono offshore. Gli oceani, che ospitano il 50% di tutte le specie viventi del pianeta, forniscono il 20% delle proteine animali e il 5% delle proteine totali della dieta umana. In un futuro ormai prossimo dal mare e dagli oceani potrebbe arrivare l’energia rinnovabile in grado di alimentare il pianeta. I dati e gli scenari del futuro marittimo tracciati dagli esperti nel libro Geopolitica del mare impongono una riflessione urgente su quali siano gli interessi nazionali e quali le strategie necessarie e utili per garantire al nostro Paese non solo la prosperità che deriva dal mare, ma anche la sicurezza dei confini marittimi e delle cosiddette autostrade del mare. E ancora. I grandi problemi globali: libero accesso e sfruttamento sostenibile dei global commons come il sottosuolo marino, le risorse ittiche, l’Artide e l’Antartide. In uno scenario dove tutto sta cambiando velocemente e persino il Mare Nostrum non è più solo Nostrum ma vi si sono affacciate potenze economiche mondiali, come la Cina, definire gli interessi nazionali, dentro e fuori i confini, significa tracciare una strategia marittima, nel senso più ampio del termine, che coinvolga il mondo politico, economico, militare, industriale ma anche sociale e culturale. Una strategia che possa avvicinare anche alla istituzione di una guida unica (c.d. Ministero del Mare) che risponda a tutte le specificità del settore marittimo nazionale, implementandone le enormi potenzialità rispondendo alle richieste sempre più pressanti del settore a tutto vantaggio dell’economia e della sicurezza del Paese. La possibilità di un uso pacifico e responsabile del mare è un interesse nazionale? È questa la domanda di fondo che sollecitano gli esperti che, con prospettive e competenze diversificate, indicano al sistema Paese una priorità per il futuro: definire la strategia marittima italiana per il Blue Century. Read the full article
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Io, giovane appassionata, difendo la birra artigianale da Valerio Visintin
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Io, giovane appassionata, difendo la birra artigianale da Valerio Visintin
Caro Valerio Massimo Visintin, critico gastronomico del Corriere della Sera,
questa volta non mi sei piaciuto. E parlo in prima persona, da giovane appassionata di birra artigianale, perché oggi, leggendoti, ho avuto un brivido lungo la schiena. Ti prego di ripercorrerlo con me, dal coccige alla nuca.
Scorro Facebook e scorgo il tuo titolo “L’era della birra al calzino (ma artigianale)“. “Finalmente”, mi dico, il mitico critico mascherato parla di birra craft. Era anche l’ora: se la sarà preparata bene.
Apro. Leggo il tuo dialogo con un’amica immaginaria sprovveduta che domanda come sia, questa blasonata birra artigianale.
“E’ per amatori. Sa di calzino“.
Ah-ah, riduttivo ma sorrido. Il fanta-elenco della carta delle birre, poi, è uno spasso:
“La Sarkiapella del Birrificio Casalmonile, la Butagiò del Birrificio Giuvinòtt e una craft ambrata acida, parzialmente scremata al ferrocromo e metal con doppio innesto regolabile, del birrificio Andovai sito in località Tramalone”.
Parte l’arringa. Ce n’è per tutti:
I ristoratori: “Che tengono in lista qualche birra per onor di firma, lasciandosi fanciullescamente trascinare dal flusso delle mode“.
I birrai nascenti: “Ci si improvvisa mastri birrai con la facilità con la quale ci si inventa giornalisti gastronomici“.
E quelli navigati: “Teo Musso, Farinetti del luppolo, imprenditore operaio dal ricciolo malandrino“.
(In pratica: se inizi a fare birra sei un poveraccio senza futuro e se poi riesci a venderla sei cosa… un imprenditore senza scrupoli? Non so cosa intendi: provo a cercare su Google “Sinonimo Farinetti”)
Per finire, te la prendi con i nerd della birra in genere, gli appassionati cronici: “Tutti s’azzuffano al penultimo sangue nei forum di settore, ma si riconoscono nel vangelo secondo Kuaska, profeta dal nome misterico, narratore di birre e, più che altro, cantastorie di se stesso“.
Ma sì, stai facendo caricature. C’è una frase, però, che mi fa trasalire:
“Se devo bermi una blond o una tripel, per capirci, tanto vale scegliere un artigiano belga. Berreste volentieri un vino in “barolo style” prodotto in Germania o in Danimarca?”
Ma come, Valerio Massimo. Mi pesi le patate con i pistacchi di Bronte. Innanzitutto, se il “barolo style” non si può fare in Germania, un motivo c’è. Ci sarebbero peraltro un paio di leggi in merito e l’Unione Europea è parecchio severa sulla faccenda.
E poi che c’entra, lo stile tripel è di origine belga ma in Italia ci sono fior fior di produttori che lo realizzano bene. Extraomnes, Manerba, Toccalmatto e molti altri.
Tra l’altro hai appena detto che non ci si può “aggrappare alla retorica della cultura agreste” come si fa nel vino. Insomma, che la birra non ha il benedetto terroir. E allora che male c’è a fare una tripel in Italia? Lo mangerai pure il sushi a Milano.
A dirla proprio tutta, pure questa cosa della cultura agreste è vera solo a metà.
Ormai un annetto fa il Beer Judge Certification Program, che si carica sul groppone la pubblicazione delle “Style Guidelines“, ha definito lo stile delle Italian Grape Ale.
Trattasi di birra “Ale italiana, caratterizzata da diverse varietà di uve, a volte rinfrescante, altre complessa”. Come noteranno i lettori si parla apertamente di identità territoriale (“italiana”), mentre il vitigno entra nella descrizione del sapore (“caratterizzata da diverse varietà di uve”), così Visintin potrà leccarsi i baffi sotto la maschera (suppongo che li abbia) bevendo finalmente una birra artigianale italiana fatta con metodo italiano da un artigiano italiano.
Magari una IGA di Barley, per citarne una che non puzza di calzino.
Proseguo fiduciosa nella lettura, nonostante la vena sempre più in rilievo sul collo. Mi dico che adesso arriva il “però”, il momento in cui Visintin distingue tra bene e male. Mi dico che ora cita due nomi a caso di birrai esemplari, ora precisa che questa ascesa modaiola dev’essere un pretesto per fare cultura e incentivare il buon artigianato italiano. Solo quello buono però, perché chi lavora bene deve potersi fare spazio nella confusione generale, a scapito di chi si butta sul carro con la birra al calzino.
Dillo Visintin, dillo!
Ma temo di essere ormai arrivata al momento di massima tensione, allo spannung letterario: lo spassoso sfottò sui birrai come nuovo topos della narrazione gastronomica. Uff. Dimmi che non finisce qui, dimmi che il finale non è questo. Peggio: lo stramaledetto sarcasmo riduzionista.
“Trovare un prodotto artigianale italiano buono, privo di difetti, stabile, equilibrato, digeribile, a un prezzo congruo è un terno al Lotto“.
Ecco Visintin, è proprio questo il punto. Non si deve puntare il dito a caso su una birra in elenco, si deve poter scegliere. E chi seleziona le birre prima dei consumatori, deve almeno provare a capirci qualcosa.
La carta delle birre al ristorante è quasi sempre uno status symbol, su questo concordo con te. La maggior parte dei locali blasonati scelgono le etichette con lo stesso criterio che adotterei io per formare una squadra di rugby. Diciamolo però, che se chiedi informazioni in merito, i maître, al massimo, ti rispondono balbettando “non filtrata” (requisito di ogni birra artigianale, almeno secondo la legge nazionale).
Vogliamo dire che nei sopracitati menù le birre industriali si alternano indistintamente a quelle craft, creando una confusione abissale nel consumatore? Che alcuni ristoratori sono talmente impreparati sul tema da portare al tavolo il secchio del ghiaccio, insieme alla birra?
Della serie “Oh, questa è roba figa”.
21 anni di storia della birra artigianale italiana, con molti riconoscimenti nei concorsi internazionali che distinguono (o almeno provano a farlo) chi lavora bene da chi ha poca credibilità sul mercato. E poi ci sono quelli che non amano la ribalta e aprono locali sul loro territorio. Ma funzionano, funzionano eccome, e fanno lavorare parecchia gente. Ma niente Visintin, facciamo finta che in questi anni non sia successo niente.
Tu dici: “Rispetto alle grandi marche, la maggioranza delle nostre realtà artigianali manca della forza tecnologica ed economica necessaria per controllare analiticamente la qualità delle materie prime e persino per garantirne la conservazione ideale”.
Vero, artigianale non è sinonimo di buono. Ma le realtà virtuose non sono così rare e una birra artigianale fatta bene avrà sempre più identità e carattere di una birra industriale. Vale la pena di provarci. Poi, se vogliamo parlare di forza economica, non c’è dubbio che le industrie abbiamo una potenza tale da comprarsi pure i birrifici. E difatti accade.
Per chiuderla, lo so, caro Visintin, che non volevi farne una questione di Stato. Non bisogna prendersi troppo sul serio, gallina vecchia fa buon brodo e via discorrendo.
Ma guardiamoci in faccia. Okay, scherzavo: guarda me, guarda me.
La deriva modaiola sguazza nel pressapochismo e così facendo non l’hai certo ostacolata. Eddai, che ti leggo: due cosette sulla birra le sai, potevi metterlo qualche puntino sulle i.
Per usare una metafora: hai portato il megafono alla bocca e, invece di dire qualcosa di produttivo, hai fatto una pernacchia.
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