#Caproni Novecento
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pier-carlo-universe · 5 days ago
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"Incontro: la poesia di Giorgio Caproni che svela l'istante". Recensione di Alessandria today
Un breve ma intenso viaggio nei versi di Giorgio Caproni, dove lo sguardo diventa l’essenza dell'incontro.
Un breve ma intenso viaggio nei versi di Giorgio Caproni, dove lo sguardo diventa l’essenza dell’incontro. Recensione: La potenza dell’attimo nell’opera di Caproni La poesia “Incontro” di Giorgio Caproni è un esempio di come il poeta riesca a condensare in pochi versi un momento fugace e renderlo eterno. Attraverso un linguaggio essenziale ma straordinariamente evocativo, Caproni cattura il…
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carmenvicinanza · 1 year ago
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Maria Luisa Spaziani
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Voglio la parola lancinante, assoluta, che cancelli scialbature di sempre.
Maria Luisa Spaziani, poeta e traduttrice candidata per tre volte al premio Nobel per la letteratura, nel 1990, nel 1992 e nel 1997, è stata docente universitaria, aforista, ha scritto critiche, articoli e condotto trasmissioni radiofoniche.
Nei suoi versi, sempre musicali, adoperava parole precise, quotidiane, senza artifici retorici.
Nata a Torino il 7 dicembre 1922 in un’agiata famiglia borghese, il padre era proprietario di un’azienda produttrice di macchinari per l’industria chimica e dolciaria.
A soli 19 anni ha fondato e diretto una rivista letteraria, Il Girasole, poi diventata Il Dado, che ospitava inediti di grandi nomi come Sandro Penna, Umberto Saba, Vasco Pratolini e Leonardo Sinisgalli. E, addirittura, anche un capitolo del romanzo Le onde che Virginia Woolf le aveva mandato prima di morire con la dedica autografa “alla piccola direttrice”.
Il suo amore per la Francia e la sua poetica è stato palesato già per il percorso di studi intrapreso, si era, infatti, laureata in Lingue all’Università di Torino con una tesi su Proust e la letteratura francese. In Francia, si è recata spesso, iniziando grazie a una borsa di studio nel 1953.
Aveva 25 anni, nel 1949 quando ha iniziato a scrivere poesie e conosciuto Eugenio Montale con cui ha coltivato un sodalizio intellettuale e una lunghissima amicizia fatta di assidue frequentazioni, quando vivevano nella stessa città, e di un fitto scambio epistolare quando erano distanti. 
A unirli era l’amore per la poesia, le letture comuni e la passione per il canto.
La prima raccolta di Maria Luisa Spaziani, intitolata Le acque del Sabato, venne pubblicata nel 1954 da Mondadori, nella prestigiosa collana Lo Specchio.
Successivamente ha insegnato francese in un liceo di Treviglio, a quel periodo risale la raccolta Luna lombarda del 1959 poi confluita in Utilità della memoria del 1966.
Per lungo tempo ha viaggiato da pendolare tra Roma e la Sicilia perché docente prima di tedesco e poi di francese all’Università di Messina.
In quegli anni ha curato volumi come Pierre de Ronsard fra gli astri della Pléiade (1972) e II teatro francese del Settecento (1974) e avuto una prolifica attività di traduttrice di autori e autrici come Jean Racine, Gustave Flaubert, André Gide, Marguerite Yourcenar, per citare qualche nome.
Nei viaggi all’estero ebbe modo di conoscere personalità di rilievo assoluto del Novecento letterario come Ezra Pound, Thomas Stearns Eliot e Jean-Paul Sartre.
Buona parte del libro di poesie L’occhio del ciclone, del 1970, era stato ispirato dai paesaggi del Sud, a cui sono seguite raccolte sempre più “diaristiche” e “impure” come Transito con catene (1977) e Geometria del disordine (1981) che si era aggiudicato il Premio Viareggio per la poesia.
È quasi narrativa anche La traversata dell’oasi, una raccolta di poesie d’amore che racconta le esperienze sentimentali di una vita.
Nel 1978 ha fondato, insieme a Mario Luzi e Giorgio Caproni, il Movimento Poesia, che alla morte di Montale è diventato Centro Internazionale Eugenio Montale e Premio Montale.
Negli anni 80 ha scritto e condotto alcuni programmi per Radio Rai.
Nel 1990, nell’intento di rinnovare la narrazione popolare in versi, ha scritto un poema in ottave dedicato a Giovanna d’Arco.
Ma è stato soprattutto con l’Epifania dell’alfabeto, pubblicato nel 1997, che ha ripercorso tutti i temi fondamentali della sua poesia, quasi come un reportage in versi: la memoria, il mare, la madre, l’amore, la poesia stessa.
Maria Luisa Spaziani ha scritto anche numerosi articoli, apparsi su riviste e quotidiani, saggi critici e una raccolta di racconti, La freccia, del 2000.
È stata presidente onoraria del Concorso L’anima del bosco e del Premio Internazionale Torino in Sintesi. Ha fatto a lungo parte della giuria del Premio letterario internazionale Giuseppe Tomasi di Lampedusa e del Premio Internazionale Mario Luzi.
Nel 2012 la sua carriera è stata onorata con la pubblicazione del Meridiano Mondadori dedicato alla sua opera poetica.
Si è spenta a Roma il 30 Giugno 2014, è stata tumulata nel Cimitero Monumentale del Verano.
Il suo archivio è conservato presso il Centro per gli studi sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia.
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cinquecolonnemagazine · 2 years ago
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Poeti moderni italiani: alla ricerca di un nuovo linguaggio
I poeti moderni italiani, e con moderni intendiamo quanti hanno scritto nel secolo scorso, hanno espresso stili molto diversi tra loro. Sintomo della grande vivacità del panorama poetico del Novecento. D'altronde non poteva essere che così per un secolo attraversato da due guerre mondiali e da profondi cambiamenti politici e culturali. Nella poesia del Novecento ritroviamo molte istanze tutte diverse tra loro: la sperimentazione linguistica che porta, tra l'altro, alla rottura con la metrica tradizionale; una forte componente soggettiva e introspettiva, attraverso la quale i poeti hanno esplorato i loro stati d'animo, le emozioni, le esperienze personali e la psicologia individuale; l'attenzione a problematiche sociali e l'impegno politico. Tutto questo supportato dalla ricerca di un nuovo linguaggio. Oggi accendiamo un piccolo faro su tre grandi poeti del Novecento: Giorgio Caproni, Mario Luzi e Alda Merini. Poeti moderni italiani: Giorgio Caproni Nato il 7 gennaio 1912 a Livorno e morto il 22 gennaio 1990 a Roma, Giorgio Caproni è considerato uno dei maggiori poeti italiani moderni. La sua carriera poetica ebbe inizio negli anni '30, ma la sua opera matura si sviluppò, appunto, negli anni '40 e '50, con la pubblicazione delle raccolte "Le città e la memoria" nel 1946 e "Il seme del piangere" nel 1956. Nel corso della sua vita, Caproni pubblicò altre importanti raccolte di poesie, come "Tutti i poeti sono giovani" nel 1973 e "Il sesto senso" nel 1984. Nei primi anni, è influenzato dal neorealismo e dalla poetica di Ungaretti, ma in seguito sviluppa uno stile personale caratterizzato da un linguaggio essenziale e una grande capacità di sintesi. La sua opera poetica è caratterizzata da una grande attenzione ai dettagli e da una riflessione acuta sulla condizione umana. Caproni esplora temi come il tempo, la memoria, l'amore, l'esistenza e la solitudine, cercando di dare un senso alle contraddizioni e alle complessità della vita. La sua scrittura è caratterizzata da un linguaggio essenziale, preciso e ricco di immagini evocative. Nonostante la sua grande maestria poetica, Caproni non godette di un grande successo commerciale durante la sua vita. Tuttavia, fu apprezzato e riconosciuto dalla critica letteraria, che lo considerava uno dei poeti più autentici e originali del suo tempo. Solo negli ultimi anni della sua vita ottenne un maggiore riconoscimento pubblico e diversi premi letterari, come il Premio Viareggio nel 1987 e il Premio Montale nel 1989. Oltre alla sua attività di poeta, Giorgio Caproni ha lavorato come traduttore, critico letterario e insegnante. Ha insegnato Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l'Università di Roma La Sapienza. La sua opera ha influenzato molti poeti successivi e continua a essere studiata e apprezzata per la sua profondità e originalità. Il significato dell'esistenza umana: Mario Luzi Nato il 20 ottobre 1914 a Castello, un piccolo paese in provincia di Siena, e morto il 28 febbraio 2005 a Fiesole, vicino a Firenze, Mario Luzi ha lasciato anch'egli un'impronta significativa sulla letteratura italiana. Anche per Luzi la carriera poetica ebbe inizio negli anni '30, con le prime opere pubblicate sulle riviste letterarie dell'epoca, ma la sua opera matura si sviluppò negli anni '50 e '60, quando pubblicò importanti raccolte come "Avvento notturno" nel 1957, "Al fuoco della controversia" nel 1963 e "Nella cruna del tempo" nel 1979. Nel corso della sua vita, Luzi ha anche scritto saggi critici e opere in prosa. La sua poesia si caratterizza per una profonda riflessione sulla condizione umana, sul senso dell'esistenza e sulla relazione tra l'uomo e la natura. Luzi era particolarmente attento alle sfumature e alle complessità del linguaggio, e la sua scrittura è caratterizzata da una grande precisione e ricercatezza formale. Oltre che poeta, Mario Luzi è stato membro dell'Accademia dei Lincei, dell'Accademia della Crusca e del comitato scientifico della Fondazione Lorenzo Valla. Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra cui il Premio Feltrinelli per la poesia nel 1963 e il Premio Viareggio nel 1995. Il dolore e la solitudine: Alda Merini Nata il 21 marzo 1931 a Milano e morta il 1º novembre 2009 nella stessa città, Alda Merini considerata una delle voci più significative della letteratura contemporanea italiana. La sua vita fu segnata da esperienze complesse e sofferenti. Sin dalla giovane età, infatti, Alda Merini soffrì di problemi mentali e trascorse periodi in diverse istituzioni psichiatriche. Possiamo dire che la sua esperienza di sofferenza e di lotta con la malattia mentale sia il centro della sua poesia, caratterizzata da una profonda introspezione, dalla ricerca della libertà e dal desiderio di trasmettere emozioni intense. La sua carriera poetica ha inizio negli anni '50, ma il successo arriva a partire dagli anni '80. Alda Merini ha pubblicato numerosi libri di poesie, tra cui "La presenza di Orfeo" nel 1953, "La Terra Santa" nel 1971 e "Vuoto d'amore" nel 1991. La sua poesia affronta temi universali come l'amore, la morte , la sofferenza e la ricerca del senso della vita. Nel 1996, le è stato assegnato il Premio Librex-Guggenheim Eugenio Montale, e nel 1997 ha vinto il prestigioso Premio Viareggio per la poesia. Nel corso degli anni, ha anche tenuto numerosi corsi e conferenze sul tema della poesia e della creatività. Oltre che come poetessa, Alda Merini è stata molto apprezzata anche come persona. La profonda umanità e il coraggio di aver parlato apertamente dei suoi problemi mentali l'hanno resa un personaggio simbolo del suo tempo. In copertina foto di giselaatje da Pixabay Read the full article
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adrianomaini · 4 years ago
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Gli anni Novanta riconducono Giudici sulla sponda ligure
Gli anni Novanta riconducono Giudici sulla sponda ligure
Giovanni Giudici Dal Cuore del miracolo Parlo di me, dal cuore del miracolo:la mia colpa sociale è di non ridere,di non commuovermi al momento giusto.E intanto muoio, per aspettare a vivere. Il rancore è di chi non ha speranza:dunque è pietà di me che mi fa credereessere altrove una vita più vera?Già piegato, presumo di non cedere. Giovanni Giudici, Tutte le poesie , Mondadori,…
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winckler · 5 years ago
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Dite pure di noi – se questo vi farà piacere – che siamo dei rinunciatari. Che non riusciamo a tenere il passo con la Storia. Le frasi fatte – sappiamo – sono la vostra gloria. Noi, noi non ve le contestiamo. Essere in disarmonia con l’epoca (andare contro i tempi a favore del tempo) è una nostra mania. Crediamo nell'anacronismo. Nel fulmine. Non nell'avvenirismo.
Giorgio Caproni, A certuni
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ta-suka-suka-onomason · 7 years ago
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Giorgio Caproni, Il muro della Terra . Oggi questi versi hanno un valore oserei dire aggiunto, che diventa enorme.
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rideretremando · 2 years ago
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"UN CUORE CHE NON DORME. SU DUE POESIE D’AMORE DEL NOVECENTO ITALIANO (2018)
Chi volesse allestire un’antologia di belle poesie d’amore del nostro Novecento, magari per disporre di un bacino di citazioni a uso anche privato, non avrebbe la strada facile. Non, almeno, se pretendesse di trovarsi tra le mani un canzoniere che celebra l’eros nella sua pienezza – l’eros al tempo stesso eccezionale e quotidiano, inconfondibile e universale. Chi dispiega apertamente il suo canto amoroso, se si escludono l’ossessivo riduzionismo efebico di Sandro Penna e la meteoropatia emotiva della penniana Patrizia Cavalli? Ci sono, è vero, lirici suggestivamente terrestri e sensuali, perfino in senso linguistico, come Gatto, Betocchi e certo Caproni, non a caso cresciuti anche loro, accanto a Penna, sul rovescio del tessuto ermetico: ma finiscono quasi sempre per diventare o troppo domestici o troppo sfuggenti, ripiegando su una freschezza insieme patetica e pudica e partendo per la tangente del manierismo. Ci sono, ancora, poeti erotico-famigliari alla Sanguineti o alla Giudici, che non esitano a palpare i corpi e a immergerli nella vita di tutti i giorni: ma lo fanno esibendo preventivamente il falsetto, il passaporto di una vezzosa diplomazia crepuscolare; così come il primo Pagliarani e Massimo Ferretti schiacciano altri corpi sotto la loro musica avida e guascona. Quanto a Sereni, i suoi rossori di innamorato vengono subito puniti da una reticenza brusca che li lascia a galleggiare nel vuoto. La nostra lirica novecentesca, osservava Garboli mezzo secolo fa, è “altamente ‘omosessuale’ ”, nel senso di una estrema introversione del tema amoroso: in genere “s’ispira a presupposti assoluti, di a tu per tu con Dio, sdegnando le sparpagliate occasioni del ‘sentimento’, i suoi trasalimenti, i suoi brividi, le sue piccole e struggenti ferite. La poesia moderna è tutta ‘intellettuale’ (…) Respinge le situazioni da fumetto, il ‘lui e lei’. Il poeta contemporaneo” non si può immaginare “innamorato degli aspetti femminili della vita quali la gioia, la giovinezza, lo splendore della pelle, una bella mattinata piena di sole, le ore della felicità che è sempre rubata, sempre momentanea, sempre sul punto di essere uccisa”.
Del resto questa lirica non è che l’ultimo, stravolto capitolo di una storia poetica occidentale che può leggersi in chiave rougemontiana. È la storia che mantiene al centro l’“amore dell’amore”, Narciso e Tristano: quella tenuta a battesimo dai versi provenzali, stilnovisti e petrarcheschi in cui si sublima l’oggetto del desiderio fino a farlo sparire, secondo una metafisica che torna vestita di panni moderni nell’opera di un Montale. L’amore innalzato all’empireo, si sa, si specchia poi in basso nelle sue caricature popolari, nelle deformazioni carnevalesche che non fanno che sancirne la supremazia; così come le demoniache donne romantiche e baudelairiane, dietro il loro teschio di streghe, di bestie e di carogne, lasciano intravedere il volto etereo dell’angelo caduto.
Ciò che questo Occidente rimuove all’origine è la nudità dei classici: il loro tranquillo intreccio di cerimoniosità rituale e affetto scanzonato, l’umiltà con cui si volgono al desiderio e all’osceno (a ciò che c’è nell’eros di irrevocabile e tremendo, ossia di sacro) proprio mentre ne abbozzano con tratti lievi gli episodi più prosaici. I moderni hanno eletto questa nudità a mito irraggiungibile; e se a volte hanno creduto di vederla riapparire a lampi in qualche loro contemporaneo sfuggito alla morsa della Storia – e magari, per via omosessuale, sfuggito pure al “lui e lei” - l’hanno celebrata come fosse un miracolo. Perché la norma, al contrario, è appunto l’atteggiamento di chi ruota sempre intorno alle aporie dell’amore genialmente descritto da De Rougemont - di chi ne assalta, scalfisce o spernacchia l’idolo per poi tributargli un inevitabile omaggio, o addirittura per rendere ancora più impalpabile e onnipresente il suo fantasma. Questo fantasma, è vero, a un certo punto s’incarna anche al di fuori del mero rovesciamento burlesco: ma l’incarnazione viene allora appaltata al romanzo ‘medio’, o a quel cinema a cui subito, con pochi ritocchi, un tale romanzo si propone come sceneggiatura. Lì, nello specchio narrativo di una società ormai laicizzata, l’afflato idealizzante e romantico rivela il suo spirito volgarmente calcolatore, scende a patti con la routine trascinandosi tra letti precari, scene mélo e struggimenti dozzinali. La poesia invece, già arroccata in sé stessa per sfuggire alla lingua della tribù, ha sommato a questo arrocco formale la vaghezza difensiva con cui l’uomo moderno allude a una realtà che nonostante tutto continua a porglisi pavesianamente davanti come il banco di prova della vita: il “grande amore”, che per definizione “non si trova”. Così l’antico “né con te né senza di te” diventa una ipnosi da eterni adolescenti, un inseguimento della propria ombra, una leggenda che nutre sottotraccia ogni parola ipotecandola senza dichiararsi, e che carica ogni oggetto dell’aura amorosa dopo averla resa irriconoscibile.
Si dànno, ovviamente, le eccezioni. Una è vistosa proprio perché melodrammatica: nei “Nuovi versi alla Lina”, il verdiano e heiniano Saba del 1912 dialoga con la moglie che l’ha tradito, e nella sua temeraria impudicizia ci fa udire tutti del suo cuor gli affanni. Soffre, si lamenta, interroga, accusa, perdona, torna sui fatti senza capacitarsi dell’accaduto e del suo effetto emotivo. Siamo di fronte a un raro caso di poesia imperniata sulla passione coniugale - poesia insieme traumatica e casalinga, canzonettistica e dolorosa. Con sovrana semplicità, il poeta vi dichiara il suo stupore per ciò che può fare l’ossessione, la ferita narcissica inferta dalla gelosia: il mondo caldo e vivido delle sue passeggiate si svuota, e lo sguardo è obbligato a concentrarsi su un punto solo, una femmina qualunque, una cosa così comune e piccola che “una casa nello spazio, / un piroscafo è tanto più di lei”.
Ma se dovessi compilare quell’antologia, io la aprirei in un altro modo. La aprirei con due testi nei quali le domande su Amore e Morte che alonano la più tipica poesia d’Occidente dal Medioevo al Novecento riecheggiano nel nido buio della coppia; e lì, in una situazione d’intimità reale, non vagheggiata ma vissuta, vengono affrontate e approfondite, conservate e superate, o piuttosto scontate, tra tenerezze tremanti e pene solitarie. Parlo di due testi dove l’amore è assolutamente vero e al tempo stesso ‘impossibile’: “Vecchio e giovane” di Umberto Saba e “Canzonette mortali” di Giovanni Raboni. In entrambi i casi un uomo anziano, con gli occhi sbarrati nell’ombra, veglia su un corpo giovane disteso accanto a sé nel letto, e cerca di accettare l'incommensurabilità dei rispettivi destini biologici.
Ecco la poesia di Saba: “Un vecchio amava un ragazzo. Egli, bimbo / - gatto in vista selvatico - temeva / castighi a occulti pensieri. Ora due / cose nel cuore lasciano un'impronta / dolce: la donna che regola il passo / leggero al tuo la prima volta, e il bimbo / che, al fine tu lo salvi, fiducioso / mette la sua manina nella tua. // Giovinetto tiranno, occhi di cielo, / aperti sopra un abisso, pregava / lunga all'amico suo la ninna nanna. / La ninna nanna era una storia, quale / una rara commossa esperienza / filtrava alla sua ingorda adolescenza: / altro bene, altro male. ‘Adesso basta – / diceva a un tratto; - spegniamo, dormiamo.’ / E si voltava contro il muro. ‘T'amo – / dopo un silenzio aggiungeva - tu buono / sempre con me, col tuo bambino.’ E subito / sprofondava in un sonno inquieto. Il vecchio, / con gli occhi aperti, non dormiva più. // Oblioso, insensibile, parvenza / d'angelo ancora. Nella tua impazienza, / cuore, non accusarlo. Pensa: È solo; / ha un compito difficile; ha la vita / non dietro, ma dinanzi a sé. Tu affretta, / se puoi, tua morte. O non pensarci più”.
Ed ecco la poesia di Raboni: “Io che ho sempre adorato le spoglie del futuro / e solo del futuro, di nient’altro / ho qualche volta nostalgia / ricordo adesso con spavento / quando alle mie carezze smetterai di bagnarti, / quando dal mio piacere / sarai divisa e forse per bellezza / d’essere tanto amata o per dolcezza / d’avermi amato / farai finta lo stesso di godere. // Le volte che è con furia / che nel tuo ventre cerco la mia gioia / è perché, amore, so che più di tanto / non avrà tempo il tempo / di scorrere equamente per noi due / e che solo in un sogno o dalla corsa / del tempo buttandomi giù prima / posso fare che un giorno tu non voglia / da un altro amore credere l’amore. // Un giorno o l’altro ti lascio, un giorno / dopo l’altro ti lascio, anima mia. / Per gelosia di vecchio, per paura / di perderti – o perché / avrò smesso di vivere, soltanto. / Però sto fermo, intanto, / come sta fermo un ramo / su cui sta fermo un passero, m’incanto… // Non questa volta, non ancora. / Quando ci scivoliamo dalle braccia / è solo per cercare un altro abbraccio, / quello del sonno, della calma – e c’è / come fosse per sempre / da pensare al riposo della spalla, / da aver riguardo per i tuoi capelli. // Meglio che tu non sappia / con che preghiere m’addormento, quali / parole borbottando / nel quarto muto della gola / per non farmi squartare un’altra volta / dall’avido sonno indovino. // Il cuore che non dorme / dice al cuore che dorme: Abbi paura. / Ma io non sono il mio cuore, non ascolto / né do la sorte, so bene che mancarti, / non perderti, era l’ultima sventura. // Ti muovi nel sonno. Non girarti, / non vedermi vicino e senza luce! / Occhio per occhio, parola per parola, / sto ripassando la parte della vita. // Penso se avrò il coraggio / di tacere, sorridere, guardarti / che mi guardi morire. // Solo questo domando: esserti sempre, / per quanto tu mi sei cara, leggero. // Ti giri nel sonno, in un sogno, a poca luce // 1982-1983”.
Il ragazzo ritratto da Saba torna nel secondo dopoguerra in diverse sue pagine - telemachie in forma di epigramma, scorciatoie, poesie carezzevoli e terribili – e viene di solito identificato con il figlio del libraio antiquario milanese presso cui il poeta abitò tra il ’45 e il ’48, quel Federico Almansi che pochi anni più tardi sarebbe sprofondato nella schizofrenia. “Vecchio e giovane” fu inserita nel fascicolo di liriche intitolato “Epigrafe” (1947-1948) e destinato a una pubblicazione postuma. È composta da tre strofe di otto, tredici e sei versi, in sostanza endecasillabi camuffati dalle saldature e dalle pause di un racconto che ora si avvolge a spirale e ora si rapprende in laconiche ellissi. Fin dall’incipit, l’ambiguità del contesto è come ignorata (e sottolineata) da un’affermazione perentoria: “Un vecchio amava un ragazzo”. Il poeta finge parodicamente la fiaba, recita una saggezza lineare e una limpidezza che invece nelle prime strofe è negata dai connettivi del discorso, dal ritratto del “giovinetto” e dal dialogo con il suo amico. I “castighi a occulti pensieri” e gli occhi “aperti sopra un abisso”, alternati alla esibita calma gnomica del narratore che tiene ai due capi il filo dell’esistenza, fanno davvero pensare a un turbamento psichico, a un esorcismo condotto sul bordo della follia. “Celeste” qui non è l’azzurra pupilla sabiana che tutto può contemplare e ospitare, ma un cielo che schiaccia e un vuoto che inghiotte. Il vecchio filtra una storia, l’adolescente ingordo l’assume come un farmaco e poi vuole addormentarsi in fretta. Così da un lato del letto inizia il “sonno inquieto”, dall’altro un’insonnia senza speranza. Dopo avere evocato le due prospettive che più frequentemente si fronteggiano nella sua opera, il punto di vista filiale e il punto di vista materno, il poeta prova a lenire il dolore di quella mancata empatia immedesimandosi nel compagno: se non sa restituire l’affetto è perché lotta con la propria angoscia di creatura incompiuta, ancora senza centro, e dunque fatalmente sorda ai bisogni di coloro che la accudiscono. Inutile accusarlo: è fisiologico che i ritmi non possano accordarsi. Non resta che smettere di pensarci, o ‘passare oltre’.
In questa poesia le sigle di stile alto lasciate cadere qua e là non dipendono più dal tono impettito, dalle sonorità goffe o rotonde di banda paesana che caratterizzano molte composizioni giovanili - anzi somigliano quasi a una sprezzatura, al gioco agrodolce di chi si concede il lirismo appunto perché i suoi rischi e le sue promesse non fanno più presa. I panneggi levigati e sontuosi, appena suggeriti a qualche svolta, non contraddicono la natura diafana e fantasmatica del testo. Ogni fanfara, bozzettistica o classicista, resta ormai alle spalle. Il risultato è una maestà calma e dolente, una trasparenza in cui non si dà scarto tra detto e cantato o tra sussurro e musica, fusi in un fraseggio di tenerezza straziata ma asciutta e lucidamente arida (la stessa tenerezza alla quale, giungendovi dall’opposta sponda di una depressione sia vitale sia stilistica, Sbarbaro era approdato intorno al ’30 nei “Versi a Dina”).
Anche il Raboni maturo si muove con un passo felpato di questo genere. È un passo che acquista nelle fasi di transizione della sua parabola poetica: prima, appunto, negli anni Ottanta delle “Canzonette”, luogo di sutura tra lo stile manzonian-brechtiano della penitente giovinezza lombarda e il manierismo delle forme chiuse; poi, alla fine, in “Barlumi di storia”, dove dalle forme chiuse ritorna a uscire ‘verso la prosa’ (ma affiora già nel metricista “Quare tristis”, non appena taglia a metà il sonetto come in “Svegliami, ti prego, succede ancora…”). Anche nelle sue strofe “mortali” la diversa biologia dei corpi stesi nell’alcova è il punto di partenza scelto per evocare i topoi di amore e morte, presenza e assenza, realtà e irrealtà; anche qui il rapporto è vissuto come un’iniziazione sempre esposta al fallimento, destinata a essere giocoforza interrotta; e anche qui l’ansia si attenua solo attraverso una resa simile a un cupio dissolvi. Se Luigi Baldacci giudicava “Vecchio e giovane” la poesia più “marmorea e straziata” del Novecento, a proposito di “Canzonette mortali”, dopo avere opportunamente citato i classici e in particolare Catullo, Paolo Maccari ha ripreso un’espressione utilizzata altrove da Raboni, e pure vicina all’ossimoro, parlando di un testo “obiettivamente straziante”.
“Canzonette” è costruita a imbuto, per strofe di lunghezza decrescente - da dieci versi a uno - secondo una formula mutuata a quanto pare dalla sinfonia 45 di Haydn nota come “Sinfonia degli addii”. La prima strofa s’impernia su un motivo tipicamente raboniano: in quelle “spoglie del futuro” il tempo assume l’aspetto di una pellicola già proiettata, da riavvolgere e far scorrere avanti e indietro con agio funerario (si veda, in “Barlumi di storia”, il riepilogo di “Si farà una gran fatica, qualcuno…”). Tutto è già compiuto e ci sta davanti in una spossata, paradossale eternità barocca. I versi descrivono un moto lento di onde che si allungano e si contraggono, qua limpide e là torbide o schiumose. Le abbreviazioni coincidono spesso con smorzature gravi come pesi sul cuore, in cui la voce sembra strozzata o soffocata. A poco a poco il discorso si assesta intorno alla misura di un endecasillabo che fa da chiusa provvisoria, icastica, per poi riaprirsi subito su un’incertezza allarmata; e dopo trasalimenti, nenie, attese a respiro trattenuto e constatazioni lapidarie, la serie non si chiude con un sigillo ma con una sospensione, un ‘piano’ da stretta che si allenta. ‘Vista’ così alla moviola, la consunzione può ancora confondersi con la stasi, con un indefinito protrarsi di quell’equilibrio squilibrato: nessuno sa quanto durerà il misto di angoscia e incanto.
La lentezza cerimoniale, l’iniziazione religiosa all’eros e alla morte del Raboni d’inizio anni Ottanta si gioca qui tra l’‘amen’ di chi sente di poter accettare qualunque cosa perché ha incontrato il proprio destino (“mancarti, / non perderti, era l’ultima sventura”) e l’allarme che ispira ineluttabilmente il possesso, la consapevolezza della futura perdita (“Il cuore che non dorme / dice al cuore che dorme: Abbi paura”). Se in altre liriche coeve il poeta sgrana le immagini di un teatrino pornografico con leggerezza tenera e devota, qui scioglie il “godere” nel tema della consegna a una sorte di dissoluzione fisica; ma l’accettazione di questa sorte è poi incrinata da commoventi, atroci soprassalti vitalistici - dalla fame di futuro di chi, ormai sulla soglia dell’aldilà, tenta di riafferrare un impossibile accordo della giovinezza e può farlo solo “ripassando la parte” tra una pausa e l’altra, perché il suo stato normale di uomo quasi vecchio è un torpore che se assecondato lo porterebbe lontanissimo dal ritmo a cui batte il cuore della compagna.
“Fare l’amore e morire sono una cosa sola”, diceva Truffaut del cinema “decisamente più sessuale che sensuale” di Alfred Hitchcock, così proustianamente amato da Raboni: e lo si potrebbe ripetere davanti a entrambe le poesie. Ma in chiusura vorrei ricordare un altro regista, che ha girato un film dove la quotidianità condivisa dell’amore appare altrettanto fatale e precaria. È il Chaplin di “Luci della ribalta”. Alla sua uscita, nel 1952, se ne occupò tempestivamente proprio Garboli, che al tema era con tutta evidenza sensibilissimo se trent’anni dopo decise di scrivere anche delle “Canzonette”, opera di un autore per il resto molto distante da lui. In un pezzo pubblicato di recente nella “Gioia della partita”, il ventenne studioso di Dante si concede un’incursione nel campo del grande schermo dialogando con il commento che al film ha dedicato Carlo Muscetta, rappresentante di quel marxismo postbellico verso cui Garboli mantiene sempre un affetto aprioristico pur mentre batte per suo conto tutt’altre strade. Nel descrivere la storia di Calvero e Terry, il giovane critico parla dello “stato di provvisorietà in cui viene a trovarsi un amore per altro verso tanto permanente, tanto terribilmente serio e affondato nelle radici della vita che tollera di paragonarsi solo all’aria stessa in cui unicamente è dato di vivere”. “Come torni in dramma, in amore, in strazio sopportato tanta voglia di vita, che non ha sfogo e non può averlo, una volta ricalati i personaggi dalla favola in realtà e nella storia che loro è data, mediocre fuori, grande e ricca e varia dentro, diversa e uguale a tutte, come tante: questo è ‘Limelight’”, afferma nella pagina centrale del suo pezzo. “Ed è questo, precisamente, il solo modo in cui l’umano incontro di due vite diverse, Calvero e Terry, può divenire, farsi storia e una sola storia; pur non avendo, di una storia d’amore, che l’ansia d’essere tale e il saper d’esserlo e il non esserlo invece, di fatto: così che continuamente si mescola alla favola la realtà e si affaccia nella felicità la disperazione, indissolubile l’una dall’altra; perché ciò che è accaduto in mezzo a quelle due vite scova il modo d’essere una medesima cosa fra loro proprio e appunto perché comune a due vite, a due storie diverse. La vitalità, l’istinto divengono l’amore che salda persona a persona ma l’amore onde si vincolano le vite di Calvero e di Terry suscita davvero un patema indicibile, proprio una sorta di chiuso finimondo se per forza di cose tanto più brucia ogni limite quanto più gli fanno tormentosa prigione i naturalistici limiti della giovinezza e della vecchiaia, i quali infine sbiadiscono e si dissolvono come tali ma riaffiorano nuovamente come i confini stessi del tempo, della realtà in cui ciascuno dei due personaggi si cala, della storicità insomma propria di Calvero, di Terry”.
Verso la fine di questo formidabile saggio, stilisticamente ancora ingorgato, troppo abbondante e tortuoso, ma già molto garboliano nell’andatura avvolgente e nel sapore, il critico si sofferma sul punto di vista della ballerina – cioè del ‘corpo giovane’ che Saba e Raboni guardano dall’esterno – in un passo che vale la pena riportare quasi per intero: “Tanto grande è la dimensione del suo amore che sembra davvero possa tutto, anche restituire la virilità a un vecchio e il talento a chi l’ha esaurito (…): ed è un’illusione, poiché più grande diviene l’amore in Terry più acuto si fa in Calvero e in Terry lo strazio che la vita non lo conceda. Così s’alternano la felicità e la disperazione in una voglia d’amare che trova ostacolo in sé, in ciò stesso onde è nata; e chi rifletta al gusto romantico delle passioni sempre un po’ esagitate può comprendere perché in ‘Limelight’ l’amore si raffiguri in modo da non sembrare neppure più tale, un’altra cosa, tanto è vicino all’elemento inqualificabile che spinge una pietra a stare in un modo, a fiorire la rosa in un altro. Come si muova in grazia, in angoscia, in modi consueti alle storie d’amore, solitudini e improvvise felicità, come s’ammanti il desiderio l’uno dell’altra dell’esser clown Calvero, dell’esser ballerina Terry (ché ognuno simbolizza ingenuamente per suo conto), è la levità della favola, in cui la storia pare che sia sempre lì lì per sfumare; e in fondo a quella visiva trasparenza s’asciuga invece uno spasimo atroce; si dispera e invecchia e intristisce la vita di Calvero e si abbarbica l’amore di lui e di Terry tenace, con la protervia della dolcezza e per il fascino che proviene dalla vita di chi si ama, di chi si è; e si dibatte in voglia impotente, scoppia in patetiche ostinazioni, spoglio del superfluo, in un miscuglio nuovo di sofferenza e di gioia e di solitudine e di dedizione assoluta e dentro cui si vive senza aver fede in altro, perché questo solo c’è e resta, l’amore e la vita che fanno una cosa sola: quel fluido impenetrabile che sembra abbia consistenza mentre passa negli occhi di Calvero e di Terry il giorno che si ritrovano, per caso, a un caffè. Tutto si ferma intorno, si fanno grandi i loro visi accostandosi e in quell’intimità si atteggia una consapevolezza estrema, come si concentrasse in quel momento l’arco in cui la vita si compie tutta; essendo interna alla sua bellezza la sua irrimediabilità (…) C’è in ‘Limelight’ una sorta di naturalismo estremo e quell’umanesimo integrale di cui parla Muscetta e sopra tutto un ateismo quasi sfacciato e una disperazione lucida, che annulla e dà, ricrea, e tutto questo espresso in realtà dura, in pura favola, senza esterni soccorsi di consolazione. Si pensa al viso staccato e solitario di Calvero prima e dopo l’ultima pantomima; vi traspare la commozione come la luce in una pietra limpida, fredda; dice che la vita è immensa, varia, magnifica, perché limitata, terribile, breve, chiusa e angustiata da limiti netti, senza nient’altro all’infuori di sé”.
“Una voglia d’amare che trova ostacolo in sé, in ciò stesso onde è nata”: eppure non una voglia romanticamente esagitata e teatralmente esagerata, ma naturale come ciò che “spinge una pietra a stare in un modo, a fiorire la rosa in un altro”; non un ostacolo rougemontianamente ‘fittizio’, ma invalicabile, oggettivo. E ancora: in uno stile prosciugato, trasparente, il resoconto di una felicità, di una fiaba che ha come rovescio la reale assenza di consolazione, la “disperazione lucida” che dà e toglie con un gesto solo la consistenza a quell’amore. Così, anche in Saba e in Raboni, concretezza e impossibilità sono come due lati di un unico foglio, due espansioni della stessa radice: la contraddizione senza vie d’uscita di un rapporto che nasce alla tangenza di due linee vitali destinate a divaricarsi davanti alla morte. Esiste nel Novecento italiano un’altra grande poesia d’amore, che allo squilibrio di una relazione vissuta, non ‘romantica’, dà la forma più biologicamente estrema, pur sospendendola nel limbo della parodia stilnovista: è l’“Ultima preghiera” di Giorgio Caproni – ma non sono ‘preghiere’ anche “Vecchio e giovane” e le “Canzonette”? – dove i punti di vista tipici della lirica sabiana acquistano un significato letterale: la fidanzata coincide con la madre rimasta giovane accanto a un figlio vecchio.
Squilibrio dei destini, si è detto; ma nella nostra ipotetica antologia dovrebbe trovare un posto d’onore anche la più bella lirica dedicata a un genere differente di squilibrio, quello delle forze. Il potere ‘politico’, la dialettica del servo e del padrone, l’oggettivazione sadica dell’altro penetrano infatti fin dentro le stanze più private: e Noventa, nei versi “A un’ebrea” scritti mentre si annunciava all’orizzonte la Shoah, esprime tutto lo strazio di chi sa di non poter redimere la propria sopraffazione, né attingere una giusta parità, ma solo distogliere vergognosamente lo sguardo: “Gh'è nei to grandi - Oci de ebrea / Come una luse - Che me consuma; / No' ti-ssì bèla - Ma nei to oci / Mi me vergogno - De aver vardà. // Par ogni vizio - Mio ti-me doni / Tuta la grazia - Del to bon cuor, / A le me vogie - Tì ti-rispondi, / Come le vogie - Mie fusse amor. // Sistu 'na serva - No' altro o pur / Xé de una santa - 'Sta devozion? / Mi me credevo - Un òmo libero / E sento nascer - In mi el paron”…
Amare senza scoprirsi né padroni né servi: forse a volte sembra possibile solo là dove incombono ‘gli addii’, là dove tutto è vissuto al colmo di una intimità traboccante, trepida, sconvolta, e al tempo stesso tutto è guardato come già morto. L’amore nella sua pienezza non si dà, pare, senza lo sfondo di due solitudini, senza la minaccia, senza rivelarsi “sempre sul punto di essere ucciso”. La differenza è tra una poesia che rimuove questa realtà nei suoi castelli simbolico-allegorici, e una poesia che con la naturalezza perentoria degli ‘artisti da vecchi’ affronta la consumazione dell’amore sotto un cielo d’ansia."
Matteo Marchesini
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citywithnochildreninit · 7 years ago
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  “Scolpire il mare...
  Le sue musiche...
                        Lunghe, le mobili sue cordigliere crestate di neve...
                        Scolpire - bluastre - le schegge delle sue ire...
                        I frantumi - contro murate o scogliere - delle sue euforie...
  Filarne il vetro in làmine semiviperine...
                       In taglienti nastri d’alghe...
                         Fissarne - sotto le trasparenti batterie del cielo - le bianche catastrofi...
                         Lignificare le esterrefatte allegrie di chi vi si tuffa...
                         Scolpire il mare fino a farne il volto del dileguante...
                         Dire (in calmerìa o in fortunale) l’indicibile usando il mare come materiale...
  Il mare come costruzione...
  Il mare come invenzione...” [Il mare come materiale, Giorgio Caproni, 1986]
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naomized · 8 years ago
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Giorgio Caproni, da Il muro della terra
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mypickleoperapeanut · 3 years ago
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I&f RotoWeb Illustrato gennaio 2022
“Officina della poesia il teatro e le arti”
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Progetto di Studi ricerca e Spettacolo
Lunedì 24 Gennaio alle 18.00 , nella Sala “Dino Campana” della Biblioteca delle Oblate, In Via dell’Oriolo, 24 Firenze, la lectio Magistralis tenuta dal Prof Ugo De Vita dal titolo “Ho la mente ingombra”, omaggio a Giorgio Caproni (1912-1990) nei 110 anni della nascita.
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“Un ritratto di Giorgio Caproni, una lectio della durata di poco più di un’ora nella ricorrenza della nascita (Livorno 7 gennaio 1912) di una voce altissima del novecento italiano.
Traduttore in lingua francese di Char e di molti tra saggisti e poeti, Caproni scoperto alla fine degli anni cinquanta da Pasolini e Moravia ebbe negli anni settanta una svolta espressiva che lo portò con l’amico rivale Luzi ai vertici della poesia europea. Indimenticabile figura di intellettuale, testimone degli anni di piombo non manco mai di far sentire la sua voce ferma e autorevolissima.
Da Il franco cacciatore a Il conte di Kevenhuller seppe con la sua rilettura del mito di Enea, portare la parola del dopoguerra a vette inarrivabili divenendo da poeta naturalisti a poesia simbolista e del mito.
Poeta musicalissimo e colto, Caproni ebbe col giovane amico e allievo Ugo De Vita scambio intensi una amicizia come da allievi a maestro, tra l’ottantaquattro e la fine degli anni ottanta è quella esperienza che ha poi dato vita a questo corso e al libello in uscita in queste settimane per i tipi di Del Manto editore che ne porta il titolo.”
Ugo De Vita
Lectio magistralis
“HO LA MENTE INGOMBRA”
Omaggio a Giorgio Caproni di Ugo De Vita
Ingresso libero, con prenotazione nel rispetto delle vigenti normative antiCovid.
Biblioteca delle Oblate tel. 055.26.16.512
#comunichiamoalmondolitalia #tuttoilbelloeilbuonochece
I&f RotoWeb Illustrato gennaio 2022 https://italiaefriends.wordpress.com/2022/01/01/if-rotoweb-illustrato-gennaio-2022/?preview=true
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pier-carlo-universe · 6 days ago
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“Alba” di Giorgio Caproni: una struggente lettera d’amore invernale
La poesia che intreccia amore, attesa e mortalità in una gelida alba
La poesia che intreccia amore, attesa e mortalità in una gelida alba. La poesia “Alba” di Giorgio Caproni è un capolavoro di delicatezza e introspezione, in cui il poeta descrive l’attesa dell’amata durante un’alba invernale, tra i vapori di un bar e il gelo che pervade corpo e anima. Il componimento, con il suo linguaggio evocativo e simbolico, esplora i temi dell’amore, della fragilità umana e…
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affascinailtuocuore · 3 years ago
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G.Caproni- Poesie meravigiose: AI TUOI ALBERATI PENSIERI
G.Caproni- Poesie meravigiose: AI TUOI ALBERATI PENSIERI
  Sul Fatto Quotidiano di oggi, 13 Agosto 2021, ho letto  l’interessante articolo  su Camilla Salvago Raggi, grande intellettuale  Italiana che ha conosciuto   e frequentato  la crema del nostro mondo culturale. A lei Giorgio Caproni, uno dei massimi  poeti  del Novecento,  ha dedicato una poesia che trovo  meravigliosa. Vi auguro un buon Venerdì e un Felice Ferragosto  con questi versi per…
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painfulpresent · 5 years ago
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Possiamo considerare il XXX canto del Purgatorio con la “resurrezione” di Beatrice la Pasqua della Commedia. Finalmente, dopo un’attesa durata molti anni e molti versi, Beatrice, la signora della mente di Dante, risorge a vita nova. Pronta ad accompagnare il suo poeta nella più divina storia d’amore di ogni tempo. Verso Amor che move il sole e le altre stelle.
Vita Nova
È necessario fare qualche passo indietro, per meglio cogliere la centralità di questo snodo narrativo. Nel suo libro giovanile, la Vita Nova, Dante aveva narrato la storia del suo amore per questa fanciulla incontrata la prima volta a nove anni, una seconda a diciotto. Il simbolismo numerologico è evidente: l’insistenza sul nove e sui multipli del tre è allusiva al mistero centrale della rivelazione cristiana, quello trinitario.
Questo amore si atteggia inizialmente nei canoni della tradizione cortese e stilnovistica; l’epifania della donna amata sulle vie della terra è celebrata in sonetti memorabili ( basti pensare a Tanto gentile e tanto onesta pare ) che fungono da soste liriche e autocommentative della narrazione autobiografica, in una mistura di prosa e versi che non ha uguali in nessun’ altra letteratura.
Il valore morale dei sentimenti
La poesia stilnovistica, che ha il suo antesignano in Guido Guinizzelli e il massimo esponente in Dante (il quale nel canto XXIV del Purgatorio conia la definizione di dolce stil novo) è caratterizzata, oltreché da una ricerca linguistica orientata a illimpidire il linguaggio poetico italiano,  da un’esaltazione del valore morale dei sentimenti umani.
Un aspetto di questa poesia che oggi può lasciare un margine di perplessità è l’accento posto sul trambusto emotivo che il semplice saluto della donna provoca in chi lo riceve. Questo fenomeno va inquadrato storicamente e sociologicamente. Nel Medioevo le ragazze in età da marito tendenzialmente non uscivano mai di casa, ad eccezione di quando andavano a messa o alle altre cerimonie religiose. In quelle circostanze erano sempre scortate dai fratelli e da familiari che le sorvegliavano attentamente. In un clima tale, la possibilità per una ragazza di salutare sulla pubblica via una persona dell’altro sesso rappresentava un gesto audacissimo, temerario. I ragazzi che ricevevano questo dono erano dei privilegiati!
Incontrare Beatrice
Innamorarsi significa creare una religione il cui Dio è fallibile. Beatrice – mentre il limitare di gioventùsaliva – muore, abbandonando così il suo poeta amante. Ecco come il suo primo biografo, Giovanni Boccaccio, descrive questo schiavo d’amore che ha perso ogni coordinata esistenziale:
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«Gli giorni erano alle notte iguali e agli giorni le notti; delle quali niuna ora si trapassava senza guai, senza sospiri e senza copiosa quantità di lagrime; e parevano li suoi occhi due abbondantissime fontane d’acqua surgente, intanto che i più si maravigliarono donde tanto umore egli avesse che al suo pianto bastasse […]
Egli era, sì per lo lagrimare, sì per l’afflizione che il cuore sentiva dentro, e sì per lo non avere di sé alcuna cura, di fuori divenuto quasi una cosa salvatica a riguardare: magro, barbuto e quasi tutto trasformato da quello che avanti esser solea».
Il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges si è ampiamente interessato a Dante (i suoi nove saggi danteschi sono la testimonianza del  lungo studio e grande amore nei suoi confronti).
In una delle sue pagine più famose,  sostiene che il poeta fiorentino avrebbe progettato quello che lui considerava il miglior libro mai scritto dagli uomini, la Commedia,  per offrire a sé stesso un risarcimento impossibile: incontrare di nuovo Beatrice, farla rivivere poeticamente.
Egli scrive: «Dante, morta Beatrice, perduta per sempre Beatrice, giocò con la finzione di ritrovarla, per mitigare la tristezza; io personalmente penso che abbia edificato la triplice architettura del suo libro per introdurvi quell’incontro».
Nella prospettiva di Borges, l’impulso a progettare una così ambiziosa opera poetica sarebbe stato il desiderio di poter rivedere la sua amata. «Un sorriso e una voce, che lui sa perduti, sono la cosa fondamentale».
Un sostegno a questa tesi la rintracciamo alla fine della Vita Nova. In quel luogo liminare, Dante fa una promessa a sé stesso e al suo pubblico: tornerà a parlare di Beatrice solo quando avrà trovato i mezzi poetici adeguati a lodarla come merita:
«io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna».
La resurrezione poetica di Beatrice
Il XXX canto del Purgatorio è l’adempimento di quella giovanile promessa. Virgilio ha accompagnato Dante nell’esplorazione della voragine infernale e – a quest’altezza del libro – hanno appena scalato la montagna delle redenzione, divisa in sette terrazzamenti nei quali vengono espiati i sette vizi capitali. Potremmo definire il Purgatorio una clinica dell’anima, dove «l’umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno». Gli spiriti penitenti si riabilitano moralmente attraverso una lenta terapia spirituale. Il grande poeta latino, alle soglie del Paradiso terrestre, rivolge a Dante le ultime parole, incoronandolo signore della propria anima (canto XXVII, v. 142: «perch’io te sovra te corono e mitrio»).
Nel giardino edenico si svolge una solenne processione, che preannuncia uno dei culmini emozionali di tutto il poema: una donna incede verso il protagonista ( vv. 31-33: «sopra candido vel, cinto di uliva / donna m’apparve, sotto verde manto,  / vestita di color di fiamma viva» ), salutata dalle parole che erano state rivolte a Gesù nel giorno della sua entrata a Gerusalemme: «Benedictus qui venis».
L’eco antico dell’amore
Dante avverte l’eco dell’antico amore (v. 39: «d’antico amor sentì la gran potenza») e ogni goccia di sangue trema dentro di lui. Allo stesso modo di un bambino che invochi la protezione materna, egli si volge per cercare il supporto di Virgilio, il quale però si è ormai congedato definitivamente, lasciandolo esposto a sé stesso.  Per la prima volta nel poema, risuona il nome dell’autore, pronunciato da Beatrice, al cospetto della quale il peregrin d’amore si ritrova dopo tanti anni.
Sono i versi 55-57  del XXX canto del Purgatorio:
Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non pianger ancora;
che pianger ti convien per altra spada.
Beatrice. che ricompare in questo trentesimo canto del Purgatorio. accompagnerà Dante nell’esplorazione dei cieli paradisiaci.  Nella terza cantica, una delle grandi sfide sarà quella di raccontare lo splendore degli occhi della sua amata, quegli stessi occhi che da ragazzo gli apparivano come anticipi di cielo sulla terra.
Scrive il grande romanziere contemporaneo Julian Barnes,  «È negli occhi che abbiamo incontrato l’altro, ed è li che ancora lo troviamo». Torquato Tasso ci aveva ricordato che « gli occhi sono quelli che più godono, e quelli di cui più si gode nell’amore ».
La Pasqua della Divina Commedia
Beatrice è colei che trasforma la mente di Dante in un Paradiso (imparadisa la mia mente) capace di accogliere tutta la bellezza dell’Universo. Nel XXX canto della terza cantica (mirabile come sempre la simmetria testuale) Beatrice lascerà il posto alla terza e ultima guida di Dante, S. Bernardo, il quale pronuncia la santa orazione alla Vergine che apre l’ultimo canto del poema sacro.
La resurrezione poetica di Beatrice nel canto XXX della seconda cantica rappresenta la Pasqua della Commedia.
Nel Novecento, un grande poeta italiano ha legato la sua opera a questo segmento testuale (i canti XXX e XXXI), ossia Giorgio Caproni, il quale prenderà in prestito le parole che Beatrice rivolge a Dante (XXXI, v. 46: « pon giù il seme del piangere e ascolta») per dare un titolo alla sua raccolta lirica dedicata ad Annina, la madre-fidanzata ritrovata dopo un folle volo, un viaggio nel tempo verso un luogo addirittura di antenascita.
Nel seme del piangere, Caproni riorchestra armoniche dantesche e stilnovistiche e accompagna poeticamente questa ragazza, che un giorno diventerà sua madre, per le vie di Livorno, fiorite di occhi che mirano incantati il suo passare. In questo modo, gli archetipi lirici duecenteschi rinascono a vita nova.
La gente se l’additava vedendola, e se si voltava anche lei a salutare, il petto le si gonfiava timido, e le si  riabbassava, quieto nel suo tumultuare come il sospiro del mare.
Quando questo viaggio nella memoria finisce, la ferita di vivere torna a bruciare:
Annina è nella tomba
Annina ormai è un ombra.
E chi potrà più appoggiare
l’orecchi al suo petto e ascoltare
come una volta il cuore
timido, tumultuare?
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tmnotizie · 6 years ago
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“Il passaggio di Lawrence Ferlinghetti a Grottammare ha  profondamente segnato la storia della città e anche il patrimonio culturale di doni che la nostra comunità, nei secoli, ha ottenuto dai grandi artisti. La poesia ‘Grottamare’ di Ferlinghetti è scritta come un tatuaggio sulla pelle di ogni grottammarese, è un privilegio che poche realtà cittadine possono detenere, quello cioè di avere una poesia intitolata con il nome della propria città da un grande poeta. È una cosa a dir poco straordinaria!”. Così Enrico Piergallini, sindaco di Grottammare nonché poeta egli stesso, ha presentato l’omaggio che la città da lui guidata ha deciso di dedicare ad uno dei più importanti poeti americani del Novecento, inserendosi di fatto nei festeggiamenti che in tutto il mondo verranno tributati a questo eccezionale artista.
Due gli eventi programmati: domenica 24 marzo (giorno del suo centesimo compleanno), presso il piazzale della stazione ferroviaria verrà scoperto – alle ore 11 – un pannello con la riproduzione della poesia in duplice versione, quella originale in inglese, scritta di suo pugno con una bella calligrafia, e la traduzione italiana fatta da Marco Fazzini, professore di Letterature Comparate all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ossia colui che ha tradotto per la prima volta questo scritto che è stato pubblicato – nel 1991 – nel libro di Michele Rossi ‘Grottammare terra poetica’, un’antologia di poesie dedicate alla nostra città (Lawrence Ferlinghetti la pubblicherà, leggermente modificata, “solo” nel 1993 nel volume ‘These are my rivers / New & selected poems 1955-1993’, edito da New Directions Publishing Corporation di New York). Il pannello è accompagnato da una targa in braille, realizzata dall’Unione Italiana Ciechi, in cui viene spiegata la genesi della poesia. Il secondo evento si svolgerà, invece, sabato 6 aprile presso la sala Kursaal (inizio ore 17:30): una “lezione”, dal titolo “Dipingere luci sui muri della vita”, in cui il curatore Lucilio Santoni converserà con Giada Diano, la biografa italiana del poeta americano; le letture di alcuni scritti di Ferlinghetti saranno proposte dagli attori Piergiorgio Cinì e Valentina Illuminati. Nel presentare questo secondo appuntamento, Lucilio Santoni ha affermato che “la poesia ha come compito principale quello di creare continuamente echi, quindi traduzioni, letture, interpretazioni e riflessioni. È proprio questo lo statuto della poesia, che non morirà mai per continuare la sua vita in eterno”.
L’idea di questa celebrazione la spiega brevemente Lorenzo Rossi, assessore allo Sviluppo e alla Promozione che ha voluto fortemente l’evento: “Da diverso tempo ragionavo, senza avere chiaro cosa fare, su come poter celebrare il passaggio di Ferlinghetti a Grottammare, il quale – pur non visitando la nostra città – le ha dedicato una poesia in maniera del tutto occasionale, diremmo in linguaggio poetico che la sua fu un’epifania. Poi l’amico Gianluca Traini ha avuto il merito di dare forma a quella che era un’idea latente, proponendomi di celebrare il suo compleanno, sicuramente particolare perché non è da tutti arrivare a 100 anni, lasciando una traccia proprio nel luogo dove Ferlinghetti sostò, cioè la stazione di Grottammare. Non solo: con l’occasione celebriamo anche i trent’anni della prima stesura della poesia, con  la quale – pur non essendo didascalica ma soltanto evocativa – Ferlinghetti ha colto in pieno lo spirito di Grottammare”.
Ma come nasce la poesia ‘Grottamare’? Il 13 e 14 ottobre 1989, Lawrence Ferlinghetti partecipa a Pescara – con altri importanti personaggi internazionali come Gregory Corso, Andrej Voznesenskij e Giorgio Caproni – al convegno “D’Annunzio e i poeti d’oggi”, organizzato dall’ateneo pescarese. Sulla strada del ritorno verso Bologna, il treno su cui viaggia fa una sosta più prolungata del solito, per un guasto tecnico, nella stazione di Grottammare. È l’alba e Ferlinghetti ha modo così di ammirare da un lato il sorgere del sole avvolto da una leggera nebbiolina, dall’altro la meraviglia del nostro vecchio borgo medievale e butta di getto sul suo taccuino alcuni spunti poetici. Gianluca Traini e Lorenzo Rossi, nella loro ricerca per mettere ordine a questo evento, sono riusciti anche a trovare – nel fondo donato da Ferlinghetti all’Università della California di Berkeley  – la data esatta del primo abbozzo della poesia: 19 ottobre 1989. Nel corso delle ricerche si è poi scoperto che la poesia fu letta in pubblico dallo stesso Ferlinghetti un anno dopo a Napoli, nell’ottobre 1990 (data in cui ha evidentemente preso corpo la lirica), in occasione di un altro incontro poetico. A questo reading era occasionalmente presente il sambenedettese Pierangelo Cesaretti, grande appassionato di poesia, il quale – sorpreso dalla declamazione di una lirica a lui ‘vicina’ – ha modo di scambiare, al termine della performance, alcune parole con il poeta di origini bresciane; si fa fare una fotocopia del manoscritto, questa passa nelle mani di Giorgio Voltattorni e Marco Fazzini, i quali la girano in seguito, compresa la traduzione in italiano, a Michele Rossi che stava preparando la prima antologia di liriche dedicate a Grottammare.
Con trepida attesa, quindi, la città di Grottammare si appresta a festeggiare – insieme a tutto il mondo – il compleanno del poeta, pittore, editore e libraio amico di Allan Ginsberg, Jack Kerouac, Neil Cassady e Gregory Corso, l’autore di “Coney Island of My Mind” (la raccolta di versi che lo rese famoso nel 1958, un milione di copie vendute!). Il tutto come se fossimo amici di famiglia perché – come ha affermato il sindaco-poeta Enrico Piergallini – “in un certo senso lo siamo: si è fermato a Grottammare e ci ha lasciato il suo ricordo”. Ed il compito che Piergallini indicò ai poeti all’Assemblea contro l’Oblìo, nel gennaio 2010 a Roma, ossia quello di “penetrare nella coscienza dei cittadini”, crediamo che con Ferlinghetti sia stato ampiamente raggiunto. Quanto meno a Grottammare.
  Felice Sorridente
  Testo © dell’Autore e dell’Editore
Nella foto: particolare della locandina dell’evento “Omaggio a Ferlinghetti”
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ta-suka-suka-onomason · 7 years ago
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Giorgio Caproni, Bisogno di guida
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oubliettemagazine · 7 years ago
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Claudio Borghi: Sono tanti i testi e gli autori, provo a citarne qualcuno. Tra le opere filosofiche: il Timeo di #Platone, le Enneadi di #Plotino, le opere di Dionigi Aeropagita, Juan de la Cruz e #MeisterEckhart, La Commedia di Dante e l’Itinerarium mentis in Deum di San Bonaventura, La dotta ignoranza di Nicola Cusano, De la causa, Universo et Uno e De l’infinito, Universo e mondi di Giordano Bruno. Tra le opere poetiche: Gli Inni alla Notte di #Novalis, Les Illuminations di #Rimbaud, Exil e Chronique di Saint-John Perse. Ma pensandoci bene me ne vengono in mente tanti altri, #SimoneWeil e #LudwigWittgenstein (che Marco Vannini considera tra i più grandi mistici del Novecento), il #Rilke delle Elegie Duinesi e dei Sonetti a Orfeo, #Leopardi, Campana, Rebora, Michelstaedter, Caproni… ed è come un reimmergermi nell’io diffuso imprendibile che ero allora, nel pensiero di tante anime che mi parlavano e mi nutrivano, punto di luce che sentiva e viveva la conoscenza come atto di visione e annullamento del confine minuscolo della persona. La codificazione è iniziata intorno ai sedici-diciassette anni, grazie al filtro potente della Lettera del Veggente di Rimbaud.
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