#villaggi inglesi
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I suggestivi villaggi inglesi
Non solo Londra, alla scoperta dei villaggi tipicamente inglese Londra è una Capitale Europea cosmopolita, una città che invita spesso e volentieri a un ritorno che ogni volta è come se fosse il primo visto che si aggiunge sempre qualcosa di nuovo o di vecchio da visitare in quanto la voltq precedente non siamo riusciti a farlo per poco tempo o altro. Per quanto sia piacevole da vedere e…
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Alla fine del dedalo americano non si trova più la via d’uscita o meglio si è dentro un paradosso dove ogni mossa porta a una situazione peggiore di quella iniziale. Per dirla in maniera più icastica il senso di onnipotenza di cui gli Usa soffrono dalla seconda guerra mondiale in poi, ha finito per generare l’impotenza dell’impero e delle sue disgraziate colonie. Il regime di Zelensky, con la supervisione dei servizi inglesi e americani, ha tentato uno sfondamento del confine russo, nella convinzione di dover produrre un’azione clamorosa prima che la situazione al fronte divenisse insostenibile e magari presentarsi al tavolo della pace con qualcosa in mano. Il risultato è stato buono sul piano propagandistico – narrativo, l’unico nel quale il potere occidentale si manifesta ancora saldo grazie alla capacità di mentire a tutto campo e di auto illusione, ma nella realtà è stato un disastro. L’avanzata è stata stroncata, prima con l’annientamento dei corazzati messi insieme per l’operazione e poi con la metodica distruzione dei gruppi di nazisti ( sono stati quelli prevalentemente usati) e del gran numero di finti “mercenari” Nato che ora si nascondono nelle foreste della zona oppure si trovano lungo il confine e vengono attivamente braccati. Non hanno mai controllato nulla di più di 100-120 chilometri quadrati di terreno con alcuni villaggi, mentre ora quest’area è ridotta a poche decine di chilometri quadrati al massimo. Quindi questa è stata una sconfitta dell’alleanza atlantica. (Continua)
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LA SPOSA È BELLISSIMA
Alla fine dell'800, la maggior parte degli ebrei europei risiedeva in una zona tra Polonia e Russia meridionale, ma dopo l'ennesima persecuzione iniziò a muoversi verso il monte Sion, luogo sacro vicino a Gerusalemme. Quella terra però non era libera, da generazioni era abitata da pastori e coltivatori arabi. Così, l'ebreo ungherese Theodor Herzl trovò il modo di aggirare "il problema" fondando il sionismo, cioè la teoria che fosse giusto creare uno Stato ebraico in Palestina. Inviò due rabbini a valutare la situazione e la loro risposta fu: "La sposa è bellissima, ma è maritata a un altro uomo", cioè la Palestina andrebbe benissimo, però ci sono gli arabi. Non che fosse un problema, le teorie sioniste dicevano anche che se gli arabi non accettavano di abbandonare passivamente la propria terra, gli ebrei avrebbero dovuto prenderla con la forza. Alla fine della I Guerra Mondiale la zona passò agli inglesi che assieme ai francesi iniziarono a discutere su come spartirsi il territorio, ovviamente senza tenere conto del volere degli arabi. Nacquero le prime formazioni paramilitari ebraiche, anche di stampo terroristico, che compivano attentati e stragi indiscriminate tra i palestinesi. Alla fine della II Guerra Mondiale, con la scoperta dei campi di sterminio e la Shoah, il movimento sionista attirò le simpatie dell'Occidente, gli inglesi si ritirarono e l'ONU propose la nascita di due Stati: uno ebraico e uno palestinese. Agli arabi, che erano più di un milione, sarebbe andata la porzione minore di territorio; mentre agli ebrei, in minoranza, la porzione maggiore. Così esplose quella che gli israeliani oggi chiamano "guerra di indipendenza", mentre gli arabi "nakba", cioè catastrofe, che portò al grande esodo verso i Paesi confinanti. Con l'appoggio delle democrazie europee, i villaggi furono distrutti, gli abitanti arrestati, uccisi, espulsi fino alla proclamazione ufficiale dello Stato di Israele. Da quel giorno, i palestinesi conducono una resistenza eroica per difendere la propria terra, mentre violando ogni diritto umano, Israele prosegue la pulizia etnica per cancellare ogni presenza palestinese. Tutto questo, in brevissimo, è storia. Tutto il resto è propaganda.
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Coins for the Eyes
Qualche anno fa ho scoperto questo signore con un nome da bambino e la voce di uno che ha vissuto cento anni. In effetti a vederlo sembra un po' un ragazzino, Johnny Flynn, invece è padre di tre figli, ed è anche padre di una quantità di innumerevoli altre cose di cui si fa davvero fatica a tenere il conto -ecco il perché di quella voce, mi dico. È una di quelle persone che stimo e invidio allo stesso tempo: una di quelle persone a cui vorrei somigliare almeno un po', perché gli scappano proprio dalle mani le parole, le immagini, i suoni, quasi fossero funghi, direbbero gli inglesi, quasi fossero fiori, viene da dire a me. Gli invidio la sua creatività incontenibile, che non ha voglia né tempo di fare i conti con le mode, con le tendenze, con le influenze del momento: traboccante. Non ha molto senso cercare di metterlo sotto l'etichetta di uno stile: folk? pop? country? anacronismo? basta ascoltarlo, ed eccolo lì, Johnny Flynn è semplicemente impegnato in un instancabile sforzo di chiarezza. Lo sento distintamente mentre canta, sta cercando qualcosa, e per farlo non scenderà a compromessi con nessun algoritmo: "come and search, for we will search", e chi mi ama mi segua. "The Wild Hunt", una delle sue ultime canzoni, sembra un manifesto di questo sforzo cui sempre tende la sua voce: il suo timbro inconfondibile è urlato e intimo allo stesso tempo. Ma c'è un'altra sua canzone che si è fatta strada più silenziosamente fin dentro alle mie giornate, fingendosi cosa da poco: dietro al suo disimpegnato ritmo in tre quarti, "Coins for the Eyes" è un segnale preciso, mi indica la direzione esatta di quella caccia folle che Johnny Flynn urla altrove di non riuscire a smettere, che lo insegue anzi, che lo schiaccia. Lui qui invece lo dice misurato e con garbo, che è a caccia del padre, è a caccia dei padri. E se non è questa la caccia che sta dietro ad ogni poesia, ad ogni romanzo che a uno viene voglia di leggere, ad ogni canzone che ti chiama per nome, allora qual è? Questo è il più grande sforzo di chiarezza che si possa onestamente fare, secondo me: cercare un padre. Scavare per trovare navi salpate, villaggi abbandonati, porti sepolti: diari, libri, ricordi. Scavare per trovare un disegno per terra, scavare per un motivo. We dig for pattern, read the rune. Quando ascolto la voce di Johnny Flynn mi ricordo, mi impongo ancora una volta che in questo io ci devo credere: che quando si interrogano, si ascoltano, si auscultano gli oggetti che altri, prima di noi, hanno lasciato cadere apposta per la strada -monete per gli occhi, chiavi per le porte- si raccoglie un testimone e ci si trasforma, quasi senza che uno se ne possa accorgere, in predecessori. Insomma, noi siamo i padri, e allo stesso tempo senza padri noi non siamo niente.
We dig for the gods that leave no bones
For a ship that sailed in the sunken sea
The vessel lost in the sky and the stones
The famine road and the merchants keep.
Come and search for we will search
And looking for a scarred land
Turn the soil, weave the dream
Thread the river, ring the sand
And dig for us whose stories lie
With buried pasts and futures won
And dig for us as we have done
To lay the dead out in the sun
To lay us dead out in the sun.
Coins for the eyes and keys for the door
Fortress, grave goods, chambered tombs
Abandoned villages, rumors of war
We dig for pattern, read the rune.
And so a clue to who we are
And where we were and why we will
Inheritors of knowledge now
And ancestors to those who still might
Dig for us whose stories lie
With buried pasts and futures won
And dig for us as we have done
To lay the dead out in the sun
To lay us dead out in the sun.
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Le file dei suoi sostenitori si gonfiarono rapidamente, e in migliaia corsero dai villaggi della costa sotto il suo comando. Con i soldi ricavati dalla vendita di tutti i suoi beni, Jeanne de Belleville comprò tre navi, mettendo insieme ciurme scelte di uomini fedeli e spregiudicati per dedicarsi alla pirateria. Nacque così la Black Fleet, una flotta composta da vascelli pirata i cui scafi erano dipinti di nero e le vele di rosso. La sua nave ammiraglia fu chiamata, non a caso, My Revenge. Le navi della Black Fleet incominciarono a pattugliare la Manica, attaccando senza pietà le navi francesi. Il copione era sempre lo stesso: dopo l’arrembaggio gli equipaggi venivano massacrati lasciando in vita solo pochi testimoni per trasmettere la notizia della strage al re francese. Proprio per questo motivo le sue navi ottennero in breve una pessima reputazione. I membri della nobiltà francese che cadevano nelle loro mani non venivano messa a riscatto, come normalmente in uso tra i pirati, e Jeanne stessa li faceva decapitare con un’ascia prima di buttarli in mare. Qualche volta se ne occupò direttamente. Queste abitudini sanguinarie le portarono l’appellativo popolare di “Bloody Lioness of Brittany“. Jeanne praticò la pirateria in prima persona per ben tredici anni, guidando spesso la ciurma all’arrembaggio ed attaccando senza pietà i villaggi costieri della Normandia. Nel 1346, durante la battaglia navale di Crecy, a sud di Calais, Francia settentrionale, Jeanne usò le sue navi per rifornire le forze inglesi ed attaccare le navi francesi. Si racconta che, dopo l’affondamento della sua nave ammiraglia, Jeanne con i suoi due figli rimase alla deriva per cinque giorni. Suo figlio Guillaume morì di stenti ma Jeanne e Olivier furono salvati e riportati a Montfort.
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Filosofia del "selvatico" e del "selvaggio" propugnata da William Kent
La filosofia del "selvatico" e del "selvaggio" propugnata da William Kent, architetto paesaggista britannico del XVIII secolo, si contrapponeva al formalismo e all'ordine geometrico dei giardini barocchi all'epoca dominanti. Kent si ispirava ai paesaggi pittoreschi della campagna inglese, con i suoi boschi, colline e corsi d'acqua sinuosi, e cercava di ricreare questa bellezza naturale nei giardini che progettava.
Ecco alcuni dei principi chiave della filosofia di Kent:
1. Imitazione della natura: Kent credeva che i giardini dovessero imitare la natura selvaggia, con forme irregolari, sentieri sinuosi e una varietà di alberi e piante.
2. Armonia con il paesaggio circostante: I giardini dovevano essere in armonia con il paesaggio circostante, integrandosi con la topografia e la vegetazione naturale.
3. Uso di pittoresco: Kent utilizzava elementi pittoreschi come rovine, grotte, cascate e ponti per creare un senso di sorpresa e di mistero nei suoi giardini.
4. Enfasi sull'esperienza emotiva: L'obiettivo principale dei giardini di Kent era quello di creare un'esperienza emotiva nei visitatori, evocando sentimenti di sublime, di quiete e di contemplazione.
Esempi di villaggi costruiti con la filosofia di Kent:
Painshill Park: Situato nel Surrey, in Inghilterra, Painshill Park è considerato uno dei più importanti esempi di giardino paesaggistico inglese. Il parco fu progettato da Kent stesso e presenta una varietà di paesaggi pittoreschi, tra cui laghi, cascate, grotte e rovine.
Stowe House: Situato nel Buckinghamshire, in Inghilterra, Stowe House è un altro esempio importante di giardino paesaggistico inglese. Il parco fu progettato da Kent e da altri architetti paesaggisti e presenta una serie di templi, monumenti e rovine, disposte in modo da creare un percorso di scoperta e di riflessione.
Influenza della filosofia di Kent:
La filosofia di Kent ebbe un'influenza enorme sull'architettura paesaggistica in Gran Bretagna e in Europa. Il suo stile "selvatico" e "selvaggio" ispirò molti altri architetti paesaggisti, tra cui Capability Brown, e contribuì a dare vita al movimento romantico in letteratura e in arte.
In aggiunta:
Il villaggio che hai visto nella serie tv potrebbe essere uno dei tanti villaggi inglesi costruiti nel XVIII secolo in stile "pittoresco". Questi villaggi erano spesso caratterizzati da case con tetti di paglia, giardini curati e sentieri tortuosi.
Se sei interessato ad approfondire la filosofia di William Kent, puoi trovare molte informazioni online e in biblioteche. Potresti anche visitare uno dei giardini paesaggistici inglesi che sono stati progettati da lui o da altri architetti paesaggisti del suo tempo.
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... forse non tutti sanno che ...
Le forze armate tedesche nel corso della seconda guerra mondiale incorporarono alcune decine di migliaia di volontari cosacchi [cioè per la maggior parte UCRAINI del sud e centro, ndr] nella Wehrmacht, nelle Waffen-SS e anche nel Regio Esercito.
Il 10 novembre 1943, un proclama del Ministro dei territori occupati Alfred Rosenberg e del comandante della Wehrmacht Wilhelm Keitel assicurò ai soldati cosacchi che, sconfitta l'Urss, essi avrebbero goduto di ampie autonomie nei territori di provenienza, e provvisoriamente anche in altre parti d'Europa, qualora gli eventi bellici avessero reso "temporaneamente" impossibile il rientro sulle loro terre.
Nel luglio del '44 il Comandante superiore delle SS e della polizia di Trieste, Odilo Globočnik, concordò l'insediamento delle truppe cosacche nella zona della Carnia, Friuli: fu l'inizio dell'Operazione Ataman, che nel giro di qualche settimana trasferì circa 22.000 cosacchi (9.000 soldati, 6.000 "vecchi", 4.000 familiari e 3.000 bambini), oltre a 4.000 "caucasici" (2.000 soldati ed altrettanti familiari) a bordo di 50 treni merci militari.
I cosacchi iniziarono la costituzione della "Kosakenland in Norditalien" promessa dai tedeschi, replicando nei villaggi la loro organizzazione sociale, stili di vita e cerimonie religiose. Il comune di Verzegnis divenne la sede del capo supremo delle forze cosacche, l'atamano Pëtr Nikolaevič Krasnov, mentre alcuni paesi vennero ribattezzati con i nomi delle città russe (Alesso fu ribattezzata Novočerkassk, Trasaghis Novorossijsk, Cavazzo Krasnodar). Tolmezzo fu la sede del Consiglio cosacco.
Con la vittoria alleata, i Cosacchi della Carnia intrapresero una drammatica ritirata attraverso il Passo di Monte Croce Carnico verso l'Austria, dove il 9 maggio 1945 si arresero alle truppe inglesi presso la città di Lienz e in grande maggioranza furono consegnati ai sovietici, che li deportarono nei gulag dove, secondo stime, sopravvisse solo una metà di loro; pochissimi sopravvissero dispersi nel resto d'Europa.
(asettico preso com’è da wikipedia, “Operazione Ataman”, via https://it.wikipedia.org/wiki/Operazione_Ataman)
Gli ucraini non sono nuovi ad esser illusi e poi abbandonati ai russi dai teteschi ed Alleati in genere. Per fortuna nostra si direbbe, anche quella volta (ciò che va bene a teteschi e franzosi NON E’ MAI un bene per noi (e nemmeno per ucraini polacchi lettoni etc.etc.) - certificato dalla storia).
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In molti mi chiedono cosa ne penso di Israele e Palestina, come se si potesse esprimere un giudizio in poche righe su Facebook senza sentirsi l’istante dopo in colpa per la quantità di strati di complessità che fatalmente si perdono. Al tempo stesso, però, non è giusto svicolare, ignorare la tragedia in atto, cavarsela con un comodo e pavido silenzio. E allora metto lì due pillole, due o tre cose che penso in ordine sparso: La prima è di natura storica: se siamo arrivati sino a questo punto non è per una qualche congiunzione astrale, ma per un unico, chiarissimo, responsabile: la Gran Bretagna. Che, per assicurarsi il loro aiuto decisivo nella Prima guerra mondiale, promise, contemporaneamente, con cinico calcolo, agli arabi il pieno sostegno all’indipendenza e alla creazione dello Stato arabo e agli ebrei, con la famigerata dichiarazione Balfour del 1917, l’appoggio incondizionato alla nascita dello Stato ebraico in Terra Santa dopo secoli di oppressioni. In pratica, la futura faida tra israeliani e palestinesi che ha segnato indelebilmente il secolo scorso e quello in corso non è altro che il frutto marcio e avvelenato della concezione imperialista e colonialista degli inglesi ma, più in generale, del tipo di umanità occidentale dominante agli inizi del secolo scorso. Con due differenze sostanziali. Anzi, tre. Primo: gli arabi in quella terra, la Palestina, ci vivevano davvero. Non una terra d’elezione che si perde nelle epoche passate, ma case, villaggi, territori, carne e sangue. In totale erano 700.000 gli arabi presenti nell’area nel 1914: quasi dieci volte tanto il numero di ebrei che si erano insediati alla spicciolata in Terra santa, con cui convivevano da sempre in modo civile e pacifico. La seconda: l’Inghilterra tradì, nei fatti, tutte le promesse fatte agli arabi, nonostante il loro apporto decisivo nella vittoria con gli ottomani, mentre spalleggiò per interessi economici e commerciali le aspirazioni sioniste degli ebrei, che dagli anni ‘20 in avanti accrebbero in modo costante la propria presenza e influenza in Palestina, e in modo esponenziale dopo la grande fuga dalle persecuzioni naziste negli anni ‘30 e ‘40 del Novecento, fino al ritiro definitivo degli inglesi e la nascita nel 1948 dello Stato d’Israele. La terza: la totale, smisurata, sproporzione di mezzi economici e militari, risorse tecnologiche, comunicazione e influenza esistente da sempre - e in modo imbarazzante oggi - tra palestinesi e israeliani. Come ha riassunto in modo mirabile lo storico Avi Shlaim, “I palestinesi hanno una ragione grande sostenuta da mezzi deboli. Anche Israele ha una ragione, forse meno grande, ma sostenuta da mezzi straordinari”. Quello a cui stiamo assistendo in questi giorni, i bombardamenti a tappeto, il massacro di civili inermi, i bambini ammazzati di notte insieme alle loro famiglie, la sproporzione enorme tra l’offesa palestinese e la reazione israeliana, tutto questo non è più (da tempo) un conflitto impari - forse non lo è neppure mai stato - È una mattanza senza fine che ha colpe storiche, responsabili politici e militari precisi e complici altrettanto riconoscibili. Solo negli ultimi tre anni, il rapporto tra i morti e i feriti palestinesi e quelli israeliani è di 50.000 a 350: quasi 150 volte tanto. Questi non sono i numeri di una guerra. Sono i numeri di un massacro legalizzato. E riconoscerlo non significa né negare o disconoscere i diritti degli ebrei ad avere una propria terra e una propria patria, né parteggiare con i terroristi di Hamas, né tantomeno essere - questa è la sciocchezza più grande e insopportabile di tutti - antisemiti. Significa distinguere i popoli e le loro sacrosante aspirazioni da chi indegnamente li rappresenta. Significa distinguere gli oppressi dagli oppressori. Ieri come oggi. Quando, per un istante, ti togli i paraocchi ideologici della tifoseria con cui ci hanno costretti a “leggere” la situazione in Medio-oriente, quello che vedi è un popolo a cui negli ultimi decenni è stato strappato tutto - case, terre, vite, famiglie, pace - ma a cui nessuno è mai riuscito a togliere la dignità. Qui non si tratta di stare con israeliani o palestinesi, ma di stare dalla parte degli ultimi, dei fragili, dei più deboli, dei discriminati. Non è neppure una scelta, è un istinto, un riflesso condizionato, l’ultima traccia di un lampo che ci renda ancora degni di definirci umani. Lorenzo Tosa
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In molti mi chiedono cosa ne penso di Israele e Palestina, come se si potesse esprimere un giudizio in poche righe su Facebook senza sentirsi l’istante dopo in colpa per la quantità di strati di complessità che fatalmente si perdono.
Al tempo stesso, però, non è giusto svicolare, ignorare la tragedia in atto, cavarsela con un comodo e pavido silenzio.
E allora metto lì due pillole, due o tre cose che penso in ordine sparso:
La prima è di natura storica: se siamo arrivati sino a questo punto non è per una qualche congiunzione astrale, ma per un unico, chiarissimo, responsabile: la Gran Bretagna. Che, per assicurarsi il loro aiuto decisivo nella Prima guerra mondiale, promise, contemporaneamente, con cinico calcolo, agli arabi il pieno sostegno all’indipendenza e alla creazione dello Stato arabo e agli ebrei, con la famigerata dichiarazione Balfour del 1917, l’appoggio incondizionato alla nascita dello Stato ebraico in Terra Santa dopo secoli di oppressioni.
In pratica, la futura faida tra israeliani e palestinesi che ha segnato indelebilmente il secolo scorso e quello in corso non è altro che il frutto marcio e avvelenato della concezione imperialista e colonialista degli inglesi ma, più in generale, del tipo di umanità occidentale dominante agli inizi del secolo scorso.
Con due differenze sostanziali. Anzi, tre.
Primo: gli arabi in quella terra, la Palestina, ci vivevano davvero. Non una terra d’elezione che si perde nelle epoche passate, ma case, villaggi, territori, carne e sangue. In totale erano 700.000 gli arabi presenti nell’area nel 1914: quasi dieci volte tanto il numero di ebrei che si erano insediati alla spicciolata in Terra santa, con cui convivevano da sempre in modo civile e pacifico.
La seconda: l’Inghilterra tradì, nei fatti, tutte le promesse fatte agli arabi, nonostante il loro apporto decisivo nella vittoria con gli ottomani, mentre spalleggiò per interessi economici e commerciali le aspirazioni sioniste degli ebrei, che dagli anni ‘20 in avanti accrebbero in modo costante la propria presenza e influenza in Palestina, e in modo esponenziale dopo la grande fuga dalle persecuzioni naziste negli anni ‘30 e ‘40 del Novecento, fino al ritiro definitivo degli inglesi e la nascita nel 1948 dello Stato d’Israele.
La terza: la totale, smisurata, sproporzione di mezzi economici e militari, risorse tecnologiche, comunicazione e influenza esistente da sempre - e in modo imbarazzante oggi - tra palestinesi e israeliani.
Come ha riassunto in modo mirabile lo storico Avi Shlaim, “I palestinesi hanno una ragione grande sostenuta da mezzi deboli. Anche Israele ha una ragione, forse meno grande, ma sostenuta da mezzi straordinari”.
Quello a cui stiamo assistendo in questi giorni, i bombardamenti a tappeto, il massacro di civili inermi, i bambini ammazzati di notte insieme alle loro famiglie, la sproporzione enorme tra l’offesa palestinese e la reazione israeliana, tutto questo non è più (da tempo) un conflitto impari - forse non lo è neppure mai stato - È una mattanza senza fine che ha colpe storiche, responsabili politici e militari precisi e complici altrettanto riconoscibili.
Solo negli ultimi tre anni, il rapporto tra i morti e i feriti palestinesi e quelli israeliani è di 50.000 a 350: quasi 150 volte tanto.
Questi non sono i numeri di una guerra. Sono i numeri di un massacro legalizzato.
E riconoscerlo non significa né negare o disconoscere i diritti degli ebrei ad avere una propria terra e una propria patria, né parteggiare con i terroristi di Hamas, né tantomeno essere - questa è la sciocchezza più grande e insopportabile di tutti - antisemiti.
Significa distinguere i popoli e le loro sacrosante aspirazioni da chi indegnamente li rappresenta.
Significa distinguere gli oppressi dagli oppressori. Ieri come oggi.
Quando, per un istante, ti togli i paraocchi ideologici della tifoseria con cui ci hanno costretti a “leggere” la situazione in Medio-oriente, quello che vedi è un popolo a cui negli ultimi decenni è stato strappato tutto - case, terre, vite, famiglie, pace - ma a cui nessuno è mai riuscito a togliere la dignità.
Qui non si tratta di stare con israeliani o palestinesi, ma di stare dalla parte degli ultimi, dei fragili, dei più deboli, dei discriminati. Non è neppure una scelta, è un istinto, un riflesso condizionato, l’ultima traccia di un lampo che ci renda ancora degni di definirci umani.
Lorenzo Tosa
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Mannheim è un villaggio del Nordreno-Vestfalia, a pochi kilometri da Colonia. Come da tradizione tedesca è una cittadina ordinata, pulita, fornita di scuola, parchi per bambini e una graziosa chiesa in stile finto-gotico. Un paese a cui non manca davvero nulla, eccetto gli abitanti.
Il piccolo insediamento sorge in una delle principali aree carbonifere d'Europa, a fianco ad una cava che le associazioni ambientaliste definiscono come "la più grande fonte di CO2 dell'Occidente".
L'estrazione della lignite - il carbone di bassa qualità che abbonda nella zona - è un processo lungo e complesso, che richiede il consumo di enormi porzioni di suolo. Già diversi villaggi dagli anni ‘70 ad oggi sono stati sgomberati e distrutti per far spazio all'espansione della cava, e la piccola Manheim è la prossima nella lista.
Quando arriviamo nel paese l'impatto è forte: in tutto si conteranno due o tre luci accese, quelle dei pochi abitanti che hanno deciso di restare, mentre tutte le altre finestre sono sbarrate e lungo la via principale fan mostra di sé enormi container dei rifiuti, pieni di cianfrusaglie lasciate da chi se ne è andato.
Lion, la nostra guida, fa parte di un'associazione ambientalista tedesca, e come prima cosa ci porta verso la vecchia scuola elementare, ormai chiusa in attesa di essere demolita. I bambini che la frequentavano ora sono sparsi in tutta la zona, in paesi e istituti diversi. Colpisce che le strutture, le scritte, persino i murales realizzati dagli studenti siano perfettamente intatti, come se la mattina quelle aule dovessero popolarsi ancora di ragazzi e insegnanti.
La chiesa locale non è ancora stata sconsacrata: "lo sarà presto" ci dice Lion "ma io non concepisco come si possa pensare di togliere ad un posto la sua sacralità. Vuol dire che qui i soldi valgono anche più della fede". Nonostante i parrocchiani siano tutti andati via, un meccanismo automatico continua a far suonare le campane ogni ora, e questo contribuisce inevitabilmente a rendere l’atmosfera spettrale.
Nessuno sa esattamente quando il villaggio verrà demolito. In Germania molte voci si son levate in difesa di Manheim e di tutta l'area, sia da partiti come la Linke e i Verdi, sia da semplici comitati di cittadini. Nel frattempo, il governo ha collocato in uno degli edifici abbandonati un gruppo di 8 rifugiati politici. Non è difficile capire quante possibilità di integrarsi abbiano in un paese fantasma.
Il giorno dopo visitiamo la foresta di Hambach. L'area boschiva, o ciò che ne resta dopo decenni di deforestazione, è contesa da anni tra le multinazionali del carbone e le associazioni ambientaliste, e il livello dello scontro si è alzato al punto da portare gruppi di attivisti a occupare la foresta.
Noi visitiamo Oak Town, una delle "città" sugli alberi create dagli occupanti. Per evitare sgomberi le case sono state costruite tutte tutte sulle chiome delle querce: "la più alta sta ad oltre trenta metri" ci dice una delle attiviste, che per non farsi riconoscere non dice il suo nome e si mostra coperta da un passamontagna.
Appeso ad un ramo penzola un enorme stendardo con due chiavi inglesi incrociate e il motto carpe noctem. "Non prendetelo troppo sul serio" ci spiegano "abbiamo scelto di evitare qualsiasi azione violenta, non intendiamo perdere il favore dell'opinione pubblica".
La sera, lasciata Oak Town, vediamo sfilare sulla carreggiata opposta alla nostra una colonna di decine tra mezzi blindati e camionette della polizia: vanno a sgomberare uno dei tanti villaggi degli occupanti.
Al nostro terzo giorno in Germania andiamo a vedere finalmente la cava di lignite. Decidiamo di usare la bici, e lungo il tragitto la prima cosa che salta agli occhi è l’impatto che le estrazioni hanno avuto su tutto il territorio. In lontananza si vedono le nubi di vapore delle centrali a carbone, mentre a fianco ai prati scorre un’autostrada a quattro corsie, chiusa e abbandonata in attesa di essere demolita come Manheim. Nei villaggi attorno le strade sono deserte: "qua l'aria non è buona" spiega uno degli abitanti, "la gente deve lavare i vetri ogni sera perché si riempiono di polvere nera, cancerogena".
La cava secondo gli ultimi dati resi pubblici ha un area di 3389 ettari, e produce 40 milioni di tonnellate di lignite l’anno, numeri che si possono comprendere solo trovandosi di fronte a questa enorme voragine nel terreno.
Tutto l’impianto è costellato dalle macchine estrattive, enormi pale circolari visibili anche a kilometri di distanza, nonché “i più grandi manufatti semoventi mai prodotti dall’uomo”, come recitano i cartelli informativi della RWE, la multinazionale che ha in gestione la miniera.
Nel punto in cui noi ci fermiamo a osservare c’è un (costosissimo) bar-ristorante, con tanto di sdraio e ombrelloni vista cava. “E’ così che funziona il mercato” ci dice un ragazzo di una delle associazioni ambientaliste attive nella zona “Prima distrugge tutto, e poi ti chiede di pagare per vedere le macerie”.
Anche la verde Germania ha ratificato l’Accordo di Parigi che prevede, tra le altre cose, di mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C in più rispetto ai livelli pre-industriali. Ma nessun provvedimento legislativo ha dato seguito agli impegni presi e, anzi, si sta assistendo ad un massiccio ritorno a fonti inquinanti come la lignite.
D’altro canto Cop21 non prevede sanzioni per i paesi inadempienti, limitandosi alla compilazione di una “lista della vergogna”, ovvero l’elenco pubblico delle nazioni che non rispettano l’accordo. Nessuna troika insomma a punire chi non si impegna per contrastare il cambiamento climatico: dalla Germania del rigore alla Grecia indebitata, dall’America di Trump all’Italia populista, ciò che mette insieme ogni governante sembra essere il disinteresse per la questione ecologica.
Ma se loro se lo possono permettere, la domanda che resta da farsi è: per quanto ancora potremmo permettercelo noi?
Poche settimane dopo la nostra visita è iniziata la stagione del taglio, e con lei si sono intensificate le operazioni di sgombero. Dopo un mese di proteste culminate in una marcia di 50.000 persone, l’Alta Corte Amministrativa di Munster ha imposto lo stop temporaneo all’abbattimento della foresta e, conseguentemente, all’espansione della cava. In attesa del ricorso della RWE, della foresta di Hambach resta in piedi solo il 10% della sue superficie originaria.
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ESTATE 2020/2021; LA FIERA DI BERGAMO DIVENTA OSPEDALE DA CAMPO PER OSPITARE I MALATI DI COVID
ESTATE 2022
LA FIERA DI BERGAMO RISORGE CON UN FESTIVAL CHE E’ VITALITA’, SPERANZA, SPIRITUALITA’, LUCE, RISPETTO PER LA NATURA E L’AMBIENTE, MUSICA E DANZE E VIBRAZIONI POSITIVE DA TUTTO IL MONDO
DA MERCOLEDI’ 8 GIUGNO A DOMENICA 26 GIUGNO
@ FIERA DI BERGAMO – VIA LUNGA
LO SPIRITO DEL PIANETA 2022
- Appuntamento culturale internazionale, in previsione di Bergamo Brescia Capitali della cultura 2023
- Fiera di Bergamo punto centrale per gli eventi bergamaschi e della Regione
- 20 gruppi indigeni da tutto il pianeta
- 3 palchi per gli spettacoli
- Un padiglione fieristico con 170 espositori da tutto il pianeta
- Area olistica (presso il Padiglione fieristico)
- Area ristoranti di 4.000 M
- Area fuoco sacro e villaggi
- Conferenze, laboratori, cerimonie, worldshop
- 3.000 posti auto
Ingresso libero
Presente struttura al coperto che garantirà la realizzazione degli spettacoli anche in caso di maltempo
Orari di apertura del centro
Tutti i giorni feriali e sabato: dalle ore 19.00 alle 24.00
Domenica: dalle ore 12.00 alle 24.00
INFOLINE
ASSOCIAZIONE LO SPIRITO DEL PIANETA
cell : 347 5763417 - [email protected] - www.lospiritodelpianeta.it
Lo spirito del pianeta è l’unico festival che si svolge in Italia con musiche e culture indigene. Quest’anno saranno 20 i gruppi provenienti da tutto il mondo che si esibiranno con le loro danze e canti tradizionali, parte di quella cultura spesso tramandata oralmente che anima il mondo. Ma il festival vuole metere in scena lo spirito del pianeta non solo attraverso spettacoli di musica e danza. Ecco qui di seguito tutte le altre attività che danno linfa al festival.
PS; VEDI IN FONDO LA LISTA DEI GRUPPI PARTECIPANTI ALLE’DIZIONE 2022
#SPIRITUALITA’ # MEDICINE ALTERNATIVE #CULTURE INDIGENE
E’ la novità assoluta dell’edizione 2022 del festival. Uno spazio tutto dedicato alla spiritualità. In mezzo a questo angolo circolare chiaramente il fuoco sacro degli indigeni. Intorno, in corrispondenza dei quattro punti cardinali, si potranno incontrare e interagire con rappresentanti di gruppi africani e maori (zona sud), gruppi medievali e celtici, oltre che rievocatori delle storie tradizionali bergamasche (zona nord), monaci tibetani, associazione culturale giapponese e Quasquai (zona est) e nativi americani (zona vest). Ognuno dei gruppi suddetti darà vita anche al tradizionale villaggio indigeno dove si terranno incontri e seminari con gli stessi gruppi.
Ma non è tutto. Quest’anno ci saranno ben 9 “uomini medicina” ("Uomo di medicina" o "donna di medicina" sono termini inglesi usati per descrivere guaritori tradizionali e leader spirituali dei nativi nordamericani e di altri popoli indigeni o aborigeni).
E, dulcis in fundo, un albero sui cui rami si potranno appendee le proprie preghiere, scritte su pezzi di stoffa di vari colori.
# AMBIENTE
Da sempre attento all’ambiente e al rispetto per la madre terra, il festival quest’anno avrà un focus tutto dedicato all’Amazzonia (il grande polmone del pianeta) e a quello che il governo brasiliano sta discutendo e probabilmente approverà. L’espropriazione delle terre di diverse tribù indigene, per perpetrare lo scempio che multinazionali, con la complicità di politici, stanno compiendo da decenni, stuprando la foresta amazzonica. Oltre ai 3 gruppi proveniente dall’Amazzonia, che porteranno la loro testimonianza, saranno presenti membri del tribunale indigeno che lotta per i diritti degli indigeni di tutto il mondo. Oltre a ciò sono previste tutti i giorni conferenze animate dalla cordata di associazioni green, eco di Naturalmente.
#IMPATTO ZERO
Come per tutte le edizioni precedenti grande è l’attenzione del festival affinchè “l’impronta” dell’evento sul territorio sia a impatto zero. Ecco quindi le associazioni che aiuteranno nel raggiungere l’80% di raccolta differenziata; Cooperativa Ruah, Associazione italiana persone Down (Bergamo), Associazione Plastik Free Bergamo
#SALUTE #MASSAGGI
Tutti i giorni, all’interno del padiglione fiera sarà possibile, con offerta libera, accedere a massaggi di vario tipo (rilassante, shiatsu, olistico). Brevi sessioni di 20 minuti per far conoscere ai visitatori le varie pratiche esistenti che vanno oltre la fisioterapia tradizionale
#FOOD
Nell’area di 4000 mq ci saranno i seguenti ristoranti; Brasiliano Messicano, hamburgheria, Argentino, Kebab, Pokè, Sri Lanka, Pizzeria piadineria, Eritreo, Regionale, Creperia, Gelateria, Area frutta fresca, Zucchero filato
#VOLONTARIATO E SOLIDARIETA’
Da sempre Lo spirito del pianeta vuol dire volontariato e solidarietà. E anche quest’anno lo dimostra nei fatti. Molte le società coinvolte per gli allestimenti, ingegneri, servizi Comunali per la raccolta dei rifiuti, traduttori, autisti, vigili del fuoco, Croce Rossa di Bergamo, Sicurezza, Associazione volontari Polizia di Stato, sponsor media e commerciali e molti amici coinvolti.
#MUSICA #DANZA #SPETTACOLI
IL PROGRAMMA E LA LISTA DEI GRUPPI
8 - Mercoledì Saor Patrol
9 - giovedì Kurdo
10 - venerdì Willos
11 – Sabato Maoori
12 - domenica Gruppo Pizzica
13 - lunedì Incas
14 - Martedì Aztechi
15 – mercoledì accensione fuoco e Alfio Antico
16 – giovedì Martin O connors
17 – venerdì Oumou Sangare Mali
18 – sabato Navajo
19 – domenica Aborigeni
20- lunedì Barba Loutig Bretone
21 – martedì Notte dei tamburi
22 – mercoledì Yawanawa
23– giovedì Panama
24 – venerdì Giappone
25– sabato Burundi
26 – Domenica Grande evento con session a cui parteciperanno tutti i gruppi
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L'ENNESIMO ELOGIO DELLA BICICLETTA
Souphanovong e Ho Chi Minh (Comandanti rispettivamente dei Pathet Lao e dei Viet Minh) (foto esposta nella guesthouse in cui alloggio a Pakse)
Volevo scrivere un post da viaggio che facesse un pò il punto dei chilometri, 1500 (+700), percorsi fino ad oggi. Quindi questo sarà un testo celebrativo soprattutto di Angela e della bicicletta come mezzo di conoscenza del mondo. Mi sono chiesto se dare il nome di Angela Davis a una Raleigh di inizio millennio non fosse un pò un retaggio sessista. Allora prima di tutto spiegherò il perchè di questo nome. La bici è stata effettivamente assemblata alla buona. Poi, una volta compresi i suoi rumori e le sue tendenze è andata via via migliorando. Dopo aver aggiunto i pezzi giusti, è diventata il migliore mezzo possibile per affrontare ogni percorso, anche strade che non ci sono ancora. Con acciacchi per i maltrattamenti subiti, per le manomissioni a cui è stata sottoposta e nonostante abbia percorso vie sconsigliate da molti, Angela ha resistito alla grande. Nel peggiore dei casi si è lasciata trasportare facilmente a bordo di un camioncino ed ha dato segnali facili da cogliere prima di ogni rottura, evitandomi quindi anche guai fisici. Mi ha permesso soprattutto di incontrare persone sinceramente desiderose di autarci a proseguire il cammino. Con fortune alterne, in molti hanno provato a regolare meglio una vite o riassemblare un pezzo slacciatosi improvvisamente. Sono riuscito così non solo a percorrere strade secondarie e parallele. Attraverso la sua condizione esistenziale precaria, si è formata una piccola rete di relazioni intrecciatesi da qualche parte tra la solidarietà e la necessità.
Questo spazio solidale per la riparazione delle debolezze di Angela è stato fonte di ispirazione oltre che strumento per sentire vicinanza con persone che parlano lingue che non conosco. Pedalare in un paese comunista, seppur alle prese con una complessa transizione, è diventato per certi versi un tentativo, forse anche chisciottesco, di cogliere empaticamente la qualità di queste relazioni solidali prima ancora di quelle economiche. La dote di avvicinarsi all'aterità è, a mio parere, misura della capacità di resistenza di un popolo di fronte alle avversità e la bicicletta è stata, fino ad ora, uno strumento utile per generare empatia, sopresa e sorrrisi. Per non rimanere nella superficie di queste relazioni però, ho anche svolto un lavoro prospettico e di ripulitura dei racconti raccolti per strada da quel rumore di sottofondo che è l'eco dell`ideologia anticomunista che pervade la maggiorparte dei testi e delle informazioni disponibili in lingua straniera (l`unica che sono in grado di leggere, 1, 2) dei luoghi che sto percorrendo. Molte analisi sembrano infatti preparare la morte annunciata del comunismo dentro una transizione che condurrà necessariamente all`unico mondo possibile, quello neoliberale. Per tentare di rivitalizzare un`utopia e provare ad osservare il mondo con positività ho scelto invece di pormi in una prospettiva per me nuova dentro la quale credere a un Partito e a un Governo frutto di una storia rivoluzionaria anti-coloniale. Questo implica lavorare con un'ipotesi da dimostrare giorno per giorno, che una rivoluzione come una transizione, per definizione, sono prima di tutto una pratica del cambiamento, proprio come un lungo viaggio in bicicletta. Chi meglio allora di Angela Davis, i suoi scritti e la sua storia politica, possono offrire una teoria della pratica per relazionarsi alle dinamiche di questi luoghi?
In passato, ho vissuto da bianco in una capitale dell`America africana, Buenaventura, una città portuale, sorta intorno al commercio di schiavi prima e lo sfruttamento della mano d'opera dei loro discendenti poi. Qui il transito e la transizione mi parevano una condizione esistenziale imposta dall'alto, voluta programmaticamente per fare della città uno snodo logistico. Classe, genere e nozioni di etnicità si intersecavano in brevissime apparizioni tra le molteplici storie disponibili. Erano sempre sottoposte o poste tra parantesi rispetto all`obiettivo primario e non discutibile dell'infrastruttura urbana: la trasportabilità di merci da e verso il porto. Ma c'era tutta un'altra città, maggioritaria e in ascolto, che rimaneva esclusa da questi movimenti. Era come sospesa dentro una povertà atavica definita e descritta sempre negli stessi modi fin dai tempi dei primi viaggiatori e missionari che camminarono per le sue strade. Questa condizione richiamava saperi di vario tipo per spiegarla eppure rimaneva sempre incomprensibile. Negli anni in cui vissi lì, analisi esperte definirono la sua povertà come una vera e propria trappola in cui tutti rischiavano di cadere. Salvo rare eccezioni, i discorsi sviluppisti dominanti annunciavano interventi di cooperazione olistici che avrebbero operato su diversi piani economci e sociali della città. Nella pratica poi si ometteva di sviluppare soluzioni partecipate e fondate sulla consapevolezza di tutti dello sfruttamento su base razziale che era in atto. Capitava allora che il ricollocamento di 30.000 persone (il 10% della popolazione) dai quartieri vicini al mare in cui vivevano da due secoli risultassero "necessari" per lo sviluppo non solo della città ma dell`intero paese. Il problema da risolvere riguardava così l'assistenza e le giuste compensazioni da fornire ai desplazados. Una perfetta macchina antipolitica amministrava il porto. Seguendo molti dei testi che raccontano il Laos, sembra che qualcosa di molto simile accada con il governo comunista del Paese. Vorrei allora provare a fare alcune distinzioni.
Per chiarire meglio la mia posizione "governamentalista", vorrei riproporre l`ultimo messaggio di Allende al suo popolo prima di morire. Ci troviamo nel 1973 e mentre le forze americane accettavano di lasciare il Vietnam, il Laos e la Cambogia, sull`altro lato del Pacifico, in Cile, si consumava un golpe orribile. Le sue ultime frasi ribadiscono l'importanza dell'utopia nel socialismo e si concludono con la profezia sull`ineluttabilità di una società migliore fatta di uomini e donne libere. Vorrei allora proporre una domanda per interrogare il contesto: Ci sono uomini e donne libere in Laos? Ci sarebbe molto da scrivere al riguardo. Proprio grazie a questo viaggio in bicicletta ho riscoperto un Laos rurale orgoglioso della proprie condizioni di vita generalmente egalitarie anche se spesso dimenticato negli spazi urbani dove a volte si ascoltano definizioni superficiali che lo considerano un mondo pre-moderno ordinato da economie di mera sussistenza. È importante allora cercare una relazione tra questo Laos e quello dei grandi processi economico-finanziari in atto. Credo che lungo questa linea si possa abbozzare una risposta alla domanda di sopra. A questo proposito non c'è tema migliore delle dighe. La questione è infatti centrale per il Paese. Per dimensioni ed impatto ambientale è probabilmente superiore alla costruzione della ferrovia o delle sue arterie stradali. Creare laghi artificiali dove prima scorrevano fiumi, allagare villaggi e campi di riso ha dei costi molto alti per le popolazioni. È facile quindi trovare visioni polarizzate tra semplici Si e No alle dighe. Molte opinioni tendono poi a convergere dentro generali forme di dissenso anti-governativo. Ma uno dei nodi della questione è proprio che alcune delle recriminazioni non contestano i progetti in quanto tali includendo anche i loro esecutori che sono imprese multinazionali. Non assumono posizioni radicalmente anti-capitaliste o non propongono soluzioni energetiche alternative. Si limitano invece ad un ambientalismo di facciata con molte venature di anticomunismo insieme a un generale desiderio si dissentire come operazione collettiva e "democratica" (1, 2, 3, 4). Ci troviamo allora di fronte ad un autoritarismo alla Buenaventura o sono possibili altre interpretazioni?
Inondazioni previste del Nam Ou intorno a Luang Prabang, Settembre 2020
Per mettere subito in relazione queste domande con il contesto e l`utopia, racconterò di una scambio di parole ed esperienze con un operaio inglese. La sua storia potrebbe rappresentare un archetipo dei modelli di emancipazione della "working class" bianca britannica post tacheriana. Il lavoro di "Charlie" è quello di scavare tunnel necessari alla realizzazione di dighe. Ha lasciato l`Inghilterra alla fine degli anni 90 quando lavorava sulla Jubelee line della metropolitana di Londra. Poi si è trasferito all`estero migliorando guadagni e tenore di vita. Nel corso della sua carriera trentennale come tunnelista ha lavorato con costruttori diversi e in molti paesi del mondo. Nel suo gruppo di lavoro attuale per un progetto nel sud del Laos, ci sono operai indiani, vietnamiti e birmani, oltre che laotiani. Mi ha spiegato infatti che la costruzione di dighe avviene attraverso un complesso sistema di sub-appalti con cui le società leader dei contratti con i governi lasciano ad imprese locali, spesso controllate da altre multinazionali, la realizzazione di una vasta serie di operazioni specifiche. L`elemento interessante è che la forza lavoro che si occupa materialmente di realizzare un mega progetto come una diga è letteralmente multinazionale anche se l`impresa subappaltatrice risulta nazionale e con una sede locale. Nei campi di lavoro delle dighe laotiane si trovano quindi oltre ai laotiani anche italiani, francesi, inglesi, tedeschi, spagnoli, coreani, giapponesi, colombiani, ecuadoriani e via dicendo. In qualche modo allora, "Charlie", da quando ha abbandonato l`Inghilterra alla ricerca di avventure e vita migliori, è di fatto entrato a vivere in un mondo Corporate, cosmopolita ma fatto di eroi della working class di molti paesi. Nel suo caso specifico, si trova ad entrare ed uscire dagli Stati in cui lavora dentro campi di lavoro molto duri e non piacevoli ogni due mesi per vacanze retribuite a casa, in Indonesia e nelle Filippine. Praticamente non paga tasse (come riconosciuto anche da lui) oltre visti ed utenze delle sue abitazioni. La sua è quindi la condizione di un operaio specializzato che si gode la vita ed abbraccia in toto la visione di sviluppo e di relazione con i territori dell`azienda per cui lavora. Il privilegio bianco, nella sue stesse parole, è superato dalla condizione multietnica dell'operaismo in cui si colloca. Il vero spartiacque è invece la compagnia con cui si ha o meno la fortuna di lavorare, diciamo così. La condizione di Charlie dipende infatti dal suo essere British. Se fosse nato cinese, ad esempio, a parità di competenze, sarebbe costretto a condizioni di lavoro decisamente più svantaggiose e il suo stile di vita, sempre stando al pettegolezzo, sarebbe forse anche più dissoluto e meno compatibile con certi canoni e regole condivise in materia di prostituzione, consumo di alcolici e simili. Come le vecchie basi militari, anche i campi di lavoro per la realizzazione di grandi infrastrutture sono infatti foriere di una vasta gamma di problematiche sociali che creano ulteriori pressioni e disagi sui villaggi locali. I cantieri "cinesi" sono spesso sotto la gogna per essere considerati tra i peggiori ed hanno gli occhi addosso anche di agenzie di settore dell'ONU che offrono programmi di sensibilizzazione e attività connesse. Nel racconto di "Charlie" è però sempre latente un elemento morale che riguarda la sua radicata convinzione di contribuire, con il suo lavoro, a rendere il mondo migliore.
Diga di Luang Prabang (40km) sul Nam Ou (visibile in lontananza) completata nel Marzo 2020
Provo allora ad allargare il discorso a certi paradigmi di sviluppo e di crescita economica che si poggiano su scenari di un mondo post-combustibili fossili. In questo futuro elettrificato, le dighe occupano una posto decisamente di riguardo. Al di là di strumentalizzazioni varie e bypassando ogni possibile spettro nazionalistico che riguarda imprese globali che partecipano della produzione del Capitale offshore piuttosto che del gettito fiscale degli Stati, la questione che vorrei porre riguarda la narrazione "green" e di sostenibilità ambientale che queste imprese ormai da anni portano avanti. Si prenda come esempio il report 2019 agli investitori della Webuild, ex Salini-Impregilo, multinazionale con sede a Milano, nota a tutti gli ambientalisti italiani per essere nei consorzi di realizzazione delle linee TAV. È tra i maggiori costruttori al mondo di dighe. Qui in Laos non lavora più direttamente ma controllava un'impresa subappaltatrice locale nella diga "koreana e tailandese" una cui ala è ceduta nel 2018 causando inondazioni e morti. Tra i sui progetti più importanti c`è stato l`allargamento del canale di Panama oltre che la famosa diga sullo Zambesi tra lo Zambia e il Zimbabwe degli anni '70. A chiare lettere, nel report si definisce la costruzione di dighe l`asse portante della conversione verde dell`economia mondiale e della riduzione di emissioni globali di CO2. A ben vedere, assumendo in toto questo paradigma, il governo laotiano non ha fatto altro che intraprendere una complessa operazione con cui spera di regolare e controllare l`immenso bacino idrico che possiede, divenendo in questo modo, "la batteria del Sudest asiatico" e convertendosi in una sorta di Kuwait del rinnovabile.
Questo sogno di sviluppo energetico potrebbe garantire rendite alle casse dello Stato per il prossimo secolo. Con un pò di oculatezza le rendite potrebbero farsi Banca o Fondo Sovrano per gli Investimenti e potrebbero aumentare ulteriormente. In un tempo non lontanissimo la capacità finanziaria del governo laotiano permetterebbe di allocare risorse per progetti di ricerca e borse di studio, la sanità universale gratuita e sussidi di disoccupazione senza dover ricorrere al debito pubblico. Il Laos tra 50 anni potrebbe diventare la Norvegia del Sudest asiatico invece che la sua batteria. C`è però qualcosa che non torna in questi calcoli. Perchè tanta fretta? Perchè tante dighe tutte insieme, costringendo la popolazione a degli sforzi immani e rendendo ogni ricollocamento e ogni reinsediamento oltremodo complessi e dolorosi? Tra tutte le domande che ho raccolto tra la gente e sulla rete queste mi sono sembrate le più interessanti.
Ad oggi il fabbisogno energetico del Paese è coperto e all`orizzonte non si vedono progetti di elettrificazione su vasta scala dei sistemi di trasporto pubblico e privato tali da giustificare l'attuale produzione di energia. Le grandi dighe sul Mekong e sugli altri fiumi suoi affluenti servono al 90% per sfamare i bisogni energetici dei paesi vicini, come la Tailandia e i suoi voraci sovraorganismi che sono le megalopoli Bangkok e Chiang Mai. Pedalando lungo il Grande Fiume non si vedono infatti battelli e nemmeno dighe. Si vedono piccoli agglomerati urbani, coltivazioni di riso e ortaggi lungo il letto del fiume ora in secca intramezzati da piccole imprese per la raccolta di sabbia per costruzioni, ancora non paragonabili per dimensioni a quelle che esistono altrove. A catturare lo sguardo sono invece giganteschi tralicci dell'alta tensione che trasportano uno dei maggiori beni immateriali del mondo: l`energia elettrica appunto. A Thakhek ce n'è uno così grande da passarci in mezzo una strada come fosse una Sequoia metallica, bianca e rossa, che sorregge, imponente, lunghi e pesanti cavi metallici che corrono da un lato all`altro del mondo. Per un credente nel socialismo come me, a suscitare imbarazzo e qualche domanda, oltre all`imponenza dei progetti idrici per un paese di soli 7 milioni di persone, c'è proprio la fretta con cui questi progetti si stanno realizzando. Le dighe sono davvero necessarie tutte insieme o si poteva aspettare di essere sicuri che ogni villaggio ricollocato ricevesse il dovuto e anche di più? Se queste genti hanno accettato di essere spostate per la loro fede nel Partito, come si dice, non è forse compito del Partito, come diceva Allende, mettere al primo posto la fiducia ricevuta dai suoi contadini? Oppure bisogna accettare il cinismo dell`anticomunismo ed analizzare tutto dalle premesse di una morte annunciata e prepararsi alla spartizione sperando di capitare al posto giusto al momento giusto? Queste dighe celano davvero una corsa predatoria all`accaparramento di profitti?
Se si, com'è probabile, potrebbe darsi allora che il governo più che carnefice sia vittima della sua impotenza regionale e di negoziazioni infinite in cui dopo qualche mossa sbagliata e per non perdere la faccia si è trovato incastrato in un'intricata rete estorsiva resa però meno complessa proprio dalla non rapida sostituibilità politica dei suoi rappresentanti. Per spiegarmi meglio prendo ancora come esempio il caso della diga di Attapeu coreana-tailandese citata sopra. Ad oggi le responsabilità dirette per il cedimento per cui sono morte più di 200 persone non sono ancora state chiarite pubblicamente. La ricostruzione degli eventi è affidata al pettegolezzo in cui ogni attore piu o meno coinvolto scarica la responsabilità sempre sull`altro. Corrono voci di corridoio contrastanti tra chi accusa per il cedimento proprio quella azienda italiana e chi invece ricorda che l'ala in costruzione caduta era supervisionata da una controllata francese i cui manager hanno tutti lasciato il paese la notte successiva agli eventi temendo ritorsioni. Altri ancora affermano che vi fosse un problema progettuale ingegneristico alla base del cedimento e che quindi le colpe e il mostro fossero da qualche parte in Corea del sud. Certamente il caso della diga di Attapeu è ormai un cavallo di battaglia di ogni critica antigovernativa, testimonianza del totalitarismo laotiano, perfetto capo espiatorio per evitare che si sveli un mondo di interessi economici e spartizioni globali in cui i governi più che attori appaiono mascotte con cui fare foto di rito in cambio di piccolissime fette della grande torta che si cucina.
Vista così la fretta di costruire e produrre energia delinea allora i contorni di una vera e propria guerra globale per acqua ed appalti combattuta sul suolo laotiano da multinazionali finanziarie ed edili attraverso i loro avvocati, i diplomatici di appoggio, giornalisti spesati e gli operai nei cantieri. Ecco, in questa prospettiva, invece che contestare il governo, mi piacerebbe sapere qualcosa in più sulle magagne delle imprese subappaltatrici, su chi sta guadagnando cifre spropositate colando cemento tra le montagne senza pagare un soldo in tasse e chi con i suoi progetti barcollanti mette a rischio villaggi ed equilibri ecologici di milioni di anni. Sono sicuro che alla fine non sarò in grado di trovare un mostro nazionale cui dare le colpe di uno scempio o di un errore. Mi troverò invece a fare i conti con le dinamiche di sfruttamento delle periferie per sorreggere i regimi di consumo dei centri del mondo, troverò relazioni coloniali mai risolte, razzismo atavico e tutto il resto. Così in questa continua ripetizione che ormai si mostra senza pudori, riesco solo a propormi un`autentica variazione: una biciclettata da nord a sud a bordo di Angela e un rinnovato elogio della lentezza e della bicicletta ad energia autoprodotta.
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Alle porte di Dublino, a meno di un’ora di strada dalla città, ci sono diversi luoghi che vale assolutamente la pena visitare. La Contea di Meath, nell’Ireland Ancient East, è una delle più storiche dell’Irlanda, ma spesso poco frequentata dai visitatori che preferiscono fermarsi in città o puntare dritti verso le più celebri mete turistiche. Una zona che ruota intorno alla Boyne Valley, scavata dall’omonimo fiume, che ha fatto da sfondo a numerosi eventi che hanno fatto dell’Irlanda l’isola che è oggi. Siti celtici, come Brú na Bóinne, che risale a 5000 anni avanti Cristo, e il tumulo di Knowth, il luogo dove è nato Halloween. Castelli Normanni, come quello di Trim, dove è stata scritta la storia d’Irlanda. Luoghi talmente famosi da essere apparsi al cinema e alla Tv. Antichi villaggi dalle case colorate e tradizioni gastronomiche che ci riportano indietro nel tempo. Ecco dieci luoghi che si possono visitare in giornata partendo da Dublino. Knowth, il più grande sito di Brú na Bóinne Il tumulo di Knowth è il più ampio del sito archeologico di origine pre-celtica di Brú na Bóinne datato 5000 anni avanti Cristo. Di questo sito fanno parte anche il più celebre Newgrange e Dowth. Con il suo diametro di 95 metri, Knowth si estende su una superficie di circa 5 chilometri quadrati. Si tratta di una serie di 18 colline di varie misure e altezze immerse tra i verdissimi prati irlandesi, anch’esse ricoperte di erba. Alcune sono collegate al tumulo principale che ha due passaggi, ognuno dei quali conduce a due camere funerarie separate. Attorno alle entrate vi sono grosse pietre scolpite con graffiti dalle forme geometriche e astratte il cui significato è tutt’oggi sconosciuto. Dentro i tumuli si svolgevano cerimonie e venivano riposti i resti cremati dei defunti. Nelle epoche successive, sulle colline vennero costruiti persino dei villaggi. È uno dei siti archeologici da non perdere nell’Ireland Ancient East. La crociera di “Game of Thrones” sul fiume Boyne Un giorno Ross Kennay, proprietario della Boyne Boats, riceve la telefonata da una persona che chiede di poter girare alcune scene di una serie Tv lungo i canali intorno al fiume Boyne, a bordo di alcune vecchie e tipiche imbarcazioni irlandesi di legno chiamate “currach” ormai in disuso, ma che Ross possedeva ancora. Si trattava del produttore di “Game of Thrones” che, durante le riprese della settima stagione della pluripremiata serie televisiva, era alla ricerca di un set che rappresentasse al meglio il “Mare Stretto” in cui fare navigare Theon Greyjoy diretto ad “Approdo del Re”. È così che sono iniziati i “Game of Thrones Boat Tours” a bordo di vecchie imbarcazioni lungo i canali del fiume Boyne, nella Valle del Boyne che, non solo ripercorrono i luoghi di alcune scene della serie, ma anche luoghi storici, legati alla celebre battaglia del Boyne, e ad alcune leggende irlandesi. Slane Castle, il castello del Conte Rock Alle porte di Slane – una cittadina della Contea di Meath che vale una visita – si trova uno dei luoghi più famosi d’Irlanda, il Castello di Slane. Non soltanto è un bellissimo maniero, tuttora abitato dalla famiglia Conyngham (di origine scozzese e insediata in Irlanda nel 1611), le cui sale sono visitabili e dove si organizzano matrimoni e feste varie, ma è famoso perché, ogni estate, da trent’anni, vi si tiene un mega concerto con una star del rock. Nel parco, che può ospitare fino a centomila persone, si sono esibiti gli U2, Bruce Springsteen, i Rolling Stones, Madonna e i più grandi nomi delle musica internazionale. Il Conte Harry, soprannominato “Earl Rock”, ribelle fin da giovane a tutte le convenzioni che il titolo gli imponeva, fin dagli Anni ’70 frequentava Bono, Bruce e compagni ed ebbe la brillante idea di aprire le porte del castello ai suoi amici cantanti e musicisti. Nel 1984 gli U2 vissero sei mesi nel castello per registrare l’album “The Unforgettable Fire” e il salotto venne trasformato in studio di registrazione. La bellissima sala da ballo, dove incombe un gigantesco ritratto di Giorgio IV, fu il set del videoclip del singolo “Pride”. Il ritratto del monarca non è casuale: pare, infatti, che avesse una love story con un’antenata della Conyngham e, per questo motivo, fece aprire una strada diretta da Dublino al castello, strada che tutt’oggi collega le due località che distano 48 km. Trim Castle, il leggendario castello di “Braveheart” Affacciato sulla riva del fiume Boyne si trova il castello normanno più grande d’Irlanda, il Castello di Trim. Un imponente mastio di pietra ormai annerita dai secoli e dalle battaglie da cui si è dovuto difendere. Eretto poco dopo la battaglia di Hastings (1066), fu ampliato, modificato, fortificato più volte nel corso dei secoli successivi. Oggi il castello, restaurato e reso agibile, è magnifico e vale assolutamente una visita. Talmente iconico da essere stato scelto da Mel Gibson per girarvi alcune scene del film “Braveheart” nel 1995 di cui fu produttore e protagonista nelle vesti di William Wallace, un eroe scozzese del XIII secolo. Per rappresentare la Scozia dell’epoca, però, l’Irlanda sembrò più adatta, racconta Jimmy che, da volontario, accompagna i turisti alla scoperta del castello che domina una verde vallata attraversata dal fiume alle porte della deliziosa cittadina di Trim. Drogheda, la città Normanna sul fiume Boyne A una cinquantina di chilometri da Dublino, Drogheda è un’antica cittadina Normanna attraversata dal fiume. Un tempo era una città fortificata, tra le più grandi mai esistite. Oggi delle antiche porte d’accesso alla città resta solo l’imponente St Laurence’s Gate, con le torri circolari ai lati di un arco. Delle antiche mura resta solo un’altra porzione nella vicina Featherbed Lane. Ma Drogheda ha un altro luogo che vale la pena visitare: la St Peter’s Church. Ospita il santuario – e la testa mozzata – dell’arcivescovo irlandese St Oliver Plunkett, perseguitato da Oliver Cromwell nel XVII secolo. Per il Paese è una figura importantissima. Negli ultimi anni molti “dubliners” si sono trasferiti a Drogheda per la bellezza della cittadina, per la qualità delle vita e per la vicinanza con Dublino, collegata da treni e pullman. Anziché cercare un b&b a Dublino conviene alloggiare qui per risparmiare. Athboy, dove è nato Halloween Non tutti sanno che Halloween è una festa irlandese. È a Hill of Ward, un sito nei pressi di Athboy che sono stati ritrovati i resti di fuochi risalenti all’era pre-Cristiana che venivano accesi per la festa di “Samhain”. Per i Celti questa festa, che iniziava all’ora del tramonto del 31 ottobre e durava fino al calar del sole dell’1 novembre, rappresentava un rito importante che segnava il passaggio dalla luce all’oscurità, in quanto coincideva con la fine del raccolto e l’inizio dell’inverno. Per celebrare le origini (vere) di Halloween, nel 2019 è nato il Púca Festival, che si tiene proprio ad Athboy, una festa che dura tre giorni con parate per le strade cittadine, cene nel vicino castello di Slane e musica all’aperto. Proprio per la vicinanza ad alcuni luoghi simbolici irlandesi, la cittadina di Athboy, nella Contea di Meath, è un ottimo punto di partenza per visitare alcuni dei luoghi più famosi dell’Ireland Ancient East. Il luogo della battaglia del Boyne È stata la guerra più importante combattuta in Irlanda e, chi desidera fare un viaggio in questo Paese, dovrebbe assolutamente conoscerne la storia e visitare il sito dove si svolse la battaglia del Boyne nel 1690, a una cinquantina di chilometri da Dublino. Fu la battaglia che vide da una parte James II Stuart, che voleva riconquistare l’Inghilterra, e dall’altra Willliam III che vinse astutamente la battaglia e rispedì James in Francia. Il Battle of the Boyne comprende il terreno di battaglia, attraversato dal fiume Boyne, e un Visitor Centre all’interno del quale si trova il museo. L’esposizione permanente è ospitata in un antico edificio, la Oldbridge House costruita nel 1740. Visita alla Slane Irish Whiskey Distillery Il whiskey irlandese è famosissimo. E il terreno fertile e le acque pure della Valle del Boyne rendono questo territorio perfetto per la distillazione. In passato, molte distillerie si erano stabilite in questa regione, ma poi sono state chiuse tutte. Ecco perché nelle vecchie scuderie del Castello di Slane, a una cinquantina di chilometri da Dublino, qualche anno fa è stata aperta una distilleria di whiskey. A volerla, il proprietario del castello, Harry Conyngham. Ogni giorno si organizzano tour di un’ora alla scoperta del processo di produzione con tanto di degustazione finale. È meglio prenotare la visita. Ne fa parte anche un locale, aperto tutto il giorno, dove servono pasti e bevande, e lo shop dove acquistare l’whiskey e diversi gadget. La distilleria fa parte del castello e vale assolutamente la pena visitare anche l’edificio una volta giunti qui. Una curiosità: quello irlandese si scrive con la “e” (mentre quello scozzese è senza ovvero “whisky”) per via della tripla fermentazione e del diverso metodo di preparazione. La storica cittadina Trim La cittadina di Trim è famosa soprattutto per il castello, una meravigliosa fortezza di origine Normanna scelta da Mel Gibson per ambientarvi alcune scene del film ”Braveheart” nel 1995. Nel Medioevo Trim era una delle città inglesi più importanti. In quello che un tempo era il palazzo civico (la “town hall”) oggi è stato aperto un Visitor Centre che ospita anche una sala museo che racconta la storia della città e conserva alcuni reperti ritrovati in città, spade, armature, elmi e diversi oggetti indossati dai cavalieri nel periodo medievale. Una curiosità: prima che diventasse un museo, questo edificio ospitava band musicali che si esibivano per il piacere dei cittadini. Tra questi, anche gli U2, prima che diventassero così famosi. Trim è attraversata dal fiume Boyne. Da qui partono diversi sentieri lungo il fiume da fare a piedi o in bicicletta e la ”Blueway”, un itinerario di 35 chilometri sull’acqua da fare con la canoa o con lo stand up paddle. La Listoke Distillery, dove creare il proprio gin In Irlanda non ci sono solo il whiskey e la birra Guinness. A un’ora di strada a Nord di Dublino, nei pressi della cittadina di Drogheda, nella Contea di Meath, Bronagh e Dave hanno aperto pochi anni fa un’originalissima distilleria di gin dove ogni visitatore può creare il proprio gin e portarselo a casa. I visitatori vengono accolti nella loro casa con un fantastico gin tonic. Dopo un tour guidato per capire il processo di distillazione si prende parte alla “Gin School”: in un’aula vengono messi a disposizione dei partecipanti decine di ingredienti, dalle spezie ai fiori, che si possono mischiare tra loro fino a ottenere un distillato assolutamente personalizzato. Una volta distillato il proprio gin, viene imbottigliato. E il gioco è fatto. Ma prima di ripartire, un altro giro di gin accompagnato da prodotti locali della Valle dei Boyne, dai formaggi ai salumi. Una vera scoperta. Per raggiungere Dublino, la compagnia di bandiera irlandese, Aer Lingus, opera 40 voli giornalieri diretti da nove aeroporti italiani. Si può bloccare la prenotazione del volo per 24 ore pagando 5 euro, che verranno poi detratti in caso di acquisto del volo entro le 24 ore. Inoltre, consente di effettuare il check-in con un mese d’anticipo, scegliendo così con tutta calma il proprio posto a sedere. Si possono anche acquistare dei Voucher regalo, un bellissimo dono per gli amanti dell’Irlanda. Altre informazioni sul sito del Turismo irlandese. https://ift.tt/32zj6Bm I 10 luoghi da vedere a meno di un’ora da Dublino Alle porte di Dublino, a meno di un’ora di strada dalla città, ci sono diversi luoghi che vale assolutamente la pena visitare. La Contea di Meath, nell’Ireland Ancient East, è una delle più storiche dell’Irlanda, ma spesso poco frequentata dai visitatori che preferiscono fermarsi in città o puntare dritti verso le più celebri mete turistiche. Una zona che ruota intorno alla Boyne Valley, scavata dall’omonimo fiume, che ha fatto da sfondo a numerosi eventi che hanno fatto dell’Irlanda l’isola che è oggi. Siti celtici, come Brú na Bóinne, che risale a 5000 anni avanti Cristo, e il tumulo di Knowth, il luogo dove è nato Halloween. Castelli Normanni, come quello di Trim, dove è stata scritta la storia d’Irlanda. Luoghi talmente famosi da essere apparsi al cinema e alla Tv. Antichi villaggi dalle case colorate e tradizioni gastronomiche che ci riportano indietro nel tempo. Ecco dieci luoghi che si possono visitare in giornata partendo da Dublino. Knowth, il più grande sito di Brú na Bóinne Il tumulo di Knowth è il più ampio del sito archeologico di origine pre-celtica di Brú na Bóinne datato 5000 anni avanti Cristo. Di questo sito fanno parte anche il più celebre Newgrange e Dowth. Con il suo diametro di 95 metri, Knowth si estende su una superficie di circa 5 chilometri quadrati. Si tratta di una serie di 18 colline di varie misure e altezze immerse tra i verdissimi prati irlandesi, anch’esse ricoperte di erba. Alcune sono collegate al tumulo principale che ha due passaggi, ognuno dei quali conduce a due camere funerarie separate. Attorno alle entrate vi sono grosse pietre scolpite con graffiti dalle forme geometriche e astratte il cui significato è tutt’oggi sconosciuto. Dentro i tumuli si svolgevano cerimonie e venivano riposti i resti cremati dei defunti. Nelle epoche successive, sulle colline vennero costruiti persino dei villaggi. È uno dei siti archeologici da non perdere nell’Ireland Ancient East. La crociera di “Game of Thrones” sul fiume Boyne Un giorno Ross Kennay, proprietario della Boyne Boats, riceve la telefonata da una persona che chiede di poter girare alcune scene di una serie Tv lungo i canali intorno al fiume Boyne, a bordo di alcune vecchie e tipiche imbarcazioni irlandesi di legno chiamate “currach” ormai in disuso, ma che Ross possedeva ancora. Si trattava del produttore di “Game of Thrones” che, durante le riprese della settima stagione della pluripremiata serie televisiva, era alla ricerca di un set che rappresentasse al meglio il “Mare Stretto” in cui fare navigare Theon Greyjoy diretto ad “Approdo del Re”. È così che sono iniziati i “Game of Thrones Boat Tours” a bordo di vecchie imbarcazioni lungo i canali del fiume Boyne, nella Valle del Boyne che, non solo ripercorrono i luoghi di alcune scene della serie, ma anche luoghi storici, legati alla celebre battaglia del Boyne, e ad alcune leggende irlandesi. Slane Castle, il castello del Conte Rock Alle porte di Slane – una cittadina della Contea di Meath che vale una visita – si trova uno dei luoghi più famosi d’Irlanda, il Castello di Slane. Non soltanto è un bellissimo maniero, tuttora abitato dalla famiglia Conyngham (di origine scozzese e insediata in Irlanda nel 1611), le cui sale sono visitabili e dove si organizzano matrimoni e feste varie, ma è famoso perché, ogni estate, da trent’anni, vi si tiene un mega concerto con una star del rock. Nel parco, che può ospitare fino a centomila persone, si sono esibiti gli U2, Bruce Springsteen, i Rolling Stones, Madonna e i più grandi nomi delle musica internazionale. Il Conte Harry, soprannominato “Earl Rock”, ribelle fin da giovane a tutte le convenzioni che il titolo gli imponeva, fin dagli Anni ’70 frequentava Bono, Bruce e compagni ed ebbe la brillante idea di aprire le porte del castello ai suoi amici cantanti e musicisti. Nel 1984 gli U2 vissero sei mesi nel castello per registrare l’album “The Unforgettable Fire” e il salotto venne trasformato in studio di registrazione. La bellissima sala da ballo, dove incombe un gigantesco ritratto di Giorgio IV, fu il set del videoclip del singolo “Pride”. Il ritratto del monarca non è casuale: pare, infatti, che avesse una love story con un’antenata della Conyngham e, per questo motivo, fece aprire una strada diretta da Dublino al castello, strada che tutt’oggi collega le due località che distano 48 km. Trim Castle, il leggendario castello di “Braveheart” Affacciato sulla riva del fiume Boyne si trova il castello normanno più grande d’Irlanda, il Castello di Trim. Un imponente mastio di pietra ormai annerita dai secoli e dalle battaglie da cui si è dovuto difendere. Eretto poco dopo la battaglia di Hastings (1066), fu ampliato, modificato, fortificato più volte nel corso dei secoli successivi. Oggi il castello, restaurato e reso agibile, è magnifico e vale assolutamente una visita. Talmente iconico da essere stato scelto da Mel Gibson per girarvi alcune scene del film “Braveheart” nel 1995 di cui fu produttore e protagonista nelle vesti di William Wallace, un eroe scozzese del XIII secolo. Per rappresentare la Scozia dell’epoca, però, l’Irlanda sembrò più adatta, racconta Jimmy che, da volontario, accompagna i turisti alla scoperta del castello che domina una verde vallata attraversata dal fiume alle porte della deliziosa cittadina di Trim. Drogheda, la città Normanna sul fiume Boyne A una cinquantina di chilometri da Dublino, Drogheda è un’antica cittadina Normanna attraversata dal fiume. Un tempo era una città fortificata, tra le più grandi mai esistite. Oggi delle antiche porte d’accesso alla città resta solo l’imponente St Laurence’s Gate, con le torri circolari ai lati di un arco. Delle antiche mura resta solo un’altra porzione nella vicina Featherbed Lane. Ma Drogheda ha un altro luogo che vale la pena visitare: la St Peter’s Church. Ospita il santuario – e la testa mozzata – dell’arcivescovo irlandese St Oliver Plunkett, perseguitato da Oliver Cromwell nel XVII secolo. Per il Paese è una figura importantissima. Negli ultimi anni molti “dubliners” si sono trasferiti a Drogheda per la bellezza della cittadina, per la qualità delle vita e per la vicinanza con Dublino, collegata da treni e pullman. Anziché cercare un b&b a Dublino conviene alloggiare qui per risparmiare. Athboy, dove è nato Halloween Non tutti sanno che Halloween è una festa irlandese. È a Hill of Ward, un sito nei pressi di Athboy che sono stati ritrovati i resti di fuochi risalenti all’era pre-Cristiana che venivano accesi per la festa di “Samhain”. Per i Celti questa festa, che iniziava all’ora del tramonto del 31 ottobre e durava fino al calar del sole dell’1 novembre, rappresentava un rito importante che segnava il passaggio dalla luce all’oscurità, in quanto coincideva con la fine del raccolto e l’inizio dell’inverno. Per celebrare le origini (vere) di Halloween, nel 2019 è nato il Púca Festival, che si tiene proprio ad Athboy, una festa che dura tre giorni con parate per le strade cittadine, cene nel vicino castello di Slane e musica all’aperto. Proprio per la vicinanza ad alcuni luoghi simbolici irlandesi, la cittadina di Athboy, nella Contea di Meath, è un ottimo punto di partenza per visitare alcuni dei luoghi più famosi dell’Ireland Ancient East. Il luogo della battaglia del Boyne È stata la guerra più importante combattuta in Irlanda e, chi desidera fare un viaggio in questo Paese, dovrebbe assolutamente conoscerne la storia e visitare il sito dove si svolse la battaglia del Boyne nel 1690, a una cinquantina di chilometri da Dublino. Fu la battaglia che vide da una parte James II Stuart, che voleva riconquistare l’Inghilterra, e dall’altra Willliam III che vinse astutamente la battaglia e rispedì James in Francia. Il Battle of the Boyne comprende il terreno di battaglia, attraversato dal fiume Boyne, e un Visitor Centre all’interno del quale si trova il museo. L’esposizione permanente è ospitata in un antico edificio, la Oldbridge House costruita nel 1740. Visita alla Slane Irish Whiskey Distillery Il whiskey irlandese è famosissimo. E il terreno fertile e le acque pure della Valle del Boyne rendono questo territorio perfetto per la distillazione. In passato, molte distillerie si erano stabilite in questa regione, ma poi sono state chiuse tutte. Ecco perché nelle vecchie scuderie del Castello di Slane, a una cinquantina di chilometri da Dublino, qualche anno fa è stata aperta una distilleria di whiskey. A volerla, il proprietario del castello, Harry Conyngham. Ogni giorno si organizzano tour di un’ora alla scoperta del processo di produzione con tanto di degustazione finale. È meglio prenotare la visita. Ne fa parte anche un locale, aperto tutto il giorno, dove servono pasti e bevande, e lo shop dove acquistare l’whiskey e diversi gadget. La distilleria fa parte del castello e vale assolutamente la pena visitare anche l’edificio una volta giunti qui. Una curiosità: quello irlandese si scrive con la “e” (mentre quello scozzese è senza ovvero “whisky”) per via della tripla fermentazione e del diverso metodo di preparazione. La storica cittadina Trim La cittadina di Trim è famosa soprattutto per il castello, una meravigliosa fortezza di origine Normanna scelta da Mel Gibson per ambientarvi alcune scene del film ”Braveheart” nel 1995. Nel Medioevo Trim era una delle città inglesi più importanti. In quello che un tempo era il palazzo civico (la “town hall”) oggi è stato aperto un Visitor Centre che ospita anche una sala museo che racconta la storia della città e conserva alcuni reperti ritrovati in città, spade, armature, elmi e diversi oggetti indossati dai cavalieri nel periodo medievale. Una curiosità: prima che diventasse un museo, questo edificio ospitava band musicali che si esibivano per il piacere dei cittadini. Tra questi, anche gli U2, prima che diventassero così famosi. Trim è attraversata dal fiume Boyne. Da qui partono diversi sentieri lungo il fiume da fare a piedi o in bicicletta e la ”Blueway”, un itinerario di 35 chilometri sull’acqua da fare con la canoa o con lo stand up paddle. La Listoke Distillery, dove creare il proprio gin In Irlanda non ci sono solo il whiskey e la birra Guinness. A un’ora di strada a Nord di Dublino, nei pressi della cittadina di Drogheda, nella Contea di Meath, Bronagh e Dave hanno aperto pochi anni fa un’originalissima distilleria di gin dove ogni visitatore può creare il proprio gin e portarselo a casa. I visitatori vengono accolti nella loro casa con un fantastico gin tonic. Dopo un tour guidato per capire il processo di distillazione si prende parte alla “Gin School”: in un’aula vengono messi a disposizione dei partecipanti decine di ingredienti, dalle spezie ai fiori, che si possono mischiare tra loro fino a ottenere un distillato assolutamente personalizzato. Una volta distillato il proprio gin, viene imbottigliato. E il gioco è fatto. Ma prima di ripartire, un altro giro di gin accompagnato da prodotti locali della Valle dei Boyne, dai formaggi ai salumi. Una vera scoperta. Per raggiungere Dublino, la compagnia di bandiera irlandese, Aer Lingus, opera 40 voli giornalieri diretti da nove aeroporti italiani. Si può bloccare la prenotazione del volo per 24 ore pagando 5 euro, che verranno poi detratti in caso di acquisto del volo entro le 24 ore. Inoltre, consente di effettuare il check-in con un mese d’anticipo, scegliendo così con tutta calma il proprio posto a sedere. Si possono anche acquistare dei Voucher regalo, un bellissimo dono per gli amanti dell’Irlanda. Altre informazioni sul sito del Turismo irlandese. La Contea di Meath, nell’Ireland Ancient East, è una delle più storiche dell’Irlanda, con molti siti e villaggi da visitare.
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Il signore delle mosche – William Golding
I bambini sono malvagi. Non lo sapete?
In generale, “Il signore delle mosche” non sembra essere un romanzo particolarmente popolare, ma mi è sempre piaciuta la visione quasi hobbesiana sullo stato di natura e come l’umanità si comporta quando viene lasciata da sola senza regole e strutture sociali. Quando i personaggi sono tutti bambini angelici con lati sadistici, cosa abbiamo? Niente più del solito dramma delle superiori, ma ambientato su un’isola deserta. Con un po’ più omicidi, ma non poi così tanto.
Nel 1954, quando il romanzo è stato pubblicato, la Gran Bretagna era costretta a guardare in faccia la dura realtà che prima aveva beatamente scelto di ignorare: che non era il centro dell’universo, e che l’impero britannico non era un orgoglio nazionale ma una violazione imbarazzante delle libertà e dei diritti di altri esseri umani. Il colonialismo britannico era stato giustificato come una missione ipocrita per educare e modernizzare i “selvaggi” stranieri. Quindi quando inquadrato nel proprio contesto storico, accanto ai movimenti di decolonizzazione, questo romanzo può essere considerato uno smantellamento interessante della supremazia bianca occidentale.
Non è un racconto di “selvaggi” che sono cresciuti in poveri villaggi rurali, ma una storia su ragazzi della classe medio-calta, nati con la camicia e con istitutori privati.
Posso capire perché alcuni interpretano questo romanzo come razzista. L’elemento razziale è un fattore importante, Golding constata dalla primissima pagina che Ralph non è soltanto bianco, ma BIANCO. E Piggy chiede, persino: “Che cosa è meglio: essere una banda di negri dipinti come voi, o essere ragionevoli come Ralph?” Non discuterò delle varie interpretazioni, sarebbe difficile capire esattamente le intenzioni di Golding, ma credo che questa frase si possa considerare l’esatto opposto del razzismo. Per me questo è Golding che sfida la nozione dei selvaggi come gente scura e ignorante dalle zone rurali. Con questo romanzo, dice “fanculo, vi faccio vedere io chi è il selvaggio!” e ci mostra come questi piccoli gioielli dell’impero non siano migliori nonostante la loro istruzione superiore.
Credo diventi chiaro soprattutto alla fine quando l’ufficiale dice “Avrei pensato…avrei pensato che un gruppo di ragazzi inglesi…siete tutti inglesi, no?…sarebbero stati capaci di qualcosa di meglio”. È il modo di dire di Golding che la natura umana è universale e nessuno può sfuggirvi.
Secondo alcune recensioni bisogna avere già una visione negativa della natura umana per apprezzare questo libro, ma non credo sia vero. Non sono sicura di essere d’accordo con tutte le implicazioni nel romanzo, come il fallimento della democrazia, ma funge da punto di vista interessante sul lato oscuro della natura umana e su come nessuno è fuori dalla sua portata. In più, chiunque abbia subito brutti momenti al liceo probabilmente non troverà gli avvenimenti nel libro un particolare slancio dell’immaginazione.
L’aspetto affascinante de “Il signore delle mosche” è il modo in cui molti paralleli storici possono essere tratti dal messaggio che porta. Si può scegliere di considerare il carismatico e manipolativo Jack Merridew come una specie di Hitler (o qualunque altro dittatore) che trae vantaggio da un gruppo di persone nel loro momento più debole. I dittatori e i radicali trovano spesso facile intrufolarsi quando una società è in caos; non dobbiamo assumere che Golding credesse che tutti e ovunque sono malvagi, soltanto che possiamo diventarlo quando ci ritroviamo in situazioni instabili. Voto : 7/10
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Tra vetro e amianto
Al mio rientro dalla Lituania, che tanto mi ha sorpreso e sempre in positivo, considero il viaggio in un’ottica diversa. Sono tre anni che all’incirca in questo periodo raccolgo le mie preoccupazioni insieme ai calzini e parto. Sola andata (il che implica soste prolungate o last minute costosissimi, ma questo è un altro discorso). Ed ogni anno la prospettiva cambia. Dal viaggio turistico, a quello nella vita di campagna più dura per finire a quello sociologico. Questo settembre è stato l’aspetto “umano” a prevalere.
Sono partita il 5, arrivata insieme alla pioggia e ai 9°C ed un entusiasmo calante. Dopo tre giorni di divano, musica e brevi passeggiate, ho deciso di effettuare un road trip. Io, una vecchia Subaru gialla, e la strada immensa davanti. Tra parchi, piccoli villaggi, fiumi da navigare in canoa (Tra le cose da fare la prossima estate!), fabbriche nucleari abbandonate, tramonti nei boschi e un clima in miglioramento ( per non parlare delle tazze di tè caldo XL take away) ho percorso 700km in due giorni. Per vedere ciò che mi circonda, immergermi nei boschi, nell’odore della terra dopo la pioggia, nei sorrisi dei contadini quando ti fermi a parlarci.. Nella vita, quella sudata ma di cui si è grati ogni giorno.
Da lì, destinazione Vilnius! Una settimana a vivere con una ragazza lituana, mia coetanea, da cui ho imparato una delle lezioni più grandi riguardo i viaggi. Solo muovendoti capisci quanto sia infondato il timore di chi non conosci. Nella realtà, chiunque in qualunque parte del mondo, desidera solo essere felice nella propria vita. Nient’altro. Siamo tutti uguali, nonostante latitudini e stereotipi diversi. Ad esempio non è vero che i popoli nordici sono “freddi”. Ho conosciuto molti lituani (ma anche inglesi, russi e persino portoghesi) e nessuno di loro si è dimostrato scortese o antipatico. Anzi, a dispetto delle apparenze gli uomini lituani sono dei veri gentleman!
Mi sono immersa nella vita cittadina, dalla spesa al tempo libero, dal modo di mangiare a quello di trascorrere la vita notturna, Una città viva, immensa eppure colma di parchi dove trascorrere ore isolati dal caos intorno, dove ogni bar ha delle prese per ricaricare il telefono (nonché wifi gratuito e rapido) ed ogni centro commerciale è una città a sé. Moderna, piena di giovani e locali, in cui la vita notturna non ha nulla da invidiare a quella diurna, il verde regna sovrano e il servizio di car renting/sharing è tra i più efficienti. Una delle poche città in cui potrei trasferirmi anche domani (e lo dico dopo 7 giorni passati a girarla tutta dalla mattina alla sera). Bellissimo il centro storico, le chiese gotiche che si stagliano verso il cielo, percorso dalle mongolfiere in partenza da Uzupis, la repubblica degli Artisti, nel cuore di Vilnius. La cucina tipica lituana è abbastanza pesante, ma degna di nota (per non parlare della birra, la porzione standard è una 0.5L). Ed è anche molto economica sul fronte del cibo.
E allora, perché amianto?
Per la dualità tragica di questo Paese, in cui alle case poverissime e col tetto di amianto si contrappongono, non troppo distanti, grattacieli in vetro e acciaio. Miseria e nobiltà in 100m. Bellezza incontaminata e povertà come un tarlo che rosicchia le vite degli abitanti di campagna. Conoscenze antiche che si perdono, man mano che il sogno di un monolocale in città continua a prevalere su quello di una vita in campagna.
Sono soddisfatta del mio viaggio, ma appunto per i motivi sopracitati, il prossimo anno di nuovo nella Natura selvaggia, perché solo lì, guardandovi attorno, scoprirete che non esiste davvero nulla che Madre Terra non abbia già creato.
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Un ragazzino gioca seduto a cavalcioni su un gigantesco cannone: è Kim, altrimenti noto come «il Piccolo Amico di tutto il Mondo»; orfano di un sergente irlandese, cresciuto come un monello indiano nei vicoli di Lahore, Kimball O’Hara «non faceva niente, e con enorme successo». Così ci accoglie «uno dei libri più ‘felici’ che le letterature occidentali possiedano» (G.A. Borgese), intriso com’è di bellezza e di non poca sapienza. È sotto la protezione di due numi tutelari – il lama Teshoo, impegnato a ritrovare il Fiume della Freccia per affrancarsi dalla Ruota delle Cose, e il mercante di cavalli Mahbub Ali, spia al soldo degli inglesi nel Grande Gioco che «giorno e notte mai non cessa» – che si snoda l’avventura di Kim. Improvvisatosi discepolo del primo e agente segreto del secondo, infatti, il ragazzo, che gioca per il gusto di giocare e viaggia per viaggiare, come fanno «i diavoli e gli inglesi», assume «l’indescrivibile falcata che è del vagabondo» (e che è il passo stesso del romanzo) e si mette in marcia a fianco del lama lungo la Grand Trunk Road, fiumana di vita che scorre per millecinquecento miglia da Bombay e Benares a Peshawur, dando così avvio a una scorribanda picara che è insieme un pellegrinaggio religioso. Attraverso pianure e montagne, dall’afrore dei bazar ai climi rarefatti delle lamasserie tibetane alle pendici dello Himalaya, fra treni e caravanserragli, villaggi e postazioni militari, travestimenti e agguati, sarà un tripudio di «nuovi scorci» ovunque si posi «l’occhio complice», un inno all’India amata nella sua molteplice unità dal suo più celebre cantore, Rudyard Kipling. ... #libridisecondamano #ravenna #bookstagram #booklovers #bookstore #instabook #igersravenna #instaravenna #ig_books #rudyankipling (presso Libreria Scattisparsi) https://www.instagram.com/p/Byt8i9ookAJ/?igshid=15uynm2y7bk2o
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