#è stato sempre leopardi fin da bambino
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valentina-lauricella · 6 months ago
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[...] gradita immago,
Ah, qual commuovi i sensi miei!... T’accheta
Ambizioso mio cor...
(Da "Pompeo in Egitto", tragedia scritta nel dicembre 1811 da G. Leopardi)
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girulicchio · 3 years ago
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Evoluzione di un personaggio (autoritratto)
All'età di circa due anni sarò stato un bambino normale. Parlavo, camminavo, scoprivo cose con una certa curiosità. Poco dopo, diciamo all'asilo, ho iniziato a sviluppare una propensione all'apprendimento poco sopra la media. E lì nacque il dramma: mia madre iniziò ad elogiarmi come fossi stato un bambino prodigio. Altro che Leopardi, Manzoni, Leonardo. Tutti spanne sotto il sottoscritto. Disegnavo - sempre a suo dire - con pieno controllo di prospettive, ombre e sfumature. Leggevo articoli di giornale e li commentavo con fare critico e arguto. Scrivevo poesie, probabilmente prima ancora di sapere cosa fossero. C'è da apprezzare, visto il contesto, che non mi abbia definito anche una promessa dello sport. E soprattutto mia madre non mi ha mai permesso di farne, incutendomi terrore, come se l'attività motoria potesse essere una guerra contro un'esercito piuttosto che una sana sfida tra bambini in quello che essenzialmente sarebbe stato un gioco come un altro. Del resto, sono stato goffo e impacciato fin da piccolo e solo oggi mi chiedo se sia causa o effetto delle scelte non mie.
Ma parliamo anche di quando ho iniziato ad acquisire coscienza. All'età di sei anni, quando finalmente era finito lo strazio delle recite di fine anno, ho iniziato a trovare la mia dimensione. Ho fatto progressi rapidi nella lettura e nella scrittura e ho provato il piacere di scrivere quello che penso per le prime volte - stavolta per davvero. Ho iniziato a scrivere di me e da allora non ho mai smesso.  Credo che si sia sempre letto molto egocentrismo nelle mie parole, ma ho fatto di tutto per costruire sempre immagini tanto belle da nascondere il resto. Sono passato dall’amore spassionato per i dettagli, per le figure retoriche, per testi vuoti in termini di contenuto, ma ricchi di immagini, a satira tagliente, sarcasmo pungente e altri modi repellenti che, invece, sottolineassero con incredibile antipatia quanto mi sentissi al di sopra del resto del mondo.  Ecco, quello è stato il periodo dell’adolescenza, come si può intuire. 
Con l’età adulta, ho messo da parte gli orpelli e le presunzioni e ho finalmente risposto alla domanda esistenziale: perché scrivo? Prima scrivevo perché pensavo di saperlo fare, prima ancora perché mi piaceva l’idea di lasciare nero su bianco i miei pensieri. Ora so che scrivo perché mi piace farlo, perché mi permette di capire qualcosa in più di me quando rileggo pensieri di molti anni prima o quando lascio dei moniti, delle profezie e posso riderne per la loro assurdità o compiacermi della loro precisione. 
Oggi, essenzialmente, scrivo per costruire il mio personaggio nel tempo. Non credo che sarò tanto importante un giorno da poter avere un’autobiografia, né avrei davvero la voglia di far leggere ad altre persone qualcosa che non riguarda nessun altro che me. In questo modo, però, mi guardo da fuori. E imparo a conoscermi sempre di più, ad apprezzarmi e a migliorarmi.  
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pangeanews · 4 years ago
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“Se non avessi trovato la letteratura sarei diventato un rapinatore a mano armata”. Dialogo con Aurelio Picca
Io i romanzi li soffro, li pago con tutto il corpo. “Ora mi sono pure messo a dieta, ho cominciato a dare pugni al sacco, mi sono sfasciato”, mi dice, concitato, non lo freni, “no, perché io i romanzi li soffro, li pago con tutto il corpo, ci metto tutto, mi segnano”. Lo capisco. Nel corpo di uno scrittore è rispecchiato e vissuto, come un circo di cicatrici, il corpus, l’opera.
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Sono nato classico, cosa posso farci? Accade raramente, ma di solito accade così. Dal libro risalgo all’autore – per capire la coincidenza (o l’esiziale distanza) tra scrittore e scrittura. Ho letto Il più grande criminale di Roma è stato amico mio (Bompiani, 2020), ne ho scritto, e sono asceso ad Aurelio Picca, scrittore che non scopro certo io (cito alcuni romanzi piuttosto noti: Tuttestelle, Sacrocuore, Un giorno di gioia, Arsenale di Roma Distrutta). “Vedi, io inizio con i racconti, ero tutto lì, in quel libro, La schiuma, l’aveva pubblicato Gremese e avevo fatto un miracolo, ho messo d’accordo tutti, la neoavanguardia e la tradizione, ricordo che ne scrissero Geno Pampaloni e Angelo Guglielmi, per dire. Sono nato classico, cosa posso farci?”. Di certo, il tuo è un romanzo ‘italiano’, si sente, c’è quella lingua spessa e imperfetta, imperiosa, azzardata, con corpi e vento, senza sconti né riserve. “Non ho altra ambizione. Sono l’ultimo scrittore della tradizione e della scrittura italiana… ma te non sai che vita ho fatto…”.
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Me ne vado al Bernabéu senza sapere nulla dei Mondiali. No, non lo so. “Ho fatto sette, otto anni di studio matto, un corpo a corpo con le parole, vivevo fuori dalla realtà. Ero inabissato in una specie di ricerca interiore, non sapevo nulla oltre a quello che leggevo. Ti dico solo questa. Era il 1982, entro al bar, un gruppo di amici mi ferma: vuoi venire con noi al Bernabéu, a Madrid, c’è la finale? Non sapevo niente neanche dei Mondiali, non conoscevo i nomi dei giocatori della Nazionale. Ma sono andato”.
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Punisco me… per punire voi! C’è un anniversario. Aurelio Picca fa il suo esordio alla letteratura nel 1990, trent’anni fa. Con una raccolta di versi, editi da Rotundo. La raccolta si intitola Per punizione. “Volevo provocare e punirmi, pensavo alla letteratura come ad una assoluta assunzione di responsabilità. Così, viene fuori Per punizione. Punisco me… per punire voi”. Cosa leggevi di poesia? “Ho letto molto, di tutto, i classici, la poesia del Novecento. Pascoli, Ungaretti, Leopardi, Foscolo, Caproni… Sono stato amico dei padri, di Domenico Rea, di Amelia Rosselli. Ho amato l’Ortis, quella maniera appassionata di dire l’Italia in frantumi, l’esistenza in corpo, la misura di prosa e poesia. Fu importante”.
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Laudavino De Sanctis, “Lallo lo Zoppo”, il capo della Banda delle Belve. Il romanzo di Picca ha il candore di ciò che ti assassina, è una specie di Kaputt degli anni Settanta e Ottanta, di quell’Italia romana, putrefatta. Tutto comincia con un articolo. Lo pubblica “il Giornale”, il primo marzo del 2015. “Parcheggio di fronte al Caffè Palombini per raccontare le feroci gesta di Laudavino De Sanctis detto Lallo lo Zoppo, colui che, poliomielitico, fuggì appeso a corde e lenzuola due volte da Regina Coeli e una dal carcere di Pisa. Il criminale a capo della Banda delle Belve, quello che lavorò con il Clan dei Marsigliesi; quel Lallo, zoppo come Moravia, il quale vestiva con giacche a due taschini e spacchi e che, già nei primissimi Settanta, si «faceva» le gioiellerie e posava le chiappe sulle meglio automobili”, leggo. “In realtà, ho pensato a come costruire il libro dal 2012, appena terminato Addio. Quell’articolo fu una svolta nel giro simmetrico invisibile del fato. Ho conosciuto la figlia di Lallo, ho accumulato materiale. 4mila fogli di carte processuali. Eppure, non m’importava scrivere un romanzo storico né la biografia di un criminale – il libro doveva essere ineccepibile, ma raccontare qualcosa di più potente”. C’è un’atmosfera, nel libro, vivida, livida, come una spirale di lucertole, ti morde. “Beh, non puoi scrivere ciò che ignori, la penso così. Da ragazzo sono stato ‘signorino’ ma anche ‘ragazzo di vita’, uno che faceva la sua ricerca spirituale e che correva sulle macchine, ero nella contraddizione totale. Sapevo di uno che si era buttato già da Regina Coeli e s’era azzoppato… mi serviva questo specchio, questo interlocutore per la storia di un uomo esistenzialista. Amo le storie di uomini che non sono moralisti né corretti, che fanno i conti con la propria vita, senza maschere, anzi, tentando di strapparsele tutte, le maschere”.
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Era un posto selvaggio, puro. Ora è tutto una merda. I luoghi hanno una possanza primordiale, fin da subito. Vulcani, crateri, macelli. Vita che si erge sull’ultima erma del sangue. “Penso che il cono del vulcano stia risucchiando acqua. Una specie di gola arsa che si disseta… Per me il lago Albano è la morte. Eppure ci vivo. Forse perché mi offre gli ultimi anni che merito o rubo a me stesso”, dice il protagonista del libro, Alfredo Braschi, nella prima pagina. “Questi sono luoghi arcani, pazzeschi: James Frazer ha scritto Il ramo d’oro intorno a Nemi, sul Monte Cavo sorgeva il tempio di Giove, il più importante della latinità, da sempre, da secoli, fanno pellegrinaggi lassù – ci fanno anche le messe nere. Tra quei crateri sono nato io”. Sacrifici, responsi ambigui, epica inumana e troppo umana. Nel romanzo c’è il sacro, “la via Sacra, la stessa che calcavano i pellegrini oltre duemila anni fa”, e l’assassinio profano, la criminalità, l’epigrafe e il volgare. “Non hai idea di cosa fossero i Castelli Romani, a quell’epoca… potevi incontrare Gianni Agnelli in un ristorante e nello stesso posto una banda di ragazzi che ti diceva, così, senza conoscerti, ‘senti, stasera andiamo a farci una villa, sei dei nostri?’, conosco quelle atmosfere, quelle storie, quel sangue… Era un posto selvaggio, puro. Ora, tutto è diventato una merda”.
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Ho cominciato a scrivere perché avevo bisogno di una legge. Alla fine del romanzo, denunci una poetica. “Nella vita ogni nodo viene al pettine. E se non decidi tu, ci pensa lei. Non credo nella fortuna, né alle scorciatoie. Sono stato un bambino orfano. La mia ferita era talmente bianca che già allora l’anima tagliava e illuminava il corpo. Forse sono diventato uno scrittore per sostituire, attraverso le parole, la legge del padre e poi di un nonno che fu per me patriarca”. Spiegati. “Con gli anni ho scoperto che la mia cultura è cristiano-pagana. Mia madre era una donna di grande interiorità, un po’ levantina; mio nonno, che mi ha allevato, questa specie di padre mitico, era repubblicano e anticlericale, contro ogni Stato, foscolianamente. In seconde nozze, mia madre sposa un comunista togliattiano, pensa te. Quando è morto mio nonno, avevo 19 anni, ho scoperto la letteratura e mi sono fatto l’idea che scrivere mi serviva perché avevo bisogno di una legge. Se non avessi trovato la letteratura sarei diventato un rapinatore a mano armata”.
*
Preferisco Fenoglio, Calvino ha distrutto la tradizione della lingua italiana. Ma… cosa leggi, piuttosto, cosa hai letto? “Sono passato da Guy de Maupassant a Domenico Rea, attraverso Giovanni Verga, che ha scritto i più grandi racconti italiani di sempre. Ho attraversato il Tasso e Tozzi, i provinciali furenti; sono stato contagiato dai francesi, quelli tra le due guerre, Drieu e André Malraux, soprattutto, ho amato la biografia deragliata del Foscolo, ogni anno vado in pellegrinaggio sui Colli Euganei. I francesi mi hanno insegnato che se c’è una lingua, allora l’esistenza può entrare nella letteratura. Poi, è chiaro, preferisco Beppe Fenoglio a Italo Calvino, che ha distrutto la tradizione della lingua italiana. A vent’anni amavo Pierre Klossowski; naturalmente, ho adorato Céline, ma ora lo citano un po’ tutti per questo dico: Puskin”.
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Io sto coi papi che impugnano la spada. Ricalco altre due frasi dalla tua poetica, dalla tua confessione. “Questo romanzo è un viaggio che ha Cristo sepolto in petto”. E poi: “Credo che la perfezione stia pure nella caduta”. Dimmi. “Vedi… sono uno scrittore verticale, amo Maupassant, sono uno che taglia con l’ascia. Ho dentro di me lo stupore dei bambini, quella meraviglia che è anche ferocia, che è pagana ed è parte del cristianesimo. Il Cristo l’ho sentito a trent’anni, con la potenza di Grünewald. Dobbiamo ricordarci che Cristo è un uomo che muore, sulla croce. Cristo era uomo quando è morto, mica Dio, e questo è sconvolgente. Il cristianesimo è pietà e combattimento. Come si può capire, io sto con i papi che impugnano la spada”.
*
Se Dio mi darà la forza. E ora, che scrivi? “Niente”. E cosa scriverai? “Vorrei scrivere un libro grandissimo, vasto, s’intitola ‘Romanzo dell’eternità’. La trama riguarda la storia di un bambino, da quando è un feto agli 11 o 12 anni, l’età in cui si diventa, prepotentemente, adolescenti. Questo bambino abita da solo, in un palazzo abbandonato, e prepara un presepe. Il presepe gli viene distrutto d’estate dalle rondini, d’inverno dai topi. Lo scriverò, se Dio mi darà la forza”. Che Dio ti dia la forza, Aurelio. (d.b.)
*In copertina: Aurelio Picca in un ritratto fotografico di Maurizio Valdarini
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valentina-lauricella · 6 months ago
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Scorgo il preannuncio delle Canzoni patriottiche in alcuni versi di Pompeo in Egitto, tragedia che scrisse a 13 anni:
"...ch'io
I nemici non temo, io più di loro
Temo il vostro timor. Lieve tempesta
Al nocchier che dispera è ognor fatale."
"...Pompeo
Non sa che sia timor, se vinto ei cede,
Colpa del fato è sol, non di viltade."
"...in me non langue estinta
La romana virtude, il fier valore."
"...non paventa
Pompeo di morte il sì temuto aspetto:
Sol per la patria io vivo, e questo braccio
Sol per la patria pugnerà [...]"
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pangeanews · 4 years ago
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Ma io chi sono? Dal “distanziamento sociale” al prendere le distanze dalla società
Chi ci tocca ci priva della personalità, invade lo spazio privato, offende. Chi tocca, finisce per ferire.
*
Eppure, esistiamo finché qualcuno ci esprime, toccandoci, dando vita ai nostri limiti – il corpo è sconfinato se chi lo ha messo al mondo non lo mette nel rettangolo di una culla. Si entra in una comunità per battesimo, certi del compito di diventare acqua – ma stiamo sempre sulla riva del fiume: ad ammirare il cadavere del nostro nemico, oppure, assisi sul Gange, a ragionare sulle rovine rapinose d’Occidente, come fa il poeta della Terra desolata.
*
Tutto, nell’uomo, nasce per difendersi dalle forze contrarie, dalla natura “matrigna” (Leopardi: “Il nascere istesso dell’uomo, cioè il cominciamento della sua vita, è un pericolo della vita… Oh, infinita vanità del vero!”), dai propri simili, in realtà dissimili – non è raro trovare affinità con gli altri esseri rispetto all’uomo. Tutto è contrario all’esistenza individuale. Unghie, denti, mani: armi che tengono a distanza il prossimo, fino al morso. Con le mani afferro un bastone, costruisco una casa. La casa, in effetti, può essere spazio per l’ospite – resta, comunque, uno spazio privato. Da difendere fino alla morte dagli estranei. (Porre la differenza tra altro ed estraneo; tra l’estraneità dell’uomo e la stranezza del dio).
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Privato dalla propria sede celeste, caduto al mondo, l’uomo se ne appropria, privando gli altri – chiunque – dello spazio che definisce proprio. Chi entra in casa vostra senza permesso è come se invadesse la vostra testa: lo cacciate.
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Tra proprio e appropriato: lì bisogna insinuarsi. Tra distanza e prendere le distanze.
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Monoteisti, monogami, monadi, monaci, monomaniaci. Siamo uno, siamo unici e perciò soli, mono, monos. Certo: monotoni, a volte. Tutto è uno, un attimo, accade una volta sola – ciò che ritorna non è una replica del trascorso. “Dal momento in cui apre gli occhi alla luce, l’uomo, trovandosi buttato a caso tra tutte le altre cose del mondo, cerca di trovare se stesso e di conquistare se stesso emergendo dal loro groviglio. Ma tutto ciò che il bambino tocca si ribella alla sua stretta e afferma la propria esistenza. Perciò la lotta per l’autoaffermazione è inevitabile, perché ogni cosa tiene a se stessa e nello stesso tempo si scontra continuamente con altre cose”: questo è il principio, folgorante, de L’unico e la sua proprietà di Max Stirner.
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Quando si parla di “distanziamento sociale” si dimentica – volutamente – che la “società”, di per sé, non esiste, è un coagulo caotico, e che l’uomo, il singolo, esiste come “distanza” dal resto. Quando prende un modello, per imparare a vivere, lo imita fino a mangiarlo, a ucciderlo. Di uno non esiste il doppio: le copie sono orribili, provocano risposta di distruzione. Non vogliamo mai una fotocopia ma l’originale.
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Da “gruppo” a “società”: una famiglia può essere in lotta con un’altra, un paese con quello vicino – l’appartenenza, di solito, è apparente, parziale.
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D’altronde, l’arte occidentale eccelle nel ritratto: dal viso del Figlio si è passati a ritrarre quello dell’uomo. I tratti somatici vengono dipinti per l’eternità, sono sguardi proiettato in un futuro – perché la ‘proprietà’ prima, il corpo, resista alla morte. Il ritratto triplo di Carlo I Stuart ad opera di Antoon van Dyck, triplica la proprietà del potere.
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Sulla rivista “The Point” Corina Stan scrive una vasta articolessa, Between Us, tratteggiando una history of social distance. “Quando vai a letto, alla fine di una giornata popolata da scarse persone reali ma traboccante di sagome astratte, di profili digitali – che hanno perso il lavoro, che non hanno potuto dire addio ai propri cari, che ti salutano da uno schermo – che cosa sei, chi sei?… Cosa siamo senza la presenza elettrizzante di una folla, in cui ci si dissolve, dentro uno stadio in cui centinaia o migliaia di sguardi sono concentrati su un pallone, o in una sala da concerto in cui i presenti si conformano al ritmo di una esibizione?”, scrive. Che differenza c’è tra corpo “sociale” e corpo individuale? Per alcuni, è necessario che questa differenza si assottigli nello zero (uomini mutati in “massa elettorale” o in “massa rivoluzionaria”; in massa di acquirenti, in massa di assetati di potere). Già San Paolo distingue tra il corpo dei fedeli, il corpo della Chiesa, e il singolo (“Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito”, 1 Cor 12, 12-13). Si è battezzati perché, insieme, diventiamo fiume, distinti ma indistinguibili.
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Corina Stan cita Elias Canetti: nel 1960, con Massa e potere, il tema è quello, fin da subito. ��Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo e classificarlo. Dovunque, l’uomo evita di essere toccato da ciò che gli è estraneo”, attacca Canetti. Dio è intoccabile – se tocca, uccide. Allo stesso modo, cercando di replicarne gli attributi, il re si cela alla vista dei sudditi: propala la morte o la pietà per voce, come se la voce fosse una mano, un esercito. Ordina di uccidere, e qualcuno adempie il suo ordine. Non si fa toccare perché tutto è pericoloso, contagioso, e il corpo del re è sacro. Piuttosto, quando il re taumaturgo tocca il malato costui può salvarsi.
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Il corpo sacro non si tocca – come quello malato. Entrambi stanno in luoghi alieni all’uomo: solo gli accolti o gli accoliti possono dotarli di cibo. Uno ha parole che orientano la vita, l’altro porta la morte. Santo e lebbroso sono uno.
*
“In una stanza straniera, svuoti te stesso prima di dormire. Prima di svuotarti, sei qualcuno. Quando ti sei svuotato, e dormi, non lo sei. Nel pieno del sonno, non sei mai stato”, William Faulkner.
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Il rapporto tra io e Dio è contrario rispetto a quello costruito dall’ego con la società divinizzata. Nel primo caso, conta la soppressione della proprietà e del proprio – dalla casa privata al monastero, al deserto; dal nome proprio all’assenza di nome; dai vestiti che distinguono uno stile alla tonaca, lo straccio, che sanciscono una obbedienza; dal sesso che edifica il corpo alla rinuncia, il dono del corpo. Nel secondo caso, è necessaria l’esaltazione di sé (già, ma quale dei molteplici sé?), affinché gli altri se ne accorgano, per la conseguente conquista di apprezzamenti e maldicenze (mercimonio di fragilità che Cioran descrive, raccontando il Settecento francese, in Antologia del ritratto). Tra egotismo e monachesimo: il barlume di una piuma, l’ombra del puma.
*
Concediamo la ‘prossimità’ a pochissimi, solo i vicini ci sono prossimi. Se ‘il prossimo’ è tutta l’umanità, beh, ci sembra di approssimare il concetto all’indifferenza suprema, a una compassione priva di sangue, a una definizione astratta, come se l’uomo fosse un principio geometrico, organizzato. Si muore per uno o per Dio, non per tutti – si muore, semmai, per un’idea.
*
Più che il “distanziamento sociale”… dovremmo prendere le distanze dalla società: una massa – che sia di uomini in festa o in rivolta – ha un unico viso, di solito feroce, e sta insieme per ottenere l’ottundimento dell’individuo (credendo, va da sé, ciascun membro della massa, di avere una individualità spiccata). Un uomo è qualcuno che puoi amare, che puoi sfidare a duello, a cui prendere le misure per simulare l’assalto o l’abbraccio. Dalla distanza, allora, passeremo a una stanza, dove è bello discorrere non per capirsi, ma per dare fuoco ai verbi. (d.b.)
*In copertina: Martin Schongauer, “Le tentazioni di Sant’Antonio”, 1490 circa 
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pangeanews · 5 years ago
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“Lawrence d’Arabia è morto. E non lo rimpiango”. Le relazioni pericolose tra Robert Graves e l’eroe dei “Sette pilastri della saggezza”
Chi forgiò il mito di Lawrence d’Arabia? Fu un suo contemporaneo e sodale, il caro Robert Graves che abbassò l’asticella mistica di T.E. riportandolo a terra dopo i Sette pilastri della saggezza. Nel 1928 se ne esce con un libretto divulgativo, Lawrence and the Arabs che semplifica, lima, scortica una figura che, com’è giusto che sia, rimane misteriosa anche ai nostri occhi. Anche adesso che disponiamo di biografie monumentali e di tutte le lettere del caso.
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Le lettere di Lawrence a Graves sono importanti per due motivi: primo, si incidono come il segno di un’intelligenza elastica. Secondo, ti sprofondano in abissi atemporali. Mi spiego: qui Lawrence va oltre la letteratura e cerca di portarsi Graves in questa discesa. Le sue lettere sono un potenziamento di Kafka, con uno strato appannato dal calore del deserto. Un’allucinazione baudelairiana senza orrori, in un deserto abitato dalla politica del suo tempo.
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Importa rilevare che Graves mise a disposizione del pubblico alcuni di questi documenti tre anni dopo la morte dell’amico nel libretto Faber&Faber Lawrence to his biographer (1939). Altri testi privati sono stati progressivamente messi in circolo, dopo debito acquisto dei diritti, dai biografi di Lawrence, tra i quali spicca Jeremy Wilson. Altro fatto saliente. Quando Lawrence decise di bruciarsi di nuovo – lo faceva in continuazione, donando poesie ad altri che poi le spacciavano per proprie, scordando sui treni le prime bozze dei Sette pilastri, entrando nella RAF e scrivendo sotto le coperte di notte – rinnegò la letteratura e fece avere al suo maggiore una copia della biografia che Graves gli aveva dedicato. Il volume era zeppo di note acri e fredde, puramente british. Per dire, sul frontespizio segna questa lapide all’amicizia: “Non prenda per oro colato il libro di Graves! In verità è realmente superficiale. Sarebbe difficile, scrivendo di una figura poco nota ma di una certa reputazione, evitare di drammatizzare un poco il proprio soggetto”. E via con altre trenta note a margine, infastidite.
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Del resto, quando nel 1922 Lawrence cambia nome ancora una volta e si arruola nella RAF, è tutto diverso dai suoi compagni di studio. Graves, che è più giovane di lui di sette anni, è ormai un professore affermato che ha fatto gavetta all’università del Cairo e sta sperimentando nuove forme poetiche sulla scia di Sassoon. Lawrence, invece, si limita a tradurre per i fatti suoi l’Odissea pubblicandola nel 1932. È vero che il vecchio uomo del deserto è vivo da qualche parte dentro di lui, ma i ricordi rischiano di disfarsi se non li si rievoca prendendo in mano la penna e scrivendo gli amici.  Cerca allora di tenere i nodi del passato in mano e scrive a Graves, dopo la pubblicazione dell’Odissea, spiegandogli che, pur non capendo le sue ultime poesie erotiche scritte insieme all’amante americana, ne conserva il ricordo come di un’amicizia fondamentale nella sua vita. (Oltre a quella, più congeniale, con Forster)
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Lawrence a Graves, da Plymouth, il 24 gennaio del 1933: “Vivo ogni giorno con gente vera e mi preoccupo solo di cose concrete. Il vecchio T.E. Lawrence che cercava se stesso e si divorava, quello di Oxford, e il vecchio T.E. Shaw dei Sette pilastri e dello Stampo, è morto. Né lo rimpiango. I miei ultimi dieci anni sono stati i migliori della mia vita. Penso che guarderò indietro al mio periodo 35-45 come all’epoca d’oro”. Poi smorza: “Certo, ci sono molte persone qui alla RAF con le quali vivere. E sono in gamba: ma è la vita meccanica: concreta, superficiale, quella di sempre: diversa dalla vecchia esaltazione che mi procurava la guerra. So che l’esaltazione è sepolta in me e ne sono tanto più felice: ma tre o quattro vecchi contatti rimangono, per lo meno, come memorie”.
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In una lettera da Karachi del 3 maggio 1927, dall’altrove in cui era rannicchiato per servizio, Lawrence scherza così con Graves: “Continuo a seguirti e il sono tra i tuoi tremila ascoltatori dei tuoi interventi alla BBC. Per il resto Rivolta nel deserto vende, come dicono, vende come le mele mature al mercato. Avessi qualche interesse nell’affare, ora girerei in Rolls Royce. Godo al solo pensiero che tu ora ti metta a vendere la tua copia dei Sette pilastri: tira al massimo sul prezzo, anzi sto già qui a mangiarmi le mani perché potevo dartene una copia farcita di note piccanti lungo i margini. Avrebbero rialzato di almeno dieci sterline, non trovi? (…) Sono contento delle novità delle tue ultime poesie, non sono tante ma sono poesie, non ripetizioni del Graves che conoscevamo. Sono dispiaciuto che queste donne ti feriscano, feriscono molto più di quanto noi uomini non ci possiamo fare a vicenda. Ma speriamo, dai. Che diceva Browning al riguardo? Troppo, al solito. E Swinburne con lui. Quindi sono in buona compagnia”.
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Fin qui l’amicizia e le reciproche devozioni. Ora un po’ di cattiveria, ecco i plagi. C’è una poesia di Graves, Whipperginny, che non è farina del suo sacco. Parte dai succhi cerebrali di Lawrence che un giorno a Cambridge aveva spiegato a Graves che i figli, prima di essere generati, inducono alla lascivia i loro genitori. Gli aveva espresso con precisione il concetto con alcuni versi che si sono dissolta nell’aria sottile. Graves recepì il messaggio e se ne impadronì con così:
Abbiamo spronato i nostri genitori a baciarsi benché a forza di dubbi questi rimanessero gelidi – il giorno con la sua luce non aveva energia per continuare quel che il buio lussurioso, da solo, poté fare: infine fummo ricongiunti con le loro carezze nella fiamma della mezzanotte, uno da due.
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Nel 1959 Graves si trovò a dichiarare in una lettera privata che “senza Lawrence sarei rimasto come te a coltivar patate, non fosse stato per lui nel lontano 1926. Curioso, poi, che a partire dalla sua morte mi sia sempre arrivato qualcosa da lui: veniva ad aiutarmi quando le cose si facevano difficili”. In effetti, dopo Whipperginny Graves torna sul tema delle difficoltà parentali in Children of darkness. Un chiodo fisso. La storia era sempre quella che gli aveva spiegato Lawrence nel 1922 ad All Souls college.
*
Brivido da una lettera di Lawrence alla sorella Pauline (perché le sorelle dei grandi, da Stendhal a Leopardi, portano sempre questo nome?): “Ma siamo poi sicuri che il mondo sarebbe un posto più pulito se fossimo morti o svaniti di mente? Lo sai, siamo tutti colpevoli allo stesso modo. Tu non esisteresti, io non esisterei, senza questa carnalità. Ogni cosa che abbia un grammo di carne è frutto di un momento in cui il pensiero lussurioso è entrato in azione, è uscito dalla capanna di Giobbe fragile come un nido e ha concepito: e non è vero che la colpa della nascita riposa, da qualche parte, sopra il bambino? Credo che siamo noi a portare in spalla i nostri genitori a concepirci, e che siano i bambini non nati a farci sentire quel prurito lì. Tutto un maledetto prurito” (27 marzo 1923).
*
In realtà Lawrence era meglio di così e tra lui e Graves non era certo lui a peccare di snobismo. Qui sotto leggete una lettera di Lawrence dove mostra un sincero attaccamento al popolo senza ‘se’ e senza ‘ma’ e la cosa si spiega con le origini di Lawrence, era un figlio non riconosciuto. Com’è meschino al confronto l’apprendista Robert Graves: discendeva per parte materna dal celebre dotto tedesco von Ranke e nel frammento retrospettivo che vi propongo mostra una grettezza intollerabile perché si mette a strologare sulle possibili origini indie della sua prima moglie. Una perversione puramente anglosassone. Il testo sinora inedito in italiano è tratto dal quarto fascicolo di Encounter e il poeta si dimostra, purtroppo, un tipo più antipatico rispetto a quello dell’autobiografia Addio a tutto questo (1929 e 1958). Lo perdoneremo?
Andrea Bianchi
***
Lawrence a Graves, Plymouth 5 maggio del 1929
Mio caro Robert (…)
parlandoti non entro comunque in affari che non sono miei, e tengo ben cara la mia libertà ché non mi sogno nemmeno di interferire: ma sei stato così drastico nelle tue condanne delle persone normali, nelle tue ultime scritture, al punto che mi faceva paura anche solo starti vicino. Vedi, so a tutta prova (per vicinanza fisica con gente normale nelle baracche di campo) quanto io sia uno normale; e siccome l’ordinarietà non è una sensazione del tutto piatta, sono stato indotto a cercare di ravvisare le mie somiglianze con le persone ordinarie: e di qui sono arrivato a vedere l’ordinario che c’è in tutti, o quasi. Ma laddove questo ti fa arrabbiare e condannare, io esco con un senso di simpatia per gli altri e mi sento loro consanguineo. Mi piacciono le tue cose perché mi sembra che tu sia portato frequentemente a dire quel che tutta la nostra generazione sta cercando di esprimere. Non c’è monopolio nel sentimento: vagonate di persone provano le tue stesse cose: ma solo in poche occasioni riescono a dirlo in modo decente. Gran cosa, il potere delle parole: ma non fa di una persona qualcosa di diverso dagli altri.
*
Robert Graves, da Il ceppo misto dei Whithaker
Nel 1919 ero un tipo neurotico per aver passato tredici mesi in trincea sotto un prolungato fuoco nemico e avevo cominciato a “vedere cose” in Francia ancor prima che un frammento di granata di otto pollici mi attraversasse il polmone destro scaraventandomi a terra. All’epoca ero in licenza a Limerick che era una città spenta e percorsa da fantasmi di famiglia e quell’immagine di emigrato, mezzo indio dalla pelle annerita, appeso alla parete, concentrava le mie paure e ammorbidiva ai miei occhi sia il passato che il futuro – sì, doveva essere qualcosa del genere “uomo muscoloso passato da Irlanda a Stati Uniti del Sud”.
All’epoca ero sposato con Julia: avevo un rapporto strano con lei dovuto in parte, voglio credere, al suo sangue irlandese. Però anche lei quando vide quell’immagine a Limerick ne fu spaventata. C’era chi giurava che l’originale era ancora più terrificante fatta eccezione per un medico che dovesse prendere i ferri e operare su quella facies distrutta dalla sifilide. Un pensiero mi attraversò la testa: e se la madre di Julia che era stata negli USA si fosse mai imbattuta in quell’uomo muscoloso, una decade prima di noi, in qualche vecchia casa di New Orleans? (…)
Un certo Mr. Lemnowitz ci disse che quel tipo nel ritratto era George Whitaker ed era collegato ai fratelli Lafitte, una coppia di pirati che erano un bel mito locale. Per principio sospettai della cosa, stesso atteggiamento che ho nei confronti dei vari eroi locali come Paul Revere, Paul Jones e Paul Bunyan. E poi quale legame poteva mai esserci tra gli incroci del ceppo Whitaker e quell’uomo ritratto con la sua muscolatura da tartaruga nel basso Mississippi? A nessuno veniva in mente che qualche bianca desiderosa [sophisticated] di Natchez, Vicksburg, Vardaman, Baton Rouge, Yazoo City e New Orleans potesse andare a fare una bella visita clandestina in cerca di qualche nuovo brivido sessuale.
Robert Graves
*traduzione di Andrea Bianchi
L'articolo “Lawrence d’Arabia è morto. E non lo rimpiango”. Le relazioni pericolose tra Robert Graves e l’eroe dei “Sette pilastri della saggezza” proviene da Pangea.
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pangeanews · 5 years ago
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“Solo in questo libro troverete la terribilità del sacro. Devo essere proprio cattivo”: insieme a Elio Paoloni verso Santiago, tra apparizioni, rivelazioni e bestemmie. Contro gli scrittori “untori della disperazione”
Il primo è un dettaglio repentino, che potete gettare alle ortiche. Dio si fa stanare in cammino. Chiede a tutti – da Abramo a Mosè, da Noè a Gesù – di muoversi per andargli incontro – che poi è un celestiale paradosso: perché Egli è ovunque e in nessundove. Fosse anche uscire dalla città e avviarsi al fiato del deserto: Dio non vuole liturgia statica ma polpacci che si corrodono, gambe fiacche, d’altronde a che serve la stazione eretta? – d’altronde, gli ebrei pregano con tutto il corpo, sono fermi ma in moto perenne. Il secondo è che il libro di Elio Paoloni, “una delle penne migliori sulla piazza” (l’autodefinizione è supportata dalla rassegna stampa relativa ai suoi libri, cito tra gli altri: Sostanze e Piramidi), s’intitola Abbronzati a sinistra (Melville, 2019), racconta il pellegrinaggio verso Santiago compiuto dall’autore, ma dichiara in copertina di essere un “Romanzo” e non un reportage. Romanzo perché Dio è il più imponderabile e fantomatico e fantastico degli eroi ‘da romanzo’ della letteratura occidentale, come ghigna Harold Bloom? Probabilmente, perché il pellegrino è consustanziale allo scrittore, ma altro da lui, e perché il libro, piuttosto, non è uno sciatto reportage, uno sciupato libro ‘di viaggio’, un estatico manuale per umettare vagabondaggi mistici. Ha la statura narrativa di un romanzo, fin dall’incipit, che flirta con l’apofatico paradosso (“Tonda, sonora, sillabata: è con una sacrosanta bestemmia che comincia il santo viaggio”), gli sketch dialogici, le osservazioni ciniche o spensierate (“Se a Dio forse non credo ancora, al Diavolo sicuramente sì: mi è sempre difficile rintracciare gli indizi della imperscrutabile Provvidenza mentre trovo facilissimo intravedere la malignità, la crudeltà, l’irrisione, propri dell’operato diabolico. Non che sia impossibile supporre, a volte, l’intervento divino – o angelico – ma l’interpretazione di certi segni non riesce mai a superare il vaglio del dubbio”) di cui è costellato il libro, compresa l’apparizione di Lui, intorno a pagina 90 (“È in questa postura svagata, sarcastica, che Gesù mi fulmina. Si china verso di me dall’alto del suo asinello e fissa i suoi occhi nei miei. Dal nulla il suo sguardo, intenso, diretto, mi investe come un treno”). Elio Paoloni, voglio dire, mi pare come quei personaggi che baluginano dai romanzi russi di un secolo e mezzo fa: mezzi atei e mezzi azzannati da Cristo, sempre a penzolare tra l’abisso della fede e quello del nulla, che raspano con occhi come chiodi fino all’ultimo verbo insensato. In più, però, ha una ironia caustica e colta, alla Buster Keaton. Il viaggia a Santiago è come quello della mano che s’infittisce nell’amazzonico costato di Gesù, mi dico, immutabilmente idiota, William Blake di periferia, da due lire. (d.b.)
Parti verso Santiago bestemmiando. Chiudi con una imprecazione. In effetti, anche Ungaretti, scrivendo La pietà, adora Dio bestemmiandolo. Hai trovato la fede cammin facendo? Che senso ha andare a Santiago da senzadio? Per trovarlo, per sfida, per gioco?
La bestemmia è forse il più fervido legame con la divinità: menzionare Dio o un Santo significa riconoscerne l’esistenza e il potere. Si è mai sentito qualcuno bestemmiare il Nulla o il Caso? Infatti le più bersagliate sono le figure prossime, Patroni e Protettori. Rischiando la blasfemia potremmo dire che ogni imprecazione è una rude preghiera, una maschia, orgogliosa protesta. Una richiesta di attenzione, come quando i bambini ignorati mandano in frantumi un oggetto. Se ho trovato la fede cammin facendo? Vogliamo impedire al gentile lettore di scoprirlo man mano? Il libro racconta di un’epifania. E del successivo dibattito interiore sull’attendibilità della faccenda. Ma una cosa è certa: mai ho avvertito così intensamente, in così rapida successione, il senso degli accadimenti. E di sicuro, dopo il Camino, attribuisco più facilmente un senso a ogni vicissitudine. E trovare Senso non è lo stesso che trovare Dio? Una caratteristica del Camino, infatti, per la varietà di situazioni incontrate, è quella di consentire a chiunque di vedere Segni. Se uno li cerca li trova. Se no, ti trovano loro. Si è predisposti all’interpretazione, ecco tutto. La potenza del Camino è racchiusa in questo brano: “Perché qui, sia ben chiaro, non impari niente di nuovo; tutto è già noto, cerebralmente: sono idee che accarezzi di tanto in tanto quando ti ritrovi a filosofeggiare, precetti che abbandoni appena rientrato nella diabolica routine. Il Camino però è una vita condensata, un Bignami d’acciaio: ti ripropone in breve tutte le lezioni già impartite dalle quali non hai tratto beneficio. Te le imprime così velocemente, te le impartisce così fisiologicamente che proprio non puoi fare a meno di ‘capire’. Non col cervello ma con ogni fibra muscolare, con ogni organo. Col midollo. È una marchiatura: i sellos (timbri che vengono apposti sulla Credenziale, sorta di tessera di viaggio per ottenere la Compostela, attestato ufficiale del compimento del pellegrinaggio) sono sul corpo, non solo sulla Credenziale”. Molti vanno a Santiago da senzadio (è forse la condizione più comune). Lo fanno per trovarlo? A volte sì. Ma non si può escludere che vi sia una componente di sfida: acchiappami, se ne sei capace, portami a Te.
Le fotografie a corredo dell’articolo sono di Elio Paoloni
Di libri sul cammino di Santiago, tecnici, letterari, metaletterari, ce ne sono una barca: perché dovrei leggere il tuo?
Quelli tecnici, le guide, sono una categoria a parte, possono essere letti parallelamente a quelli letterari, anche se, col senno di poi, li butterei tutti a mare. Sul Camino non si perde neanche un bambino e prevedere ogni tappa, ogni ostello, ogni cena, è fuori dallo spirito del cammino, te lo dice uno che ci è cascato. Ci si dovrebbe fermare quando non ce la si fa più, o quando un albergue ci sembra accogliente. Delle asperità di O Cebreiro o dei rituali alla Croce di ferro ti renderanno edotto gli altri pellegrini, ammesso sia necessario. Evitare l’avventura è quanto di più sciocco si possa fare. Del resto l’imprevisto è sempre in agguato. Per fortuna. A un certo punto del cammino ho una resipiscenza: “I pellegrini bramavano le piaghe. Erano proprio le piaghe che li univano al Cristo… E cosa ho fatto io per settimane? Sono andato alla ricerca di tutto ciò che ne impedisce la formazione. Sterilizzando l’epidermide ho sterilizzato questo cammino, ho annullato la sua validità catartica. Sono i meschini claudicanti di cui disprezzo l’incompetenza tecnica che dovrebbero compiangermi”. Su un portale, Eroski Consumer, c’è una grande sezione dedicata al Camino che è il perfetto equivalente di Trip Advisor: recensioni sugli albergue, sugli hospitaleros, sui locali che dispensano il menu del pellegrino. Ma non mi sento di criticare, ho imparato che disprezzare l’approccio degli altri pellegrini è quanto di più contrario allo spirito del Camino (e del cristianesimo). E quando ti rendi conto dello stato di salute o dell’anzianità di alcuni pellegrini non puoi che vergognarti di tutto il tuo fondamentalismo filologico.
In quanto alla miriade di diari di viaggio, sì, sono tutti simili, spesso stucchevolmente devoti. Quelli dei nipotini di Coelho poi, sono ancor più melensi. Non mette conto di parlare di quelli fieramente atei, vedi il viaggio-dibattito di Odifreddi con – o contro – Valzania. Il mio libro è unico, sempre sul crinale tra fede e scetticismo; il narratore è dibattuto, inquieto, e riallaccia ogni tappa esotica ad altri santuari, quelli della sua terra. Nel diario si addensano ironia, autoironia e anche pesante sarcasmo. Il mio sguardo è diverso da ogni altro e la mia scrittura è spiazzante. Un critico scrisse che io “tendo agguati”. In effetti usavo pescare in apnea, “all’agguato”. Un altro ha scritto che “prendo il lettore per il bavero”. Devo essere proprio cattivo. Se si vuol leggere un libro sul Camino che non tranquillizza, quindi, occorre leggere il mio. Solo in questo libro troverete la terribilità del sacro. Non è un caso se Gesù chiamava Boanerghes Giacomo e il fratello. Figli del tuono. Il Sacro può essere tremendo, non è conciliante come sembrano suggerire i comuni resoconti di viaggio. Della Cattedrale dico che è “stratificata, proliferante, macchinosa, è un presidio in perenne allarme. Questa basilica è un monito. Non ha nulla del santuario accogliente, ecumenico, facile al perdono. È dura quanto e più del cammino. È un monolite extraterrestre, è Hanging Rock”. Questo libro è perfetto per chi il viaggio lo ha già fatto, forse senza comprenderlo fino in fondo, per chi vuole farlo e cerca una spinta – o una guida, una guida vera, non una mappa – per chi non lo farà mai ma ama la letteratura di viaggio – o semplicemente la buona letteratura – e per ogni individuo che si interroga sulla Fede. Sì, questo libro è un po’ una summa delle inquietudini di tutti noi, viaggio o non viaggio. Ed è stato scritto da una delle penne migliori sulla piazza. Non scandalizzatevi, sto solo mettendo in pratica le esortazioni di Leopardi: “rara quella persona lodata generalmente, le cui lodi non sieno cominciate dalla sua propria bocca … Chi vuole innalzarsi, quantunque per virtù vera, dia bando alla modestia”. Spacconate a parte, il mio essere cattolico ‘a giornate’ (quelle poche in cui riesco a recitare il Credo con convinzione) mi consente, credo, di affrontare temi forti in maniera originale, non ortodossa, problematica, di produrre scritti fecondi ma anche divertenti.
A un certo punto scrivi: “Quello che crediamo di pensare è solo ciò che la nostra mente ha captato, ciò con cui si è sintonizzata. Misteriosi i modi, i tempi, il senso di tutto questo”. È questo quello che hai scoperto camminando? Cosa hai scoperto?
Non sono certo il solo a ritenere che siamo attraversati. Carmelo Bene, mio gigantesco conterraneo, diceva “io non parlo, sono parlato”. Tanti comprendono che la nostra mente è solo un sintonizzatore e mi successe di raccogliere in un articolo le citazioni di diversi grandi insospettabili che attestavano di aver “subito” passivamente, del tutto inconsapevolmente, l’ispirazione, anzi la “dettatura”. Quella sciocca idea romantica si rivelava più importante della tanto decantata traspirazione. Il punto è: da cosa siamo attraversati? Dall’inconscio collettivo, rispondono i più. Da forze angeliche e demoniache, dico io. Di sicuro dalle demoniache, aggiungo, perché, come ho argomentato approfonditamente, a Dio forse non credo ma al Diavolo sicuramente sì. E come sempre in questi campi, tutto è estremamente misterioso. Non c’è bisogno di camminare per capirlo, ma, come ho detto, sul Camino molte cose diventano più nitide, tutto viene a fuoco. Parafrasando Foer, ogni cosa è illuminata. Non perché il Mistero venga svelato, ma perché si presta più facilmente alla contemplazione. Cosa ho scoperto, dici? Pare che mi sia scontrato con Gesù. O forse no. Lo scoprirete solo leggendo.
Perché ti sei messo in cammino? Si cammina per superarsi, per estinguersi, per guardarsi intorno, perché? Uno scrittore, forse, è sempre in cammino, traccia vie sulla neve vergine, come diceva Salamov. Ma forse, è un romanticismo d’accatto, questo. 
Le motivazioni, come si comprende all’inizio del testo, sono chiaramente confuse; non ce ne è mai una sola. Spesso ne dichiariamo – ce ne dichiariamo – una a caso ma di sicuro c’è dell’altro sottotraccia. Abbiamo tutti questa strana forma di pudore, l’unica rimasta a quanto pare, che ci impedisce di confessare anche a noi stessi di cosa andiamo realmente in cerca. E di Gesù, come scrisse Messori, non si parla tra persone educate. Le motivazioni, in realtà, divengono chiare solo alla fine del Camino. O qualche tempo dopo: “il Camino non dà risposte, ti aiuta a formulare la domanda. Quasi certamente, nel campo delle stelle, ti saranno chiariti i tuoi moventi. Almeno quelli”. In ogni caso, il cammino, quello fisico, non quello metaforico di Salamov, è la mia condizione naturale. Come ho scritto: “In rete, nei libri, a colloquio, tutti dicono di ‘aver trovato una nuova dimensione’. Io no. Rientro semplicemente nella mia. Non ne ho mai avuto altre vere. Per me vivere la giornata spostandomi nella natura, che sia camminare, pedalare o pinneggiare, è sempre stata la vita. L’unica vera vita. Tutto il resto è parentesi, tortura subita tra ribellioni soffocate, velenose”.
Ma il pellegrinaggio è un’altra cosa. “Il pellegrino girovaga, per così dire, – scriveva in un omelia l’allora Cardinale Ratzinger – nella geografia della storia di Dio. È in cammino alla volta di un luogo che gli è stato segnalato, non verso una località che cerca da sé. Prestando attenzione ai segnali che la Chiesa – per la potenza della sua fede – ha predisposto, i pellegrini hanno la possibilità di godere ancor meglio di ciò che il turismo cerca… ma anche coloro che lo degradano a mero exploit atletico o a una vaga spiritualità New Age, percepiscono implicitamente lo spirito profondo del Camino, ‘almeno come nostalgia’”. In effetti, io mi sono fatto questa convinzione: quali che siano le motivazioni di coloro che fanno il cammino, dalla generica devozione ai voti veri e propri, dai viaggi in suffragio – o perlomeno in memoria – di un congiunto alla spiritualità new age, dall’atletismo al turismo alternativo (come nel caso della ricca annoiata che tra il viaggio a Dubai e un soggiorno sul lago di Como intendeva intercalare il brivido di una vacanza da poveri) e anche quando le motivazioni sono addirittura assenti (c’è chi si aggrega così, per fare compagnia a qualcuno), ebbene, tutti, in qualche modo, finiscono per risentire della effettiva spiritualità di questo tragitto; tutti, mi piace pensare, vengono toccati dall’Apostolo.
Giudizio sugli artisti (ti leggo): “Sempre sull’orlo dell’esaurimento nervoso. Rissosi, assassini, debosciati, precocemente persi, i familiari marchiati a fuoco. Non ci sono solo i maudit, certo, esistono pure i longevi maestri. Ma a quanto hanno rinunciato? Quanto hanno dovuto soffrire perché la loro sensibilità si affinasse? Gelo, questa è la parola che Eduardo ripeteva in una delle ultime interviste, sconsolato, disperato, ma con forza, scandendo nitidamente le due sillabe”. La pensi così? Dimmi cosa pensi dei letterati odierni, della letteratura di oggi. 
È pieno zeppo di scrittori brillanti, forse non ce ne sono mai stati in tale quantità. Mi pare però che non abbiano proprio nulla da dire. E che non abbiano una personalità propria. Uno scrittore dovrebbe essere innanzitutto un carattere. Vedo – e invidio, un po’ – scrittori che ‘scelgono’ i soggetti. Si guardano intorno e ‘decidono’ di affrontare un tema, così, perché ne sono venuti a conoscenza e li solletica Io scrivo di ciò che mi occupa fortemente. Non posso farne a meno. E non posso scrivere d’altro. Da parecchi anni inoltre concordo con l’affermazione di Antonio Franchini ne Il signore delle lacrime: un libro che non ha dentro nessun sentimento religioso non vale niente. Trovo fortemente limitati gli scrittori che ostentano distacco non solo dalla religione ma anche dalla morale ‘borghese’: dalle tradizioni, dalla bellezza, dal bene. I condannati al noirismo in senso lato, come dicevo anche in una vecchia intervista. Neri i libri, neri loro, neri i lettori. Libri che ignorano programmaticamente bellezza, grazia, bontà. Che dopo averci scaraventato all’inferno, non ci portano mai a riveder le stelle. Non si tratta solo di un genere commerciale più o meno vendibile. Certi autori sono gli untori della disperazione, a volte nascosta sotto affreschi di liberissimo erotismo, di scherzosa indifferenza, di accigliato impegno.
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