#leggenda privata
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Rumble Boxing Italia:
KELLY HARRINGTON fà l’addetta delle pulizie in Ospedale, questa notte è diventata leggenda nella boxe vincendo la sua seconda medaglia d’oro per l’Irlanda.
Non si è mai giustificata, non hai mai cercato scuse , non ha mai parlato più di tanto, ne si è mai piagnucolata addosso, nonostante a 34 anni per essere lì ha sacrificato parte del suo guadagno economico, parte della sua vita privata.
Ha raggiunto questo , senza nessuno stipendio statale, senza gruppi sportivi, senza nessun premio , senza avere delle corsie preferenziali .
Lavoro, sudore, sudore e lavoro!
Fù rifiutata all’età di 15 anni nella palestra St.Mary’s boxing club di Dublino , perché non allenavano ancora donne nei primi anni duemila . Insistette così tanto che alla fine il suo impegno costante la rapida crescita pugilistica , e la dedizione venne premiata dal maestro facendola entrare del club degli atleti agonisti.
Ad una intervista durante la partenza per Parigi ha dichiarato , che intende tornare al suo lavoro part-time di addetta alle pulizie presso l'ospedale psichiatrico St Vincent di Dublino, indipendentemente dal risultato che otterrà alle Olimpiadi.
KELLY HARRINGTON è oggi campionessa Nazionale ,Europea , campionessa del mondo, e due volte medaglia d’oro Olimpica dei pesi leggeri.
Questo è l’esempio che incarna lo sport!
Quello che non siamo in grado di fare noi , in Italia da anni ,per i troppi interessi e poltrone.
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Sociologia di Alain Delon
Ci lasciava, l’altro ieri, Alain Delon. A ottantotto anni il divo francese si è congedato da una vita che, come lui stesso diceva, da tempo gli era diventata estranea e pesante.
Immediatamente i social si sono messi in moto. Celebrazioni, ricordi, considerazioni politiche, estetiche, cinematografiche.
Era fascista, leggo su molti post. E quindi? Mi domando. Fascisti, anzi nazisti, erano Céline, Ezra Pound, Leni Riefenstahl, Von Karajan, Heidegger.
E decisamente reazionari e conservatori furono e sono Errol Flynn, Charlton Heston, il grandissimo Clint Eastwood.
Walter Chiari, Giorgio Albertazzi, Carlo Dapporto, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni e persino Cesare Pavese – che scrisse due lettere di stima e sottomissione al Duce – furono iscritti alla Repubblica Sociale.
La Sofia nazionale è zia niente di meno che della Mussolini. E non è certo una sinistrorsa. Neanche un esempio di virtù cardinali o artistiche per la verità. Potrei andare avanti ma non credo sia necessario.
Era omofobo e maschilista Delon, scrivono ancora in molti. Beh, trovatemi un uomo degli anni Trenta del secolo scorso che non lo fosse. Persino Che Guevara lo era. Era la cultura del tempo.
Picchiava le donne ed era un pessimo padre. Certo, aspetti deplorevoli e finanche vergognosi. Ma qua se andiamo di morale dovremmo impiccarci tutti.
A cominciare dai cattolici. Per proseguire con comunisti e anarchici. «Chi è senza peccato scagli la prima pietra» diceva un tale che di queste cose se ne intendeva.
Ma soprattutto, se vogliamo utilizzare la matita rossa e blu del politically correct non solo non campiamo più. Ma l’arte tutta dovremmo metterla in un cesso.
Come purtroppo in questo arbitrario delirio antidialettico contemporaneo sta spesso accadendo.
A maggior ragione se l‘arte la giudichiamo in relazione alla vita suoi creatori. Da Rimbaud a Mozart. Da Picasso a Modigliani. Da Brando a Bette Davis. Da Bukowski a Carmelo Bene.
Fino a quello sregolato soggetto geniale che fu l’artista pallonaro Maradona. Gente per lo più pessima nella vita privata.
Una cosa che non perdono però a Delon è l’aver sparato sui vietnamiti in quanto legionario nella guerra di Indocina.
Ciò detto, stiamo ai fatti. E soprattutto stiamo al Cinema.
Era bellissimo Alain. Non discuto. Anche se a me non diceva molto. Troppo carino. Troppo effeminato.
Come bellezza maschile preferivo Marlon Brando. Che quanto a carisma, fascino e soprattutto bravura attoriale se lo fumava arravogliato dentro ad uno spinello.
Anche come “maledetto” Delon era poca cosa. Vuoi mettere l’angelo luciferino Helmut Berger che girava col pippotto per la cocaina appeso al collo?
Ma Delon piaceva indiscutibilmente ad uomini e donne. A mia madre no. Diceva che era ” ‘na meza femmena”.
A lei, oggi novantenne, piacevano e piacciono uomini più alti e maschi. A me però m’ha fatto curto. Curto ma bello. E maschio. E sì, oramai me lo dico da solo. Che tristezza!
Insomma, a mammà piaceva Rock Hudson. Che quanto a virilità era piuttosto discutibile. E immaginate dunque come ci rimase quando seppe che era gay. Una tragedia.
Ad ogni modo Delon lavorava soprattutto perché di evidente apolinnea bellezza. E perché di lui si innamoravano tanti registi. Oltre ovviamente a tantissime donne e partner sul set.
E allora diciamola tutta. È morto un sogno. E i sogni, si sa, svaniscono all’alba. Lasciando impercettibili, confuse sensazioni.
È morta una leggenda. Ma una leggenda da rotocalco. Un’icona, dicono molti. Piuttosto un’immagine incendiata sulla celluloide, dico io. Come le statue filiformi di Giacometti.
Una storia da gossip in un cinema mitico. Una visione sgranata dal tempo. La visione contemplata dentro uno specchio infranto, che il narciso Alain non seppe ricomporre.
È morto un riflesso d’estate. Una forma plagiata da Apollo. Non certo l’incubo suscitato dal conturbante Dioniso della rinascita. Lo strazio della poesia che lacera l’anima e l’intelligenza, fino a desiderare la morte.
Le sue interpretazioni “memorabili” sono il frutto del lavoro di grandissimi registi. Visconti, Antonioni, Melville, Duvivier, Malle. Non certo della sua raffinata arte recitativa.
Con Delon se ne va, insomma, la bambola Barbie versione maschile del cinema d’oltralpe.
Gli attori, gli artisti, la bellezza crudele che sanguina sono un’ altra faccenda.
Vincenzo Morvillo - via: Contropiano
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Tina Turner è morta all'età di 83 anni. La regina del rock, cantante e attrice statunitense naturalizzata svizzera, si è spenta nella sua abitazione a Kusnacht, vicino Zurigo, in Svizzera. Lo ha annunciato il suo portavoce, secondo quanto riporta Sky News. "Tina Turner, la Regina del Rock'n Roll, è morta serenamente oggi all'età di 83 anni dopo una lunga malattia nella sua casa di Küsnacht vicino a Zurigo, in Svizzera. Con lei, il mondo perde una leggenda della musica e un modello", queste le parole del suo portavoce, che poi continua: "Ci sarà una cerimonia funebre privata a cui parteciperanno amici intimi e familiari. Si prega di rispettare la privacy della sua famiglia in questo momento difficile", ha concluso.
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Il vento gelido del Mississippi sibilava tra le foglie di cotone, trasportando con sé la voce roca di Robert Johnson. Le sue dita volavano sulla chitarra, intrecciando note malinconiche che narravano di amori perduti, patti col diavolo e la dura vita nel Delta.
Nato in una famiglia povera e segnato dalla discriminazione razziale, Robert trovava rifugio nella musica. La sua anima inquieta era attratta dalle note blues che risuonavano nei juke joint, storie di sofferenza e riscatto che dipingevano la cruda realtà del Sud.
La leggenda narra che una notte, spinto dalla frustrazione e dal desiderio di fama, Robert si recò a un incrocio sperduto nel cuore del Delta. In quell'inquietante luogo, sotto un cielo plumbeo, si dice che abbia incontrato il diavolo.
Alcune versioni raccontano di un rituale macabro, con Robert che accorda la sua chitarra con l'anima in cambio di un'abilità sovrumana. Altri sussurrano di un incontro più subdolo, dove il diavolo, ammaliato dalla musica di Robert, gli offrì un patto: fama in cambio della sua immortalità.
Qualunque sia la verità, da quel momento in poi la vita di Robert cambiò radicalmente. La sua chitarra divenne un'estensione del suo corpo, le sue note evocavano una potenza e un'intensità mai sentite prima. La sua voce roca e graffiante narrava storie di vita vissuta, di passioni tormentate e di un'inquietudine che non poteva essere placata.
Il suo talento esplosivo lo catapultò sulla scena blues, lasciando il pubblico a bocca aperta. La sua fama si diffuse rapidamente, attirando l'ammirazione di musicisti come Son House e Muddy Waters. Le sue canzoni, come "Crossroad Blues", "Love in Vain" e "Me and the Devil Blues", divennero pietre miliari del genere, influenzando generazioni di musicisti a venire.
Ma la fama di Robert era avvolta da un'aura oscura. La leggenda del patto col diavolo lo perseguitava, alimentando le dicerie sulla sua natura maledetta. La sua vita privata era tormentata da relazioni complicate e da un'incessante ricerca di sollievo nell'alcool.
A soli 27 anni, Robert Johnson morì in circostanze misteriose. La sua morte prematura alimentò il mito e la leggenda, lasciando un alone di mistero che ancora oggi avvolge la sua figura.
Il fantasma di Robert Johnson continua ad aleggiare nel Delta del Mississippi, la sua musica risuona nelle note di innumerevoli bluesman che hanno tratto ispirazione dalla sua tragica e leggendaria esistenza. La sua anima inquieta, intrappolata tra il blues e il diavolo, continua a raccontare storie di passione, dolore e riscatto, immortali nella memoria del Mississippi.
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO PRIMO - di Gianpiero Menniti
LA SENSUALITA' E LA MORTE
Il '700 è un secolo del quale s'ignora la grandezza artistica. Segnato da un virtuosismo di elevata caratura, non è tuttavia ricordato per i nomi dei Maestri che lo abitarono. Tra questi, Antonio Corradini, veneziano (1688-1752) e Giuseppe Sanmartino, napoletano (1720-1793), figure insigni della scultura. Qualcosa li accomuna e non si tratta solo della formidabile destrezza tecnica: è il tema del "velo". Una qualità dell'arte plastica che ha origine nell'antichità e che, a ben vedere, apparve sovvertire la dinamicità estenuata della scuola barocca, del Bernini in particolare. Ma se in Corradini la rappresentazione coglie la leggerezza del movimento sensuale del corpo trattenuto nella trasparenza del tessuto lieve, in Sanmartino il velo assume la grevità soffocante del sudario, la densità opprimente della morte. Teatro di questo confronto artistico, la celeberrima Cappella Sansevero a Napoli: ad essa si dedicò il principe Raimondo di Sangro, mecenate e figura ghermita da un alone di tetra leggenda, probabilmente alimentata dal suo fervore massonico, che commissionò gran parte delle opere oggi ancora conservate. E tra queste, la "Pudicizia velata" (1752) di Corradini e il "Cristo velato" (1753) di Sanmartino, opera quest'ultima che avrebbe dovuto realizzare proprio Antonio Corradini: riuscì solo a lasciarne il bozzetto che, tuttavia, Sanmartino innovò profondamente. Contenuti apparentemente diversi, dunque. Eppure, in entrambe le opere la corporeità è vissuta alla stregua di una presenza incombente, di un'identità che il velo protegge ed esalta, saldandosi alla vita che palpita di carnalità, come alla morte che accompagna l'ultimo anelito. Il velo, l'estremo confine.
In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
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Nuovo post su Atom Heart Magazine
Nuovo post pubblicato su https://www.atomheartmagazine.com/ryan-oneal-morto-lattore-icona-di-love-story-e-barry-lyndon/
Addio a Ryan O'Neal, icona di Love Story e Barry Lyndon
L’attore Ryan O’Neal, celebre protagonista di film come “Love Story” e “Barry Lyndon” è deceduto a Los Angeles all’età di 82 anni. La notizia è stata confermata dal figlio, Patrick O’Neal, attraverso un post su Instagram. La vita di O’Neal è stata caratterizzata non solo dai successi cinematografici ma anche da una relazione tumultuosa con l’attrice Farrah Fawcett.
Carriera cinematografica di Ryan O’Neal
Nato a Los Angeles da genitori d’arte, Ryan O’Neal ottenne la fama internazionale grazie al ruolo di Oliver Barrett IV in “Love Story” nel 1970, che gli valse una nomination al Premio Oscar come miglior attore nel 1971. Il suo contributo al mondo del cinema include anche il ruolo principale in “Barry Lyndon” (1975), diretto da Stanley Kubrick. Nel corso della sua carriera, O’Neal fu preso in considerazione per ruoli iconici come Rocky Balboa in “Rocky” (1976) e Michael Corleone ne “Il Padrino” (1972).
Vita privata di Ryan O’Neal
Oltre ai successi professionali, la vita privata di Ryan O’Neal fu segnata da matrimoni e relazioni complesse, tra cui il breve matrimonio con Joanna Moore e la lunga relazione con Farrah Fawcett. La coppia ebbe un figlio, Redmond, nato nel 1985. Farrah Fawcett morì nel 2009.
Ultimi Anni e arresto
Nonostante la turbolenta vita privata, Ryan O’Neal continuò a recitare fino a una dozzina di anni fa. Nel 2006, entrò nel cast della serie televisiva “Bones” e apparve anche in episodi di “90210” nel 2010. Nel 2008, fu arrestato insieme al figlio per possesso di stupefacenti nella loro casa di Malibù, in California.
La morte di Ryan O’Neal segna la fine di una carriera cinematografica che ha lasciato un’impronta indelebile grazie a ruoli memorabili in alcuni film iconici. La sua vita privata turbolenta contribuisce alla sua leggenda, rendendo O’Neal una figura indimenticabile sia sul grande schermo che nella vita di tutti i giorni.
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C’è un piccolo paesello in provincia si Avellino minacciato da molti anni dallo spopolamento: il luogo in questione è Pietrastornina.
A Pietrastornina è presente un posto alquanto suggestivo e sinistro, caduto in disuso dagli anni ’60 in poi: si tratta del vecchio cimitero ottocentesco in cui restano ben poche tracce di quel che era in passato. Circondato dalle colline, nel vecchio cimitero è possibile ammirare una chiesetta (ridotta a rudere) e una cappelletta privata (ormai ricoperta dalle piante). L’ingresso a questo cimitero abbandonato è segnato da una piccola croce posta al centro di due cancelli ormai divelti.
Questo vecchio cimitero di Pietrastornina è anche strettamente legato alla leggenda della “sposa imbalsamata”. La leggenda in questione vuole che all’interno del cimitero sia stata sepolta imbalsamata una giovane donna prossima alle nozze deceduta negli anni ’20 per via dell’influenza spagnola. Sebbene la leggenda narri che il corpo della donna sia stata imbalsamata e conservata in una teca di vetro, è d’obbligo segnalare che in realtà di questo corpo in questo posto non ci sia traccia alcuna. Una leggenda metropolitana, si diceva, che per ironia della sorte l’avvocato Davide Urciuolo, esperto di storia e miti del luogo, propose di farla diventare la chiave per far sì che il paesino di Pietrastornina potesse invertire la rotta dello spopolamento e della sua progressiva “morte”. Del resto, per citare il sito Derive Suburbane, “questa narrazione sospesa tra morte e vita è emblema della volontà di salvare la memoria al di là della fine. Oggi, potrebbe persino diventare lo spunto per restituire vita ad un luogo simbolico dell’unione comunitaria di un paese e, forse, al paese stesso”.
In occasione della festività di Halloween, l’Amedeus adventures approderà proprio al cimitero abbandonato di Pietrastornina in data 31 ottobre 2023.
Info generali:
• luogo: cimitero abbandonato di Pietrastornina;
• orario: 19.30/20 circa - 2/3 di notte;
• come arrivarci: automobile;
• cena e sfizioserie: a sacco.
Munirsi di: soldi, caricabatterie, cellulari muniti di torcia, torce, abbigliamento rigorosamente a strati, zainetto per raccogliere cibo e abiti.
Per ulteriori info e adesioni, contattatemi in privato!
Fonte articolo: Derive Suburbane.
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C'era una volta, in un remoto regno lontano, una splendida e temuta regina chiamata Orchidea. Era la sovrana degli orchi, una guerriera inarrestabile e spietata assassina di chiunque osasse minacciare la sua terra e i suoi cari. Non conosceva la pietà né la compassione; non temeva nulla e nulla poteva fermarla.
Orchidea era rispettata e temuta da tutti nel regno degli orchi. Le sue gesta guerriere erano celebrate e la sua forza era leggendaria. Passava da una battaglia all'altra, sconfiggendo i suoi nemici senza esitazione, proteggendo con feroce determinazione il suo popolo e la sua terra.
Ma un giorno, mentre affrontava uno dei suoi avversari più pericolosi, Orchidea si rese conto che in realtà le mancava qualcosa. Mentre brandiva la sua spada contro l'avversario, si rese conto troppo tardi che il nemico stava lottando non per sé stesso, ma per proteggere un cucciolo da lei. Il cucciolo era nascosto all'interno di una botola e l'avversario voleva solo tenerlo al sicuro, quando lo scoprì erano già morti entrambi nell'incendio da lei appiccato.
Il cuore di Orchidea si strinse nel vedere il cucciolo dopo averlo ucciso, e lì, in quel momento, si accorse di essere stata cieca nel suo desiderio di proteggere la sua terra e i suoi affetti. Si rese conto che la sua ferocia e la sua mancanza di compassione l'avevano privata di una parte essenziale dell'anima.
Così, dopo la guerra, Orchidea ritornò al suo regno ma scorse qualcosa di diverso. Vedeva ogni soldato tornare alle loro case, ai loro compagni e alle persone che amavano. Ciò che Orchidea aveva sempre considerato una debolezza in battaglia, ora lo interpretava come una motivazione per ritornare. Vedeva la gioia di coloro che venivano accolti da amici e familiari, e capì che la vita non era solo combattimento e vittoria, ma anche amore e condivisione.
Così, prendendo una decisione che avrebbe stupito tutti nel regno, Orchidea si ritirò da regina degli orchi. Iniziò a vagare solitaria per i campi, a godere la bellezza che la circondava. Riempì gli occhi di meraviglia e malinconia e, finalmente, si sedette vicino a un lago. Lì, ancora una volta, scorse il riflesso della luna, che sembrava illuminare tutto il paesaggio.
Orchidea rimase lì per un lungo periodo, riflettendo sulla sua vita di guerriera e sui tesori che aveva perso. Le scorrevano silenziose lacrime sul viso che si mescolavano al riflesso della luna, sentiva che un cambiamento profondo stava avvenendo dentro di lei.
La terra svegliata dal pianto comprese il dolore di Orchidea, ne ebbe pietà. Le piante mosse a compassione la accompagnarono verso la trasformazione che la nuova coscienza portava. In quel luogo di bellezza e serenità, Orchidea venne assorbita dalla terra, mentre le lacrime che bagnavano il suo viso vennero assorbite dalle piante circostanti.
E così, Orchidea divenne fiori, un'espressione di bellezza e delicatezza, un simbolo di amore e compassione. I suoi petali morbidi come carezze e i suoi colori delicati riflettevano la sua metamorfosi interiore, portando a tutti coloro che incrociavano il suo cammino un senso di pace e meraviglia.
Da quel giorno in poi, Orchidea non era più una temuta regina degli orchi, ma un bellissimo fiore che adornava la terra. Rappresentava il coraggio e la forza della regina che una volta era, ma anche la sua trasformazione verso una comprensione più profonda dell'amore e della compassione.
La leggenda di Orchidea, la sovrana degli orchi, si diffuse in tutto il regno, insegnando a tutti che il potere e la forza possono essere nobili, ma solo con l'amore e la compassione si può veramente trovare la pace e la gioia nella vita. E così, Orchidea, la regina trasformata, continuò a portare la sua bellezza e il suo messaggio di speranza a tutti coloro che incontrava.
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Curiosita’ romane, la Storia della Fontana delle Tartarughe, Piazza Mattei, ph Claudio Colis, Fotografo e cacciatore di emozioni
Alzi la mano chi non ha mai visto questo "gioiellino", la Fontana delle Tartarughe che si trova in piazza Mattei, nel cuore del ghetto di Roma. Meno conosciuta è senz'altro la sua storia, sospesa a metà tra leggenda e realtà.
Si narra, infatti, che il duca Mattei, amante del gioco d'azzardo un giorno perse in un colpo l'intero patrimonio. Il suocero venuto a conoscenza dell'accaduto rifiutò di concedergli in sposa la figlia.
Il duca, allora, decise di stupire il suocero dimostrando di essere, nonostante tutto, un gran signore. Fece quindi realizzare nell'arco di una sola notte questa magnifica fontana. Il giorno dopo convocò nel suo palazzo il suocero e la figlia e li fece affacciare alla finestra per ammirare lo spettacolo.
Mattei, di fronte allo stupore dei due, disse loro: "Ecco che cosa è in grado di realizzare in poche ore uno squattrinato Mattei!". Seguirono naturalmente le scuse e la conferma del matrimonio. Dopodichè il duca decise di murare la finestra, a ricordo di quel giorno memorabile e affinchè nessuno più potesse affacciarvisi.
In realtà la fontana venne realizzata nel 1588 su progetto di Giacomo Della Porta, mentre il palazzo Mattei fu costruito, su disegno del Maderno, solo nel 1616. Così la leggenda si ingarbuglia ancora di più: probabilmente ai tempi la fontana si trovava nel giardino di un palazzo principesco, quindi è possibile che il duca Mattei l'abbia chiesta in prestito per una notte e, successivamente, sia rimasta per sempre nella piazza.
Un'altra curiosità su questa fontana riguarda le tartarughe bronzee: nel progetto originario non erano presenti, furono aggiunte successivamente, nel 1658, probabilmente dal Bernini. La sorte di queste tartarughe è stata sempre avversa: sono state più volte rubate, ma sempre recuperate e rimesse al loro posto. Nel 1981, ancora una volta la fontana è stata privata di una tartaruga, così si decise di sostituirle con delle copie, mentre le tre superstiti originali sono conservate neiMusei Capitolini.
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1 giu 2023 19:40
“DI FRONTE ALLA SIMPATIA, L’ITALIANO È COME IPNOTIZZATO. NEL CASO CONTRARIO SI È FOTTUTI” – ANTONELLO PIROSO SCRIVE A DAGOSPIA: “AVENDO APPENA LETTO LA NOTIZIA DEL LIBRO DELL'AVVOCATO RAFFAELE DELLA VALLE, DIFENSORE DI ENZO TORTORA CHE NE RICORDA LA VICENDA, E QUELLA RELATIVA AL PREMIO SIMPATIA, ASSEGNATO A UNA GALLERIA DI PERSONAGGI E PERSONAGGETTI TUTTI SIMPATICI, MI PERMETTO DI RICHIAMARE QUI COSA DICEVA PROPRIO TORTORA SUI SIMPATICI E GLI ANTIPATICI DEL RUTILANTE MONDO DELLO SPETTACOLO…” -
Riceviamo e pubblichiamo:
Caro Roberto,
avendo appena letto sul tuo sito la notizia del libro dell'avvocato Raffaele della Valle, difensore di Enzo Tortora che ne ricorda la vicenda, e quella relativa al Premio Simpatia, simpaticamente assegnato a una galleria di personaggi e personaggetti tutti simpatici (e non ho motivo di dubitarne), mi permetto di richiamare qui cosa diceva proprio Tortora sui simpatici e gli antipatici del rutilante mondo dello spettacolo.
Passaggio che richiamerò - scusa se approfitto, ma la causa è giusta (l'ingresso è gratuito, si prenota on line) - il 16 giugno prossimo al teatro Gustavo Modena di Genova, quando racconterò il calvario giudiziario di Tortora a 40 anni esatti da quell'arresto che ancora oggi grida vendetta, avvenuto il 17 giugno 1983.
Scriveva Tortora:
"In un solo caso, in Italia, si è portati a perdonare tutto, e dico tutto. Si può essere matricidi antropofagi, dilapidatori del denaro pubblico, cocainomani in proprio e per conto terzi, stupratori di vergini, ma a un patto: occorre essere SIMPATICI.
Di fronte alla "simpatia", l'italiano è come ipnotizzato. Ma se per un drammatico, fatale opposto, si dà il caso contrario (cioè, l'uomo in questione non risponde a quei canoni che per certi italiani sono sacri: dare del tu a tutti, avere certe amicizie a corte, scodinzolare di fronte a chiunque, possedere una verità privata e una pubblica, inchinarsi agli eminentissimi, accettare i soprusi, quando vengono dall'alto, con devota rassegnazione, essere beceri e triviali quel tanto che basta), allora nella terra di Giustiniano si è fottuti.
La sera del mio arresto un altissimo dirigente comunista che banchettava a Napoli per non so quale convegno salutò l'evento con questo testuale commento: "Finalmente ce lo siamo levato dai coglioni".
Gli ero "antipatico", evidentemente. Non avevo una mia morale, accanitamente perseguita in tutta la mia vita. No, io ero un "moralista".
Perchè da noi questo succede. Abituati a misurare gli altri con il metro di se stessi, i delinquenti reputano impossibile che uno faccia o dica semplicemente le cose in cui crede.
No: ci deve essere sempre un risvolto, un interesse, una vena di ipocrisia. Ed ecco nascere la mia "leggenda nera", la broda della mia biografia immaginaria e immonda".
Ciao.
Antonello Piroso
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APRILE, etimologia del nome.
✍️L'etimologia di "aprile"
Come succede per molti nomi e parole che affondano le radici nell'antichità, ci sono diverse ipotesi sull'etimologia del nome aprile. Una di queste ipotizza che “aprile” venga dal greco aphròs, che significa spuma. Si tratterebbe della spuma da cui, secondo la leggenda, sarebbe nata la dea Venere (Afrodite nella mitologia greca).
Del resto, proprio alla dea dell’amore era dedicato il mese d’aprile. Questa ipotesi, piuttosto affascinante, dimostrerebbe anche perché il nome aprile venisse usato già dagli antichi romani.
Un’altra ipotesi è che il nome aprile venga dal latino aperire, che significa aprire, schiudere.
Questo è in perfetta armonia con la stagione stessa in quanto è proprio in aprile che si “schiudono” germogli e fiori, segnando il momento in cui la primavera inizia a mostrare tutto il suo splendore.
🖼️Immagine:
Dal portale "La primavera nell'arte"
🎨"Giardino di rose a Wargemont" di Pierre-Auguste Renoir.
Una tela molto bella è senz’altro Giardino di rose a Wargemont eseguito dal pittore impressionista Pierre-Auguste Renoir nell’anno 1879. L’elemento più importante di questo quadro è senz’altro l’effetto della luce pomeridiana che ricade su un giardino di campagna. Il dipinto fa parte di una collezione privata.
APRIL, etymology of the name.
✍️The etymology of "April"
As with many names and words that have their roots in antiquity, there are several hypotheses on the etymology of the name April.
One of these hypothesizes that "April" comes from the Greek aphròs, which means foam.
It would be the foam from which, according to legend, the goddess Venus (Aphrodite in Greek mythology) was born.
After all, the month of April was dedicated to the goddess of love.
This rather fascinating hypothesis would also demonstrate why the name April was already used by the ancient Romans.
Another hypothesis is that the name April comes from the Latin aperire, which means to open, to open.
This is in perfect harmony with the season itself as it is precisely in April that buds and flowers "hatch", marking the moment in which spring begins to show all its splendour.
🖼️Image:
From the portal "Spring in art"
🎨 Pierre-Auguste Renoir's Rose Garden in Wargemont.
A very beautiful canvas is undoubtedly the Rose Garden in Wargemont painted by the impressionist painter Pierre-Auguste Renoir in the year 1879. The most important element of this painting is undoubtedly the effect of the afternoon light falling on a rose garden countryside.
The painting is part of a private collection.
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Negazione, indomito spirito underground
Dalla leggenda al mito.
Più che una semplice band un vero e proprio mito che è cresciuto con il trascorrere degli anni. Band fondamentalmente hardcore/punk che non ha mai disdegnato influenze differenti. I Negazione sono diventati un simbolo per moltissimi motivi. In primo luogo hanno rappresentato tutti i ragazzi che avevano iniziato a suonare nei garage, negli scantinati. Loro, con l’esibizione al Monsters of rock del ’91, ce l’avevano fatta.
Segno che chiunque ce la potesse fare. Sono stati un simbolo per l’underground. Sono sempre rimasti underground. Anzi. Anche per non tradire questo spirito, una volta arrivati in cima, hanno deciso di sciogliersi. Ovviamente le motivazioni, a detta degli stessi membri, non sono così semplicistiche. Tuttavia il non sentirsi addosso il mondo del mainstream ha sicuramente dato il calcio finale ad una decisione che era già nell’aria. Morto il mito, nasce la leggenda, come si suol dire. E così è stato. In quello che segue cercheremo di ripercorrere, almeno in minima parte e non in maniera esaustiva, la storia e quello che i Negazione sono stati, hanno rappresentato e ancora rappresentano. Lo spirito continua.
Contesto storico.
Correvano gli anni ’80. cercare di riassumere cosa stesse accadendo e cosa accadde in quel decennio è difficile. Soprattutto, non è il fine di questo articolo. Si può fare un discorso complessivo che ne delinea i tratti fondamentali.
“Anni Ottanta: nasce Internet (non come la conosciamo oggi) e al cinema arrivano gli effetti speciali, cade il muro di Berlino, esplode Chernobyl, il mondo assiste in diretta al disastro dello Shuttle Columbia. l’Italia vince il Mondiale di calcio, nasce il cinepanettone sulle ceneri degli Anni di piombo, le notti iniziano con l’happy hour, irrompe sulla scena la trasgressiva Madonna e gli yuppie griffati dalla camicia al calzino danno la scalata alle stanze dei bottoni.
I difficili Settanta dei cineforum “segue dibattito”, dell’impegno e dell’autocritica, del “piombo” delle Brigate Rosse e delle grandi manifestazioni di piazza sono di colpo lontanissimi. Il nostro presente nasce così, nel decennio di passaggio all’era digitale e di revanscismo più inconsapevole che premeditato. Questo, di per sé, merita già una riflessione.
Sì, perché quel periodo che ha visto mutare vorticosamente scenari ed equilibri geopolitici internazionali nonostante ciò è citato più per eccessi e superficialità che per elevate virtù. Insomma, nel ricordo collettivo sono anni leggeri sotto tutti i punti di vista. Si affermano come un rigurgito di periodi cupi fortemente politicizzati con stili di vita improntati al consumismo, all’esteriorità e allo svago. È il decennio della tecnologia, dell’esagerazione e del narcisismo. “
(fonte: Meeting congressi).
Accanto a tutto ciò, arriva la tv privata, viene cancellata la scala mobile, iniziano le privatizzazioni. Il debito pubblico sale in modo esponenziale e senza un limite.
A Torino.
La capitale sabauda è stata al centro di molti avvenimenti negli anni ’80. Sia di cronaca sia politico sociali. Nel decennio la Fiat ha più volte lanciato ristrutturazioni che hanno portato con sé licenziamenti, cassa integrazione, crisi economica.
“Mentre Milano si apprestava a diventare la capitale italiana della finanza, della modernità e della movida, Torino si svegliava immersa in una crisi occupazionale che era anche una crisi esistenziale. Nella città delle fabbriche, raccontano i dati dell’epoca, non c’era rimasto molto da bere: “tra il 1981 e il 1991 Torino perde 154 mila abitanti. La popolazione non solo si riduce, ma è sempre più vecchia – fotografano gli analisti dell’Unione Industriale in un documento.
A causa della profonda crisi recessiva, l’industria perde circa 106mila addetti. Gli iscritti al collocamento sono passati da 22.288 nel giugno ’80 a 55.000 nello stesso mese del 1985. (Fonte: La Stampa).
Uno degli eventi simbolo fu la marcia dei 40mila che si svolse il 14 ottobre del 1980.
“Quel giorno, nel cuore della Torino operaia, una manifestazione dei quadri e degli impiegati Fiat contro il sindacato, che da oltre un mese era in agitazione e impediva a molti di loro di accedere al posto di lavoro attraverso picchetti ai cancelli. Si trattava di una dura presa di posizione del ceto medio di fabbrica contro la retorica operaista e le prassi rivendicative adottate dal sindacato. Al di là degli effetti immediati – e cioè la rapida chiusura della vertenza che aveva innescato gli scioperi – il corteo dei quarantamila ebbe un impatto emotivo enorme”. (fonte: La diga civile).
In questo contesto nascono i Negazione.
Nascita e primi anni.
“Volevamo esprimere il rifiuto di ciò che vivevamo, in modo netto e totale. Corrispondeva alla nostra visione del mondo in quegli anni, alla rabbia che esprimevano i nostri primi testi, alla violenza della nostra musica”, raccontaTax (Roberto Farano), chitarrista e autore delle parole di molti brani della band.
I Negazione si formarono nel 1983 a Torino, fondati da Roberto “Tax” Farano alla chitarra, già attivo come batterista dei Declino, Orlando Furioso alla batteria, Guido “Zazzo” Sassola alla voce e Marco Mathieu al basso, mescolando inizialmente membri dei precedenti 5° Braccio ed Antistato. Dopo breve tempo Orlando Furioso fu sostituito da Michele D’Alessio, con cui produssero il primo split album su cassetta dal titolo Mucchio selvaggio edito dalla collaborazione di Ossa Rotte Tapes e Disforia Tapes e che li vedeva assieme ai Declino.
La cassetta fu stampata su LP due anni dopo dalla Children of the Revolution Records. Fin dal primo nastro i Negazione sono stati un’entità peculiare, in qualche modo strettamente legata alla Torino degli anni ’80 piagata dai mali tipici delle metropoli industriali (alienazione, eroina, omologazione, disoccupazione, mancanza di spazi e alternative). Loro hanno dato una forma sonora al disagio giovanile e alle battaglie quotidiane di ognuno, raccontando da dentro una Torino in cui l’angoscia del vivere si trasformava in poesia lancinante, declamata con chitarre fuori controllo e batteria a 1000 all’ora.
L’essere speciali dei Negazione è colto da subito anche fuori dai nostri confini. Il nastro e i primi due singoli autoprodotti del 1985 – Tutti pazzi e Condannati a morte nel vostro quieto vivere ricevono menzioni e recensioni positive un po’ ovunque, anche su Maximum Rock’n’Roll, la bibbia del punk. E la stampa specializzata italiana non è da meno, salutando questi lavori con entusiasmo e giudizi lusinghieri.
Il motivo è semplice: come altri gruppi contemporanei, sviluppano in maniera più o meno inconscia un sound personale, non derivativo. Perché in quel momento la scena italiana è davvero qualcosa di differente e unico. Come conferma il chitarrista Roberto “Tax” Farano in una dichiarazione rilasciata quasi 20 anni fa a Metal Hammer: «Che eravamo un gruppo speciale lo credo anch’io, ma erano anche tempi speciali, se vuoi più duri, e quindi si agiva in un’altra maniera, c’erano meno possibilità e dunque dovevi lottare un po’ di più […]; forse questo deriva anche dal fatto che veniamo da Torino, e il vivere determinate situazioni che comporta una grande città avrà senz’altro avuto il suo peso… eravamo speciali, come lo erano i CCM, i Kina gli Indigesti… come tutti i gruppi dell’epoca».
Nel 1984 vennero invitati dall’etichetta statunitense R Radical Records di Dave Dictor dei MDC, a partecipare al doppio album International P.E.A.C.E. Benefit Compilation, che vedeva fra gli altri band come Crass, D.O.A., Dirty Rotten Imbeciles, Septic Death, Conflict, Reagan Youth, White Lies, Subhumans, Dead Kennedys, Butthole Surfers, ma anche altri gruppi della scena italiana come Declino, Peggio Punx, Wretched, Contrazione, Impact, Cheetah Chrome Motherfuckers e RAF Punk.
La compilation uscì in collaborazione con la fanzine di San Francisco a distribuzione internazionale Maximumrocknroll, che mensilmente teneva una rubrica sulla scena hardcore punk italiana. Nel 1985 uscì l’EP 7″ autoprodotto Tutti pazzi che segnò anche un nuovo cambio alla batteria, con l’ingresso nel gruppo del ex Upset Noise Fabrizio Fiegl. Il tour che seguì l’EP li vide sui palchi di Danimarca, Paesi Bassi e Germania e di li a poco pubblicarono il secondo EP autoprodotto, dal titolo Condannati a morte nel vostro quieto vivere, registrato nei Paesi Bassi, ad Amsterdam.
Ed è così che si giunge a quella che sarà sempre ricordata come l’essenza dei Negazione, ovvero l’album Lo spirito continua. La stampa italiana tributa le giuste lodi a questi 10 brani che divengono instant classics (come La vittoria della sconfitta, Dritto contro un muro, Lei ha bisogno di qualcuno che la guardi e la title track, giusto per citarne una manciata).
Pur restando legati al punk, i Negazione iniziano a mettere d’accordo punk e thrasher (in un certo senso proprio come negli Stati Uniti stavano cominciando a fare band come DRI, COC e tutta la compagnia degli acronimi) con una furia, una tecnica e una violenza irresistibili. Senza dimenticare la vena poetica, intimista, riflessiva, soprattutto nei testi.
Nel 1987 il gruppo tornò in studio sempre nei Paesi Bassi per registrare …nightmare, EP uscito per la statunitense New Beginning Records.
Dalla capacità di aggregare punk e thrasher nasce l’album numero due, Little Dreamer (1988, il primo per la label tedesca We Bite, che segue il singolo interlocutorio Nightmare dell’87 su New Beginnings Records). Una collezione di nove pezzi in cui è presente più che mai un piglio metallico – che fa storcere il naso ad alcuni fan di vecchia data – ma anche una ricerca di soluzioni ancora più imprevedibili.
Come l’incredibile e frenetica hardcore ballad Il giorno del sole e la chiusura affidata a Serenità di un attimo, costruita su arpeggi acustici ad accompagnare un vero e proprio parlato-recitato, con coretti melodici in background, cinguettio di uccellini e rumore del mare.
La collaborazione con We Bite Records portò l’EP con Elvin Betti dei Gow alla batteria, dal titolo Behind the Door e Sempre in bilico oltre la raccolta Wild Bunch the Early Days contenente brani registrati tra giugno e dicembre 1984.
All’indomani della pubblicazione di Little Dreamer una serie di intoppi frenano il decollo dei Negazione. Il nucleo storico (Zazzo, Tax e il bassista Marco Mathieu) resiste e assolda Elvin Betty (Gow, Magnifica Scarlatti, Aeroplanitaliani) a completare la sezione ritmica. Con lui vengono incisi Behind the Door e Sempre in bilico, rispettivamente un 12” e un 7” pubblicati all’unisono nel 1989 – una mossa particolarissima, peraltro, e decisamente anticommerciale.
Trovata una nuova stabilità con Jeff Pellino alla batteria (Giovanni Pellino, poi noto come Neffa), i Negazione nel 1990 registrano e fanno uscire il loro album 100%. Nell’arco di otto pezzi (nove nel CD, che include come bonus una cover di I Think I See the Light di Cat Stevens: altra scelta del tutto imprevedibile per una hardcore band) la formazione torinese porta a compimento un processo evolutivo in atto da anni. A livello di atmosfere e tematiche, la rabbia c’è ancora, ma non è più totalmente intrisa di nichilismo e livore, subentra una sorta di sguardo verso un potenziale futuro positivo, una speranza in ciò che verrà e una riconquistata fiducia nella vita.
L’ultimo batterista, prima dello scioglimento, fu poi Massimo Ferrusi, precedentemente attivo in band come Stinky Rats e Indigesti. 100%, oltre a contenere l’ultimo inno generazionale dei Negazione Brucia di vita, è anche il disco che sembra aprire vie verso orizzonti di pubblico più ampi e nuovi consensi. Con il nuovo batterista, il 14 settembre del 1991 la band sale sul palco del Monsters of Rock a Bologna. Il cartellone prevede AC/DC, Metallica, Queensrÿche e Black Crowes.
I Negazione vengono aggiunti all’ultimo momento e, infatti, non figurano sui manifesti ufficiali. È un classico momento magico, al netto delle critiche dei soliti duri e puri che li accusano di essersi venduti e di avere tradito lo spirito dell’hardcore e del punk, che prelude però alla fine. Il gruppo, sorprendendo molti, si scioglie a meno di un anno dal live al Monsters of Rock.
Le motivazioni le ha spiegate Tax a Rolling Stone: «A noi più di tutto interessava continuare a crescere, era il nostro obiettivo… però, arrivando al Monsters of Rock, venimmo avvicinati da realtà a cui noi non eravamo abituati o pronti – intendo di major discografiche, agenzie di booking per i concerti e management. […] Arrivammo a un punto in cui non ci divertivamo più […]. Eravamo un po’ scoppiati e alla fine abbiamo deciso che era meglio finire così l’avventura dei Negazione».
Conclusione.
Circa un decennio. Tanto è bastato ai Negazione per segnare la musica italiana underground per sempre. Senza di loro il ‘movimento’ non sarebbe lo stesso.
È stato il loro modo, il loro crederci fino in fondo e nonostante tutto a farli arrivare al mito.
I primi concerti, la scelta di puntare tutto sulla musica. Il primo tour, se così lo si può chiamare, fatto grazie all’interrail. Il suonare sempre e comunque, ovunque. La scelta di rischiare. Il salire sul palco anche senza essere sicuri di quello che stessero facendo e senza saper suonare in maniera adeguata. Il crescere cammin facendo grazie alle esperienze, alle persone incontrate. I negazione sono andato ovunque. Sono annoverati tra le band più influenti del panorama punk/hardcore internazionale.
Il mito dei Negazione è stato celebrato da molti in diversi modi. Forse il più significativo è la pubblicazione del libro: “Negazione – Collezione di attimi”, che racconta la mitica band torinese attraverso alcune immagini e fotografie. per Goodfellas Edizioni: l’ha curato Deemo, storico grafico dei Negazione e autore di alcune delle copertine dei loro dischi più noti.
I due membri storici dei Negazione, Farano e Sassola (Marco Mathieu è scomparso a soli 57 anni nel dicembre del 2021, dopo quattro anni di coma in seguito ad un ictus – “Negazione – Collezioni di attimi” è dedicato proprio a lui), risalgono idealmente a bordo del loro furgone per ripercorrere attraverso fotografie, locandine e immagini inedite la storia della band in 350 pagine. Ci sono anche lettere e testi scritti a mano.
Tutto in pieno spirito underground. Questo è più sufficiente a far salire i Negazione molti gradini al di sopra di più blasonati colleghi che millantano apporti fondamentali ad un mondo che in realtà non gli appartiene più.
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Bologna: “Se ci fosse luce” di Francesca Garolla al Teatro delle Moline
Bologna: “Se ci fosse luce” di Francesca Garolla al Teatro delle Moline. Al Teatro delle Moline andrà in scena, in prima assoluta, da martedì 28 marzo a domenica 2 aprile “Se ci fosse luce” di Francesca Garolla. Lo spettacolo si interroga sul libero arbitrio e sulle sue possibili conseguenze a partire dai fatti del sequestro Moro. «Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo», scriveva Aldo Moro a sua moglie durante i giorni del sequestro, poco prima di morire. Terza parte di una trilogia attorno al tema della libertà – composta da Tu es libre e Io sono testimone – la pièce è una produzione LAC Lugano Arte e Cultura in collaborazione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale. A partire dalla famosa telefonata del 9 maggio 1978 in cui Valerio Morucci, esponente delle Brigate Rosse e “responsabile della logistica” del rapimento di Aldo Moro, comunica all’avvocato Francesco Tritto la morte del Presidente della DC, Garolla analizza le conseguenze della storia collettiva sul singolo individuo e sul futuro. «Nel 1978, alla morte di Moro, io non ero nata – riflette l’autrice – non ho vissuto i fatti che a quella morte hanno portato e che quella morte ha provocato. I miei ricordi hanno solo l’eco di quella storia, un’eco infantile. Suggestioni, racconti riferiti, romanzati, probabilmente non veritieri, ripetuti a me stessa come fossero leggenda. Ma anche se assente, la mia generazione ha ereditato quei fatti come se li avesse vissuti». La nota telefonata diviene dunque un pre-testo per riflettere sul peso di un’eredità che sembra ancora condizionarci. «Questo episodio, la telefonata, questa lotta per una libertà privata del valore della vita, – commenta Garolla – diventano per me simbolo di un tempo interrotto, bloccato, che ha scartato in una direzione e non in un’altra. Un qualcosa che ci condiziona e ci ha condizionato, qualcosa che forse non volevamo: un’eredità. Ma chi si prende, oggi, la responsabilità di quell’eredità? Chi si prende la responsabilità del passato nel presente? E chi quella del presente e del futuro?» Da queste domande nascono i quattro personaggi dello spettacolo e le loro differenti “responsabilità”: sono due uomini e due donne, i primi incarnano un passato che ha condizionato il presente e le seconde analizzano quel passato per costruire il loro futuro. Nominati nel testo in virtù della storia che li attraversa – un latitante che è anche un padre, una figlia che è anche una madre, un uomo che è anche un assassino, una giudice che è anche una donna – saranno portati a rileggere e processare la storia e i suoi protagonisti, attorno a un tavolo mortuario, «un oggetto-palcoscenico adatto a un’autopsia della Storia, tra morte e aula di tribunale, Cenacolo e pulpito pagano». «Ma a quale funerale stiamo assistendo? A quello di una libertà che, quando non si interroga sulle sue conseguenze, perde di senso, di valore e di possibilità? Chi aspetta di essere seppellito? Moro? La storia? La nostra stessa memoria? In assenza di un corpo – esattamente come accadde alle Esequie di Stato del Presidente, dove fu celebrata una bara vuota – è difficile seppellire un morto?». Francesca Garolla studia regia all’Accademia d’arte drammatica Paolo Grassi di Milano. Tra i suoi testi: Non correre Amleto, selezionato nel Palmarès della Maison Antoine Vitez del 2018 e da La Comédie Française nel 2019; Tu es libre, tradotto per la Maison Antoine Vitez, è realizzato a La Chartreuse – Centre National des écritures du spectacle di Avignone, presentato nei Rencontres d'été durante il Festival d'Avignone 2017, segnalato da la Comédie Française come uno dei testi più significativi della stagione 2017/18 e finalista al Premio Riccione 2017. Nel 2020/21 è l’unica lauréat europea della sezione di scrittura teatrale della Cité Internationale des arts di Parigi, dove scrive Se ci fosse luce, terza parte di una trilogia sulla libertà, ispirato ai fatti del sequestro Moro. Nel 2022 riceve il premio Valeria Moriconi futuro della scena, su segnalazione di Emma Dante. Per diciotto anni è parte della direzione artistica di Teatro i, con Renzo Martinelli e Federica Fracassi. È attualmente autrice selezionata nel progetto europeo Fabulamundi – Playwriting Europe.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Sweet Charity1969, The Aloof, The Heavyweight, The Big Fish.
Sweet Charity ” The Aloof ” Rich Man’s Frug ”
Bob Fosse directed and choreographed
Nome: Robert Louis Fosse
23 Giugno 1927, Chicago, Illinois, USA/23 Settembre 1987, Washington D.C., USA
Bob Fosse, danzatore, regista e coreografo, è tra i più amati e rappresentati nel mondo, geniale innovatore nel teatro moderno musicale. I più grandi artisti attuali si ispirano ancora a lui per le loro coreografie. Con il suo stile caratteristico e inconfondibile, nella sua carriera e nella vita privata si alternano successi strepitosi sul palcoscenico a disastri sentimentali e insuccessi nella vita privata. Il fallimento di tre matrimoni, l’amore per il suo lavoro e l’ambizione sfrenata, gli faranno perdere la figlia, la moglie, la fidanzata e, come inevitabile conclusione della trasgressione e gli eccessi che lo hanno contraddistinto, la sua stessa vita. Grazie al suo stile di danza energico e vitalissimo, quando morì nel 1987 stroncato da un infarto a 60 anni, era già una leggenda vivente di Broadway (non a caso il film All that Jazz è il sua biografia cinematografica). Figlio d’arte, debuttò giovanissimo a Broadway. Negli anni Cinquanta recitò in molti musical, senza però mai davvero emergere. Una leggenda dice che mentre lavorava sul set di un film per la MGM, Bob Fosse sbirciava dietro le quinte del film “The Band Wagon” durante gli intervalli per vedere Fred Astaire e imparare i suoi movimenti di danza…
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«Che mio padre sia stato un genio è cosa troppo conclamata perché io la debba qui argomentare; che il suo carattere si collochi all’intersezione di Mosè con John Huston, pure; che il mio rapporto secolui sia stato un cimento stremante, ancora, è abbastanza vulgato (leggete tra le righe del pregresso, se vi va); che la mia ammirazione per lui sia stata tale da impedire sul nascere ogni sano antagonismo non è sfuggito ai pochi, allibiti testimoni; che io dunque abbia interiorizzato i suoi zaratustrici apoftegmi fino al punto di superarlo in oltranza; che, propter hoc, ogni tentativo di sottrarmi alla sua autorità sia equivalso a un automassacro; e che, insomma, tutto questo per dire che, poiché la specifica qualità del mio rapporto con lui è stata nel tempo UN AMMIRATO TERRORE, adesso che egli è indebolito dalla vecchiaia e dalla malattia, io letteralmente non lo riconosco più: proprio nell’insorgere di un’inedita pietas sentendo anzi di abiurarlo e di offenderlo.»
Michele Mari - “Leggenda Privata”, Einaudi
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...io andavo là appositamente per immagazzinare ancora un po' di immagini sue, la piega del retroginocchio, l'arco del piede flesso innaturalmente dal tacco sublime, la leggera gora di sudore sulla maglietta attorno alle ascelle... immagini potentissime, immagini del divino, quali poi elaboravo fantasticamente in vicende estenuanti, e che selezionavo già al momento di coglierle, epifanie di cui all'istante decidevo la gerarchia, costringendomi alla fuga appena giudicassi completo il bottino, non più suscettibile di un solo frammento di icona. Passiva, un velo di ottusità nello sguardo, lei si lasciava cartografare tranquilla, quasi incoraggiandomi: nondimeno ero così consapevole della sconvenienza che bastavo io a censurarmi, infingendo disinteresse o sfruttando, alla delibazione visiva, solo i momenti in cui ella guardava altrove o era occupata. L'intera sessione del resto doveva essere brevissima, anche se io la vivevo con l'animo del montaggista che scorre una scena fotogramma per fotogramma. Non ne seppi mai il nome, sicché dominava le mie fantasie da anonima o polinomia. [...] Insomma la situazione era questa: io ero principe della nostra-mia biblioteca e depositario di un crescente sapere; malconcio nella vita, rifulgevo nell'aristocrazia dello spirito; innamorarmi, mi innamoravo solo di angelelle incorporee, cui pensavo sotto la specie esclusiva dell'occhio e del sorriso, stilnovista ortodosso; dunque lì, in vacanza, accidentalmente esposto alle lusinghe del mondo terreno, potevo ben concedermi di scivolare verso il basso, nella concupiscenza di quanto aveva valore in quanto corpo, mero e spensieratissimo corpo: il che già, a prescindere dal censo e dal livello di istruzione, a prescindere dalla imopia e dall'ottusità, conferiva a quella creatura lo stigma dell'inferiorità: cui io mi prosternavo con la voluttà di chi si umilia, tanto più eccitandosi quanto più si umilia. Ella diventava così la Dominatrice, esosa proprio nella sua passività ed indolenza; anzi, che ignorasse le mie dinamiche era vieppiù entusiasmante, perché dava all'adorazione il vanto di un sacrificio gratuito. Quanto officiai, davanti a quell'ara? Quante oblazioni? Nauta naturata, non potevo offenderla: era un corpo. Le avessi attribuito uno spirito, il mio desiderio l'avrebbe abbassata e sporcata: così invece, lei schietta popolana, non c'era oltraggio. Non c'era oltraggio. [...] Quale meraviglia, la volgarità! Un ossimoro strepitoso ed irresistibile: Dea, ma Volgare! [...] Dopo qualche Mottarello vidi che lo smalto sulle unghie delle mani era tutto smangiato, ma quell'incuria non fece che soggiogarmi di più: essere lo schiavo di una tiranna sciatta, l'ebrezza! [...] con sgomento mi accorsi di non essermi mai chiesto dove e come avesse passato la prima parte della sua vita, quei quattordici-quindici anni alla cui altezza la vidi la prima volta. Letteralmente, l'avevo fatta nascere in quel momento, in funzione del mio desiderio. ________________________ Nacqui d'inverno, concepito in un raptus. Mia madre, tutto fuorché volgarotta. Solo talento e intelligenza, ma talmente autodistruttiva da diventare l'ultracorpo di se stessa, una perfetta macchina di dolore. Un anno dopo la sua morte, facendo ordine fra le sue disordinatissime cose, ho trovato un mannello di lettere di mio padre: vi era abbondantemente tematizzata, vi era, la di lui condizione di proletario vendicatore (una borsa su cinquecento): a riscontro, fra le righe, si poteva ricostruire il tema materno, la discesa sociale (eroico-gloriosa, ma pur sempre discesa): da allora lui non ha mai smesso di salire e lei mai di scendere: all'incrocio degli opposti vettori, l'incongruo amplesso, la gravidanza animalesca, la mia fuoriuscita dopo ventidue ore di travaglio stremante (così la leggenda, accresciuta di un'ora a ogni replica), nell'incuria delle ostetriche impegnate a sbafar panettoni, pizzicate le chiappe dall'esuberante portantino: essendo Natale. [...] Per non parlare del sotteso ricatto: vedete come siete fortunati? Mi sbatto di lavoro tutto il giorno [...], nondimeno trovo il tempo di farvi il pancotto buono: sicché noi, quello spolviglio di grana e quell'alloro lo pagavamo con un senso di colpa, quel tot che andava ad aggiungersi al senso di colpa basico per essere al mondo e a carico suo. [...] mia madre [...] cosa sollecitò nel bruto di genio? Un riconoscimento di genio con genio, o vaghezza del diverso? L'uno e l'altro, credo, ma più di tutto l'intuizione di poter disporre di una vittima intelligente, già pronta all'uopo (talmente già pronta che di lì a pochi anni, consunta come un osso di seppia, cessò di fungere). Nessun bisogno di dominatrici, in mio padre, tanto meno di zoccoli: ma l'avesse almeno domata come un mustang o un appaloosa! No, la trovò già domata: da se stessa, in spregio agli agi e all'intelligenza, proprio perché intelligente: farsi del male con ogni mezzo per consistere solo di intelligenza e talento, e scegliendo, a officiare, proprio chi di tali valori era vessillifero: per sapersi autorizzata ad essere artista, e bohémienne (via estetico-laica al martirio, dove si vede come alla fine, di stortura in stortura, abbia comunque prevalso la millenaria tradizione cattolica che si incarnava in mia nonna: Letizia: detta Titti: dama di San Vincenzo). [...] Un ragguaglio, qui, a chiusura del cerchio. Il riconoscimento maggiore venuto da mia nonna a mia madre è stato il suo essere "fine": seria, elegante, discreta, una personcina comme il faut. "Com'è fine tua madre". Sul Golgota, mani e piedi inchiodati, ma fine. [...] Postilla seconda: ingenuo entusiasmo di mio nonno all'idea di far incontrare, o comunque di mettere in contatto, i due illustri scrittori [Buzzati e Montale]: il prosatore e il poeta; il bellunese-milanese e il genovese-monterossino. Pare però, a quanto ho appurato, che entrambi, informati dello zelante progetto, abbiano cortesemente declinato: non potendo loro interessare di meno, chiusi ognuno nel proprio mondo, gelosi dei propri privatissimi mali di vivere - privatissimi, altro che universalità dell'opera d'arte. [...] Dietro a tutto questo, dentro, a tutto questo, il grande ricatto: NON SARAI INTELLIGENTE SE NON SEI TRISTE (tris'ci). Si misura qui l'estensione del danno, la sua profondità. Zitta zitta, semplicemente patendo, mia madre otteneva risultati patopedagogici che mio padre nemmeno si sognava, e come avrebbe potuto, lui che rapportava l'intelligenza al rigore, al cimento estremo, all'eccezionalità, alla diversità dagli altri? Qui, invece, la tristezza! Direttamente: non tristi-stremati angosciati come conseguenza dell'impegno all'eccezionalità, no, semplicemente-immodulatamente tristi, pre-tristi nell'utero. Il grande genio della psicologia non è Freud: è Pavlov. Lo so ben io, che al primo sospetto non dico di felicità (orrenda bestemmia) ma di pallido benessere mi sono sentito un traditore e un vigliacco, come osavo? Cosa fai, sorridi? Sei impazzito? E infatti, non ho mai osato, ho fatto il giapponese anche in questo senso, tenere l'atollo. Per una volta l'alterazione morfologica, nell'uso paterno, era inappuntabile: "quella tristanzuola di tua madre" (com'è fine la Iela - è slava - serissima: tristanzuola). Due modi diversi di essere seri, lui e lei: io credo di aver preso il peggio da entrambi. [...] se allora mia madre accennava al fatto che anche lei lavorava, e molto, mio nonno si indignava con mio padre: maltrattare una moglie va bene, farla lavorare no. Io lo ascoltavo affascinato, perché la barbarie ha sempre avuto una presa irresistibile sul mio spirito decadente [...] "Di' a Dino che lo saluto tanto", sarebbero state le sue parole a mio nonno, "ma che non son più la stessa, e che se mi vuol bene mi ricordi com'ero, fra le sue montagne". Può, un figlio, non piangere di fronte a una battuta come questa? Non può. ("Non son chi fui: perì di me gran parte").
Michele Mari, Leggenda Privata
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