#vincenzo estremo
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acertainnumberofbooks · 4 months ago
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Alberto Grifi e il rifiuto del cinema come lavoro
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ufficiosinistri · 8 months ago
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James Montague - "Fra gli ultras. Viaggio nel tifo estremo."
James Montague è un giornalista ed uno scrittore calcistico. Ci racconta del pallone. Ci spiega come funzionano le cose, le dinamiche societarie e sportive, ci racconta dei tifosi. Lo fa da sempre. È uno scrittore curioso, perché non si fida di ciò che vede in televisione o legge sui giornali. Lavora in zone difficili, dove ci sono scontri e guerre. Per questo, si affida ai rapporti umani, per descriverci la realtà. In “Fra gli ultras” succede proprio così. Girando il mondo tra città, stadi e bar, Montague ci racconta storie legate al mondo del tifo della gente, delle barricate, delle curve, della fede più radicale.
Il volume è diviso in diverse sezioni, a ciascuna della quali corrisponde una precisa area geografica o tematica. A loro volta, questi macro-capitoli sono suddivisi in altri capitoli, che corrispondono ad una nazione. In ogni Stato, in ogni città, in ogni stadio, l’autore inglese ha un “Virgilio”, una persona che lo porta ad assistere alle partite, facendogli vivere in prima persona l’atmosfera e le situazioni legate a quella partita e a quella tifoseria. Vicoli, porti, bar, night club. Mikael, un barbuto ultras dell’Hammarby, gli fa incontrare alcuni membri della Banda del Parque, la frangia più estrema del tifo del Nacional di Montevideo e lo guida sull’altra sponda del Rio de la Plata, tra i ragazzi della Doce che gli raccontano della finale di Libertadores giocata a Madrid dopo i disordini coi rivali del River Plate scoppiati a Buenos Aires. In Italia, incontra il Bocia e Diabolik prima che venga disputata la finale di Coppa Italia della stagione 2018-2019, ma durante il racconto non manca di parlare della situazione delle curve sul nostro suolo, chiamando in causa le illuminanti parole di Vincenzo Spagnolo sul “nemico comune” degli ultras, soprattutto dopo la morte di Gabriele Sandri e i disordini di Catania. Se ogni movimento ultras è figlio della propria epoca e si schiera in prima linea contro l’oppressione e l’opinione pubblica, ecco allora la parte sul Flamengo e l’opposizione della sua Torcida al leader di destra Bolsonaro e la chiacchierata con Ismail Morina, colui che fece atterrare un drone corredato dalla bandiera della Grande Albania sul terreno di gioco del Partizan di Belgrado durante un Serbia – Albania valido per le qualificazioni all’Europeo del 2016. Si parte dalle curve e dalla loro gente, ma si arriva, inevitabilmente, alle dinamiche societarie e di lega che caratterizzano le rispettive nazioni. Una partita del Friburgo, in Bundesliga, diviene così il pretesto per spiegare con occhio critico cosa significhi veramente il cosiddetto modello tedesco del “50+1”. Se esso metta veramente al centro l’importanza dei tifosi e quali siano le conseguenze a livello europeo di questa dinamica. I capitoli sugli Stati Uniti, dove Montague si reca a Los Angeles ed incontra alcuni esponenti della 3252, la sezione più schierata politicamente dei tifosi del LAFC, e sulla Turchia diventano poi, inevitabilmente, quelli più legati al conflitto politico. Trump ed Erdogan vengono riportati ad un livello più sociale e cittadino, e le loro decisioni su repressione e politiche sociali vengono analizzate proprio grazie alle testimonianze degli ultras, che diventano protagonisti della vita sociale delle città e delle manifestazioni. L’occhio di James Montague è perennemente vigile, durante i suoi viaggi e le sue avventure. Sa che può essere scambiato per un giornalista da un momento all’altro e non mancano infatti attimi di tensione, che gli impongono rinunce e passi indietro. In segno di rispetto per ambienti e persone a lui alieni, con il procedere dei racconti, capiamo quanto sia importante il conoscere in prima persona fatti e persone. Se tutto iniziò con gli ultras dell’Hajduk Spalato, che copiarono le coreografie e i cori delle Torcide sudamericane e portarono questa testimonianza in tutta Europa, chi legge testi come questo, formidabile, “Fra gli ultras. Viaggio nel tifo estremo”, non può fare altro che eliminare qualsiasi forma di pregiudizio e falso mito, lasciandosi trasportare dalla cultura di questo movimento internazionalista tra i più numerosi al mondo. L’ultimo, vero baluardo di resistenza non solo contro polizia e giornalisti, ma contro tutto ciò che la modernità sfoggia quotidianamente come mezzo di oppressione.
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La Lazio ricorda D'Amico, 'una leggenda biancoceleste'
  “Leggenda biancoceleste e coraggioso capitano nei momenti difficili della Società”. Così il presidente Claudio Lotito e tutta la Lazio “con estremo dolore e profonda commozione” per la notizia della scomparsa di Vincenzo D`Amico, protagonista indiscusso dello scudetto 1973/74.    “Vincenzino, come tanti lo hanno sempre continuato a chiamare – scrive il club sul sito -, ha fatto innamorare i…
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Pizzeria La Panca 2.0: benvenuta tra i clienti di Resolvis!
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È con estremo piacere che annunciamo un nuovo ingresso tra i nostri clienti: la Pizzeria La Panca 2.0 si è affidata a Resolvis per le sue attività di Marketing e Comunicazione.
Siamo davvero felici di affiancare Vincenzo Rondinone, un giovanissimo imprenditore che vanta già tanta esperienza, e siamo davvero convinti che le sue pizze, oltre a tutti gli altri manicaretti che troveremo sul menu, avranno tantissimi follower reali, oltre che virtuali.
Benvenuta La Panca 2.0!
#resolvis #marketing #comunicazione #marketingecomunicazione #pizzerialapanca  #lapancoduepuntozero #socialmediamanager #socialmedia #social #socialmediamanagement #sitointernet #winwinweb #matera #marketingmatera #comunicazionematera #www #internet #web
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spettriedemoni · 4 years ago
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Sono andato dall'impresa di pompe funebri a cercare di capire cosa fare. Ho fatto scrivere il messaggio da mettere sui manifesti. Mi sono reso conto che ho poche foto di mio padre almeno poche degli ultimi anni.
Sono andato a casa sua, il vicino aveva le chiavi di casa così come mio padre aveva le chiavi del vicino. Solo le chiavi dell'appartamento, non del portone. Casa di mio padre era in disordine, lasciata come se dovesse tornare da un momento all'altro. Ha ancora il presepe allestito da Natale. Chissà perché quando lo ha visto la Mia Regina si è commossa.
C'era una confezione di barrette Kinder aperta sulla credenza del suo piccolo soggiorno. Non ne ha mai voluto sapere ti tenere sotto controllo il diabete.
Abbiamo trovato il vestito da fargli indossare per l'ultimo saluto, un elegante abito scuro. Ha sempre saputo essere elegante.
Ci ha raggiunto mia cugina, ci ha raccontato quello che sapeva lei, quello che ha omesso mio padre. Ha voluto affrontare questa cosa da solo, senza paura. Non ha voluto rimandare l'inevitabile ma fare un estremo, disperato tentativo di togliersi quel mostro di dosso.
Mia moglie ha chiesto di essere aggiunta tra coloro che "ne danno il triste annuncio", perché pur non conoscendolo da tantissimo le ha voluto bene. Mi hanno scritto le tre mamme dei compagni di Tigrotto che frequento più spesso e con cui ci vediamo al parco in questi giorni di scuole chiuse, penso sia bello sentire l'affetto delle persone.
Ho recuperato i suoi effetti personali dall'ospedale: una borsa con i suoi vestiti, il portafogli, due tessere della spesa, tessera sanitaria e patente.
Quando ho aperto la borsa e ho sentito il suo profumo sono scoppiato nuovamente a piangere. Ho trovato il suo cellulare. Era ancora acceso. Penso "meno male" perché il suo Pin non ce l'ho.
Ci sono forse un centinaio di messaggi via WhatsApp di amici che lo sostengono, gli fanno gli auguri per l'intervento, lo prendono un po' in giro. Nel gruppo dei teatranti amatoriali tutti si chiedono come sta finché uno di loro, Fabrizio, un suo amico che mi ha rintracciato su Facebook (grazie zuckercoso) dà la notizia che ho già dato a lui.
Leggo i messaggi di stima e affetto e penso: "Avevi tanti amici, papà".
Inizio a scrivere, mi presento: «Sono Vincenzo, il figlio di Alfredo» e racconto come sono andate le cose e come me le ha riferite il medico che mi ha ricontattato ancora stasera appena uscito dalla sala operatoria per dirmi di mio padre, cose che già sapevo. Mi conferma che purtroppo il mostro era già molto grande e troppo cattivo. Forse mi è di consolazione o forse no.
Avrei voluto più tempo. Avrei voluto ne passasse di più con suo nipote. Ho provato a dire a Tigrotto che il nonno non c'è più, ha risposto con un suo tipico intercalare: «Ma come?» non so bene come spiegarglielo.
Penso alla burocrazia, all'appartamento da disdire, alle utenze e penso alla borsa che ora è qui in corridoio in casa mia.
Ho visto le impegnative che gli aveva fatto il medico di base. Non era riuscito a prenotarli quegli esami. Non c'è più bisogno di farli ormai.
Cosa terremo delle sue cose non lo sappiamo ancora. Non riesco a pensarci ma dovrò farlo.
Ho mandato una sua foto all'impresa funebre, sorride.
Cerco di tenere a mente quel sorriso.
Cerco di ricordarmelo bene perché non lo rivedrò più.
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corallorosso · 4 years ago
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Un grumo purulento: lo storico Eric Gobetti riflette sulle foibe e sugli usi pubblici della storia Il 10 febbraio del 2007, in occasione della ricorrenza del Giorno del Ricordo, nel corso della consegna di onorificenze ai parenti degli infoibati al Quirinale, il presidente Napolitano conferisce la medaglia d’oro al merito civile ai familiari di Vincenzo Serrentino. Questi fu tenente colonnello dell’esercito italiano, dirigente dei Fasci di combattimento di Zara sin dagli albori degli anni Venti, dal 1940 primo Seniore della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, membro del Tribunale Straordinario della Dalmazia (istituito nel 1941 per debellare la Resistenza jugoslava durante l’occupazione militare italiana), prefetto di Zara e capo della provincia durante l’occupazione militare tedesca dal novembre 1943 all’ottobre 1944, quando la città fu liberata. Nel 1946 il suo nome compare nella lista stilata dall’apposita Commissione ministeriale d’inchiesta di civili e militari italiani passibili di accusa presso la giustizia penale militare, coloro nella cui condotta erano “venuti meno ai principi del diritto internazionale di guerra e ai doveri dell’umanità”: con lui, tutti i membri del Tribunale Speciale (tra cui il più celebre Pietro Caruso), che aveva celebrato processi “senza il rispetto delle più elementari norme procedurali”, condannando a morte “anche persone minorenni”. Il suo nome figura nell’elenco CROWCASS (Central Registry of War Criminals and Security Suspects, 1947), compilato dagli Alleati anglo-americani, delle persone ricercate dalla Jugoslavia per crimini di guerra. Catturato a Trieste nel maggio 1945, venne processato dalle autorità jugoslave, riconosciuto come criminale di guerra e fucilato nel maggio del 1947. Nel 1987, il comune di Rosolini (Siracusa), suo paese natale, gli ha dedicato una strada. Nel febbraio del 2012, durante il programma televisivo di Rai 1 Porta a Porta, che affronta lo spinoso argomento della vicenda delle foibe, viene mostrata una fotografia che ritrae un plotone di esecuzione nell’atto di fucilare alla schiena cinque uomini allineati: ai telespettatori viene detto che si tratta di partigiani comunisti jugoslavi che sparano a degli italiani. In realtà, come gli studiosi sanno bene e come si evince chiaramente dagli elmetti dei soldati del plotone di esecuzione, la foto, scattata il 31 luglio 1942, mostra la fucilazione di cinque partigiani sloveni (di cui sono noti i nomi) ad opera di militari italiani durante il periodo dell’occupazione dei territori jugoslavi. La sera del 10 febbraio 2019 la Rai manda in onda un film di cui è co-produttrice, Rosso d’Istria. La pellicola, tanto inverosimile quanto brutale, è un autentico prodotto propagandistico: diffonde paura e odio attraverso un immaginario razzista e un racconto ben poco attinente alla realtà, raffigurando i partigiani comunisti jugoslavi come bestie assetate di sangue e animate da un sadismo innato che aggrediscono vittime innocenti: degli italiani, fascisti dichiarati. Gli eroi del film sono mostrati in camicia nera, invocano apertamente il Duce e aspettano come manna dal cielo un esercito di “liberazione”, quello nazista, bei giovanottoni che danno l’idea di riportare la pace, laddove gli efferati partigiani slavi avevano scatenato guerra, odi e vendette: con una netta scelta ideologica, lo spettatore è portato a schierarsi con le “vittime” fasciste di un crimine commesso dai comunisti. Questi tre macroscopici esempi, scelti da una folta schiera di eventi altrettanto gravi, indicano in modo lampante una cosa: nel nostro Paese la complessa vicenda delle foibe e delle violenze nei territori del confine orientale è da anni oggetto di una gravissima distorsione fattuale e di un accentuato uso propagandistico della storia, operati a più livelli: storiografico, istituzionale, dell’immaginario collettivo. Nel primo caso si intralcia e si destabilizza il lavoro di ricerca e d’una corretta divulgazione degli avvenimenti occorsi sul confine orientale da parte di studiosi seri, che intendono ricostruire accuratamente i fatti e i contesti in cui questi presero forma, il modo in cui vengono narrati. A livello istituzionale, si accreditano versioni false e distorte degli eventi con ambigue dichiarazioni delle più alte cariche dello Stato e paradossali riconoscimenti (uno Stato nato dalla liberazione dal fascismo che conferisce medaglie a fascisti conclamati e criminali di guerra?), sospensioni di contributi finanziari alla ricerca ad associazioni o individui che non si attengono alla comune vulgata diffusa sulla vicenda delle foibe (come nel caso del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia). A livello di immaginario collettivo, con la martellante diffusione di mistificatori luoghi comuni operata dai media, la creazione di fiction non solo televisive che incidono a fuoco nelle menti di spettatori ignari delle patenti falsità storiche, capovolgendo di segno la realtà e il suo significato morale. Questo atteggiamento largamente condiviso produce un clima culturale favorevole a intimidazioni, minacce, insulti mediatici e infamanti accuse di “negazionismo” e “riduzionismo”, animato dalle forze della destra nazionalista e neofascista e volto a screditare il lavoro degli storici, impedire loro di affrontare un tema delicato, di ricostruire e contestualizzare il fenomeno, di raccontarlo in maniera corretta. Di questa pericolosa temperie, che fa vacillare la civiltà di un Paese evocando foschi scenari, porta testimonianza diretta lo storico Eric Gobetti, con il libro E allora le foibe? (pp. 116, € 13), pubblicato dall’editore Laterza nella collana “Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti”. Gobetti rilegge la vicenda delle foibe e dell’esodo partendo da alcune domande: Di cosa parliamo quando parliamo di foibe? Cosa è accaduto realmente? In che modo e da chi vengono narrati quegli eventi? Con un argomentare stringente, storicamente probante, il libro getta ampia luce sugli eventi occorsi sul confine orientale a partire dal 1943, ricostruendo il contesto in cui essi presero forma e si manifestarono, la storia che li ha determinati, le cause sociali e politiche per cui essi furono in un primo tempo rimossi, quindi, a partire dagli anni Novanta, la falsificazione cui furono soggetti e la narrazione distorta che se n’è fatta, sino ad approdare all’attuale cancerosa situazione, che ha avuto l’ennesima conferma dal modo in cui è stato vissuto e celebrato il 10 febbraio scorso, Giorno del Ricordo. (...) Anche lo stereotipo dell’espulsione forzata “corrisponde ben poco alla complessità dei fatti”; quella dei profughi istriano-dalmati è una tragedia umana legata al mutamento dei confini e degli assetti internazionali conseguenti alla sconfitta militare dell’Italia. Soprattutto, “è il risultato estremo di un circolo vizioso innescato dall’imperialismo italiano e poi dal fascismo. Gli esuli sono le vittime ultime della politica aggressiva del regime, dei crimini di guerra commessi dall’esercito italiano e della sconfitta militare in una guerra che Mussolini aveva ottusamente contribuito a scatenare”. Gobetti affronta anche il problema dei numeri relativi alla vicenda delle foibe: si ripetono infatti, anche da parte di alti esponenti politici e della divulgazione storica, cifre smisuratamente gonfiate (un ministro della Repubblica parlò di “un milione di morti”), che non trovano alcun riscontro fattuale, e che contribuiscono a diffondere falsi miti e una perniciosa disinformazione, cosa, tra l’altro, che non favorisce la memoria e non denota rispetto per le vittime, usate per squallidi fini ideologici e politici. (...) La conclusione di questo studio è adamantina: invece che rischiare di essere “una commemorazione fascista”, il Giorno del Ricordo “dovrebbe essere una data per ricordare i drammi prodotti dal nazionalismo, dal fascismo, dalla violenza ideologica, dalla guerra e dalla sconfitta militare di un paese mandato al macello in maniera criminale non solo da Mussolini ma da tutta un’élite politica, militare ed economica che non ha mai pagato per le sue colpe”. Già, ma se così fosse l’Italia sarebbe un Paese civile. Giuseppe Costigliola
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ilquadernodelgiallo · 5 years ago
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...io andavo là appositamente per immagazzinare ancora un po' di immagini sue, la piega del retroginocchio, l'arco del piede flesso innaturalmente dal tacco sublime, la leggera gora di sudore sulla maglietta attorno alle ascelle... immagini potentissime, immagini del divino, quali poi elaboravo fantasticamente in vicende estenuanti, e che selezionavo già al momento di coglierle, epifanie di cui all'istante decidevo la gerarchia, costringendomi alla fuga appena giudicassi completo il bottino, non più suscettibile di un solo frammento di icona. Passiva, un velo di ottusità nello sguardo, lei si lasciava cartografare tranquilla, quasi incoraggiandomi: nondimeno ero così consapevole della sconvenienza che bastavo io a censurarmi, infingendo disinteresse o sfruttando, alla delibazione visiva, solo i momenti in cui ella guardava altrove o era occupata. L'intera sessione del resto doveva essere brevissima, anche se io la vivevo con l'animo del montaggista che scorre una scena fotogramma per fotogramma. Non ne seppi mai il nome, sicché dominava le mie fantasie da anonima o polinomia. [...] Insomma la situazione era questa: io ero principe della nostra-mia biblioteca e depositario di un crescente sapere; malconcio nella vita, rifulgevo nell'aristocrazia dello spirito; innamorarmi, mi innamoravo solo di angelelle incorporee, cui pensavo sotto la specie esclusiva dell'occhio e del sorriso, stilnovista ortodosso; dunque lì, in vacanza, accidentalmente esposto alle lusinghe del mondo terreno, potevo ben concedermi di scivolare verso il basso, nella concupiscenza di quanto aveva valore in quanto corpo, mero e spensieratissimo corpo: il che già, a prescindere dal censo e dal livello di istruzione, a prescindere dalla imopia e dall'ottusità, conferiva a quella creatura lo stigma dell'inferiorità: cui io mi prosternavo con la voluttà di chi si umilia, tanto più eccitandosi quanto più si umilia. Ella diventava così la Dominatrice, esosa proprio nella sua passività ed indolenza; anzi, che ignorasse le mie dinamiche era vieppiù entusiasmante, perché dava all'adorazione il vanto di un sacrificio gratuito. Quanto officiai, davanti a quell'ara? Quante oblazioni? Nauta naturata, non potevo offenderla: era un corpo. Le avessi attribuito uno spirito, il mio desiderio l'avrebbe abbassata e sporcata: così invece, lei schietta popolana, non c'era oltraggio. Non c'era oltraggio. [...] Quale meraviglia, la volgarità! Un ossimoro strepitoso ed irresistibile: Dea, ma Volgare! [...] Dopo qualche Mottarello vidi che lo smalto sulle unghie delle mani era tutto smangiato, ma quell'incuria non fece che soggiogarmi di più: essere lo schiavo di una tiranna sciatta, l'ebrezza! [...] con sgomento mi accorsi di non essermi mai chiesto dove e come avesse passato la prima parte della sua vita, quei quattordici-quindici anni alla cui altezza la vidi la prima volta. Letteralmente, l'avevo fatta nascere in quel momento, in funzione del mio desiderio. ________________________ Nacqui d'inverno, concepito in un raptus. Mia madre, tutto fuorché volgarotta. Solo talento e intelligenza, ma talmente autodistruttiva da diventare l'ultracorpo di se stessa, una perfetta macchina di dolore. Un anno dopo la sua morte, facendo ordine fra le sue disordinatissime cose, ho trovato un mannello di lettere di mio padre: vi era abbondantemente tematizzata, vi era, la di lui condizione di proletario vendicatore (una borsa su cinquecento): a riscontro, fra le righe, si poteva ricostruire il tema materno, la discesa sociale (eroico-gloriosa, ma pur sempre discesa): da allora lui non ha mai smesso di salire e lei mai di scendere: all'incrocio degli opposti vettori, l'incongruo amplesso, la gravidanza animalesca, la mia fuoriuscita dopo ventidue ore di travaglio stremante (così la leggenda, accresciuta di un'ora a ogni replica), nell'incuria delle ostetriche impegnate a sbafar panettoni, pizzicate le chiappe dall'esuberante portantino: essendo Natale. [...] Per non parlare del sotteso ricatto: vedete come siete fortunati? Mi sbatto di lavoro tutto il giorno [...], nondimeno trovo il tempo di farvi il pancotto buono: sicché noi, quello spolviglio di grana e quell'alloro lo pagavamo con un senso di colpa, quel tot che andava ad aggiungersi al senso di colpa basico per essere al mondo e a carico suo. [...] mia madre [...] cosa sollecitò nel bruto di genio? Un riconoscimento di genio con genio, o vaghezza del diverso? L'uno e l'altro, credo, ma più di tutto l'intuizione di poter disporre di una vittima intelligente, già pronta all'uopo (talmente già pronta che di lì a pochi anni, consunta come un osso di seppia, cessò di fungere). Nessun bisogno di dominatrici, in mio padre, tanto meno di zoccoli: ma l'avesse almeno domata come un mustang o un appaloosa! No, la trovò già domata: da se stessa, in spregio agli agi e all'intelligenza, proprio perché intelligente: farsi del male con ogni mezzo per consistere solo di intelligenza e talento, e scegliendo, a officiare, proprio chi di tali valori era vessillifero: per sapersi autorizzata ad essere artista, e bohémienne (via estetico-laica al martirio, dove si vede come alla fine, di stortura in stortura, abbia comunque prevalso la millenaria tradizione cattolica che si incarnava in mia nonna: Letizia: detta Titti: dama di San Vincenzo). [...] Un ragguaglio, qui, a chiusura del cerchio. Il riconoscimento maggiore venuto da mia nonna a mia madre è stato il suo essere "fine": seria, elegante, discreta, una personcina comme il faut. "Com'è fine tua madre". Sul Golgota, mani e piedi inchiodati, ma fine. [...] Postilla seconda: ingenuo entusiasmo di mio nonno all'idea di far incontrare, o comunque di mettere in contatto, i due illustri scrittori [Buzzati e Montale]: il prosatore e il poeta; il bellunese-milanese e il genovese-monterossino. Pare però, a quanto ho appurato, che entrambi, informati dello zelante progetto, abbiano cortesemente declinato: non potendo loro interessare di meno, chiusi ognuno nel proprio mondo, gelosi dei propri privatissimi mali di vivere - privatissimi, altro che universalità dell'opera d'arte. [...] Dietro a tutto questo, dentro, a tutto questo, il grande ricatto: NON SARAI INTELLIGENTE SE NON SEI TRISTE (tris'ci). Si misura qui l'estensione del danno, la sua profondità. Zitta zitta, semplicemente patendo, mia madre otteneva risultati patopedagogici che mio padre nemmeno si sognava, e come avrebbe potuto, lui che rapportava l'intelligenza al rigore, al cimento estremo, all'eccezionalità, alla diversità dagli altri? Qui, invece, la tristezza! Direttamente: non tristi-stremati angosciati come conseguenza dell'impegno all'eccezionalità, no, semplicemente-immodulatamente tristi, pre-tristi nell'utero. Il grande genio della psicologia non è Freud: è Pavlov. Lo so ben io, che al primo sospetto non dico di felicità (orrenda bestemmia) ma di pallido benessere mi sono sentito un traditore e un vigliacco, come osavo? Cosa fai, sorridi? Sei impazzito? E infatti, non ho mai osato, ho fatto il giapponese anche in questo senso, tenere l'atollo. Per una volta l'alterazione morfologica, nell'uso paterno, era inappuntabile: "quella tristanzuola di tua madre" (com'è fine la Iela - è slava - serissima: tristanzuola). Due modi diversi di essere seri, lui e lei: io credo di aver preso il peggio da entrambi. [...] se allora mia madre accennava al fatto che anche lei lavorava, e molto, mio nonno si indignava con mio padre: maltrattare una moglie va bene, farla lavorare no. Io lo ascoltavo affascinato, perché la barbarie ha sempre avuto una presa irresistibile sul mio spirito decadente [...] "Di' a Dino che lo saluto tanto", sarebbero state le sue parole a mio nonno, "ma che non son più la stessa, e che se mi vuol bene mi ricordi com'ero, fra le sue montagne". Può, un figlio, non piangere di fronte a una battuta come questa? Non può. ("Non son chi fui: perì di me gran parte").
Michele Mari, Leggenda Privata
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micro961 · 3 years ago
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Vincenzo Grieco & The Exoplanets , Outer Space
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il singolo estratto che  dà il titolo al secondo album 
è anche un interessante videoclip
Outer Space è lo spazio profondo, un rifugio estremo, un luogo freddo e immerso nelle tenebre in cui il protagonista preferisce rimanere, per custodire e preservare il proprio orgoglio e la propria “aliena” sensibilità. Perché sulla Terra la più intensa luce del giorno può essere demoniaca, e le nostre cose, le nostre esperienze, le nostre energie, in qualsiasi momento tutto può essere divorato da un simbolico buco nero che incombe dietro di noi. Inoltre gli abitanti del Pianeta Blu possono rivelarsi molto ostili e rovesciarci addosso la peggiore parte di sé. Fortunatamente una voce interiore del protagonista lo esorta a non consumarsi nell’isolamento e lo invita a riconciliarsi col mondo e con le persone.
Outer Space è anche un interessante videoclip (che invitiamo a guardare https://youtu.be/dN6RTr0kMqc) dove sono sono presenti Vincenzo Grieco e gli Exoplanets assieme all'attrice Selene Greco, per la regia di Simone Serafini. Realizzato al Museo MAAM di Roma e su una caratteristica spiaggia del litorale romano. Selene nella sua interpretazione esprime i due stati d’animo di cui parla il brano, entrando in risonanza dapprima con gli ambienti chiusi del MAAM, poi con il mare e suoi grandi spazi aperti.
“Outer Space" è il secondo album del chitarrista romano Vincenzo Grieco, registrato insieme agli Exoplanets, con Giulio Giancristofaro al basso e voce, e Piero Pierantozzi alla batteria, per l’etichetta Red Cat Music.
Il disco è composto da dieci tracce, può essere visto come una rappresentazione dello spettro cromatico, con ogni traccia che rappresenta una tonalità diversa: talvolta il blu è prevalente perchè molto presente è il “bluesy feel”.
“Outer Space” va tuttavia aldilà della rappresentazione dell’arcobaleno per la presenza del non colore, il nero.
Vincenzo Grieco e gli Exoplanets hanno infatti reso omaggio alla materia oscura del rock, alla musica Rock degli anni '90: quel sound vintage che nel suo abbraccio include i riff di chitarra Heavy dei Mr.Big e di Richie Kotzen, la cupa ruvidità del Grunge dei Soundgarden, degli Alice In Chains, degli Stone Temple Pilots, e l’energia funk dei Red Hot Chili Peppers e dei Rage Against the Machine.
Tutto questo suonato con un tocco “hendrixiano”.
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sinapsinews · 3 years ago
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DE LUCA: IL 92% DEI RICOVERATI IN TERAPIA INTENSIVA NON E' VACCINATO
  Dichiarazione del Presidente Vincenzo De Luca: “Dalla ricognizione effettuata in tutte le strutture sanitarie della Campania, è risultato che il 92 per cento dei ricoverati in Terapia Intensiva non è vaccinato. Dalle stesse verifiche è risultato che l’83 per cento dei pazienti ricoverati nei reparti di Terapia Sub Intensiva, non è vaccinato. Sono dati di estremo significato che mettono ancor…
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purpleavenuecupcake · 3 years ago
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Palermo,19 luglio 2021. Nel XXXIX anniversario della strage di via D’Amelio
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La polizia di stato riceve la cittadinanza onoraria della città di Palermo La ricorrenza dell’attentato di via D’Amelio, quest’anno giunta al suo 29° Anniversario, è sempre stato un momento dedicato alla riflessione, alla memoria e alla celebrazione del sacrificio di 6 uomini dello Stato morti per aver adempiuto con onore il loro servizio alla comunità. Questa ricorrenza, dall’alto valore simbolico, è stata scelta dal Sindaco di Palermo, in accordo col Questore, per conferire la Cittadinanza Onoraria della Città di Palermo alle donne e agli uomini della Polizia di Stato. E’ un riconoscimento che sancisce il legame forte e indelebile, inciso nella dolorosa storia di questa città ed intrecciato con la vita dei tanti servitori dello Stato che qui prestano ed hanno prestato il loro servizio con onore, anche sino al sacrificio estremo. Le stragi di Capaci e via D’Amelio costituirono l’atto estremo della violenza mafiosa che negli anni aveva colpito gli uomini dello Stato e della società civile che con intelligenza, coraggio ed alto senso del dovere si erano opposti ad un sistema perverso: la prepotenza criminale organizzata di cosa nostra. Fu un attentato al cuore dello Stato ed alla centralità delle sue Istituzioni, ordito da criminali efferati, che attraverso l’annientamento di vite e storie personali e familiari di poliziotti e magistrati, tentarono di far vacillare le solide fondamenta democratiche del nostro Paese. Oggi, dalla Città di Palermo, giunge un riconoscimento che è insieme espressione di gratitudine per l’alto prezzo in termini di vite umane pagato nella lunghissima storia della Polizia a Palermo e di apprezzamento per l’instancabile impegno con cui i poliziotti quotidianamente contrasto i fenomeni criminali. Tale attività è finalizzata al mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, ed anche, attraverso le campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica per la prevenzione dei reati di violenza di genere e nell’opera di divulgazione della cultura della legalità, con iniziative che realizzano il concetto della “polizia di prossimità” racchiuso nel motto “Esserci Sempre”. Questo il significato profondo dell’atto con il quale, il 19 luglio, il Sindaco di Palermo Leoluca Orlando consegnerà la Cittadinanza Onoraria della Città di Palermo nelle mani del Capo della Polizia - Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, Lamberto Giannini nel corso della cerimonia che si svolgerà, alle ore 18:00, nell’aula dedicata a  Domenico Corona, all’interno della Caserma Lungaro, a poche decine di metri da quell’Ufficio di polizia dal quale Agostino, Walter, Vincenzo, Claudio ed Emanuela, uscirono per l’ultima volta il 19 luglio del 1992. Per sottolineare il significato del conferimento, che si lega non ad un momento contingente ma ad una lunga storia di onore, abnegazione e sacrificio, il Questore di Palermo Leopoldo Laricchia, ha voluto invitare alla cerimonia tutti i suoi predecessori, i Questori dei decenni precedenti, per rendere concretamente visibile quel filo ideale di continuità tra tutti i poliziotti che nel tempo si sono avvicendati per  garantire la sicurezza nella citta di Palermo. La giornata, dedicata al ricordo della strage di via D’Amelio ed al conferimento della Cittadinanza Onoraria, si concluderà con un concerto organizzato dalla Polizia di Stato, grazie alla collaborazione della Fondazione Teatro Massimo, in uno degli spazi culturali all’aperto più belli della città, il Teatro di Verdura dove, a partire dalle ore 21:00, la Banda della Polizia di Stato  regalerà ai palermitani un concerto. Read the full article
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giancarlonicoli · 4 years ago
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10 gen 2021 18:16 “SONO PARTITO DALL’EROINA IN VENA. MUCCIOLI MI SEQUESTRO’ E MI SPUTTANO’ DAVANTI A TUTTI. IL SUO SCOPO ERA…” - DA ‘SANPA’ AL GRUPPO ABELE DI DON CIOTTI, PARLA IL “TRADITORE” CANTELLI, EX PORTAVOCE DELLA COMUNITÀ, UNO DEI PROTAGONISTI DELLA DOCU-SERIE 'NETFLIX': "DOPO LE CATENE E LE MORTI MI TROVAI IN CONFLITTO ETICO. NON SI POTEVA FINGERE CHE SI TRATTASSE DI “INCIDENTI DI PERCORSO” – LE DROGHE? AI MIEI TEMPI SE TI FACEVI DI EROINA ERI FUORI DALLA SOCIETA’. I TOSSICI SCIPPAVANO LE VECCHIETTE, DISTURBAVANO. ORA SONO INVISIBILI PERCHÉ...” – VIDEO
Angela Gennaro per https://www.open.online/2021/01/06/sanpa-serie-netflix-san-patrignano-muccioli-fabio-cantelli-intervista/
Fabio Cantelli oggi ha 58 anni. Chi ha visto SanPa, la docu-serie di Netflix che tanto sta facendo discutere, ha ben presente il suo viso scavato e il filo dei ricordi, inevitabilmente dolci e amari, che attraversano lo sguardo mentre racconta. A San Patrignano, lui, ci è rimasto in totale per dieci anni. La prima volta che si è fatto – lo racconta nel documentario – è collegata a una donna. Lui voleva andarci a letto. Alla fine è successo, ma prima di farlo lei gli ha iniettato dell’eroina.
E del sesso poi, racconta Fabio, in verità non gliene fregava più niente. Della comunità fondata da Vincenzo Muccioli e al centro delle cronache per anni, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, Fabio Cantelli è stato il portavoce. E se n’è andato, tagliando i ponti, quando si è trovato in «conflitto etico interiore». I processi, i ragazzi trovati incatenati, le morti. «Ero ormai troppo distante da quello che SanPa era diventata e da come sarebbe andata avanti».
Oggi vive a Torino ed è vice presidente del gruppo Abele, onlus fondata nel 1965 da don Luigi Ciotti che si occupa di tossicodipendenza, emarginazione, Aids, progetti di aiuto alle vittime di tratta e ai migranti. Della comunità fondata da Vincenzo Muccioli, Fabio ha già raccontato nel 1996 nel libro La quiete sotto la pelle. «Quella di Rimini non è l’unica comunità dove sono stato», racconta.
Torniamo indietro nel tempo, all’inizio degli anni ’80. San Patrignano nasce per dare una risposta, a detta di Vincenzo Muccioli, al dramma delle droghe che stava sempre più montando e a cui lo Stato mancava totalmente di dare risposte. Qual era il contesto? San Patrignano era l’unica comunità che si occupava di tossicodipendenze?
«Non ce ne erano molte, ma posso parlare solo di quello che conosco. Avevo fatto un’esperienza a Le Patriarche (oggi Dianova International, ndr), una comunità internazionale con sede in Francia a Tolosa e con diverse filiali in Europa. Ero finito in carcere nel 1982, e il magistrato disse: “Ti scarcero se vai in una comunità, oppure continui a stare a San Vittore. Decidi”.
Quella di Le Patriarche era una comunità disponibile ad accogliermi subito, previo il pagamento di una retta molto elevata che la mia famiglia era in grado di sostenere. Sono stato lì per sette mesi, ero stato spostato in Spagna. Poi sono tornato in Italia scappando. Avevano un approccio terapeutico basato sul lavoro e poi facevano queste riunioni serali in cui ci si incontrava, si tiravano fuori i problemi della giornata e si facevano grandi discussioni. Le crisi di astinenza – questo mi è rimasto impresso – venivano curate con metodi naturali, con grandi quantitativi di tisana al tiglio. Tuttora, quando sento l’odore del tiglio penso a quei momenti: in crisi di astinenza, il tiglio faceva vomitare».
Poi?
«Ho avuto un approccio anche con il CeIS di don Mario Picchi, ma lì mi sono fermato all’anticamera: a differenza di San Patrignano infatti aveva un filtro. Secondo la loro impostazione, il problema della tossicodipendenza era di contesto famigliare: quindi si entrava in comunità dopo un percorso di preparazione in cui era coinvolta anche la famiglia, con una serie di colloqui con psicologi.
Bisognava insomma essere molto motivati e questo filtro serviva loro per garantirsi dal fatto che non entrassero in comunità delle persone fuori di testa ma gestibili. A San Patrignano non c’era nessun filtro e per questo era una comunità molto apprezzata: ti prendeva così com’eri».
«Medici qui non ce ne sono: ci siamo rivolti ad alcuni di loro ma ci hanno chiuso la porta in faccia», racconta Muccioli nel documentario. Qual è la differenza tra un posto con medici e percorsi e un approccio alla SanPa, dal punto di vista di chi sta fuoriuscendo dalla tossicodipendenza?
«Ho fatto solo San Patrignano, dove la terapia, fondamentalmente, era Vincenzo Muccioli (sorride), la sua forza magnetica e carismatica di seguire ciascuno di noi fino a che fu possibile.
Finché la comunità rientrò in certe dimensioni, fino alle 3-400 persone lui, con uno sforzo sovraumano, dedicava anima e corpo e ci seguiva personalmente. Poi, quando ci fu l’esplosione “demografica” degli ospiti a metà degli anni ’80, la situazione gli sfuggì di controllo. Sopperì alla logica della relazione con quella del controllo, ed è lì che iniziano i guai. Comunque non posso dirti quale fosse la differenza, perché non conosco l’altra realtà. Posso dire che se in comunità mi fossi trovato a tu per tu con degli psicologi, avrei detto “ciao e grazie”.
Avevo già avuto in precedenza esperienze con psicologi, e avevo capito che è gente che vive in un altro mondo rispetto a quello della tossicodipendenza: un conto è conoscerla attraverso i libri o magari anche i tossici, ma sempre dietro a una scrivania, un conto è viverci notte e giorno. E un conto è essere stati tossici.
Un momento fondamentale di San Patrignano era quando Muccioli ti chiamava, dopo qualche tempo che eri lì e avevi dato prova di responsabilità, e ti diceva: “Guarda, è arrivato tal dei tali e tu sarai la sua guida qui dentro”. Diventavi tu il custode, come eri stato custodito e accudito».
Funzionava?
«Quella persona sapeva di averne accanto un’altra che poteva decifrarne i moti dell’animo, le paure e le parole rassicuranti che magari nascondono altro. Tra noi tossici ci si intendeva al volo, insomma. I novizi venivano affidati a persone giudicate immuni da pericoli di fuga e da ispirazioni di comunella. E funzionava: non ho mai assistito a fughe a due».
Quindi, nella sua prima fase, San Patrignano offriva percorsi validi e più efficaci rispetto a medicalizzazione e psicoanalisi?
«Sì. Tra l’altro all’epoca non credo che le comunità in generale facessero ancora ricorso a figure professionali: era una dimensione pionieristica in cui si andava alla scoperta dei metodi. Tutte, in qualche modo, erano realtà in cui si lavorava, in campagna. E a SanPa la formazione professionale era veramente ad alto livello:
Muccioli pensava che fosse fondamentale appassionarsi a qualcos’altro attraverso un lavoro confacente alle attitudini, imparato con maestri che lo insegnassero ai massimi livelli. I lavoratori poi erano produttivi e lavoravano con l’esterno, e c’erano delle ditte che potevano verificare la capacità di un ragazzo quando era ancora dentro e proporgli contratti di lavoro nel momento della sua uscita dalla comunità».
Nella prima puntata della docu-serie parli del “ciocco” e di quella volta in cui Muccioli prese i tuoi scritti di diciottenne, che gli avevi affidato, e li lesse pubblicamente in comunità. Con scherno. Erano i primordi, episodi controversi non ce ne erano stati. Eppure come gesto, visto dall’esterno, è molto pesante.
«Nudo, inerme e fragile: solo allora potevi essere riaccolto come il figliol prodigo. Smascherato, ‘sputtanato’ davanti a tutti. A quel punto abbassi la testa, perché senti di essere il corpo estraneo, e vuoi salvarti la pelle. Non è un calcolo, chi si è trovato in quelle situazioni può capirlo. Ho visto tante persone che dopo un “ciocco” si sono messe in discussione.
Al di là della drammaturgia, il metodo, impressionante ed efficace, a volte nasceva anche in reazione a fatti gravi avvenuti. Vincenzo valutava – ed era lui l’unico metro di giudizio su questo – che il ciocco (gesto estremo, non quotidiano), era il mezzo per ripristinare una situazione che cercava di sfuggire di mano. Secondo lui io avevo una personalità posticcia, ed era il suo modo per far crollare questa presunta maschera».
Ci è riuscito?
«No (ride). Il grande limite di SanPa – e in questo senso forse un professionista di psicoanalisi e psicologia avrebbe forse aiutato – è che Vincenzo non considerò la nostra tossicomania come qualcosa che avesse una radice profonda. Per lui la personalità del tossicomane era presa in prestito, non era quella vera. E il suo scopo era demolire questa presunta personalità posticcia per far emergere quella autentica sotto. Guarda caso però quella autentica era per lui quella che ti prestava la comunità: dovevi diventare un bravo ragazzo. Il problema è che le cause profonde della tossicomania rimanevano intatte, non venivano affrontate. Quindi il meccanismo funzionava fino a che restavi dentro alla comunità e facevi il bravo ragazzo. Poi uscivi all’esterno, la maschera crollava e iniziavano i guai. Molti uscivano, ricadevano, venivano riaccolti e ricominciavano daccapo».
E poi è la volta della fase di quello che viene chiamato il “gigantismo” di San Patrignano (che arriva, tra l’altro, ad avere fino a 2mila ospiti). Senza spoiler, come finisce la tua esperienza lì?
«Finisce quando mi trovo in conflitto etico rispetto al mio ruolo di capo ufficio stampa della comunità, con il tormento interiore per i fatti accaduti. Fatti – tra cui un omicidio – che, per quanto le sentenze giudiziarie potessero essere pesanti ma non troppo, erano troppo gravi per non comportare una messa in discussione di quello che eravamo diventati.
Non si poteva fingere che non fosse accaduto niente, che si trattasse di “incidenti di percorso”, credendo a una teoria della scheggia impazzita. Per me non era così, e quando mi sono reso conto che la comunità non era intenzionata a questa radicale messa in discussione mi sono detto che non potevo più dire pubblicamente cose che non pensavo».
Con la morte di Muccioli, SanPa scompare dai radar della cronaca.
«Perché la comunità si normalizza. Muccioli è insostituibile: il leader carismatico viene una sola volta. E poi è cambiata la tossicodipendenza: i tossici, l’età media, le modalità di assunzione».
In che modo?
«Le droghe sono oggi “integrate” e incluse nella società, non hanno più il significato di rottura del patto sociale che avevano ai miei tempi. Allora ti facevi di eroina ed eri fuori dalla società. Ora invece no. E poi c’è l’aspetto economico: sono rimasto allibito quando ho scoperto, nell’ambito di alcune ricerche che stavo facendo sulla droga, che adesso per farsi di eroina un ragazzo deve recuperare cinque, addirittura tre euro. Ti bastano dieci minuti di richieste in strada. Per noi non era così. Era il 1981 ed ero appena tornato a Milano da una vacanza in Grecia.
Erano 40 giorni che non mi facevo, e sono andato dal pusher con le 25mila lire che avevo tenuto da parte dalla vacanza. “Non posso darti quella quantità”, mi disse il pusher. E perché? “Perché adesso abbiamo l’ordine di vendere solo buste da mezzo grammo, a 50mila lire”. Io mi facevo un grammo, un grammo e mezzo al giorno: voleva dire tirare su 150mila lire al giorno. All’epoca, uno stipendio buono era pari a un milione di lire: e io dovevo tirare su un milione alla settimana, ogni mese quattro volte lo stipendio buono di un italiano. E allora che fai? Devi imparare a rubare, scippare, rapinare, prostituirti: i soldi li devi trovare.
La tua biografia di tossico cambia rispetto a chi si droga oggi. I tossici scippavano le vecchiette, rapinavano, puntavano la siringa dicendo che lì c’era sangue con l’Hiv. Disturbavano. Ora sono invisibili perché non danno noia a nessuno. Si muore meno di overdose e si muore in casa. Negli anni ’80 succedeva in mezzo alla strada».
Ti aspettavi che questa serie sarebbe diventata un caso? Quarant’anni dopo e con un target di utenti under 30 che di San Patrignano non aveva mai sentito parlare?
«No. La storia di San Patrignano è molto complessa, bisogna indagarla senza preconcetti, e la serie lo fa. Non ci sono buoni e cattivi: è un concentrato simbolico pazzesco, perché c’è dentro tutto. Il potere, la vita, la morte, la sofferenza, la malattia: significati simbolici universali ed eterni che attraversano le epoche».
CANTELLI
Da il napolista.it
Tra l’83 e l’84 scappai sei volte. Mia madre mi tese una trappola d’accordo con Muccioli. Mi chiese di andare a casa a Milano, io arrivai e mi trovai due marcantoni che di notte mi portarono a San Patrignano.
Un sequestro.
Sì. Mi misero in una casetta di cemento di tre metri per tre, e mi chiusero dentro.
Quanto sei rimasto?
Diciotto giorni con la doppia crisi di astinenza: eroina e cocaina. Tentai il suicidio. Non c’erano oggetti quindi sbattevo la testa contro la porta di ferro. Mi resi conto che il mio corpo facevo resistenza, non volevo morire soffrendo, avevo sofferto già troppo nell’anima. Se ci fosse stata una finestra mi sarei buttato.
Ti sei arreso?
Il quindicesimo giorno l’angoscia fu tale che mi abbandonai disteso sul pagliericcio, e nella disperazione mi pervase un senso di pace. Mi guardai dal di fuori per la prima volta e scorsi un esserino di 50 chili in mutande. Provai pena per me stesso.
Un momento felice.
Il Natale del 1984. Ero ancora inquieto. Arrivai in ritardo in mensa per la cena natalizia, c’erano le ragazze vestite da angeli, un regalo per ognuno di noi della comunità, quando entrai mi sentii investito da un’onda di affetto: era un assembramento di naufraghi che si abbracciavano, felici di aver trovato la terraferma. Cominciai a piangere in maniera incontrollata. Avevo capito cosa fosse una comunità.
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paoloxl · 7 years ago
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Non ci occupiamo quasi mai di episodi di cronaca nera, ma a volte diventa necessario. La sparatoria di Bellona, in provincia di Caserta, ha tenuto impegnati i tg e le versioni online delle principali testate italiane per tutto il pomeriggio e la tarda serata di ieri. Fin quando Davide Mango – che aveva già ucciso la moglie e ferito altre cinque persone – non ha deciso di farla finita sparandosi alla testa. Fin qui il classico episodio di “follia”, come si usa dire quando non si riesce a trovare una motivazione razionale o una causa comprensibile di un gesto estremo. Silenzio pressoché totale, per parecchie ore, sul “profilo” di Mango. Si comincia col dire che si tratta di una guardia giurata, il che giustificherebbe le numerose armi detenute in casa. Poi si aggiunge che la moglie voleva lasciarlo. Che ha tentato di uccidere anche la figlia, che per fortuna ha fatto in tempo a fuggire mentre Mango si accaniva sulla madre. Solo con molto ritardo – e non da tutti i media – trapela che Mango, oltre che guardia giurata, era anche “vicino a Forza Nuova”. Un fascista, insomma, perlomeno a livello di convinzioni radicate. Un particolare tipo di fascista, oltretutto, perché Forza Nuova si caratterizza per il forte integralismo cattolico, i “valori tradizionali della famiglia”, secondo la vecchia triade dio-patria-famiglia. Al confronto, i cugini di CasaPound esibiscono spesso un’etica più lassista e superomista, ricalcando in parte le SA naziste, quelle sterminate dalle SS nella “notte dei lunghi coltelli”. In un contesto valoriale fascio-integralista, a occhio, sembra un po’ meno incomprensibile la motivazione del “gesto causato dalla follia”: se la moglie ti lascia rompe il guscio dei “valori tradizionali” e ti impone di fare i conti con le stronzate che ti frullano nel cervello. Se non sei in grado di razionalizzare “l’incomprensibile” o addirittura il “vietato da dio”, sbrocchi e dai di matto, uccidendo. Uno psichiatra normale muoverebbe i primi passi della sua analisi partendo da questi dati. Colpisce invece la “discrezione” dei media – pressoché tutti – nel minimizzare invece la fede fascista dell’assassino e il ruolo che questa fede può aver avuto nel “gesto di follia”. L’organizzazione politica diretta da Roberto Fiore si affretta a minimizzare a sua volta la frequentazione di Mango con il gruppo, riducendola a contatto casuale: “Davide Mango è stato sì per un periodo nostro sostenitore ma mai militante attivo. I suoi rapporti con Forza Nuova si limitavano al presenziare a qualche cena di finanziamento; non ha mai agito né fatto parte dei quadri militanti. Detto ciò è giusto precisare che si parla di un periodo di tempo superiore ai 6 anni trascorsi. Che non si usi una tragica vicenda personale per tirare fango e menzogne su tutto il Movimento e su tutti i nostri militanti”. Tutto perfettamente logico, mica vorrai caricarti uno che ha quasi fatto una strage… Tutto perfettamente uguale all’autodifesa di CasaPound quando, quattro anni fa, un suo “occasionale frequentatore” – tal Gianluca Casseri – uccise due senegalesi a Firenze, sparando a casaccio su un gruppo di immigrati colpevoli di avere la pelle scura. Anche il quel caso uno dei capi dell’organizzazione fascista, Gianluca Iannone, aveva rilasciato dichiarazioni praticamente identiche: “questo è un folle gesto di cui non siamo responsabili, c’è in atto una caccia alle streghe, un tentativo politico di delegittimare il nostro movimento, e questo porterà a spargere altro sangue”. Tipica autodifesa fascista, in cui il vittimismo aggressivo si esplicita in evocazione del “complotto” ed esibizione della minaccia (“spargere altro sangue”). La narrazione è scontata: “noi fascisti non facciamo niente, se uno di noi fa quello che andiamo dicendo, e ammazza qualcuno, è matto e noi non c’entriamo”. Il problema non è la loro menzogna, ma la condiscendenza dei media mainstream nei loro confronti. Provate a pensare come sarebbe stata raccontata questa follia se a compierla fosse stato un “comunista” (“drogato”, “frequentatore dei centri sociali”, ecc). Quanta condiscendenza o umana pietà avrebbero messo in mostra? In ogni caso, a smentire Forza Nuova (che parla di contatti casuali risalenti a più di sei anni fa) è uno dei loro attivisti – tale Vincenzo – che spiega “Ci eravamo conosciuti cinque anni fa a Caserta nel corso di un’iniziativa di Forza Nuova ed era nata una bella amicizia”. Non ci interessa sostituirci agli inquirenti, questo caso. Ci basta e avanza segnalare certe “discrepanze”, oltre al comportamento politicamente ignobile di quegli stessi media che – un giorno sì e l’altro anche – strepitano contro il “pericolo del populismo di destra”. Sono proprio loro a proteggerlo, coltivarlo, coccolarlo. da contropiano ******************************* Ecco chi è l’autore della tentata rapina ad Asseggiano: il neofascista Nicolo’ Penzo, militante di Forza Nuova. Uno di quelli che promuovono le passeggiate della sicurezza che in realta’ sono vere e proprie ronde contro i migranti, quelli che dicono prima gli italiani, quelli che sono sempre pronti a seminare odio e discriminazione. Però poi vanno a rapinare onesti tabaccai con 7 grammi di eroina in macchina… I soliti fascisti insomma.
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fondazioneterradotranto · 4 years ago
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I guardiani del mare si raccontano e i più belli sono nel Salento (IV parte)
Faro di Punta Palascia, Capo D’Otranto, Lecce (https://www.repubblica.it/viaggi/2018/08/30/news/tra_fari_e_lanterne_le_sentinelle_del_mare_piu_importanti_d_italia-205243146/)
  di Cristina Manzo
Non è visibile dalla litoranea che da Otranto conduce a Porto Badisco, si trova in prossimità di una base militare. Si parcheggia l’auto in uno spiazzo sterrato e in dieci minuti, con una tranquilla camminata, ci si arriva lungo un sentiero che si fa strada in mezzo alla natura, tra rocce e vegetazione, avvolti dai profumi della macchia mediterranea e da un silenzio quasi surreale.
La vista è così suggestiva da togliere il fiato: il guardiano del mare si staglia sulla scogliera tra il blu del cielo e l’infinita distesa azzurra del mare. Non esistono parole sufficienti a spiegare la sensazione che si prova ammirando e respirando tutto questo incanto, sembra quasi di essere in capo al mondo. L’ho visitato in diversi periodi dell’anno e sempre, in ogni stagione, io sono rimasta incantata. L’ho visto al tramonto quando mi appostavo calandomi giù dalla scogliera per le nottate di pesca, l’ho visto al buio ammantato di stelle mentre la sua luce illuminava l’infinito, l’ho visto all’alba del mondo colorarsi di rosa, l’alba di tutte le albe che nasce dal mare, anzi dall’incontro di due mari, dove la sera il sole si rituffa scomparendo come una palla incandescente che sfrigola nell’acqua.
Per me resta sempre il faro dei fari, il più bello, il più speciale. Abbiamo condiviso i segreti di un grande amore custoditi per sempre tra il mio cuore e il suo silenzio. Una storia nata ai piedi di un altro faro, in verità, quello di San Cataldo, quindi sono stati ben due i guardiani del mare importanti, nella mia vita. San Cataldo, Capo d’Otranto, Porto Badisco, la Palascia, la stazione metereologica sono le parole chiave della mia giovinezza.
Negli anni novanta tantissimi giovani frequentavano quel luogo in estate, sulla piana della scogliera vi era anche un’area per i campeggiatori. Era un posto che ispirava libertà e magia. Dalla Palascia lo sguardo prendeva il volo, aprendo l’anima a un immaginario senza confini, disancorato dalle catene della vita.
La stazione meteorologica di Otranto-Punta Palascia è la stazione meteorologica di riferimento per il Servizio Meteorologico dell’Aeronautica Militare e per l’Organizzazione Meteorologica Mondiale relativa alla località costiera di Punta Palascia presso Otranto. L’osservatorio, gestito dalla Regia Marina fino al termine della seconda guerra mondiale, è rimasto presidiato fino al 1978 presso il faro di Punta Palascia. In seguito, in conseguenza della dismissione dell’osservatorio meteorologico, è stata attivata nella medesima area di ubicazione una stazione meteorologica automatica di tipo DCP della rete del Servizio Meteorologico dell’Aeronautica Militare[1].
Sembrerà difficile da credere ma il maggior afflusso di turisti il faro di Punta Palascìa lo registra la notte di San Silvestro. Il motivo? Ci troviamo a Capo d’Otranto, il punto più a Est della Penisola. Così la sua terrazza è il luogo d’Italia in cui, idealmente, salutare per primi il nuovo anno. D’estate, invece, il faro di Otranto è meta degli amanti delle escursioni, essendo posto alla fine di un sentiero circondato da natura e scogliere a picco sul mare. Ma è anche il punto d’accesso alla ‘Grotta dei Cervi’, insenatura naturale che custodisce testimonianze storiche del periodo neolitico. È uno dei due fari italiani – assieme a quello di Genova – tutelati dalla Commissione Europea, facente parte dei cinque fari del mar mediterraneo.[2].
Qui nasce e muore la romantica storia dell’ultimo guardiano del faro che abitò tra le sue mura prima di consegnare le chiavi alla Intendenza di finanza nel 1978 e, con la sua morte, se ne va anche un pezzo di storia del Salento. “È venuto a mancare all’età di 88 anni l’ultimo guardiano del faro di Punta Palascìa. Elio Vitiello era nato nel 1931, arrivò a Otranto nel 1956 dal faro del Molo di San Vincenzo a Napoli portando con sé la tradizione di famiglia, faristi sia il padre Agostino che il fratello Benedetto. A Otranto Elio trovò anche l’amore e si sposò e la sua luna di miele fu proprio al faro con la sua Rosina Greco, idruntina. Vent’anni di vita nel faro tra intemperie e giornate di sole, venti e isolamento. Era stato, così, l’ultimo guardiano del faro. Un mestiere da letteratura, a guardare il mare e scrutare l’orizzonte, un lavoro duro e solitario, per veri amanti dell’avventura, pronti a dare l’allarme se qualcuno era in difficoltà tra le onde”[3].
Elio si porta dietro un mondo magico che non esiste più, un mondo romantico ma duro, fatto per quelli che resistono alla solitudine, per quelli che riescono a isolarsi e a stare bene soli con il mare, occupandosi solo di un faro e della sua luce. Non sembra una storia vera, sembra la trama di un romanzo, ma non lo è. I due sposini vanno li, in quel luogo estremo. Venti anni di vita al faro, lui che non sospettava nemmeno, il primo giorno che entrò nel grande edificio dell’Ottocento, che sarebbe stato l’ultimo guardiano del faro. Nessuno più sarebbe rimasto le notti a scrutare il mare, a guardare anche il più minimo segnale per prestare soccorso.
Quando Elio cominciò il suo cammino di guardiano al faro della Palascia era un periodo difficile: ogni giorno, intorno a mezzogiorno, al limite delle acque territoriali, “a vista nei giorni di bel tempo” gli albanesi, per provocare, facevano le loro esercitazioni di tiro navale in mare”. Si sentivano le esplosioni, li, su quel faro tra la Cortina di ferro ed il mare. I suoi ricordi erano tanti: – �� Pasqualino, il massaro della Masseria Caprara, ci portava il formaggio fresco e quasi sempre si fermava a pranzo, i pescatori di Otranto e Castro, i marinai della Metauro che rifornivano il faro di acqua, camminando sugli scogli in un equilibrio incredibile, sui sandali. E poi gli amici che, per tenerci compagnia, scendevano e si fermavano a condividere un pasto, prima del turno di servizio. E poi lui, il faro, quasi una creatura vivente, con i suoi tempi, i suoi bisogni: Funzionava a vapori di petrolio, una grossa lampada riscaldava il petrolio e questo evaporava bagnando la retina ed incendiandosi, né più né meno che come una grossa lampara. E poi il servizio, l’attenzione alla luce ed alla rotazione: aveva sette ore di autonomia ed era controllata da un orologio, ma ogni notte bisognava percorrere i 132 gradini che portano alla lampada e stare di vedetta, col mare in burrasca ed il vento che entrava da tutte le parti.
Solo nel 1966 arrivò l’elettrificazione» – . Dopo l’abbandono, la lente venne portata via da lì, il Faro di Palascia smise di ruotare. La lampada di Palascìa è a Messina, un’altra lampada, sempre dell’Ottocento è lì. Ma quella luce che girava lungo la costa era diversa. La vita al faro era condivisa con sei persone, loro due e la famiglia e del reggente Colaci. – «Aprivo le finestre ed i delfini saltavano sotto la riva, indimenticabile» – , raccontavano insieme, con gli occhi lucidi, lui e sua moglie Rosina. E poi, ancora, i ricordi di questo lavoro, duro e bellissimo, ma impossibile da fare senza passione. Il sistema di segnalazione lungo la costa idruntina comprendeva vari fari e fanali.
Il faro della Punta possedeva l’alloggio del fanalista (ancora oggi esistente, a pochi metri dallo stesso). Qui l’incaricato del servizio era costretto a controllarne il corretto funzionamento, ma non solo. Dalla sommità dello stesso faro, più volte ogni sera, doveva verificare se il fanale galleggiante posto presso la secca di Missipezze fosse acceso. Missipezze era un pericolo molto serio per la navigazione, almeno fino a che non entrò in funzione definitivamente il Faro di Sant’Andrea. Un mondo duro e semplice, affascinante e pericoloso, ma pieno anche di amore e romanticismo. Un ultimo saluto, dalla sua Palascìa, al vecchio guardiano che va via, questa volta per l’ultimo viaggio[4].
La bella notizia è che è partita proprio dal tacco d’Italia la riscossa dei fari, infatti quello di punta Palascia preso in carico dall’università del Salento e dal comune è diventato il primo faro-museo, sentinella della storia. In nessun’altra lanterna, prima, è stato realizzato un progetto simile e, così importante, e la torre ottocentesca che sorge in un vero paradiso naturale, può, ormai essere visitata da tutti, con la nascita di un osservatorio naturale su ecologia e salute degli ecosistemi mediterranei con una mostra sulle lagune e foci fluviali che si apre insieme alla seconda vita del faro. La nuova lanterna per la riaccensione è arrivata da La Spezia.
E così, sul sentiero ricavato tra gli scogli su cui, un tempo, il guardiano del faro passava con il suo asino per raggiungere il paese, ora arrivano studenti, turisti, studiosi dell’ecosistema marino che in questa zona sembra fatto di magia, con il vento che sibila da una parte, con i delfini e le alghe rare o i fiori selvatici che crescono profumando di salsedine dall’altra. Punta Palascìa è il luogo in cui il giorno comincia prima che nel resto dell’Italia: siamo sul lembo estremo più ad est dell’Italia (18°31’22” di longitudine) e il «nuovo corso» dei fari, che in Italia sono un po’ dimenticati, non poteva che cominciare qui. Il faro della Palascìa, costruito nel 1850 ha guidato non poche navigazioni in Adriatico. La sua storia è lunghissima. La casa a due piani sulla quale è poggiata la grande torre in carparo è stata da sempre la dimora dei faristi, due famiglie che hanno vissuto in questo eremo (collegato alla superstrada con una mulattiera) fino agli anni Sessanta. La figlia dell’ultimo guardiano del faro era una bambina quando ha lasciato questo luogo misterioso, e oggi guarda alle vecchie finestre con ammirazione. La ristrutturazione dell’edificio è stata lunga e non facile. Il luogo è bello ma certamente impervio. Grazie a fondi pubblici e ad accordi tra Comune di Otranto, Regione Puglia, Università di Lecce, Marina Militare, il faro torna alla gente. Gli ambientalisti, i cittadini hanno condotto lunghe battaglie per salvare questo angolo di Puglia: nel Capodanno del 2000 invece di festeggiare il nuovo Millennio in un ristorante, centinaia di persone furono a Palascìa a manifestare con le fiaccole contro la ventilata fine del faro. La vittoria è venuta quando il Comune di Otranto ha ottenuto in concessione il faro dall’Agenzia del Demanio, ricevendo i finanziamenti del Por 2000-2006 (600 milioni di vecchie lire) e poi i contributi di 100mila euro (programma Leader 2000-2006) oltre ai 300mila euro del «Pis 14»[5]. Quando di notte si guarda un faro, stando in mezzo al mare, non si distingue la torre bianca nell’oscurità, ma solo il fascio di luce che attraversa l’infinito, una cometa che ci guida verso il destino e la salvezza, un raggio sospeso nell’aria, lanciato da una sentinella messa lì solo per servire il prossimo. Un guardiano del mare e un guardiano del faro prigionieri del tempo e dello spazio con lo scopo di averla vinta sulla tempesta che impedì a Leandro di raggiungere Ero, senza quel fuoco che lo guidasse nel buio. Forse il primo caso di costruzioni realizzate dall’uomo per un così alto scopo altruistico. Le torri costiere sentinelle del mare. A me sarebbe piaciuto molto vivere in un faro, e a voi?
  Note
[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Capo_d%27Otranto
[2]https://www.repubblica.it/viaggi/2018/08/30/news/tra_fari_e_lanterne_le_sentinelle_del_mare_piu_importanti_d_italia-205243146/
[3] https://www.salentoflash.it/2020/06/05/palascia-addio-allultimo-guardiano-del-faro/
[4] https://www.quotidianodipuglia.it/lecce/faro_della_palascia_otranto_guardiano_del_faro-5268695.html di Elio Paiano
[5] https://www.quotidianodipuglia.it/lecce/faro_della_palascia_otranto_guardiano_del_faro-5268695.html.
Per la prima parte:
I guardiani del mare si raccontano e i più belli sono nel Salento (I parte)
Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/07/10/i-guardiani-del-mare-si-raccontano-e-i-piu-belli-sono-nel-salento-ii-parte/
Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/07/21/i-guardiani-del-mare-si-raccontano-e-i-piu-belli-sono-nel-salento-iii-parte/
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samdelpapa · 5 years ago
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Bettino Craxi nostalgia canaglia. L’Hammamet di Gianni Amelio è quello che in parecchi si aspettavano: la santificazione dell’ex presidente del consiglio e un’immensa prova di Pierfrancesco Favino. Tanto era astratto e universale il minimalismo del cinema di Amelio fino all’altro ieri, tanto è inchiodato come un Cristo alla storia questo Bettino vittima dei cattivi magistrati negli ultimi sei/sette mesi di dolorosa sua vita in quel di Hammamet. Agamennone, Cassandra, Re Lear. A sfogliare il pressbook ricevuto all’entrata di un’anteprima attesa quanto forse più del Tolo Tolo di Zalone, l’ultimo vano tentativo di indirizzare l’opera sulla falsariga della tragedia classica cade inesploso appena prima dei titoli di testa. Hammamet (dal 9 gennaio nelle sale italiane) si apre con la riproduzione pedissequa del 45esimo Congresso del Partito Socialista Italiano all’ex Ansaldo di Milano, quello del 1989, con la piramide di Panseca alle spalle del leader Bettino che sottolinea quanto ha fatto diventare moderna l’Italia. Applausi, garofani rossi, entusiasmi assortiti. È il Bettino vero, quello di Hammamet. Quello sagace, puntuto, spregiudicato, carismatico, anticomunista feroce (le battute si sprecano sugli ex mai stati suoi compagni) che abbiamo imparato a conoscere dalla tv e dai giornali dell’epoca. L’arrivo di un Moroni qualunque, tal Vincenzo (Giuseppe Cederna), l’ex operaio finito a contare banconote e tangenti per il partito, ora impaurito e preoccupato dell’andazzo del socialismo craxiano, ufficio finanziamento pubblico, è un tentativo maldestro (abbiamo visto tutti i film di Amelio e così scontata la sua scrittura non era mai stata) di costruire il sottotesto fittizio che permetterà poi al presunto figlio di costui di apparire nella villa tunisina di Craxi, pittato di fango in viso come Brando in Apocalypse Now, per tentare senza troppa decisione giustizia personale che si trasforma poi (altro carpiato drammaturgicamente zoppo) in riprese in 4:3 delle ultime parole famose di Bettino come fosse un estremo tributo al mahatma della politica italiana. Insomma, in quel buen ritiro carico di angoscia, rimpianti e rabbia verso giudici, giustizia, forche popolari giacobin https://www.instagram.com/p/B7I0-VmCJwj/?igshid=1dcblf90lag21
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kalos-kalos · 6 years ago
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Qual’è la memoria del bene?
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Qual’è la memoria del bene?
 Di Vincenzo Calafiore
22 Marzo 2019 Udine
 “ Senza memoria non può esserci futuro “
                                 Vincenzo Calafiore
                            Era l’agosto del 1937, nacquero i gulag e la campagna di sterminio degli oppositori.
E’ uno sguardo, un pensiero, alla memoria delle vittime e nascono delle domande:
Chi sono i “ giusti “ dei Gulag, e i “giusti “ della Shoah?
Che significato hanno in questi tempi ricordare le vittime del male estremo?
Qual è il valore della memoria del bene?
Occorre focalizzare questa cifra: - 1937 – e significa che in URSS erano trascorsi vent’anni dalla “ Rivoluzione ” che poi non è servita a niente.. i contadini non avevano ricevuto la terra che era stata loro promessa, gli operai non avevano ricevuto le fabbriche e le industrie, il popolo non ha avuto né pace né tranquillità, anzi ha ritrovato il terrore di Stato, un metodo vecchio di ogni dittatura per risolvere i problemi.
Oggi crediamo di avere la – democrazia - , crediamo di vivere nella democrazia, ma di quale democrazia, questa non è la democrazia è una sottospecie semmai, ma è un altro discorso.
In quell’anno, il 1937, ed era impensabile a una qualsiasi forma di resistenza, perché gli organi di regime lavoravano per la repressione ben coordinati e i processi – sommari- o basati sul terrore era cosa normalissima.
“ Tutti “ gli oppositori che si opponevano coscientemente al regime sovietico venivano immediatamente –prelevati -!
Qualsiasi forma di manifestazione e di libertà di pensiero era considerata come una controrivoluzione o attività controrivoluzionaria è veniva perseguita penalmente.
Molti venivano arrestati e fu così che si consolidò il regime, anche con l’uso rabbioso di appelli alla lotta contro i fantomatici nemici del popolo sulle pagine dei giornali.
In luglio del 1937, non ricordo bene se nella prima decade.. il politbjuro del Comitato centrale del Partito Comunista ( Bolscevico) diede inizio a una tremenda campagna di terrore:
condannare dopo un processo sommario tutti i sovversivi, tra i quali anche coloro che stavano già scontando una condanna, con delle distinzioni e cioè, quelli di – prima categoria- intellettuali etc etc alla fucilazione e quelli di –seconda categoria- alla detenzione in lager o nelle carceri.
Il regime richiese le cifre dei sovversivi … registrati, e su questa base furono istituite le famigerate “ trojke”, che altro no erano che organi stragiudiziali addetti alla repressione degli
<< ex kulaki, degli elementi antisovietici attivi e dei criminali >> e fu anche stabilito un piano territoriale.
Contemporaneamente a ciò, si svolse anche l’operazione NKVD contro spie, sabotatori,parassiti e terroristi… i nomi raccolti venivano sottoposti all’esame delle –dvojke- organi extra-giudiziali.
Si prospettava l’eliminazione di un gran numero di persone, per questo motivo si dovette risolvere il problema di dove e come seppellirli.
Furono creati nuovi cimiteri che rispondevano a certi criteri.. dovevano essere distanti dalle città almeno oltre i venti kilometri, in località nascoste, solitamente in boschi e foreste.
Nacquero così luoghi tristemente noti o famosi come Butovo, Kommunarka, Kuropaty , Bukovnja.
In centinaia di migliaia furono fucilati e sparirono. Alle famiglie veniva comunicato solo a voce che si trovavano in campi di concentramento senza diritto di corrispondenza.
Durante la campagna del terrore del 1937-1938 a Leningrado e nella Russia NO su disposizione di Leningrado furono uccise oltre quarantamila persone, non è noto il numero esatto. Allora, in quegli anni stessi del Grande Terrore, era impossibile rendersi conto delle proporzioni reali delle stragi in corso.
Dopo Stalin la menzogna sulle fucilazioni assunse un’altra forma.
Negli anni 1955-1963 vennero compilati certificati di morte per cause inventate: ascesso al fegato, tifo addominale,setticemia, e così via, e la data della morte veniva fatta risalire agli anni 1941-1945!
Dal 1964 si cominciarono a indicare le vere date della morte.
Mezzo secolo di menzogna. I sette decenni della Grande Menzogna del Partito Comunista.
Dove sta la differenza tra un Gulag e un Campo di sterminio nazista qualunque? Questa è un’altra domanda, o è: la domanda?
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servizistampa · 6 years ago
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Comunicato #736: Olimpia Matera vince in trasferta a Catania
Dopo la battuta di arresto in casa, i biancoazzurri liquidano con una seconda vittoria la terza partita in sette giorni. Coach Origlio: “Esame superato brillantemente, dedico la vittoria all’esecutivo Olimpia”. Iannilli: ”Battaglia autentica”. Domenica pomeriggio, big match tra Salerno e Palestrina. 
Riprende a vincere l’Olimpia Matera a Catania, nell’anticipo della ventesima giornata – quinta di ritorno – del campionato nazionale di pallacanestro – Serie B “Old Wild West” – Girone D. Il confronto si è giocato nel pomeriggio di sabato, 2 febbraio 2019, e si è concluso con il punteggio di 80 a 98. I padroni di casa intraprendono il match in modo aggressivo, portandosi subito avanti, con un vantaggio massimo di otto punti sull’11 a 3; il tempo di mettere a fuoco la distanza con il canestro, ed ecco che tre triple di Pasquale Battaglia riportano il primo quarto in equilibrio, fino allo score di 25 a 23, con cui si chiudono i primi dieci minuti di gioco. Il secondo quarto rappresenta il capolavoro dell’Olimpia, che subito pareggia i conti e si lancia in una frenetica corsa ai punti, tra tiri dalla lunetta, dall’arco e dall’area, con un parziale di 28 a 12, e un margine estremo di diciotto punti (33-51) che annichilisce le migliori intenzioni del Catania e permette ai materani di acquisire fiducia nei propri mezzi e ottimismo verso l’andamento residuo della partita. Nella terza frazione di gioco, l’Olimpia prosegue le scorribande in area avversaria, e produce un’ulteriore accelerazione fino a raggiungere il massimo scarto dell’incontro, 23 punti sul 50 a 73, ma poi Catania riesce a ridurre il gap chiudendo il periodo per 58 a 78 (21-27 lo score del parziale). La partita sembrerebbe terminata, invece un guizzo dei catanesi, rafforzato da due triple di Agosta, riavvicina pericolosamente la squadra di casa ai biancoazzurri fino a una differenza di undici punti; a quel punto, i materani riprendono pazientemente le redini dell’incontro, e si riprendono i punti precedentemente sottratti chiudendo l’ultimo parziale per 22 a 20. Il coach dell’Olimpia, Agostino Origlio, è soddisfatto dei suoi giocatori: “Sapevamo di dover affrontare una trasferta difficile, anche perché dovevamo riprendere il nostro cammino dopo lo stop subito in casa con Salerno. Abbiamo incontrato una squadra che deve salvarsi e ne è uscita una partita maschia, con tanti falli e contatti, a fronte dei quali i nostri ragazzi hanno mantenuto la giusta lucidità per tutta la durata del match”. Racconta il centro materano Andrea Iannilli: “E’ stata una battaglia autentica, sapevamo che sarebbe stata una vittoria difficile da portare via, eppure siamo stati bravi – a parte un solo momento di calo a cavallo degli ultimi due quarti. Una partita di quelle in cui si deve dimostrare la durezza mentale e la forza del gruppo, e portare a casa la vittoria ad ogni costo”. Al termine dell’incontro, quattro giocatori materani hanno raggiunto la doppia cifra. Sono: Daniele Merletto (20 punti), Maurizio Del Testa e Pasquale Battaglia (19 per entrambi), Enzo Cena (14). Le percentuali nei tiri di squadra sono state superiori alle medie stagionali dell’Olimpia: 22 canestri su 34 tiri dall’area (65% rispetto alla media del 51%), 11 triple su 27 tentativi (41%; media 32%) e 21 tiri dalla lunetta su 26 (81%; media 78%). Riprende l’allenatore: “Certo non è stato semplice sostenere in una settimana tre partite, di cui due trasferte lunghe a Valmontone e Catania, ma i nostri giocatori hanno superato l’esame brillantemente, esattamente come mi aspettavo che facessero. Ora possiamo riprendere i nostri ritmi canonici, con una partita per settimana, forti della spinta emotiva di quest’ultima vittoria; avremo finalmente il tempo per lavorare con maggiore dedizione, continuando a perfezionare l’inserimento di Andrea Iannilli. Dedico questa vittoria al Presidente e a tutto il Consiglio di Amministrazione: dopo la sconfitta di Salerno sono stati vicini alla squadra e hanno continuato a sostenerci per il buon lavoro fatto finora”. Dopo la vittoria a Catania, l’Olimpia si è riportata, sia pure per una notte, al secondo posto in classifica con 30 punti, alla pari con Salerno che – tuttavia – domenica pomeriggio se la dovrà giocare con Palestrina (terza a 28 punti): dunque il risultato di questa sfida diretta, tutt’altro che scontato, potrebbe riportare Salerno – in caso di vittoria – al secondo posto, con Olimpia al terzo e Palestrina al quarto. Viceversa, in caso di vittoria degli ospiti, le tre squadre si ritroverebbero tutte insieme al secondo posto, a quota trenta. Anche Caserta – che conduce con 34 punti - è chiamata ad affrontare un match piuttosto impegnativo, in quanto ospiterà HSC Roma, che in classifica è sempre in zona Playoff, con dieci punti in meno della squadra leader.   Intanto, il secondo anticipo della ventesima giornata si è concluso con la vittoria della Luiss Roma su Capo d’Orlando per 84 a 68. Nel pomeriggio di domenica, il calendario residuo prevede ancora le partite tra Valmontone e Scauri, Reggio Calabria e Palermo (prossima ospite al Palasassi), Napoli e Pozzuoli, tutte alle 18.00; infine, il match tra Battipaglia e IUL Roma, in programma alle 20.30. TABELLINO Alfa Basket Catania - Olimpia Matera 80-98 (25-23, 12-28, 21-27, 22-20) Alfa Basket Catania: Alessandro Agosta 25 (4/9, 3/5), Joseph Vita sadi 18 (8/9, 0/0), Georgi Sirakov 17 (5/10, 2/2), Matteo Gottini 7 (1/1, 1/3), Alessandro Florio 5 (2/3, 0/1), Vincenzo Provenzani 3 (0/4, 0/0), Ruggero giuliano Elia 2 (1/1, 0/0), Giuliano La spina 2 (1/1, 0/0), Marco Consoli 1 (0/0, 0/0), Nicolò Mazzoleni 0 (0/0, 0/0) Tiri liberi: 18 / 30 - Rimbalzi: 27 4 + 23 (Joseph Vita sadi 10) - Assist: 3 (Vincenzo Provenzani 2) Olimpia Matera: Daniele Merletto 20 (4/6, ¼), Maurizio Del testa 19 (2/4, 3/9), Pasquale Battaglia 19 (¾, 4/7), Enzo Cena 14 (2/3, 3/7), Matteo De leone 8 (4/7, 0/0), Andrea Iannilli 6 (¾, 0/0), Renato Buono 6 (1/1, 0/0), Giacomo Sereni 6 (3/5, 0/0), Daniel Datuowei 0 (0/0, 0/0), Mario Mancini 0 (0/0, 0/0) Tiri liberi: 21 / 26 - Rimbalzi: 25 7 + 18 (Enzo Cena 9) - Assist: 8 (Daniele Merletto 5)
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