#Chi ha ucciso il giornalismo italiano?
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Giancarlo Siani, trentotto anni dopo
Giancarlo Siani è stato un giornalista italiano che ha dedicato gran parte della sua breve carriera alla denuncia della criminalità organizzata nella sua città natale, Napoli. Nato il 23 aprile 1959, è stato ucciso il 23 settembre 1985 per mano della Camorra. Chi era Giancarlo Siani? Siani è diventato noto per il suo lavoro come cronista per il quotidiano "Il Mattino". Sin da giovane, ha mostrato una grande passione per il giornalismo investigativo e si è dedicato a raccontare la vita quotidiana dei quartieri di Napoli, svelando i retroscena e le connessioni tra la politica, la criminalità e il mondo degli affari. Grazie al suo lavoro, è diventato un "nemico" della Camorra, che lo considerava una minaccia alla sua supremazia. Nonostante le numerose minacce di morte, Siani non ha mai rinunciato a denunciare i crimini della Camorra. Nel suo articolo più famoso, pubblicato il 30 giugno 1985, Siani scrisse dei possibili scenari criminali campani in seguito all'arresto del boss di Torre Annunziata ovvero Valentino Gionta. Questo pezzo gli è costato la vita, poiché è diventato un bersaglio ancora più grande per i membri della Camorra. Cosa ha lasciato Giancarlo Siani? L'assassinio di Siani ha scosso l'opinione pubblica italiana e ha messo in luce l'inquietante faccia della Camorra napoletana. L'uccisione di un giornalista che si batteva per la verità e la giustizia ha suscitato una forte indignazione nella società e ha spinto le autorità a prendere provvedimenti seri contro la criminalità organizzata. L'eredità di Giancarlo Siani è stata significativa. Il suo coraggio e la sua determinazione nel denunciare la mafia sono un esempio di giornalismo responsabile e impegnato. Grazie al suo lavoro, molti cittadini hanno iniziato a rendersi conto dell'importanza di combattere la camorra e l'omertà che la circonda. Dopo la sua morte, sono stati istituiti premi e riconoscimenti in suo onore per sostenere il giornalismo investigativo e ricordare l'importanza di combattere la criminalità organizzata. Inoltre, la sua storia è raccontata in un film, intitolato "Fortapàsc", che ha contribuito a diffondere la conoscenza della sua figura a livello nazionale e internazionale. Cosa è successo da dopo la sua morte? La morte di Giancarlo Siani è stata una grande tragedia, ma ha anche funzionato come un catalizzatore per il cambiamento. Ha permesso alla società italiana di aprire gli occhi sulla realtà della Camorra e sulla necessità di combatterla. Il suo sacrificio è diventato un simbolo della lotta contro la criminalità organizzata e una fonte di ispirazione per molti altri giornalisti che hanno seguito le sue orme. Oggi, la figura di Giancarlo Siani è ricordata come un eroe che ha lottato per la verità e che ha sacrificato la propria vita per far emergere la realtà della criminalità organizzata. Il suo coraggio e il suo impegno restano un esempio per tutti coloro che lottano contro la corruzione e la criminalità, dimostrando che è possibile sfidare e sconfiggere organizzazioni potenti se ci si impegna a fondo per far emergere la verità. Read the full article
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Sul primo flop giornalistico de “La verità” e una domanda al direttore Belpietro…
#Chi ha ucciso il giornalismo italiano?#emergenza democratica#emergenza informazionale#Giornalismo italiano#governo delle poltrone viventi#inciucio M5S-PD#la verità#maurizio belpietro#opinioni online#Rosebud Arts Critique Journalism
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24 nov 2020 19:11
‘’QUESTA VOLTA DAGOSPIA HA SBAGLIATO BERSAGLIO’’ – MUGHINI: “MIELI È STATO SÌ VICINO AL POTERE OPERAIO ROMANO MA È STATA UNA DELLE SUE CENTO INCARNAZIONI. CERTO CHE AI TEMPI DI TANGENTOPOLI LUI DIEDE CORDA AI DISTRUTTORI DELLA PRIMA REPUBBLICA, MA CHE ALTRO AVREBBE POTUTO FARE UN DIRETTORE CHE IN QUEI MOMENTI DOVEVA VENDERE LE COPIE DI UN QUOTIDIANO? - CON IL CRETINISMO DI SINISTRA GALLI DELLA LOGGIA E PIGI BATTISTA NON HANNO MAI AVUTO NULLA A CHE VEDERE - GAD LERNER C’ERA NELLA REDAZIONE DI LOTTA CONTINUA, MA IN ANNI SUCCESSIVI ALL’ASSASSINIO DI CALABRESI - C’È CHE MI PIACE TALMENTE TANTO LA TUA CREATURA GIORNALISTICA, CHE MI RATTRISTO QUANDO CI TROVO QUALCOSA DA ME DISTANTE. AD ESEMPIO L’ACCANIMENTO CONTRO MATTEO RENZI O CONTRO IL MIO AMICO ALBERTO BIANCHI”
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I CHIERICI DEL GIORNALISMO ITALIANO RIMUOVONO GLI “ANNI DI PIOMBO”, TANGENTOPOLI E SEPPELLISCONO IL FU CAPITALISMO DEI POTERI MARCI (DE BORTOLI) – TRAGHETTATI DA PAOLO MIELI DALLA POVERA PUBBLICISTICA DI PARTITO AI RICCHI GIORNALONI TARGATI FIAT, I VARI (E AVARIATI) GALLI DELLA LOGGIA, PIGI BATTISTA E GAD LERNER SBIANCHETTANO TRENT’ANNI DI STORIA ITALIANA PER SALVARE LE LORO FACCE DI BRONZO E QUELLE DEI LORO AMICI
https://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/smemoranda-nbsp-colpiti-alzheimer-intellettuale-chierici-253730.htm
LA VERSIONE DI MUGHINI
Giampiero Mughini per Dagospia
Caro Dago, mosso da una vis polemica che talvolta accende positivamente un testo e talvolta invece ne attenua la verità, chi di voi ha scritto quel pezzo acre nei confronti del mio vecchio amico “Ernestino” Galli della Loggia e della sua compagnia scrivente, Paolo Mieli e Pigi Battista innanzitutto, ha completamente sbagliato bersaglio.
Ti scrive uno che quella storia l’ha vissuta minuto per minuto, episodio per episodio, numero di rivista dato alle stampe per numero di rivista dato alle stampe.
Ad andare a frugare negli anni della nostra giovinezza, dobbiamo innanzitutto mettere delle date che scandiscano e differenzino le varie stagioni della storia italiana recente.
Chi di noi non balbettava favolette di sinistra nella prima metà dei Sessanta e talvolta fino a Sessantotto inoltrato? Mi è appena arrivato il libro che Graziella Chiarcossi e Franco Zabagli hanno dedicato alla biblioteca di Pier Paolo Pasolini. Ho visto che nella sua biblioteca di libri di Lev Trockij ce n’erano appena due, nella mia ce ne stanno diciannove, e non che io sia mai stato un “trockista quartinternazionalista”, ma nemmeno un istante della mia vita.
In un qualche cassetto della mia scrivania c’è la ricevuta del vaglia postale che avevo inviato alla redazione torinese dei “Quaderni rossi” di Raniero Panzieri e Vittorio Rieser e questo perché avevo venduto dieci copie della loro rivista, di cui ero un lettore entusiasta.
Trent’anni dopo telefonai a Rieser da giornalista di “Panorama” a chiedergli una qualche intervista e lui mi rispose che non ci pensava neppure di parlare con “un giornalista borghese” come me.
Confesso che se lo avessi avuto davanti la mia replica non sarebbe stata gentile, disprezzo intellettuale a parte, e di disprezzo intellettuale per i miei ex compagni di gioventù ne ho prodotto a vagonate dopo il mio “Compagni addio”.
Paolino Mieli, Ernesto, Pigi, il sottoscritto veniamo tutti da quella temperie lì. Ne faceva parte anche Franco Moretti, di cui ho letto con stupore nell’intervista rilasciata ad Antonio Gnoli che non facesse il benché minimo cenno alla Roma della sua giovinezza, quel laboratorio intellettuale dove fummo amici e sodali, ivi compreso Paolo Flores d’Arcais. Che Franco l’abbia cancellata dalla sua memoria? Spero di no. Su quella Roma e sui nostro rapporti di allora potrei ovviamente compilare un’Enciclopedia Treccani.
Paolino Mieli è stato sì vicino al Potere operaio romano ma è stata una delle sue cento incarnazioni, non credo che abbia lordato una sola parola del suo sistema intellettuale con la vicinanza a quel groupuscule di ossessi e talvolta di futuri assassini. E’ stata una delle sue cento incarnazioni.
Ricordo di aver letto sul “Manifesto” l’articolo di una giornalista sua amica che non si raccapezzava che uno come Paolino frequentasse degli immondi figuri quali me ed Ernesto. Probabilmente agli occhi di quella giornalista aveva appalesato un’ennesima sua incarnazione.
Tutte incarnazioni di cui era impastato quando divenne il migliore e il più moderno dei direttori di un quotidiano. Il solo che avrebbe potuto tenergli testa e più che questo in quel mestiere sarebbe stato Claudio Rinaldi se la malattia non avesse preso a divorarlo poco più che quarantenne.
Certo che ai tempi di Tangentopoli lui diede corda ai distruttori della Prima Repubblica, ma che altro avrebbe potuto fare un direttore che in quei momenti doveva vendere le copie di un quotidiano?
Detto questo il Mieli maturo e più compiuto è quello dell’editoriale di prima pagina sul “Corriere della Sera” di oggi dedicato ai debiti che il nostro Paese sta continuando a fare cantando e suonando, un articolo di spettacolare intelligenza e acutezza. Se c’è uno di cui condivido anche le virgole di quello che scrive è lui.
Ne sta parlando uno che di Mieli era un amico fraterno ai tempi della nostra giovinezza, col Mieli divenuto direttore non ho mai avuto il benché minimo rapporto. Mai una sola volta. Né del resto ho mai più avuto rapporti con direttori di sorta, e questo in nessun campo della comunicazione intellettuale.
Tutt’altro personaggio, schivo e solitario, Ernesto. Con il cretinismo di sinistra Ernesto non ha mai avuto nulla a che vedere, mai e poi mai. Mi spiacque che scrivesse entusiasta del libro di Camilla Cederna contro la famiglia Leone, un libretto zeppo di ingiurie e per le quali pagò danni sonanti all’ex presidente della Repubblica, mi spiace moltissimo che abbia votato per il nulla chiamato 5Stelle, ma sono peccati veniali.
L’intelligenza di Ernesto è una spada intellettuale affilatissima _ forse fin troppo, in qualche passaggio - di cui l’Italia deve essere orgogliosa. L’ “Erenestino” di cui scrive la vostra Dagonota non è mai esistito, lo dice uno che quel tipo di personaggi li ha conosciuti tutti e li potrebbe pesare uno a uno sbagliando solo di qualche grammo.
Non parliamo poi di Pigi che era il più giovane di noi tutti, che a tutta prima non voleva fare il giornalista, voleva studiare la letteratura, quel che invece ha fatto il suo amico Franco Moretti.
Col cretinismo di sinistra, che è comunque cosa diversa dall’assassinio del commissario Luigi Calabresi (là comincia un’altra e terrificante storia), Pigi nemmeno generazionalmente ha mai avuto a che fare. Contro quel cretinismo ha scritto in questi ultimi trent’anni tonnellate e tonnellate di pagine e di libri. Scusatemi, ma questa vostra Dagonota ha sbagliato bersaglio polemico.
Scendo al punto di difendere Gad Lerner, lui sì da me lontanissimo. Lui c’era nella redazione di Lotta continua, ma in anni successivi all’assassinio di Calabresi. Quando un manipolo di delinquenti di strada uccise l’ex partigiano Carlo Casalegno nell’androne della sua casa torinese, Lerner e Andrea Marcenaro andarono a intervistare Casalegno junior, anche lui un militante di Lotta continua.
Andrea Casalegno raccontò dolorosamente come la tragedia del padre ucciso avesse scardinato il suo intero sistema intellettuale. Innanzi alle fabbriche torinesi della Fiat alcuni operai si misero a bruciare le copie del “Lotta continua” su cui era quell’intervista. Ai loro occhi Casalegno senior era un “borghese” che aveva offeso i compagni rivoluzionari e che perciò andava punito. Pezzi di merda.
Niente. Potrei continuare per pagine e pagine, caro Dago. C’è che mi piace talmente tanto la tua creatura giornalistica, che mi rattristo quando ci trovo qualcosa da me distante. Ad esempio l’accanimento contro Matteo Renzi o contro il mio amico Alberto Bianchi.
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di Tonino Armata
SAN BENEDETTO – Egregio direttore,
Quella notte pioveva sulla maledizione di Milano. La mattina dopo sono andato alla biblioteca Sormani a Milano per una ricerca proprio sul terrorismo rosso. Tornato in redazione, dopo aver tirato fuori i libri dalla borsa ho appreso dell’uccisione di Walter Tobagi. Nelle redazioni dei periodi e in quelle del settore editoriale lo sgomento era altissimo.
Uccidere un uomo in democrazia, nel cuore dell’Europa civile, con un’azione di guerra in tempo di pace, è una cosa semplice se si supera l’orrore di stroncare una vita, a 33 anni. Bisogna nascondersi dietro la siepe spelacchiata della “Trattoria dei Gemelli”, mimetizzarsi tra i passanti con un berretto di lana blu da calare sul volto quando si punta la calibro 9 corto, tenere con l’altra mano un sacchetto di plastica per raccogliere i bossoli dei sei colpi, garantirsi la via di fuga con una Peugeot 204 grigia che aspetta quasi all’angolo con via Valparaiso, col motore acceso.
Però prima ci sono quei pochi minuti in cui l’assassino deve camminare dietro un uomo libero ma già condannato, deve correre quando lui cambia all’improvviso marciapiede e attraversa la strada, e infine deve sparare, cinque volte, mirando alla schiena, alla spalla destra, a un piede, al fianco sinistro, al torace, prima dell’ultimo colpo alla testa, per la sicurezza di ammazzare. Quei sei proiettili corazzati forano la giacca blu, sbalzano la penna stilografica fuori dal taschino: come per ricordare a tutti che Walter è un giornalista, un grande inviato del Corriere
Lo sapevano bene i suoi killer, borghesi giovanissimi cresciuti in famiglie legate ad ambienti editoriali, contigui ai giornali. Addirittura i genitori della fidanzata di Marco Barbone, il Capo del commando che sparò il colpo di grazia, erano amici di Tobagi. Quei ragazzi volevano promuoversi con azioni sul campo per scalare le Brigate Rosse, e avevano fondato la Brigata XXVIII Marzo per ricordare con quella data i quattro brigatisti uccisi due mesi prima dagli uomini del generale Dalla Chiesa nel covo di via Fracchia, a Genova.
Proprio l’improvvisazione e il dilettantismo avevano reso il gruppo permeabile (anche se capace di uccidere), tanto che un’informativa dei carabinieri su un possibile attentato a Tobagi era stata scritta inutilmente e incredibilmente sei mesi prima dell’agguato. E proprio l’evidente conoscenza del mondo dei giornali consentirà di individuare i killer e di arrestarli.
Venti giorni prima di uccidere Tobagi, infatti, avevano colpito un altro reporter milanese, Guido Passalacqua di Repubblica, un giornalista giovane ma esperto, che indagava con rigore il mondo dell’eversione armata. Questa volta avevano suonato il campanello di casa, dicendo che erano poliziotti. Quando Guido ha aperto la porta sono entrati in tre con le pistole spianate, lo hanno legato a terra, e gli hanno scaricato due colpi col silenziatore in una gamba. Poi lo spray sul muro, «Onore ai compagni di Genova», e la fuga giù per le scale, dopo aver staccato i fili del telefono. Tobagi aveva capito: «Nel mirino ora entrano i riformisti, quelli che cercano di comprendere».
In realtà eravamo nel pieno dell’offensiva armata contro i giornalisti. Nata all’inizio di giugno del terribile ’77, quando in due giorni vengono “gambizzati” tre direttori, Indro Montanelli del Giornale, Emilio Rossi del TG1, Vittorio Bruno del Secolo XIX. Bruno lo aspettano di sera a Genova, quando esce dalla redazione per tornare a casa, e un ragazzo gli spara senza dire una parola.
Rossi lo vanno a prendere in via Teulada, il centro di produzione Rai di Roma, dove si sta avvicinando a piedi mentre legge un libro, appena sceso dall’autobus. Sono un uomo e una donna. Rossi cade colpito al femore, al ginocchio e alla tibia, a due passi dal suo giornale. «Vigliacchi» è invece l’urlo di Montanelli mentre prova a rialzarsi da terra aggrappandosi a un’inferriata nel muro in via Manin a Milano, con quattro proiettili nelle gambe, sparati contro il più noto tra i giornalisti italiani.
Spareranno ancora ad Antonio Garzotto, per 15 anni cronista giudiziario del Gazzettino, mentre ad Abano sta andando a prendere la macchina in garage alle 8 del mattino, il 7 luglio ’77. Mezzo chilometro a piedi, leggendo il giornale, finché si spalanca la porta di un furgone, scende un giovane e spara cinque colpi calibro 7,65 mirando alle gambe.
Due mesi dopo altre cinque pallottole contro Nino Ferrero, un ex carabiniere comunista, che si occupa di spettacoli sulle pagine torinesi dell’Unità. Prima degli spari Ferrero alza una mano cercando di fermarli, denuncia il suo stupore: «Che fate, sono un compagno». Nel volantino lo definiranno «servo del Pci». L’ultimo giornalista colpito, il 24 aprile del ’79, è Franco Piccinelli, direttore della redazione Rai di Torino, ferito da sei colpi di pistola in via Santa Giulia, dov’era arrivato subito dopo la fine del Giornale Radio di mezzogiorno.
E a Torino, il 16 novembre del ’77, va in scena il primo delitto organizzato contro un giornalista. È Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa, partigiano e uomo del Partito d’Azione come molti intellettuali piemontesi che scriveranno sul giornale torinese, da Galante Garrone a Mila, a Jemolo, a Bobbio, a Gorresio. Uomo d’ordine liberale, chiede che lo Stato tuteli la democrazia e la libera convivenza contro l’eversione, ma senza ricorrere a leggi speciali.
Sa di essere in pericolo, va e viene dal giornale insieme con il direttore Arrigo Levi, che è scortato. Ma quel giorno ha dovuto cambiare programma, e l’autista del giornale lo lascia solo davanti a casa in corso Re Umberto 54, appena finita la riunione di redazione, all’ora di pranzo. Ha una cartella coi suoi libri nella mano sinistra, le chiavi nella destra, ma quando la porta sta per rinchiudersi la spalanca Raffaele Fiore, con la stessa mano che sparerà nel massacro di via Fani uccidendo la scorta di Aldo Moro: adesso entra nel palazzo insieme con un altro brigatista, Piero Panciarelli, mentre Patrizio Peci è di copertura all’esterno.
Lo chiamano, non lo conoscono nemmeno anche se hanno deciso di ucciderlo, Casalegno si volta e gli sparano quattro colpi con le Nagant alla testa, centrandolo al volto e sul collo. Morir�� dopo 13 giorni di agonia alle Molinette, con il figlio Andrea, di Lotta Continua, che innesca una discussione in tutto il movimento, dicendo che «non si spara a un uomo per le sue idee».
Perché sono le idee e le opinioni espresse negli editoriali e nelle cronache che scatenano l’offensiva terroristica contro i giornali. Tobagi aveva appena scritto che i brigatisti «non sono samurai invincibili», Casalegno aveva chiesto la chiusura dei covi e la fine dell’immunità dei guerriglieri urbani fiancheggiatori, per controllare il fanatismo che è «il peggior male italiano», ma senza ricorrere alla violenza «che distrugge la democrazia senza eliminare il terrorismo, anzi gli regala militanti e giustificazioni».
Il narcisismo nichilista dei brigatisti li rende ossessionati dai giornali. Le “norme di sicurezza” dettate da Moretti spiegano che così come si deve portare sempre l’arma addosso, l’acquisto dei quotidiani non va mai fatto nel quartiere dove si abita; il primo comunicato del sequestro del magistrato Mario Sossi è lasciato in una cabina del telefono avvolto nella pagina 23 della Stampa; nel covo torinese di via Foligno la polizia trova un archivio interamente composto da ritagli di quotidiani. Poi gli attacchi.
Un comunicato dell’aprile ’72 spiega che «i giornali confondono la classe operaia contrabbandando la crescente fascistizzazione dello Stato come esigenza dell’ordine pubblico, e preparano il terreno per un attacco finale». Un altro comunicato dell’aprile 1975 denuncia la «guerra psicologica di certo giornalismo, che organizza il discredito delle organizzazioni rivoluzionarie con l’obiettivo di condizionare l’opinione del semiproletariato e delle aristocrazie operaie», e lancia la prima minaccia: «a questi seminatori di odio e sospetti diamo un ultimo consiglio: riflettano prima di stendere l’ultimo pezzo. Perché alla loro guerra risponderemo con la rappresaglia».
Il Capo delle BR, Mario Moretti, esplicita la strategia: «La simbologia delle nostre azioni armate è affilata e precisa come un intervento chirurgico. Sì, colpiamo i simboli della stampa di regime. È criticabile come ogni altra azione armata, ma non più ingiustificata di altre. Ogni nostra azione è simbolica, agisce sul piano dell’immaginario e della rappresentazione politica». Sparano a un simbolo, dunque.
Ma la morte non è una metafora, e le P38 dietro quel feticcio emblematico lasciano a terra uomini in carne e ossa, con una storia e una famiglia, colpiti per il loro lavoro vissuto come una passione e un dovere, per lo sforzo di capire e far capire, per le loro idee: come Walter Tobagi quarant’anni fa.
Ne ha scritto molto, e così bene da diventare un bersaglio, ma il terrorismo rosso che l’avrebbe ucciso non era al centro dei pensieri di Walter Tobagi, in quella primavera dell’80. Sulla scrivania di casa c’era la bozza della copertina del suo ultimo saggio, uscito postumo, “Che cosa contano i sindacati”.
Dopo anni di studi e inchieste, traccia un bilancio del ruolo fondamentale svolto dalle confederazioni negli anni Settanta che non manca però di denunciare gli errori, dalle rigidità e gli eccessi del “pansindacalismo” al «ritardo nel capire le trasformazioni sociali», gli incipienti mutamenti di sistema, «la scelta corporativa che privilegia chi lavora rispetto a chi non trova occupazione» e dimentica la massa dei non garantiti.
Sindacalista egli stesso, da quando è presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti (settembre 1978) si è molto occupato delle minacce poste alla libertà di stampa da quello che Pansa aveva definito «il processo di normalizzazione [dei quotidiani] attraverso il deficit» e dalle grandi concentrazioni editoriali, a cui proponeva di opporsi in concreto rinforzando gli strumenti a tutela dell’autonomia delle redazioni. La sera prima di essere ucciso, al Circolo della stampa, richiamò, tra i vari problemi, la «gestione gelatinosa dei rapporti editoriali».
Anni dopo, l’allora ministro dell’interno Rognoni rivela come Tobagi, che gli aveva fatto la prima intervista dopo l’insediamento al Viminale, fosse tornato a trovarlo. «Era preoccupato della gestione del giornale», racconta: gli spiegava come alcuni argomenti fossero «insindacabili, sembrava seguissero una logica inafferrabile». Walter Tobagi non lo sapeva, ma la P2 era allora al suo acme, anche dentro il Corriere della sera. Il grumo di potere che verrà alla luce l’anno successivo resta un caso da manuale dei meccanismi di svuotamento della democrazia dall’interno.
Quarant’anni dopo, mentre il brigatismo è materia da storici, i temi che attanagliavano il trentatreenne mite ma appassionato che era Walter Tobagi come giornalista, studioso e sindacalista, sono ferocemente attuali.
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Lorenzo Tugnoli, l’italiano che ha vinto il premio Pulitzer
Nuovo post su italianaradio http://www.italianaradio.it/index.php/lorenzo-tugnoli-litaliano-che-ha-vinto-il-premio-pulitzer/
Lorenzo Tugnoli, l’italiano che ha vinto il premio Pulitzer
Lorenzo Tugnoli, l’italiano che ha vinto il premio Pulitzer
Ci lamentiamo tanto che in Italia manchi il giornalismo di qualità, ma poi non concediamo il giusto spazio al più prestigioso riconoscimento che un cronista possa ricevere al mondo andato quest’anno proprio a un italiano che ha partecipato a un’inchiesta del Washington Post sulla guerra in Yemen. Lorenzo Tugnoli ha ottenuto il premio Pulitzer per il suo fotoreportage dai luoghi del conflitto yemenita.
Chi è Lorenzo Tugnoli, l’italiano che ha vinto il Pulitzer
Nato a Lugo ma residente a Beirut, Lorenzo Tugnoli ha una conoscenza molto dettagliata del Medio Oriente e dei suoi perenni conflitti. Ha lavorato per tantissimo tempo in Afghanistan e nel 2014 ha pubblicato The Little Book of Kabul, un progetto non solo fotografico (ha collaborato con lui anche la scrittrice Francesca Recchia) che offre uno spaccato inedito dell’arte a Kabul, attraverso la vita quotidiana di numerose persone che si dedicano a questo mondo in una città che per anni è stata martoriata dalla guerra. La bellezza tra le macerie, insomma.
I volti dello Yemen raccontati da Lorenzo Tugnoli
Dopo diversi anni di vita e lavoro in Afghanistan, Lorenzo Tugnoli si è trasferito in Libano nel 2015. Da qui è partito per la sua esplorazione di quanto accaduto in Yemen, in Libia e in Libano. Fa parte dell’agenzia fotografica internazionale Contrasto e per diversi anni ha collaborato, tra gli altri, con il Washington Post, il Wall Street Journal e il Time Magazine. Proprio con il Washington Post, come già detto, ha conquistato il Pulitzer per i suoi ritratti di guerra dallo Yemen, un conflitto civile che va avanti dal 2015 e che, secondo le stime più recenti dell’Onu, ha ucciso – sul solo suolo yemenita – tra le 7.400 e le 16.200 persone.
Il 2019 è stato l’anno d’oro per Lorenzo Tugnoli: il Pulitzer è arrivato a coronamento di una serie di riconoscimento, come il 1 ° premio World Press Photo General News Story e la nomination per il World Press Photo Story of the Year.
[FOTO dal profilo Facebook di Lorenzo Tugnoli]
L’articolo Lorenzo Tugnoli, l’italiano che ha vinto il premio Pulitzer proviene da Giornalettismo.
Giusto che riceva lo spazio che merita sui quotidiani nazionali
L’articolo Lorenzo Tugnoli, l’italiano che ha vinto il premio Pulitzer proviene da Giornalettismo.
Redazione
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Amor Dei intellectualis. È vero ma non ci credo. Il senso del “significativo” per il Corriere della Sera. Ma il CDA li legge?
#Chi ha ucciso il giornalismo italiano?#credibilità#emergenza democratica#emergenza informazionale#opinioni online#Rosebud Arts Critique Journalism#scandali renzisti
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Ora, avendo già eletto molti anni fa, su questo stesso sito, Eugenio Scalfari quale peggior giornalista italiano di ogni tempo, è difficile che si possa dire qualcosa di più su questo “venerato maestro” di “Repubblica”, ma mi sforzerò, del resto i suoi ultimi “achievements” impongono codesto sforzo.
C’è da ricordare anche che Eugenio Scalfari in questo periodo potrebbe avere passato i cento (anni, gli articoli scritti in salsa di minchia sono molti di più) e dunque è un uomo anziano. Di norma, io ho un grande rispetto della veneranda età perché facendo mentalmente una equazione infantile l’associo sempre con la saggezza. Non è così, naturalmente, e lo dimosterò proprio con il caso Scalfari, il quale se è evidentemente ancora tanto vispo da scrivere le sue puttanate nero su bianco, non si capisce perché non si possa fare oggetto di critica come chiunque, né più né meno.
Non vado mai sul sito del giornale “Repubblica” che considero un esempio plastico di cosa sia l’anti-giornalismo, di tutto ciò che non è giornalismo e su questo punto non ho mai avuto ragioni per cambiare idea. In quel luogo virtuale ci passo solo in occasioni di elezioni e/o altra speciale attività politica, per lo più allo scopo di capire quale è il livello di bassezza intellettuale che riescono a toccare. Concedo loro che non me ne torno indietro mai a sporte vuote, ma oggi ho anche trovato una ciliegina sulla torta che si fa davvero ricordare.
Di fatto, e sulla prima pagina (e dove sennò?) che hanno collocato un occhiello all’ultimo commento di Eugenio Scalfari titolato: IL NEOFASCISMO AMA LA DITTATURA: È PER QUESTO CHE AMA SALVINI. Catenaccio: È molto probabile che avvenga una saldatura della Lega con i gruppi fascistoidi: il vice Premier neo dittatore in qualche modo rievocherebbe il ricordo mussoliniano.
Che cuccagna! In poche righe una montagna di castronerie, peraltro palesanti una sostanziale ignoranza di quello che fu il fascismo, che non si sa da dove cominciare per commentarle adeguatamente. Io però sorvolerei sul bambinesco (a una certa età torniamo tutti bambini) tratto lapalissiano in virtù del quale il fascismo amerebbe la dittatura (sic!), finanche sull’ignoranza del periodo storico considerato, dato che per accostare il personaggio Mussolini al traguardante e felpato Salvini serve una leggerezza intellettuale che francamente io non ho più.
A mio giudizio, ciò su cui val la pena concentrarsi è proprio il giornalismo delle probabilità che il fatto X avvenga incensato dallo scalfarismo. Insomma, non il giornalismo dell’obiettività, dei fatti, delle analisi e delle previsioni azzardate in base ai dati raccolti, ma il giornalismo delle probabilità… magari calcolate con computazione quantistica, laddove la percentuale % probabilistica viene congelata nel momento in cui la funzione d’onda schrödingeriana collassa non in virtù della coscienza scalfariana (andata da tempo, credo, se mai è esistita) che guarda, quanto piuttosto dall’ultima castroneria sparata da costui!
Tuttavia, nell’attesa che Salvini realizzi l’ennesimo wishful thinking fascistoide di questo signore (ricordiamo infatti quando Scalfari sosteneva con felicità dello spirito il fascismo 2.0 del duce di Rignano, ovvero del peggior politicante che abbia mai avuto l’Italia, sotto qualsiasi punto di vista), cioè di un personaggio che se si fosse dedicato all’agricoltura avrebbe sicuramente arrecato meno danno al suo paese, vorrei anche tentare di mettere le cose in prospettiva, cioè spiegare meglio perché Scalfari è il peggior giornalista di cui si sia mai saputo.
Con esclusione della Fallaci, che sta in un realm tutto suo per il suo essere giornalista di razza, il miglior giornalista italiano è stato senza ombra di dubbio Indro Montanelli. Per capire di che pasta era fatto Montanelli, ancor più del momento in cui lasciò in fretta e furia “Il giornale” del futuro politicante Berlusconi, basti ricordare un altro momento da lui spesso citato. Si tratta di una occasione in cui un altro potentato gli stava offrendo molti soldi per entrare a far parte della sua scuderia e a cui lui, Montanelli, a un certo punto chiese di uscire della stanza… non perché non si fidasse di quell’editore, semplicemente perché non si stava più fidando di se stesso. Insomma, il grande Indro capì che la sua fibra non era tanto forte quanto il suo spirito avrebbe voluto e per non cadere in tentazione semplicemente si risolse a stare lontano da quella… dalla tentazione, dalla pecunia guadagnata facilmente svendendo i propri credo.
Mirabile! Grandissimo! Possiamo dire altrettanto dello Scalfari attovagliato per 40 anni con De Benedetti a fare e disfare la politica italiana… e adesso che non può più fare si limita a sperare. Non direi proprio!! Giornalismo e giornalisti da dimenticare, appunto!
Rina Brundu
Un morto scomodo e una pletora di potenziali assassini sono i protagonisti di un mistero atipico che per essere risolto dovrà necessariamente farsi viaggio di studio e di conoscenza. Solo partendo dalle origini del giornalismo, dalla nascita dei primi quotidiani italiani, passando per la “Guerra dei venti anni”, l’analisi dei rapporti internazionali sul livello di libertà di stampa in Italia, l’arrivo del giornalismo online, la presentazione di alcuni casi-studio, sarà infatti possibile una attenta lettura della scena del crimine, raccogliere gli indizi e stringere il cerchio intorno al colpevole. Chi ha ucciso il giornalismo italiano? Come in ogni giallo che si rispetti la risposta a questo quesito non sarà affatto scontata, né sufficiente a fugare il dubbio: e se si fosse sbagliato tutto, sin dall’inizio?
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Epitaffio Capitolo 1 Venerati maestri e soliti stronzi: le origini 1.1 In principio, c’era Gutenberg… 1.2 1976, nasce la Repubblica di Eugenio Scalfari 1.3 Gli anni 90 e Mani pulite 1.4 La guerra dei venti anni 1.5 Berlusconi: “L’Italia è il Paese che amo” 1.6 Quelli di Capalbio 1.7 La rivoluzione digitale Capitolo 2 I rapporti internazionali sulla libertà di stampa 2.1 1960 1995 Lo studio di Raymond B. Nixon e la lettera dell’IPI al ministro Mancuso 2.2 Freedom House Il rapporto 2002 2.3 Freedom House Il rapporto 2004: l’Italia diventa uno Stato PARTLY FREE 2.4 Freedom House Il rapporto 2014 2.5 Freedom House Il rapporto 2015 2.6 Il rapporto 2016 della Freedom House: reticenza? 2.7 Freedom House Il rapporto 2017 2.8 2013-2018. I rapporti di Reporters sans frontières Capitolo 3 2014-2018: dal governo Renzi al Salvimaio 3.1 La XVII legislatura, l’intoccabile e la congiura del silenzio 3.2 Il Caso Alessandro Di Battista e il risveglio della “coscienza” giornalistica in Italia Capitolo 4 La crisi e il giornalismo online 4.1 La crisi nelle vendite 4.2 Dal giornalismo al giornalismo online 4.3 Il problema della credibilità 4.4 Caso studio 1 Repubblica vs Luigi Di Maio Capitolo 5 Caso studio 2 Il Corriere della Sera 5.1 Il Caso Raggi e il Caso Spelacchio 5.2 Certificazioni ADS e trend negativo 5.3 La svolta di Cairo, oppure no? Capitolo 6 Caso studio 3 Il Fatto Quotidiano 6.1 Il “Caso Salvini” e i commenti in calce Capitolo 7 Caso studio 4 La verità 7.1 Sul nuovo giornalismo a destra 7.2 La pagina Facebook di Salvini Capitolo 8 Caso studio 5 Il problema Rai 8.1 Gli anni del renzismo e il “Caso Fazio” 8.2 Rai: lottizzazione senza fine Capitolo 9 Caso studio 6 Gli altri players editoriali 9.1 L’impero berlusconiano e il serpente che si morde la coda 9.2 Cairo Communication, l’editore puro? 9.2 Avvenire e gli interessi di Dio in terra 9.2 Il Gruppo Caltagirone Capitolo 10 Sull’emergenza mediatica in Italia: il problema socio-economico 10.1 I contributi all’editoria 10.2 Alcune interrogazioni di base 10.3 Intermediazione e disintermediazione 10.4 Stampa di regime e censura 10.5 Il falso spettro del populismo Capitolo 11 Sull’emergenza mediatica in Italia: il problema culturale e deontologico 11.1 Le associazioni culturali: beata ignoranza! 11.2 La censura e il mobbing 11.3 Baroni e mercanti di verità 11.4 Dalla notizia circolare alle marchette 11.5 Dubbi ontologici arcani Capitolo 12 Chi ha ucciso il giornalismo italiano? 12.2 Il giallo e gli indizi neppure troppo nascosti 12.3 Come Poirot sull’Orient Express 12.4 Codice etico della vita italiana (1921) 12.5 Dénouement Postfazione Appendici 1. Quotidiani italiani 2015-2016: tiratura, diffusione cartacea, diffusione digitale 2. Quotidiani nazionali e locali del Gruppo GEDI 3. Quotidiani e periodici del Gruppo RCS 4. Informativa ADS Dati Certificati 2016 5. Informativa ADS Dati Certificati 2017 6. Scene dal giornalismo italiano Nota bibliografica Biografia Libri di Rina Brundu
Rina Brundu – Scrittrice italiana, vive in Irlanda. Ha pubblicato i primi racconti nel periodo universitario. Il romanzo d’esordio, un giallo classico, è stato inserito nella lista dei 100 libri gialli italiani da leggere. Le sue regole per il giallo sono apparse in numerosi giornali, riviste, siti, e sono state tradotte in diverse lingue, così come i suoi saggi e gli articoli. In qualità di editrice ha coordinato convegni, organizzato premi letterari, ha pubblicato studi universitari, raccolte poetiche e l’opera omnia del linguista e glottologo Massimo Pittau, con cui ha da tempo stabilito un sodalizio lavorativo e umano. Negli ultimi anni ha scritto diversi saggi critici, ha sviluppato un forte interesse per le tematiche e le investigazioni filosofiche, e si è impegnata sul fronte politico soprattutto attraverso una forte attività di blogging. Anima il magazine multilingue www.rinabrundu.com.
Venerati maestri. Sul giornalismo delle probabilità. O dello wishful thinking di un Eugenio Scalfari schrödingeriano contro Salvini.
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Fanno cagare. Fanno vomitare. Se esistesse un dio del giornalismo li avrebbe già infilzati dal primo all’ultimo con le sue saette.
“Repubblica” pur di non dar soddisfazione a una giornata storica per l’Italia, qual è stata quella dell’accordo con la Cina siglato senza padrini provenienti da un qualsiasi continente, si inventa il maxi titolo “Ius soli, la sfida del PD”, dove l’eroe di giornata è quel Del Rio servetto “ora e per sempre” del peggior politicante che abbia mai retto le sorti della nostra patria dai tempi di Caligola (e a questo proposito vorrei precisare che a mio avviso noi abbiamo avuto senatori ben peggiori del suo cavallo seduti nel nostro Parlamento, li abbiamo ancora).
Insomma, la macchina mediatica renzusconica, di nuovo a testate unificate, batte contro quel Luigi Di Maio che non solo ha pienamente dimostrato di saper gestire le cose di suo, ma per dati versi li ha presi pure per il culo alla grande codesti pontificatori di matrice analogico-scalfariana, dato che dando contro all’accordo italo-cinese li ha costretti, almeno per qualche momento, a dar contro al “valore” che incensano di più: quello pecunario!
Grande Luigi Di Maio, così si fa, così si cambia l’Italia, con determinazione e onestà! (1)
Rina Brundu
(1) Mi scuso con eventuali elettori PDR, e/o giornalisti, costretti a leggere questa parola in questo post… lì per lì non sono riuscita a scovare un sinonimo meno villano per la loro anima.
Per saperne di più sul perché il giornalismo italiano è ridotto così, o sulla battaglia di Repubblica contro Luigi Di Maio, segnalo il sottostante studio…
Un morto scomodo e una pletora di potenziali assassini sono i protagonisti di un mistero atipico che per essere risolto dovrà necessariamente farsi viaggio di studio e di conoscenza. Solo partendo dalle origini del giornalismo, dalla nascita dei primi quotidiani italiani, passando per la “Guerra dei venti anni”, l’analisi dei rapporti internazionali sul livello di libertà di stampa in Italia, l’arrivo del giornalismo online, la presentazione di alcuni casi-studio, sarà infatti possibile una attenta lettura della scena del crimine, raccogliere gli indizi e stringere il cerchio intorno al colpevole. Chi ha ucciso il giornalismo italiano? Come in ogni giallo che si rispetti la risposta a questo quesito non sarà affatto scontata, né sufficiente a fugare il dubbio: e se si fosse sbagliato tutto, sin dall’inizio?
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Epitaffio Capitolo 1 Venerati maestri e soliti stronzi: le origini 1.1 In principio, c’era Gutenberg… 1.2 1976, nasce la Repubblica di Eugenio Scalfari 1.3 Gli anni 90 e Mani pulite 1.4 La guerra dei venti anni 1.5 Berlusconi: “L’Italia è il Paese che amo” 1.6 Quelli di Capalbio 1.7 La rivoluzione digitale Capitolo 2 I rapporti internazionali sulla libertà di stampa 2.1 1960 1995 Lo studio di Raymond B. Nixon e la lettera dell’IPI al ministro Mancuso 2.2 Freedom House Il rapporto 2002 2.3 Freedom House Il rapporto 2004: l’Italia diventa uno Stato PARTLY FREE 2.4 Freedom House Il rapporto 2014 2.5 Freedom House Il rapporto 2015 2.6 Il rapporto 2016 della Freedom House: reticenza? 2.7 Freedom House Il rapporto 2017 2.8 2013-2018. I rapporti di Reporters sans frontières Capitolo 3 2014-2018: dal governo Renzi al Salvimaio 3.1 La XVII legislatura, l’intoccabile e la congiura del silenzio 3.2 Il Caso Alessandro Di Battista e il risveglio della “coscienza” giornalistica in Italia Capitolo 4 La crisi e il giornalismo online 4.1 La crisi nelle vendite 4.2 Dal giornalismo al giornalismo online 4.3 Il problema della credibilità 4.4 Caso studio 1 Repubblica vs Luigi Di Maio Capitolo 5 Caso studio 2 Il Corriere della Sera 5.1 Il Caso Raggi e il Caso Spelacchio 5.2 Certificazioni ADS e trend negativo 5.3 La svolta di Cairo, oppure no? Capitolo 6 Caso studio 3 Il Fatto Quotidiano 6.1 Il “Caso Salvini” e i commenti in calce Capitolo 7 Caso studio 4 La verità 7.1 Sul nuovo giornalismo a destra 7.2 La pagina Facebook di Salvini Capitolo 8 Caso studio 5 Il problema Rai 8.1 Gli anni del renzismo e il “Caso Fazio” 8.2 Rai: lottizzazione senza fine Capitolo 9 Caso studio 6 Gli altri players editoriali 9.1 L’impero berlusconiano e il serpente che si morde la coda 9.2 Cairo Communication, l’editore puro? 9.2 Avvenire e gli interessi di Dio in terra 9.2 Il Gruppo Caltagirone Capitolo 10 Sull’emergenza mediatica in Italia: il problema socio-economico 10.1 I contributi all’editoria 10.2 Alcune interrogazioni di base 10.3 Intermediazione e disintermediazione 10.4 Stampa di regime e censura 10.5 Il falso spettro del populismo Capitolo 11 Sull’emergenza mediatica in Italia: il problema culturale e deontologico 11.1 Le associazioni culturali: beata ignoranza! 11.2 La censura e il mobbing 11.3 Baroni e mercanti di verità 11.4 Dalla notizia circolare alle marchette 11.5 Dubbi ontologici arcani Capitolo 12 Chi ha ucciso il giornalismo italiano? 12.2 Il giallo e gli indizi neppure troppo nascosti 12.3 Come Poirot sull’Orient Express 12.4 Codice etico della vita italiana (1921) 12.5 Dénouement Postfazione Appendici 1. Quotidiani italiani 2015-2016: tiratura, diffusione cartacea, diffusione digitale 2. Quotidiani nazionali e locali del Gruppo GEDI 3. Quotidiani e periodici del Gruppo RCS 4. Informativa ADS Dati Certificati 2016 5. Informativa ADS Dati Certificati 2017 6. Scene dal giornalismo italiano Nota bibliografica Biografia Libri di Rina Brundu
Rina Brundu – Scrittrice italiana, vive in Irlanda. Ha pubblicato i primi racconti nel periodo universitario. Il romanzo d’esordio, un giallo classico, è stato inserito nella lista dei 100 libri gialli italiani da leggere. Le sue regole per il giallo sono apparse in numerosi giornali, riviste, siti, e sono state tradotte in diverse lingue, così come i suoi saggi e gli articoli. In qualità di editrice ha coordinato convegni, organizzato premi letterari, ha pubblicato studi universitari, raccolte poetiche e l’opera omnia del linguista e glottologo Massimo Pittau, con cui ha da tempo stabilito un sodalizio lavorativo e umano. Negli ultimi anni ha scritto diversi saggi critici, ha sviluppato un forte interesse per le tematiche e le investigazioni filosofiche, e si è impegnata sul fronte politico soprattutto attraverso una forte attività di blogging. Anima il magazine multilingue www.rinabrundu.com.
Venerati maestri. Il caso Cina. Prima accusavano Di Maio di essere il servetto di Salvini, ora pur di dargli addosso scaricano la vocazione arrivista: sarà perché Jinping non ha regalato rolex?
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Nei giorni in cui mi stavo occupando del mio studio sul giornalismo italiano guardai anche alla pagina Facebook di Salvini. Ho visto adesso che da quel tempo i “likes” sono ulteriormente aumentati e hanno superato i tre milioni e mezzo. Benché ignorata dai giornaloni (che nel frattempo perdono quota), questa bacheca è, a mio avviso, un valido esempio del nuovo percorso intrapreso dal mondo dell’informazione, un percorso che a suo tempo porterà a modelli giornalistici nuovi, modelli che al momento non siamo neppure in grado di immaginare. RB
Estratto da…
7.2 La pagina Facebook di Salvini
Non si tratta di un giornale o di un sito come li abbiamo sempre intesi, vive scevro da ogni modello redazionale proposto dal giornalismo tradizionale, ma se per giornalismo intendiamo anche la possibilità di informare (altra cosa è la vocazione a informare che è la base su cui poggia la ragion d’esistere del mestiere), è indubbio che non si possa ignorare a priori la capacità giornalistica e di influenza politica che può mettere in campo l’editoria moderna, l’editoria digitale.
Con i suoi milioni di contatti, gli oltre 3.400.000 likes, la pagina Facebook di Matteo Salvini, leader della Lega, l’attuale partito di maggioranza relativa, modellandosi sul prototipo che fu il sito beppegrillo.it, il quale determinò la creazione del M5S, il secondo partito italiano, è diventato il vero punto di riferimento informativo per gli elettori della destra moderata, e sta alla base della scalata del suo proprietario verso la cima della piramide politica. Questa creazione social è teoricamente in grado di ingaggiare lo stesso numero di utenti dei primi due giornali italiani, come dimostrano i numeri messi a confronto[1]. Insomma, la sua potenza mediatica non dovrebbe essere sminuita, come amano fare le redazioni dei giornali tradizionali, perché è quella pagina, o prima pagina, la casa-madre che determina tante delle vicende politiche che loro vorrebbero interpretare.
Caratteristica prima di questi giornali online o pagine virtuali è un linguaggio raramente politically-correct, liberato da qualsiasi costrizione formale e/o grammaticale, moderno, irriverente, teso a titillare la pancia del lettore e del possibile elettore, ma proprio per questo, in tempi di crisi economica, di crisi ideologica, di crisi identitarie, personali e nazionali, quanto mai efficace, specialmente in occasione dei diversi appuntamenti elettorali.
Per i giornalisti di vecchia scuola, spaesati davanti all’universo virtuale in esplosione, in dati casi persino impossibilitati a comprenderlo, i redattori di queste pagine, loro giovani colleghi, sono spesso e volentieri i nuovi mostri partoriti dall’ennesimo sonno della ragione, ma in realtà sono solo un’altra spia della Storia che diviene, e che, a volte con un sadismo esagerato, mostra tutti i limiti intrinseci nell’antico mestiere che fu di Hemingway.
L’avvertimento della “Storia” resta comunque chiaro e sarebbe sbagliato ignorarlo: il mondo cambia e chi non cambia con lui è destinato a perire. Il ciclo darwiniano vale dunque anche per il giornalismo e per i giornalisti, soprattutto per coloro che, tra quelli, si considerano, a torto o a ragione, inamovibili e intoccabili “venerati maestri”!
[1] Cfr. Cap.6
Continua la lettura….
Un morto scomodo e una pletora di potenziali assassini sono i protagonisti di un mistero atipico che per essere risolto dovrà necessariamente farsi viaggio di studio e di conoscenza. Solo partendo dalle origini del giornalismo, dalla nascita dei primi quotidiani italiani, passando per la “Guerra dei venti anni”, l’analisi dei rapporti internazionali sul livello di libertà di stampa in Italia, l’arrivo del giornalismo online, la presentazione di alcuni casi-studio, sarà infatti possibile una attenta lettura della scena del crimine, raccogliere gli indizi e stringere il cerchio intorno al colpevole. Chi ha ucciso il giornalismo italiano? Come in ogni giallo che si rispetti la risposta a questo quesito non sarà affatto scontata, né sufficiente a fugare il dubbio: e se si fosse sbagliato tutto, sin dall’inizio?
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Epitaffio Capitolo 1 Venerati maestri e soliti stronzi: le origini 1.1 In principio, c’era Gutenberg… 1.2 1976, nasce la Repubblica di Eugenio Scalfari 1.3 Gli anni 90 e Mani pulite 1.4 La guerra dei venti anni 1.5 Berlusconi: “L’Italia è il Paese che amo” 1.6 Quelli di Capalbio 1.7 La rivoluzione digitale Capitolo 2 I rapporti internazionali sulla libertà di stampa 2.1 1960 1995 Lo studio di Raymond B. Nixon e la lettera dell’IPI al ministro Mancuso 2.2 Freedom House Il rapporto 2002 2.3 Freedom House Il rapporto 2004: l’Italia diventa uno Stato PARTLY FREE 2.4 Freedom House Il rapporto 2014 2.5 Freedom House Il rapporto 2015 2.6 Il rapporto 2016 della Freedom House: reticenza? 2.7 Freedom House Il rapporto 2017 2.8 2013-2018. I rapporti di Reporters sans frontières Capitolo 3 2014-2018: dal governo Renzi al Salvimaio 3.1 La XVII legislatura, l’intoccabile e la congiura del silenzio 3.2 Il Caso Alessandro Di Battista e il risveglio della “coscienza” giornalistica in Italia Capitolo 4 La crisi e il giornalismo online 4.1 La crisi nelle vendite 4.2 Dal giornalismo al giornalismo online 4.3 Il problema della credibilità 4.4 Caso studio 1 Repubblica vs Luigi Di Maio Capitolo 5 Caso studio 2 Il Corriere della Sera 5.1 Il Caso Raggi e il Caso Spelacchio 5.2 Certificazioni ADS e trend negativo 5.3 La svolta di Cairo, oppure no? Capitolo 6 Caso studio 3 Il Fatto Quotidiano 6.1 Il “Caso Salvini” e i commenti in calce Capitolo 7 Caso studio 4 La verità 7.1 Sul nuovo giornalismo a destra 7.2 La pagina Facebook di Salvini Capitolo 8 Caso studio 5 Il problema Rai 8.1 Gli anni del renzismo e il “Caso Fazio” 8.2 Rai: lottizzazione senza fine Capitolo 9 Caso studio 6 Gli altri players editoriali 9.1 L’impero berlusconiano e il serpente che si morde la coda 9.2 Cairo Communication, l’editore puro? 9.2 Avvenire e gli interessi di Dio in terra 9.2 Il Gruppo Caltagirone Capitolo 10 Sull’emergenza mediatica in Italia: il problema socio-economico 10.1 I contributi all’editoria 10.2 Alcune interrogazioni di base 10.3 Intermediazione e disintermediazione 10.4 Stampa di regime e censura 10.5 Il falso spettro del populismo Capitolo 11 Sull’emergenza mediatica in Italia: il problema culturale e deontologico 11.1 Le associazioni culturali: beata ignoranza! 11.2 La censura e il mobbing 11.3 Baroni e mercanti di verità 11.4 Dalla notizia circolare alle marchette 11.5 Dubbi ontologici arcani Capitolo 12 Chi ha ucciso il giornalismo italiano? 12.2 Il giallo e gli indizi neppure troppo nascosti 12.3 Come Poirot sull’Orient Express 12.4 Codice etico della vita italiana (1921) 12.5 Dénouement Postfazione Appendici 1. Quotidiani italiani 2015-2016: tiratura, diffusione cartacea, diffusione digitale 2. Quotidiani nazionali e locali del Gruppo GEDI 3. Quotidiani e periodici del Gruppo RCS 4. Informativa ADS Dati Certificati 2016 5. Informativa ADS Dati Certificati 2017 6. Scene dal giornalismo italiano Nota bibliografica Biografia Libri di Rina Brundu
Rina Brundu – Scrittrice italiana, vive in Irlanda. Ha pubblicato i primi racconti nel periodo universitario. Il romanzo d’esordio, un giallo classico, è stato inserito nella lista dei 100 libri gialli italiani da leggere. Le sue regole per il giallo sono apparse in numerosi giornali, riviste, siti, e sono state tradotte in diverse lingue, così come i suoi saggi e gli articoli. In qualità di editrice ha coordinato convegni, organizzato premi letterari, ha pubblicato studi universitari, raccolte poetiche e l’opera omnia del linguista e glottologo Massimo Pittau, con cui ha da tempo stabilito un sodalizio lavorativo e umano. Negli ultimi anni ha scritto diversi saggi critici, ha sviluppato un forte interesse per le tematiche e le investigazioni filosofiche, e si è impegnata sul fronte politico soprattutto attraverso una forte attività di blogging. Anima il magazine multilingue www.rinabrundu.com.
Venerati maestri. Chi ha ucciso il giornalismo italiano? La pagina Facebook di Salvini (che adesso ha superato i 3.500.000 likes)
#Chi ha ucciso il giornalismo italiano?#disintermediazione#emergenza democratica#emergenza informazionale#Giornalismo#Giornalismo italiano#intermediazione#ipazia books#matteo salvini#Rina Brundu#Rosebud Arts Critique Journalism#scandali renzisti#Venerati maestri
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Ieri ho visto su Dagospia i dati delle vendite dei quotidiani italiani per il mese di gennaio 2019 (vedi screenshot pubblicato qui sopra). Sono i primi dati che vedo dopo la scrittura di Venerati maestri e confesso che gli stessi non mi sorprendono. Cioè non mi meraviglia né la crescita de “La verità” di Belpietro (non a caso Rosebud già in tempi non sospetti ha eletto questa pubblicazione miglior giornale del 2018), né la continuata decrescita del “Fatto”.
Quest’ultima notizia mi addolora perché il “Fatto” rappresenta il “buon giornalismo” a sinistra, ma i motivi che determinano questa decrescita sono pure chiari a mio modo di vedere. Da un lato, il “Fatto” farà la sua fortuna soprattutto online e dunque dovrebbero pensare ad organizzarsi in questo senso più presto che pria (al momento infatti il sito online è troppo povero per potersi dire una valida pedina informativa, servirebbe una ristrutturazione sostanziale, totale, adeguata ai tempi, soprattutto futuri), dall’altro è normale che un quotidiano “di denuncia” soffra nella circolazione presso i vecchi canali (sai quanta maggior visibilità avrebbe avuto Rosebud se si fosse limitato a fare il sito incensante, leccaculeggiante le ridicolissime velleità dei venerati maestri editoriali-scritturali-mediatici? Eppure mai, neppure per un istante, ho pensato di pr*******re il mio impegno d’intelletto a simili inutili glorie). Il “Fatto” però dovrebbe fregarsene e andare avanti per la sua strada tentando per quanto possibile di mantenere una linea deontologica valida: i risultati infatti arriveranno, nel giusto tempo ma arriveranno.
Di contro, continua davvero a stupirmi che veline informative come il “Corriere” e “Repubblica” continuino a vendere quotidianamente tra le 150000 e le 180000 copie, la questione non ha senso sotto mille prospettive, incluso il fatto che siam comunque una nazione decentemente alfabetizzata digitalmente. Certo, immagino che tante di quelle copie vengano acquistate da istituzioni, dalle stesse aziende che sovvenzionano quei giornali e da qualsiasi personaggio che, a qualsiasi titolo, si illuda di essere comparendo tra quelle pagine. Il redde-rationem però arriverà come è giusto che sia: dispiace tuttavia per quei professionisti che in questi anni hanno collaborato con simili pubblicazioni soprattutto quando seriamente determinati a fare il lavoro, ma vero è che non c’è nulla di più sporco della pr*********e dello spirito.
Non vi è nulla di più imperdonabile soprattuto quando si parla di giornalismo e del legittimo diritto di una comunità democratica sana ad essere correttamente informata.
Rina Brundu
Un morto scomodo e una pletora di potenziali assassini sono i protagonisti di un mistero atipico che per essere risolto dovrà necessariamente farsi viaggio di studio e di conoscenza. Solo partendo dalle origini del giornalismo, dalla nascita dei primi quotidiani italiani, passando per la “Guerra dei venti anni”, l’analisi dei rapporti internazionali sul livello di libertà di stampa in Italia, l’arrivo del giornalismo online, la presentazione di alcuni casi-studio, sarà infatti possibile una attenta lettura della scena del crimine, raccogliere gli indizi e stringere il cerchio intorno al colpevole. Chi ha ucciso il giornalismo italiano? Come in ogni giallo che si rispetti la risposta a questo quesito non sarà affatto scontata, né sufficiente a fugare il dubbio: e se si fosse sbagliato tutto, sin dall’inizio?
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Epitaffio Capitolo 1 Venerati maestri e soliti stronzi: le origini 1.1 In principio, c’era Gutenberg… 1.2 1976, nasce la Repubblica di Eugenio Scalfari 1.3 Gli anni 90 e Mani pulite 1.4 La guerra dei venti anni 1.5 Berlusconi: “L’Italia è il Paese che amo” 1.6 Quelli di Capalbio 1.7 La rivoluzione digitale Capitolo 2 I rapporti internazionali sulla libertà di stampa 2.1 1960 1995 Lo studio di Raymond B. Nixon e la lettera dell’IPI al ministro Mancuso 2.2 Freedom House Il rapporto 2002 2.3 Freedom House Il rapporto 2004: l’Italia diventa uno Stato PARTLY FREE 2.4 Freedom House Il rapporto 2014 2.5 Freedom House Il rapporto 2015 2.6 Il rapporto 2016 della Freedom House: reticenza? 2.7 Freedom House Il rapporto 2017 2.8 2013-2018. I rapporti di Reporters sans frontières Capitolo 3 2014-2018: dal governo Renzi al Salvimaio 3.1 La XVII legislatura, l’intoccabile e la congiura del silenzio 3.2 Il Caso Alessandro Di Battista e il risveglio della “coscienza” giornalistica in Italia Capitolo 4 La crisi e il giornalismo online 4.1 La crisi nelle vendite 4.2 Dal giornalismo al giornalismo online 4.3 Il problema della credibilità 4.4 Caso studio 1 Repubblica vs Luigi Di Maio Capitolo 5 Caso studio 2 Il Corriere della Sera 5.1 Il Caso Raggi e il Caso Spelacchio 5.2 Certificazioni ADS e trend negativo 5.3 La svolta di Cairo, oppure no? Capitolo 6 Caso studio 3 Il Fatto Quotidiano 6.1 Il “Caso Salvini” e i commenti in calce Capitolo 7 Caso studio 4 La verità 7.1 Sul nuovo giornalismo a destra 7.2 La pagina Facebook di Salvini Capitolo 8 Caso studio 5 Il problema Rai 8.1 Gli anni del renzismo e il “Caso Fazio” 8.2 Rai: lottizzazione senza fine Capitolo 9 Caso studio 6 Gli altri players editoriali 9.1 L’impero berlusconiano e il serpente che si morde la coda 9.2 Cairo Communication, l’editore puro? 9.2 Avvenire e gli interessi di Dio in terra 9.2 Il Gruppo Caltagirone Capitolo 10 Sull’emergenza mediatica in Italia: il problema socio-economico 10.1 I contributi all’editoria 10.2 Alcune interrogazioni di base 10.3 Intermediazione e disintermediazione 10.4 Stampa di regime e censura 10.5 Il falso spettro del populismo Capitolo 11 Sull’emergenza mediatica in Italia: il problema culturale e deontologico 11.1 Le associazioni culturali: beata ignoranza! 11.2 La censura e il mobbing 11.3 Baroni e mercanti di verità 11.4 Dalla notizia circolare alle marchette 11.5 Dubbi ontologici arcani Capitolo 12 Chi ha ucciso il giornalismo italiano? 12.2 Il giallo e gli indizi neppure troppo nascosti 12.3 Come Poirot sull’Orient Express 12.4 Codice etico della vita italiana (1921) 12.5 Dénouement Postfazione Appendici 1. Quotidiani italiani 2015-2016: tiratura, diffusione cartacea, diffusione digitale 2. Quotidiani nazionali e locali del Gruppo GEDI 3. Quotidiani e periodici del Gruppo RCS 4. Informativa ADS Dati Certificati 2016 5. Informativa ADS Dati Certificati 2017 6. Scene dal giornalismo italiano Nota bibliografica Biografia Libri di Rina Brundu
Rina Brundu – Scrittrice italiana, vive in Irlanda. Ha pubblicato i primi racconti nel periodo universitario. Il romanzo d’esordio, un giallo classico, è stato inserito nella lista dei 100 libri gialli italiani da leggere. Le sue regole per il giallo sono apparse in numerosi giornali, riviste, siti, e sono state tradotte in diverse lingue, così come i suoi saggi e gli articoli. In qualità di editrice ha coordinato convegni, organizzato premi letterari, ha pubblicato studi universitari, raccolte poetiche e l’opera omnia del linguista e glottologo Massimo Pittau, con cui ha da tempo stabilito un sodalizio lavorativo e umano. Negli ultimi anni ha scritto diversi saggi critici, ha sviluppato un forte interesse per le tematiche e le investigazioni filosofiche, e si è impegnata sul fronte politico soprattutto attraverso una forte attività di blogging. Anima il magazine multilingue www.rinabrundu.com.
Venerati maestri. Chi ha ucciso il giornalismo italiano? I dati delle vendite di gennaio 2019. Un’analisi
#Chi ha ucciso il giornalismo italiano?#dati vendite quotidiani gennaio 2019#disintermediazione#emergenza democratica#emergenza informazionale#Giornalismo#giornalismo italiano#intermediazione#ipazia books#Rina Brundu#Rosebud Arts Critique Journalism#scandali renzisti#Venerati maestri
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Estratto da…
10.3 Intermediazione e disintermediazione
Cos’è un giornale? Cos’è il giornalismo? Cos’è una “linea editoriale”? Queste domande me le sono fatte in maniera seria solo in tempi recenti, così come solo in tempi recenti ho ragionato sulla validità delle risposte che mi davo in precedenza. Durante gli anni dell’università le mie riflessioni in merito a questi argomenti sarebbero state condite di tanta idealità, di frasi costruite inneggianti alla libertà di stampa, al diritto di informazione, alla crescita culturale. Solo adesso mi rendo conto che ero indottrinata, non lo sapevo, ma lo ero. E da buona adepta non mancavo di acquistare regolarmente, quotidianamente, le bibbie che giustificavano l’esistenza di tali dottrine, che le celebravano. Non mancavo neppure di farmi sciacquare il cervello su ogni argomento possibile e immaginabile dai pareri più o meno interessati di emeriti sconosciuti, spesso mancanti della formazione necessaria, o di una qualsiasi valida esperienza lavorativa o di vita.
La chiamavano intermediazione giornalistica.
In tempi di disintermediazione, quali sono questi tempi digitali, le mie risposte a quei quesiti sono decisamente cambiate. Nel mio orizzonte privato, il celebrato costrutto “linea editoriale”, non è più una visione del mondo che, insieme a tante altre visioni del mondo, permette la creazione di una società libera, plurinformata, in cui il consenso politico e civile viene espresso dalla popolazione a ragion veduta. No, adesso nel mio orizzonte d’attesa un giornale e la sua “linea editoriale” sono semplicemente una espressione pubblica di una mission strategica privata che uno o più gruppi imprenditoriali vogliono imporre su un segmento più o meno significativo di popolazione allo scopo di guidarne il cammino, anche politico. Visti da questa prospettiva utilitaristica, anche tanti aspetti relativi al mondo dei media e dell’informazione, in precedenza indecifrabili, acquistano un nuovo senso ai miei occhi. Comprendo, per esempio, perché le notizie su alcune inchieste della magistratura, inchieste spesso riguardanti i padroni dei giganti editoriali, o personaggi a loro legati a vario titolo, anche politicamente, scompaiano all’istante dalle pagine dei giornali, o dai servizi televisivi. Comprendo perché a fare-notizia siano sempre fattoidi minimali e gossipari che interessano ai meno e non infastidiscono nessuno; comprendo perché drammatici fatti di cronaca diventino specchietti per le allodole; comprendo perché il tempo-che-fa reclama ore di visibilità sulle televisioni. Comprendo cioè che la tanto celebrata intermediazione giornalistica è diventata nel tempo solo un modo scaltro per sollevare una cortina di fumo molto pesante, insuperabile, invalicabile, a protezione di interessi che il più delle volte nulla hanno a che vedere con le tematiche informative e culturali.
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Un morto scomodo e una pletora di potenziali assassini sono i protagonisti di un mistero atipico che per essere risolto dovrà necessariamente farsi viaggio di studio e di conoscenza. Solo partendo dalle origini del giornalismo, dalla nascita dei primi quotidiani italiani, passando per la “Guerra dei venti anni”, l’analisi dei rapporti internazionali sul livello di libertà di stampa in Italia, l’arrivo del giornalismo online, la presentazione di alcuni casi-studio, sarà infatti possibile una attenta lettura della scena del crimine, raccogliere gli indizi e stringere il cerchio intorno al colpevole. Chi ha ucciso il giornalismo italiano? Come in ogni giallo che si rispetti la risposta a questo quesito non sarà affatto scontata, né sufficiente a fugare il dubbio: e se si fosse sbagliato tutto, sin dall’inizio?
Indice
Epitaffio Capitolo 1 Venerati maestri e soliti stronzi: le origini 1.1 In principio, c’era Gutenberg… 1.2 1976, nasce la Repubblica di Eugenio Scalfari 1.3 Gli anni 90 e Mani pulite 1.4 La guerra dei venti anni 1.5 Berlusconi: “L’Italia è il Paese che amo” 1.6 Quelli di Capalbio 1.7 La rivoluzione digitale Capitolo 2 I rapporti internazionali sulla libertà di stampa 2.1 1960 1995 Lo studio di Raymond B. Nixon e la lettera dell’IPI al ministro Mancuso 2.2 Freedom House Il rapporto 2002 2.3 Freedom House Il rapporto 2004: l’Italia diventa uno Stato PARTLY FREE 2.4 Freedom House Il rapporto 2014 2.5 Freedom House Il rapporto 2015 2.6 Il rapporto 2016 della Freedom House: reticenza? 2.7 Freedom House Il rapporto 2017 2.8 2013-2018. I rapporti di Reporters sans frontières Capitolo 3 2014-2018: dal governo Renzi al Salvimaio 3.1 La XVII legislatura, l’intoccabile e la congiura del silenzio 3.2 Il Caso Alessandro Di Battista e il risveglio della “coscienza” giornalistica in Italia Capitolo 4 La crisi e il giornalismo online 4.1 La crisi nelle vendite 4.2 Dal giornalismo al giornalismo online 4.3 Il problema della credibilità 4.4 Caso studio 1 Repubblica vs Luigi Di Maio Capitolo 5 Caso studio 2 Il Corriere della Sera 5.1 Il Caso Raggi e il Caso Spelacchio 5.2 Certificazioni ADS e trend negativo 5.3 La svolta di Cairo, oppure no? Capitolo 6 Caso studio 3 Il Fatto Quotidiano 6.1 Il “Caso Salvini” e i commenti in calce Capitolo 7 Caso studio 4 La verità 7.1 Sul nuovo giornalismo a destra 7.2 La pagina Facebook di Salvini Capitolo 8 Caso studio 5 Il problema Rai 8.1 Gli anni del renzismo e il “Caso Fazio” 8.2 Rai: lottizzazione senza fine Capitolo 9 Caso studio 6 Gli altri players editoriali 9.1 L’impero berlusconiano e il serpente che si morde la coda 9.2 Cairo Communication, l’editore puro? 9.2 Avvenire e gli interessi di Dio in terra 9.2 Il Gruppo Caltagirone Capitolo 10 Sull’emergenza mediatica in Italia: il problema socio-economico 10.1 I contributi all’editoria 10.2 Alcune interrogazioni di base 10.3 Intermediazione e disintermediazione 10.4 Stampa di regime e censura 10.5 Il falso spettro del populismo Capitolo 11 Sull’emergenza mediatica in Italia: il problema culturale e deontologico 11.1 Le associazioni culturali: beata ignoranza! 11.2 La censura e il mobbing 11.3 Baroni e mercanti di verità 11.4 Dalla notizia circolare alle marchette 11.5 Dubbi ontologici arcani Capitolo 12 Chi ha ucciso il giornalismo italiano? 12.2 Il giallo e gli indizi neppure troppo nascosti 12.3 Come Poirot sull’Orient Express 12.4 Codice etico della vita italiana (1921) 12.5 Dénouement Postfazione Appendici 1. Quotidiani italiani 2015-2016: tiratura, diffusione cartacea, diffusione digitale 2. Quotidiani nazionali e locali del Gruppo GEDI 3. Quotidiani e periodici del Gruppo RCS 4. Informativa ADS Dati Certificati 2016 5. Informativa ADS Dati Certificati 2017 6. Scene dal giornalismo italiano Nota bibliografica Biografia Libri di Rina Brundu
Rina Brundu – Scrittrice italiana, vive in Irlanda. Ha pubblicato i primi racconti nel periodo universitario. Il romanzo d’esordio, un giallo classico, è stato inserito nella lista dei 100 libri gialli italiani da leggere. Le sue regole per il giallo sono apparse in numerosi giornali, riviste, siti, e sono state tradotte in diverse lingue, così come i suoi saggi e gli articoli. In qualità di editrice ha coordinato convegni, organizzato premi letterari, ha pubblicato studi universitari, raccolte poetiche e l’opera omnia del linguista e glottologo Massimo Pittau, con cui ha da tempo stabilito un sodalizio lavorativo e umano. Negli ultimi anni ha scritto diversi saggi critici, ha sviluppato un forte interesse per le tematiche e le investigazioni filosofiche, e si è impegnata sul fronte politico soprattutto attraverso una forte attività di blogging. Anima il magazine multilingue www.rinabrundu.com.
Venerati maestri. Chi ha ucciso il giornalismo italiano? Intermediazione e disintermediazione
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Estratto da…
3.1 La XVII legislatura, l’intoccabile e la congiura del silenzio
“La legislatura che sta per essere sciolta (si spera nell’acido) è stata una delle peggiori della storia repubblicana”[1]. Così scrisse Marco Travaglio, direttore de Il Fatto Quotidiano, nel dicembre 2017. In realtà, anche per quanto riguarda la libertà di stampa in Italia, soprattutto nel triennio 2014-2016, quella legislatura fu qualcosa di più di un’altra età politica italiana da dimenticare. Fu in quegli anni, infatti, che l’asticella dell’ingerenza governativa sul sistema informativo venne alzata come mai era avvenuto prima, sia per quanto riguarda la carta stampata[2], sia relativamente ai contenuti dei programmi televisivi in onda sulle reti pubbliche. Ma perché il governo Renzi ha potuto inaugurare una tipologia di interferenza politica così forte sugli organi di informazione? Essenzialmente per le stesse ragioni per cui Silvio Berlusconi può fare politica sulle sue televisioni senza dover renderne conto più a nessuno: perché in Italia il giornalismo ha smesso da tempo di essere l’watchdog di cui parlava il direttore dell’IPI Fritz nella sua risentita lettera al ministro Mancuso[3], e più che il cane da guardia della politica è piuttosto diventato il suo chihuahua da accompagnamento, da salotto, meglio se televisivo.
In Italia il giornalismo degli ultimi 50 anni, nella maggior parte dei casi, ha sempre fatto gli interessi del padrone, dell’editore, che da questo punto di vista ha preso il posto della fazione politica degli inizi del secolo XX. Infine, nel nostro Paese non esistono authority o organizzazioni dei giornalisti e della stampa davvero indipendenti, dato che, il più delle volte, si risolvono nell’essere associazioni di varia natura gestite da giornalisti che, chi prima chi dopo, hanno lavorato o potranno lavorare per i soliti editori. Nel caso del renzismo, la situazione era aggravata dall’essere Matteo Renzi il segretario del Partito Democratico, cioè di un partito che si presentava come l’erede naturale del più grande partito comunista europeo, il PCI. Come abbiamo già visto, il millantato ideale di superiorità culturale che l’ideologia di sinistra si è sempre portata dietro, ha fatto sì che nel tempo si creasse una sorta di corazzata di tipo intellettualistico a sostegno della sua azione politica. Si trattava, e si tratta, di una visione a suo modo patologica che, alla maniera delle antiche sette, porta a classificare il mondo secondo un istinto manicheo: c’è il bianco e c’è il nero, c’è il bene e c’è il male. In un simile universo non c’è mai spazio per il grigio o la negoziazione: o sei mio amico o sei mio nemico. Ancor più importante diventa la mission da compiere, il marciare compatti: tutto pur di difendere il partito e i compagni! Se poi, col passare degli anni, dei decenni, i compagni smettono anche di essere dei campagnoli illetterati alla Peppone, e cominciano a vestire trendy, in giacca e cravatta, tendono a diventare manager d’azienda, a infiltrarsi nei consigli di amministrazione di quasi tutte le banche italiane, la situazione si complica, gli interessi si fondono e si confondono. In particolar modo è la questione del maggior bene pubblico a confondersi con l’interesse privato, anche quando l’interesse privato è di tipo editoriale e tra le attività gestite vi è quella giornalistica, cioè una professionalità idealmente fatta esistere da un mestiere che dovrebbe nutrirsi di etica e di deontologia, soprattutto di etica e di deontologia.
Tra gli anni 2014 e 2016 il cosiddetto circolo mediatico era così politicamente coinvolto che buona parte dei giornali e dei giornalisti gravitavano (gravitano ancora) nell’area PD…
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[1] Da Mai più di Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2017.
[2] Cfr. 2.6
[3] Cfr. 2.1
Un morto scomodo e una pletora di potenziali assassini sono i protagonisti di un mistero atipico che per essere risolto dovrà necessariamente farsi viaggio di studio e di conoscenza. Solo partendo dalle origini del giornalismo, dalla nascita dei primi quotidiani italiani, passando per la “Guerra dei venti anni”, l’analisi dei rapporti internazionali sul livello di libertà di stampa in Italia, l’arrivo del giornalismo online, la presentazione di alcuni casi-studio, sarà infatti possibile una attenta lettura della scena del crimine, raccogliere gli indizi e stringere il cerchio intorno al colpevole. Chi ha ucciso il giornalismo italiano? Come in ogni giallo che si rispetti la risposta a questo quesito non sarà affatto scontata, né sufficiente a fugare il dubbio: e se si fosse sbagliato tutto, sin dall’inizio?
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Epitaffio Capitolo 1 Venerati maestri e soliti stronzi: le origini 1.1 In principio, c’era Gutenberg… 1.2 1976, nasce la Repubblica di Eugenio Scalfari 1.3 Gli anni 90 e Mani pulite 1.4 La guerra dei venti anni 1.5 Berlusconi: “L’Italia è il Paese che amo” 1.6 Quelli di Capalbio 1.7 La rivoluzione digitale Capitolo 2 I rapporti internazionali sulla libertà di stampa 2.1 1960 1995 Lo studio di Raymond B. Nixon e la lettera dell’IPI al ministro Mancuso 2.2 Freedom House Il rapporto 2002 2.3 Freedom House Il rapporto 2004: l’Italia diventa uno Stato PARTLY FREE 2.4 Freedom House Il rapporto 2014 2.5 Freedom House Il rapporto 2015 2.6 Il rapporto 2016 della Freedom House: reticenza? 2.7 Freedom House Il rapporto 2017 2.8 2013-2018. I rapporti di Reporters sans frontières Capitolo 3 2014-2018: dal governo Renzi al Salvimaio 3.1 La XVII legislatura, l’intoccabile e la congiura del silenzio 3.2 Il Caso Alessandro Di Battista e il risveglio della “coscienza” giornalistica in Italia Capitolo 4 La crisi e il giornalismo online 4.1 La crisi nelle vendite 4.2 Dal giornalismo al giornalismo online 4.3 Il problema della credibilità 4.4 Caso studio 1 Repubblica vs Luigi Di Maio Capitolo 5 Caso studio 2 Il Corriere della Sera 5.1 Il Caso Raggi e il Caso Spelacchio 5.2 Certificazioni ADS e trend negativo 5.3 La svolta di Cairo, oppure no? Capitolo 6 Caso studio 3 Il Fatto Quotidiano 6.1 Il “Caso Salvini” e i commenti in calce Capitolo 7 Caso studio 4 La verità 7.1 Sul nuovo giornalismo a destra 7.2 La pagina Facebook di Salvini Capitolo 8 Caso studio 5 Il problema Rai 8.1 Gli anni del renzismo e il “Caso Fazio” 8.2 Rai: lottizzazione senza fine Capitolo 9 Caso studio 6 Gli altri players editoriali 9.1 L’impero berlusconiano e il serpente che si morde la coda 9.2 Cairo Communication, l’editore puro? 9.2 Avvenire e gli interessi di Dio in terra 9.2 Il Gruppo Caltagirone Capitolo 10 Sull’emergenza mediatica in Italia: il problema socio-economico 10.1 I contributi all’editoria 10.2 Alcune interrogazioni di base 10.3 Intermediazione e disintermediazione 10.4 Stampa di regime e censura 10.5 Il falso spettro del populismo Capitolo 11 Sull’emergenza mediatica in Italia: il problema culturale e deontologico 11.1 Le associazioni culturali: beata ignoranza! 11.2 La censura e il mobbing 11.3 Baroni e mercanti di verità 11.4 Dalla notizia circolare alle marchette 11.5 Dubbi ontologici arcani Capitolo 12 Chi ha ucciso il giornalismo italiano? 12.2 Il giallo e gli indizi neppure troppo nascosti 12.3 Come Poirot sull’Orient Express 12.4 Codice etico della vita italiana (1921) 12.5 Dénouement Postfazione Appendici 1. Quotidiani italiani 2015-2016: tiratura, diffusione cartacea, diffusione digitale 2. Quotidiani nazionali e locali del Gruppo GEDI 3. Quotidiani e periodici del Gruppo RCS 4. Informativa ADS Dati Certificati 2016 5. Informativa ADS Dati Certificati 2017 6. Scene dal giornalismo italiano Nota bibliografica Biografia Libri di Rina Brundu
Rina Brundu – Scrittrice italiana, vive in Irlanda. Ha pubblicato i primi racconti nel periodo universitario. Il romanzo d’esordio, un giallo classico, è stato inserito nella lista dei 100 libri gialli italiani da leggere. Le sue regole per il giallo sono apparse in numerosi giornali, riviste, siti, e sono state tradotte in diverse lingue, così come i suoi saggi e gli articoli. In qualità di editrice ha coordinato convegni, organizzato premi letterari, ha pubblicato studi universitari, raccolte poetiche e l’opera omnia del linguista e glottologo Massimo Pittau, con cui ha da tempo stabilito un sodalizio lavorativo e umano. Negli ultimi anni ha scritto diversi saggi critici, ha sviluppato un forte interesse per le tematiche e le investigazioni filosofiche, e si è impegnata sul fronte politico soprattutto attraverso una forte attività di blogging. Anima il magazine multilingue www.rinabrundu.com.
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Chi ha ucciso il giornalismo italiano? Il caso-studio Repubblica e le spese “folli”…..
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Venerati maestri. Chi ha ucciso il giornalismo italiano? Il caso Fazio (e a ricordo di una data mirabile nella Storia repubblicana: il 4 marzo 2018).
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