#vendere banane
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バナナノタタキウリ
バナナの叩き売りは、バナナの販売に関連する独特で活気に満ちた伝統的な販売方法です。これは、小売業者が顧客の注目を集め、バナナを宣伝し、迅速に販売するために使用する活気に満ちた方法です。 バナナの叩き売りは、バナナの販売に関連する活気に満ちた劇場的なプレゼンテーションです。その歴史は、エキゾチックな熱帯の果物としてのバナナの台頭と密接に関係しており、顧客を楽しませ、関��させるための独特でエンターテイメントな販売方法を提供します。
手抜きイラスト集
#バナナの叩き売り#selling bananas#vendere banane#vendiendo plátanos#Verkauf von Bananen#vendre des bananes#手抜きイラスト#Japonais#bearbench#art#artwork#illustration#painting
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bananas sao invencoes do capitalismo pra vender bombas pq bananas sao bombas o gru prova isso ele tem armas de banana
Mas banan e gostoso eu comi hj mas so um pouco pq tava tudo preto e eu tenho agonia
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Se raccontassi la mia storia ad uno psicologo, sono sicura al 100% che il giorno dopo lascerebbe tutto per andare a vendere banane.
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“Guadalupe, la mia Nazaret”. E le tre “P” sono diventate cinque
Caro Francesco, molti anni fa, quando ero ancora giovane seminarista, ho conosciuto, andava un po’ di moda a quei tempi, la figura di fratel, adesso santo, Charles de Foucauld. Francese che ha vissuto vari anni a contatto con la vita solitaria del deserto del Sahara. René Voillaume, e in Italia Carlo Carretto, con i loro scritti ci aiutavano a sognare con la vita semplice del monaco del deserto. Addirittura “fare il deserto” era diventato quasi uno stile di preghiera, un modo di vivere l’incontro e l’unione con Dio. Fratel Carlo ha sempre avuto un sogno o un desiderio quello di vivere l’esperienza di Nazaret. A Nazaret Gesú visse trentanni e lavorava nel silenzio con suo padre Giuseppe che era falegname e carpentiere. Era conosciuto come il falegname di Nazaret... Ti confesso, Francesco, che anch’io a quei tempi, sognavo una vita così, semplice e aperta a tutti senza la preoccupazione ossessionante di fare, fare e fare ma quella di vivere, vivere, vivere... In maniera semplice ed essere amico di tutti. Col passare degli anni fratel Carlo rimase solo un ricordo lontano ma mai dimenticato. L’ho ripreso in mano e ho letto diversi libri sulla sua vita, ho riletto sue meditazioni, articoli e servizi sui Piccoli Fratelli, che continuano nella Chiesa la sua testimonianza .
La mia vita mi ha portato lontano ma adesso mi sono fermato e a Guadalupe cerco di vivere una vita semplice, lavorando la terra, allevando alcuni animali, pescando e cercando di vivere per quanto possibile vicino allo stile di vita amazzonico. Certo, e tu l’hai visto, cerco sempre di inventare qualcosa, tenere tutto in ordine, piantare in riga, pulire, e quando uno viene a casa mia resta meravigliato di quel che vede e trova. Per questo Francesco scrivo spesso sul mio lavoro, le mie piantagioni, gli animali. Tutto quello che faccio lo faccio anche perché la gente veda che è possibile e bello vivere in Amazzonia con poca terra e senza più distruggere la foresta... E ci sto riuscendo, lentamente e con molta fatica. Certo che la foresta amazzonica non è il deserto del Sahara. Diciamo che è un deserto abitato: il vento, il silenzio, il cielo stellato, l’alba e il tramonto, penso siano simili. Vorrei vivere nella semplicità e in umiltà, ma faccio tanta fatica perché la vita moderna ricca di tante cose oramai ha messo le radici dentro di me e liberarsene diventa difficile, anche perché sento la necessità di usare mezzi e macchine più moderni per il lavoro. Voglio sempre progredire, provare qualcosa di nuovo, nuove sementi, nuove piante... E ogni tanto faccio il passo più grande della gamba e poi devo tornare indietro, questo serve anche per imparare. Una volta i nostri contadini avevano un programma dei 3P: Provare, Produrre, Progredire. Io ne ho aggiunte altri due: Pensare e Preservare.
Sempre in questa linea, a Manaus mi sto interessando di piantagione di aranci. Ho trovato un signore che si è specializzato in questo e mi ha dato piantine di aranci e limoni. In tutto ne ho piantati una sessantina e, se non tiro le cuoia prima, tra qualche anno avremo succo d’arancio a volontà. Ho passato una giornata con lui e mi ha insegnato tante cose che io ignoravo ma quel che più mi ha fatto contento è il fatto che si è messa in moto un’amicizia nuova. E questo è un dono di Dio. Quest’anno per la prima volta le mie palme di cocco che piantai tre anni fa hanno dato i primi frutti, alla sera l’acqua di cocco fresca é ristoratrice. Le galline fanno in media una ventina di uova al giorno, così oltre ad avere uova tutti i giorni per mangiare ne ho anche da vendere, anche le quaglie si danno da fare e le loro uova son ricercate. Ho fatto un’esperienza con il granoturco e sto aspettando che le spighe maturino, poca cosa per fare esperienza. Se dovesse andar bene il prossimo anno aumentiamo. Stiamo pensando di piantare banane, allevare pesci, coltivare orchidee... A maggio pianteremo le angurie, nel frattempo ho già piantato 4000 piante di mandioca e a luglio cominceremo fare la farina.n Come vedi carne al fuoco ce n’é. Peró sbatto la testa su un serio problema: il tempo! Il tempo non si ferma, passa e divento ogni giorno più vecchio. Vorrei fare tante cose ma la vecchiaia è arrivata e mi ferma. Mi dice sempre: “Va piano, dormi di più, riposati, guarda che scoppi, cambia marcia”. La vecchiaia ha ragione. Ti saluto e spero di fare di Guadalupe la mia Nazaret dove la casa é aperta a tutti e la vita scorre semplice e serena. Ciao, Vincenzo
Manaus, 23 di Marzo 2019
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Janghi... Ente Terzo settore - Non profit
Janghi… Ente Terzo settore – Non profit
Prova di verifica per alcune delle bambine sostenute da #Janghi nella scuola di N’gor. C’è chi ha una faccia più rilassata di altri!!! Incrociamo le dita, andrà tutto bene! Queste bambine, come molte altre in Senegal, passano parte delle loro giornate (e delle loro notti, compreso il fine settimana) a vendere banane, maad e arachidi sulle spiagge di Dakar. La #scuola per loro è anche una…
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Il #Malawi 🇲🇼 ha scelto come proprio rappresentante per gli #Oscar2022 per la categoria #BestInternationalFilm la pellicola #FatsaniATaleofSurvival di #GiftSukezSukali Una giovane ragazza che vive con sua nonna è costretta a vendere banane nelle strade per sopravvivere dopo che la sua scuola è stata chiusa a causa di problemi igienico-sanitari e corruzione. La vediamo lottare, mentre subisce varie forme di abuso da parte di coloro che dovrebbero proteggerla. TRAILER: https://youtu.be/jyHmv07-nqg Lo scorso anno fu scelto The Road to Sunrise di Shemu Joyah che però non conquistato la nomination. Nella storia degli Oscar questo è il secondo anno che il Malawi presenta un proprio film alla selezione degli Academy Awards. #OscarsSubmission #94rdOscars #94rdAcademyAwards #Oscars2022 #InternationalFeatureFilm https://www.instagram.com/p/CVAz-bEpcOk/?utm_medium=tumblr
#malawi#oscar2022#bestinternationalfilm#fatsaniataleofsurvival#giftsukezsukali#oscarssubmission#94rdoscars#94rdacademyawards#oscars2022#internationalfeaturefilm
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Non gli garba il muso lungo di Roberto Saviano e ha scritto un romanzo sull’arte del cunnilingus: intervista al sommo Francesco Consiglio
Io e Francesco Consiglio abbiamo una cosa in comune: non ci adattiamo all’idea di diventare grandi. Fare i fessi ci piace. Ma, in particolare, amiamo sentirci sollevati dalla necessità di essere seri. Lui la sua missione la prende particolarmente a cuore, tanto che, prima di riuscire a contattarlo al telefono, ci vogliono giorni. La scusa che adduce, ogni volta, è di non amare il cellulare. E io giù a sacramentare. Se non fosse uno dei miei scrittori preferiti… C’è comunque una particolare sintonia fra di noi. Sarà che lui ha scritto Le molecole affettuose del lecca lecca, pubblicato da Baldini&Castoldi, e io L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde, per la Robin. Sarà che, quindi, quanto a notorietà, ci contendiamo il podio della sfiga. Ma, dicevo, ci vogliamo bene, sicché era da un po’ di tempo che avevo in mente di intervistarlo. Mi era già capitato di scrivere su di lui, sperando di aiutarlo a diventare famoso, ma con scarsi risultati. Ho deciso di riprovarci sabato sera, inviandogli le domande di questa intervista. Erano circa le 20. A mezzanotte aveva già risposto. Da ciò ho arguito che anche lui, come me, pur essendo sabato, non avesse un cazzo da fare.
Come ci si sente a non essere famosi?
Che posso dirti? Ci convivo da una vita. È come chiedere al principe William come ci si sente a essere famoso. Non può saperlo: è nato famoso. Però so che l’indifferenza nei miei confronti è destinata a finire, perché dopo questa intervista diventerò famoso per il fatto di non essere famoso.
Venderesti l’anima al diavolo per scalare le classifiche?
Il diavolo è come Leslie Gold, il proprietario del banco dei pegni più noto di Detroit. Non puoi andare da Leslie e sperare di metterlo nel sacco. Così è il diavolo: in cambio di qualche anno di fama, pretende di prendersi l’anima per sempre.
Il titolo del tuo libro di poesie è Banane al poeta. Secondo te, i poeti si meriterebbero banane in quel posto?
Tutti i poeti che conosco sono incazzati perché nessuno se li fila. Metterglielo in quel posto sarebbe un segno d’attenzione, ne gioirebbero.
Non essere presi sul serio è dovuto, a tuo avviso, anche al fatto che tu per primo non consideri la tua attività tale?
È difficile prendere sul serio un’attività nella quale un presunto industriale, detto editore, suggerisce, e a volte impone, a uno scrittore di tessere relazioni, promuoversi sui social con post a pagamento e organizzarsi da solo le presentazioni. È come se un’industria automobilistica dicesse ai suoi ingegneri di progettare le auto e andarsele a vendere. Ma l’industria editoriale è ancora un’industria? Credo che, in Italia, di editori degni di essere chiamati tali ce ne siano cinque o sei. Gli altri? Stampatori.
Francesco, dimmi un autore che ti causa un prurito alle palle tale da pensare di avere le piattole?
Roberto Saviano. È sempre così dannatamente serio, con la faccia dura di chi sa come va il mondo e sta per spiegartelo. Ma quello di Saviano è un mondo bruttissimo, angosciante. Sì, certo, se racconti di bambini che sfrecciano sugli scooter e sparano non puoi metterti a scherzare, ma io, dopo avere letto un suo libro, per disintossicarmi dalla tristezza, ho dovuto trascorrere un mese a sciropparmi l’opera omnia di Liala.
Chi è il più grande autore italiano vivente? Non mi dire che sei tu, o ti stendo a cazzotti…
Gianluca Morozzi. Se ci legge penserà a una presa per il culo, ma io dico sul serio: è uno dei pochi scrittori che non soffrono di ipertrofia dell’ego. Ha regalato racconti a siti internet e antologie di scrittori che avrebbe potuto guardare dall’alto in basso. Con lui passerei le ore bevendo vino e ricordando le gesta pedatorie di Domenico Marocchino, il mio mito calcistico.
Francesco, parliamo di sesso, visto che vende tanto e tu lo menzioni ogni tre righe, soprattutto quello non fatto. Il sesso ha una dimensione vagamente ridicola, grottesca, o sbaglio?
Il fatto che due esseri umani debbano incastrarsi come in una morsa è già poco serio. Tutte le altre attività che procurano piacere sono più semplici: mangiare, sentire la musica, andare al cinema, ricevere un massaggio. In questi tempi frenetici, il sesso assomiglia sempre più al ritmo ossessivo di una catena di montaggio. Con il tempo, il desiderio cala e la psicoanalisi non riesce a farcelo tornare duro. Io credo che bisogna abbattere un tabù: gli psicoanalisti dovrebbero scopare con i pazienti. La psicoanalisi è superata, io sono per la psico-anal.
Perché un idiota (categoria in cui mi includo, sia chiaro) finisce per scrivere un romanzo?
Credo sia una predisposizione genetica: Charles Bukowski diceva che tutti gli scrittori sono dei poveri idioti, ed è per questo che scrivono.
Se dovessi diventare uno scrittore famoso e ricco, come spenderesti i tuoi soldi? Puttane, droga, festival letterari?
Se fossi ricco, cercherei di conservarmi vivo e sano il più a lungo possibile. Dunque, eviterei tutto ciò che può accorciarmi la vita: malattie veneree, dipendenza da alcol e droga, frequentazione di scrittori.
Hai mai pensato di ricorrere al suicidio per darti un tono letterario?
Il suicidio è di nicchia. Nel mio terzo romanzo, il cui titolo provvisorio è Ammazza la star, il protagonista ha un’idea migliore: per diventare famoso bisogna uccidere una persona famosa.
Credo fermamente che tu sia un genio… cio��, se non altro, sei forte. Cosa dovremmo fare, a tuo avviso, noi di Pangea per darti risalto e farti conoscere?
Se fossi un genio, saprei cosa farvi fare. E invece non lo so. Con questa domanda hai distrutto la mia autostima.
Mi dici come sei arrivato a concepire Le molecole affettuose del leccalecca?
Volevo raccontare Roma e quella sorta di tsunami dell’anima e del corpo che ho vissuto quando, a diciannove anni, mi sono trasferito da un paesino del meridione, dove si scopava pochissimo, a una città che grondava sesso e seduzione. Il leccalecca del titolo allude al cunnilingus, un’attività che consiglio alle giovani coppie ma soprattutto agli anziani, perché si pratica benissimo anche senza dentiera.
Marzulliamo insieme, Francesco: fatti una domanda e datti una risposta.
“Ma è vero che leggi i Tarocchi?”
Non io, ma la mia seconda personalità: Francesco Le Mat. Ho anche scritto un libro che racconta la mia esperienza di tarologo a Parigi. Si chiama Paris, Rue du Tarot e, come recita il sottotitolo, è una guida tarologica per viaggiatori innamorati.
Matteo Fais
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❋ 𝐜𝐚𝐦𝐞𝐧𝐚 ❋
📍 𝗅𝖾𝗇𝖺'𝗌 𝖼𝖺𝗋 📅 𝗆𝖺𝗒 𝟤𝟦, 𝗇𝗂𝗀𝗁𝗍
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« Che è successo? » « Sono svenuta. » « Come mai? » « Ho dimenticato di cenare. » « "Dimenticato"? » « Dimenticato. Ero troppo presa da cose e — » « E ti hanno dato qualcosa o sei ancora a stomaco vuoto? » « Sì, mi hanno subito dato delle patatine — era l'unica cosa che avevano già pronta. Mi hanno detto di prendermi la serata libera, domani. » « Mh. Forse magari te lo ricorderai di avere una patologia, in questo modo. » Lena si pente subito di quella frase improvvisa e un po' troppo tagliente, quindi finge subito di cercare qualcosa nella borsa. Carmen, dal canto suo, prima di essere in grado di risponderle boccheggia un po'. « Me lo ricordo sempre fin troppo bene, direi. » La conversazione termina lì, tant'è che la maggiore mette in moto l'auto e accende anche lo stereo: non c'è il solito canticchiare delle due e nemmeno un semplice tenere il ritmo, una si limita a guidare e l'altra ad osservare la città fuori dal finestrino, tenendosi la borsa stretta al petto. Entrambe, però, si lanciano occhiate di tanto in tanto. « Pensavo di prendere anche la mattinata libera in biblioteca. » « — non voglio che stai male. » Le parole escono loro di getto, contemporaneamente. Passa un qualche secondo di silenzio prima che la colombiana lo riempia con le sue parole. « Nemmeno io voglio stare male. » « Però non ti stai preservando. » « È stato solo un minuscolo errore di calcolo. » Gli occhi di Carmen sono lucidi, quindi si gira ancora di più per cercare in qualche modo di nascondersi, mentre Lena, che ha percorso piuttosto spedita la strada del ritorno, si appresta a parcheggiare. « Torni sempre stravolta, amore. » « Tutti tornano stanchi dal lavoro, non è nulla di eccezionale quello che faccio. » « Non tutti hanno più di un lavoro come te, con orari impossibili. E non hai mai raggiunto questi livelli, Camz. » « I miei hanno ricevuto un avviso di sfratto. » La confessione improvvisa di Carmen fa ammutolire Lena per qualche istante. « E non — non mi hai detto niente? Quando? Perché? » « Me l'ha detto Sol la settimana scorsa, volevo cercare di — non lo so che cosa volevo cercare di fare. » « Di aiutarli. » Sospira, Lena, scivolando sul suo sedile e prendendo la propria fidanzata in grembo, così da offrirle conforto; quest'ultima subito si accuccia contro il suo petto, annuendo piano. « E non volevo farti preoccupare, perché hai questa storia del CD e volevo ti concentrassi su questa cosa bella. » « E volevi farlo con le tue forze, come hai sempre fatto da quando sei qui — oh. Camz, ma io non — tu sei tu. Non ho deciso di chiederti di sposarmi solo per le tue giornate sì. Che poi siano la maggioranza, è un caso. Ma — quello che vogliamo entrambe è il sempre, no? » « Assolutamente sì. » « Troveremo una soluzione. » le piazza un bacio sul naso. « Una che non ti faccia svenire o dimenticare di mangiare. » « Ci mettiamo a vendere ciondoli in fimo? » Ha già ritrovato la voglia di scherzare e lo fa mentre stringe Lena con maggiore forza, come per ringraziarla. « E banane intagliate. Ma ora fai la brava mini Pacu e aggrappati — »
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Where my friends are. Patmos by Tim Walker
«Questa è gioia pura, è qualcosa che sta succedendo realmente. È vera. Ed è quello che ogni fotografo cerca di continuo». Tim Walker sta raccontando come è arrivato a realizzare gli scatti di questo servizio. Diversamente dal suo consueto lavoro di fotografo di moda, dove ogni dettaglio è predisposto e studiato fino all’ultimo pixel, queste immagini sono il risultato di una serie di circostanze fra loro scollegate e di incontri fortuiti tra persone di idee affini. Il tutto è successo a Patmos. L’estate scorsa Walker era partito quasi per un capriccio. Voleva vedere un posto nuovo e la sua amica, la stilista Sarajane Hoare, gli aveva raccomandato le isole greche del Dodecaneso. Allora aveva acquistato un biglietto, affittato una casa e si era messo in viaggio. È stato così che si è trovato di fronte, ancora una volta, James Brown. «Un momento fortunato», spiega, «il proseguimento di un’amicizia». La prima volta che Walker aveva incontrato l’artista di origine californiana e sua moglie Alexandra era stato a Mérida, in Messico, durante una rapida puntata per un matrimonio: li aveva presentati un amico comune, il giornalista Hamish Bowles. Ritrovatisi a Patmos, l’artista e il fotografo hanno riallacciato quel legame. «James mi piace davvero molto», dice, «è sempre un vero piacere parlare con lui, facendo lunghe camminate e nuotate. Il suo contegno, il linguaggio del corpo e ogni suo gesto hanno una grazia immensa, mascolina e indolente. E poi si veste in una maniera incredibile. Ha un senso innato di sé, in ogni sua fibra». In quei giorni, Walker non ci pensava proprio a realizzare un portfolio, in fin dei conti era in vacanza. Il suo occhio però cominciava a reagire alla bellezza dell’isola e alla presenza dell’amico. «Nella fotografia, a mio parere, si cerca sempre un’espressione della grazia. E James ne ha da vendere». L’estate trascorreva rovente. E nel mentre, Walker iniziava a conoscere più a fondo anche Alexandra, la moglie di Brown, e i loro tre figli: Degenhart e Cosmas, i due maschi, e Dagmar. «Ogni volta che si svegliano, ogni ora, ogni momento della loro giornata ha una valenza estetica. Questi ragazzi sono persone squisite, interessanti, non perse nei social media, e hanno tutti una grande vitalità. Sono cresciuti in modo quasi selvaggio, in una vecchia piantagione di banane dello Yucatán, mi pare, andandosene in giro a procurarsi da mangiare, con i serpenti e i ragni che li mordevano e loro che si succhiavano via il veleno. Non c’è alcuna posa, è tutto vero: non hanno niente di artefatto. Le foto sembreranno anche uscite da un set di Wes Anderson, ma quando li vedi sono proprio così». Alla fine il “visual eye” di Walker ha reagito a tutti questi stimoli. «Ho proposto alla famiglia di scattare delle foto e loro: “Ma sì, facciamolo per gioco”». Il fotografo aveva un ricordo preciso di alcune immagini in bianco e nero – «forse degli anni 50» – che aveva visto su Vogue Italia in cui un gruppo di persone si mangiava degli spaghetti alle vongole su un materassino. «L’idea mi è venuta da lì. A Patmos vanno tutti in cerca di ricci di mare e a me la loro forma piace moltissimo. Così ho iniziato a fantasticarci sopra». Il sogno si è concretizzato quando lo skipper Dionisys ha portato Walker e i Brown ad Aspronisi, un gioiello di piscina naturale chiusa fra gli scogli. Si sono tuffati in cerca di ricci, li hanno cucinati a bordo della barca a vela e li hanno serviti su un tavolo poggiato sulle rocce. Mentre Walker si metteva al lavoro, loro sdraiati sui materassini mangiavano e parlavano. Nei giorni seguenti, Walker ha approfondito il suo studio su quel legame che persone straordinarie stabiliscono con un luogo straordinario e ha ritratto i Brown nella casa in cui erano ospiti quell’estate. Mentre lo faceva, aveva in mente un’idea che girava nella testa di James. «C’è questa cosa che lui chiama “casa”, un posto immaginario che esiste nella sua fantasia in cui accadono cose straordinarie alla sua straordinaria famiglia e ai vicini che abitano quella finzione. Penso però che questo suo mondo di fantasia si discosti di poco da quello reale, perché quando si è in loro compagnia l’esperienza si arricchisce di elementi decisamente fantastici. Ho scattato queste foto veramente per gioco, per me stesso. È una fantasia, un mio modo di materializzare l’energia della “casa” di James e di proteggere un’amicizia». La casa reale, quella che appare nelle foto di queste pagine, è nei sobborghi della Chora (“villaggio principale”, ndr) di Patmos. «Sul retro ha una vista meravigliosa verso la parte vecchia. L’isola è molto speciale, è una sorta di mondo fantastico che si snoda in interni bellissimi e pullula di artisti, fashion designer, registi e galleristi. Li definirei dei bohémien benestanti». E aggiunge: «Fino agli anni 70 il traghetto neanche vi attraccava e per arrivare all’isola bisognava camminare nell’acqua alta fino alla cintola». È stato allora che l’interior designer John Stefanidis e il pittore Teddy Millington-Drake l’hanno scoperta, hanno comprato una casa e creato un luogo idilliaco. «Cinquant’anni fa hanno acquistato un posto enorme, una delle abitazioni più belle in cui sia mai stato. È color “bianco Patmos”, distribuita su più livelli e con un che di moresco. Colorata dalle buganvillee – rosa e viola intenso – e dalle tende a strisce arancioni sulle porte… Un vero sogno». Oltre a Wes Anderson, il portfolio, come ammette Walker, evoca “La mia famiglia e altri animali”, il resoconto autobiografico del naturalista britannico Gerald Durrell sul lungo periodo trascorso a Corfù da ragazzo, negli anni 40. «Soprattutto», dice Walker, «queste immagini sono un’ode ai tempi felici». All’incontro con una famiglia speciale in un’isola speciale dove, per un momento, ti senti a casa. «Quest’estate», conclude, «penso proprio che tornerò a Patmos».
Photos by Tim Walker. Styling Melanie Buchhave
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Il venditore di banane sulla metro gialla.
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Romualdo, Tirana, 1992
Era giornata di mercato nel quartiere di Tirana dove viveva il piccolo Romualdo con la sua nonnina. Passeggiando il piccolo vide un banco di banane e ne voleva assolutamente una. Come ogni bambini dell’età di 3 anni anche Romualdo era un gran cagacazzo e così tra lacrime urla e caprici richiamava l’attenzione della nonnina.
Non potendone più e con pensieri decisamente poco affeturisti verso la figlia che le aveva mollato quella palla al piede, lo prese in disparse e indicando i caschi di banane sulla bancarella si inventò la storia di banane infette in quanto avevano tutte la punta nera. Storia stupida ma credibile per un bambino di tre anni.
Crescendo il piccolo, ora grande Romualdo ha continuato a credere a questa storia e le poche volte che si è trovato costretto a mangiare banane le decapitava. Un giorno sulla metro gialla di Milano sale con lui un venditore di banane che inizia ad urlare “Banane fresche” “big banana” così si avvicina all’uomo e con fare minaccio gli urla contro che non può vendere banane in metro sopratutto infette.
Il venditore lo guarda gli tira un destro in faccia e scende alla fermata successiva.
Cosa ha imparato Romualdo da questa storia ? A non rompere i coglioni alla gente.
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Nascidas com Brasília: senhoras e senhores, com vocês, as satélites
“Naquela época, milhares de imigrantes, muitos com suas famílias, se dirigiam ao Planalto Central em busca de empregos. A construção de acampamentos de madeira não podia mais atender à demanda”. A frase de Ernesto Silva, pioneiro que foi diretor da Companhia Urbanizadora da Nova Capital (Novacap) na época da construção de Brasília, está no livro História de Brasília e explica o surgimento das primeiras cidades-satélites.
O ano é 1958. A capital sequer tinha sido inaugurada e novos imigrantes desembarcavam aqui todos os dias. No livro Brasília Kubitschek de Oliveira, o escritor, jornalista, historiador e ex-governador do Distrito Federal Ronaldo Costa Couto relata que, em 1º de novembro de 1956, havia 232 operários em Brasília. Em fevereiro de 1957, a cidade já é um vasto canteiro de obras, com cerca de três mil candangos e mais de 200 máquinas em atividade incessante.
Os números crescem em ritmo vertiginoso. Recenseamento do IBGE mostra 12,7 mil residentes em julho de 1957, número que passa para 28,8 mil habitantes em 1958, quando foi criada Taguatinga. No início de 1959, mais 30 mil pessoas chegaram e a população total era superior a 60 mil habitantes na inauguração de Brasília.
Primeiros estabelecimentos comerciais de Taguatinga na Avenida Central em 1961. Foto: Getúlio Romão
Taguatinga foi a primeira cidade-satélite criada pela Novacap com o objetivo de proporcionar aos candangos que ajudaram a construir a capital a aquisição de um terreno para a construção da casa própria. “Taguatinga não foi uma invasão, não foi uma imprevidência”, ressalta Ernesto Silva. Inicialmente chamada de Vila Sarah Kubitschek, Taguatinga surgiu devido ao crescimento populacional da Cidade Livre, que não conseguia mais suportar a massa de imigrantes que chegavam à capital – sem ter onde morar, os recém-chegados passaram a se alojar em acampamentos ao longo da Avenida W3 e nas imediações do Núcleo Bandeirante.
Taguatinga: planejada, mas adiantada
Taguatinga foi planejada por Lucio Costa, mas deveria nascer apenas dez anos depois da inauguração de Brasília. Em junho de 1958, o traçado da cidade estava apenas em estudos, mas a pressão popular fez com que a Novacap acelerasse o assentamento das famílias na cidade-satélite.
Foto tirada nas proximidades da C3, no centro de Taguatinga, em 1964. Foto: Getúlio Romão
“Era um sábado. Cinco de junho de 1958. Juscelino estava em Brasília e fora convidado a jantar no restaurante JK, na Cidade Livre. Ao cair da tarde, soubemos que grande massa popular, que estimamos em duas mil pessoas, empunhando cartazes com dizeres como ‘Queremos ficar onde estamos’, se portava à frente do restaurante”, conta Ernesto Silva. Israel Pinheiro, então presidente da Novacap, pediu que sua equipe fosse ao local e, na ocasião, eles acalmaram os manifestantes falando sobre a criação da cidade-satélite a 25 quilômetros do Plano Piloto.
“Cumprindo o prometido, às sete horas da manhã do dia seguinte comparecemos à Vila Sarah Kubitschek e parlamentamos com os representantes da comunidade. Mostramo-lhes a planta de Taguatinga e fizemos ver a eles a vantagem de já se instalarem nos seus próprios lotes onde, mais tarde, poderiam construir a casa definitiva”, relata o então diretor na Novacap, acrescentando que a empresa pública prometeu transferir a população, dar transporte, construir os barracões, providenciar assistência médica e a construção de escolas.
Foto: Arquivo Público do DF
Você Sabia? A Avenida Samdu foi batizada por causa do Serviço de Atendimento Médico de Urgência que havia no local
No primeiro dia destinado à transferência dos moradores no local, apenas uma família foi transferida. Em dez dias, cerca de quatro mil pessoas foram alojadas em Taguatinga, que começou a crescer com a chegada do mínimo de infraestrutura: hospitais, escola, a rede de abastecimento de água (ainda que provisória), fossas sépticas, transporte diário para os trabalhadores, feito em caminhões da Novacap.
Cidade-dormitório
Seis meses após a instalação dos primeiros habitantes, Taguatinga já era uma realidade, com escolas, hospitais, casa para professoras e estabelecimentos comerciais em funcionamento. A cidade foi planejada para ser uma cidade-dormitório para apenas 25 mil pessoas e os primeiros moradores ocuparam a área onde hoje estão localizadas a QSD e a QSC do Setor Sul. “Tudo mudou depois que mudou a capital. A imprevidência e a demagogia geraram a Vila Dimas e Vila Matias, os terrenos foram distribuídos a apaniguados, praças públicas foram loteadas e os lotes foram vendidos a amigos da situação”, relata Ernesto Silva, lembrando que, em 1959, Taguatinga tinha uma população de 3.677 moradores.
Imagem aérea do balão da Avenida Central de Taguatinga em março de 1964. Foto: Getúlio Romão
“Durante muitos anos a cidade era chamada de cidade-dormitório. As pessoas trabalhavam no Plano e dormiam aqui. Mas os taguatinguenses não gostavam nem um pouco desse título, custamos a tirar esse nome”, diz o pioneiro Getúlio Romão, 74 anos, que chegou à cidade em dezembro de 1960, com o pai, José Romão Filho, aos 15 anos.
“Ele foi convencido por amigos e veio fundar uma empresa de ônibus aqui. Naquela época, todo mundo queria vir para Brasília ficar rico”, conta o profissional que se tornou uma espécie de fotógrafo oficial da cidade e tem dezenas de milhares de fotografias de Taguatinga tiradas nesses 61 anos. “Tudo de importante que aconteceu aqui foi registrado por mim. Eu fotografei tudo que cresceu, inaugurou, foi fabricado aqui”, afirma.
O pai de Getúlio não ficou rico como planejava. Um ano depois da chegada a Brasília, as vias de ligação entre as cidades foram asfaltadas e o transporte público da capital passou por licitação. A Viação Nossa Senhora Aparecida Ltda. ficou de fora da licitação e faliu, um ano depois de ser montada. “Daí meu pai montou um cine foto, que era o que ele sabia fazer. Vim de uma família de fotógrafos”, relata. Daquela época, Getúlio, que trabalhou de cobrador na empresa do pai, guarda uma recordação sobre o transporte da capital. “Os ônibus do meu pai faziam a linha Plano Piloto-Sobradinho. Como a estrada era de terra, na época de chuvas, era preciso colocar correntes nas rodas dos ônibus para eles subirem aquela estrada do Colorado”, afirma.
Getúlio Romão se tornou uma espécie de fotógrafo oficial da cidade e tem dezenas de milhares de fotografias de Taguatinga tiradas nesses 61 anos. Foto: Renato Araújo/Agência Brasília
Sobradinho, a segundinha
Sobradinho foi a segunda cidade-satélite criada para ser a moradia definitiva de trabalhadores da construção de Brasília. A cidade foi fundada em 13 de maio de 1960 para abrigar a população que vivia nos acampamentos de empreiteiras localizadas na Vila Amaury, no Bananal e nas invasões próximas à Vila Planalto, inundadas pelas águas do Lago Paranoá. E, também, os funcionários do Banco do Brasil que vieram transferidos para a nova capital.
A partir de março de 1960, cerca de 30 famílias, diariamente, eram transferidas para a cidade. No final do ano, o local contava com mais de 8 mil famílias. A ocupação das residências ocorreu de maneira ordenada, mas o plano original da cidade sofreu algumas modificações no decorrer de sua implantação com o reparcelamento de algumas quadras.
O que desejamos, porém, é que a Taguatinga, a Sobradinho, ao Gama, ao Guará, à Ceilândia e a outras cidades-satélites seja proporcionado o mesmo tratamento que ao Plano Piloto, pois, ali moram seres humanos semelhantes aos que habitam os apartamentos e os palácios de Brasília: os bravos trabalhadores que foram os grandes artífices da obra monumental Ernesto Silva
O comerciante Aristides de Almeida Barreto, 91 anos, foi levado para Sobradinho em 1961, dois anos depois de chegar em Brasília, em maio de 1959. Até então, ele morava em uma invasão nos arredores da Avenida W3 Sul. “Fui obrigado a sair de lá. O caminhão encostou para carregar nossa bagagem. Falaram que a gente tinha que ir para Taguatinga, Núcleo Bandeirante, Gama, Planaltina ou Sobradinho. Escolhi Sobradinho, minha mulher ‘arrupiou”, queria ir para Taguatinga”, conta. “Eu tinha vindo aqui passear uma vez e gostei”, justifica.
Rua em Sobradinho em 1964. Foto: Arquivo Público do DF
Antes da inauguração da capital, ele trabalhava como carpinteiro em uma construtora, mas, nas horas vagas e nos feriados, era camelô. “Desde a Bahia eu gostava de comprar e vender coisas. Montava minha banquinha onde tinha gente, principalmente na W3 e no aeroporto”, conta. Aristides saiu de Araci, município no interior da Bahia, aos 31 anos para tentar a vida na nova capital. “Juntou uma turma e veio, eu nem sabia o que era Brasília. Eu vim sem minha mulher, tinha medo de ser preso, ela não tinha nem 17 anos completos”, relembra. “Mas depois de 90 dias fui buscá-la de pau-de-arara”, completa, referindo-se à mulher, Maria Miranda Barreto, 76 anos.
Aristides de Almeida Barreto, 91 anos, e sua mulher Maria Miranda Barreto, 76 anos, em frente ao Bazar Barreto, aberto em 1962. Foto: Joel Rodrigues/Agência Brasília
Na cidade-satélite, Aristides trabalhou de pedreiro e carpinteiro até abrir, em 1962, o Bazar Barreto, que funciona até hoje. “Quando recebia uma mercadoria, ia do início ao fim da Avenida W3, de loja em loja perguntando o preço. Aí vinha aqui e botava o meu. Se eu tivesse vendendo caro o pessoal não comprava. Aí eu botava igual ou mais barato um pouquinho. Por isso que eu ganhei dinheiro, graças a Deus”, diz. A mulher, que lavava roupas para os operários na invasão, passou a ajudá-lo na loja. “Era aquele tanto de homem, e eles não sabiam pregar nem um botão”, conta Maria, que era cobiçada na época. “Eram quatro irmãs e ela era a mais bonita. Todo mundo queria namorar ela”, diz Aristides Barreto.
Gama, a terceira satélite
As terras que hoje constituem a região administrativa do Gama, a terceira cidade-satélite criada, pertenciam à Fazenda Ipê, Fazenda do Alagado, Fazenda da Suzana, Fazenda Ponte Alta e Fazenda Gama, que acabaram desapropriadas para a construção de Brasília. Em 1959, o Censo Experimental de Brasília, feito pelo IBGE, mostrou que cerca de mil pessoas residiam nessa área.
Obras no Gama em 1964. Foto: Arquivo Público do DF
A cidade foi instituída por lei em 13 de abril de 1960 e inaugurada em 12 de outubro do mesmo ano. Os primeiros moradores foram famílias de trabalhadores oriundas da construção da Barragem do Paranoá e, também, da Vila Amaury, Vila IAPI e Vila Planalto. Posteriormente, a cidade recebeu habitantes do Setor de Indústria de Taguatinga.
A ocupação iniciou-se pelo Setor Leste, quadra 21, onde se localizou o núcleo pioneiro, e depois prosseguiu nas quadras 15, 18 e 22. Em 1970, a cidade já tinha cerca de 72 mil habitantes. O Gama veio a ser instalado a 8 km da primeira edificação construída na área da nova capital: o Catetinho, a primeira residência oficial de Juscelino Kubitschek, cuja obra foi concluída em 10 dias.
E chegam Guará e Ceilândia…
O Guará foi criado em 1969 para abrigar servidores públicos que ainda eram transferidos do Rio de Janeiro, quase uma década depois na inauguração da capital e, em 1971 surgiu Ceilândia, a cidade mais populosa do DF, atualmente. Em 1969, com apenas nove anos de fundação, Brasília já tinha quase 80 mil pessoas que moravam em barracos em diferentes localidades invadidas.
Foi criada, então, a Campanha de Erradicação das Invasões (CEI), o primeiro projeto de erradicação de favelas realizado no Distrito Federal pelo governador Hélio Prates e essa população foi levada para a região ao norte de Taguatinga, nas antigas terras da Fazenda Guariroba.
Ceilândia, a cidade mais populosa do Distrito Federal, surgiu em 1971 com o primeiro projeto de erradicação de favelas realizado no DF. Foto: Museu da Memória Viva de Ceilândia
A Novacap fez a demarcação dos lotes em 97 dias, com início em outubro de 1970. Em 27 de março de 1971, um sábado, o então governador Hélio Prates lançava a pedra fundamental da nova cidade, no local onde está a famosa caixa d’água, um dos ícones ceilandenses. Naquele dia também teve início o processo de assentamento das 20 primeiras famílias da invasão do IAPI.
Pedra fundamental de Ceilândia ficava no local onde está a famosa caixa d’água. Foto: Museu da Memória Viva de Ceilândia
Em nove meses, a transferência das famílias estava concluída e as ruas abertas. Nos primeiros anos, a população carecia de água, de iluminação pública, de transporte coletivo e lutava contra a poeira, a lama e as enxurradas. Como todo início de trajetória.
VOCÊ SABIA?
Ceiândia foi batizada inspirada na sigla CEI e na palavra de origem norte-americana “landia”, que significa cidade (o sufixo inglês estava na moda na época).
A primeira vez que um ônibus fez a linha Ceilândia-Plano Piloto foi em 28 de março de 1971, um dia após a chegada da primeira família. Era um coletivo da TCB e a passagem custou 60 centavos.
Em 2 de abril de 1971, nasceu, de parto normal, o primeiro ceilandense, Clébio Danton Melo Pontes, filho de Maria Eliete de Melo Pontes e Manuel da Ponte. Clébio se chamaria Ceilândio, mas, graças à interferência de assistentes sociais, o pai do menino mudou de ideia.
E mais um pouco de história…
Na próxima quinta-feira (7/11), o terceiro e último capítulo da série Nascidas com Brasília conta a história da criação do Cruzeiro e do Lago Sul. A primeira cidade, erguida praticamente dentro do Plano Piloto. Já o Lago Sul, bem mais distante, quase não saiu do papel e só se consolidou após a construção das pontes, que o aproximaram de Brasília. Confira.
Nascidas com Brasília: senhoras e senhores, com vocês, as satélites publicado primeiro em https://www.agenciabrasilia.df.gov.br
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Letture sotto l’ombrellone 2018
Come ogni estate ecco i consigli degli amici di Caricaidee su come allungare le vacanze a tutti i bambini SCUOLA DELL’INFANZIA:
“La gara delle coccinelle”, di Amy Nielander, Edizione Terre di Mezzo Storia senza parole che racconta per immagini una gara di velocità tra coccinelle. l’importanza di non seguire ciò che fanno gli altri ma di riflettere. Chi vincerà la gara? La più veloce, direte voi. O forse la più furba. Ma nel mondo delle coccinelle le cose non sono così scontate…
“Nel paese delle pulcette“ di Beatrice Alemagna, Edizione Phaidon È il compleanno di pulcetta grassa e per l’occasione decide di invitare tutte le pulcette che abitano nel materasso, visto che non si sono mai incontrate prima. Tutte accettano volentieri, ma che sorpresa quando si scoprono una diversa dall’altra! Una favola divertente sulla differenza e la tolleranza. SCUOLA PRIMARIA:
“Baobabà“ di Satomi Ichikawa, Edzone Babalibri E’ una storia scritta da una giapponese, Satomi Ichikawa, che negli anni ’70 arriva a Parigi e decide di restarci, senza sapere una parola di francese. Diventa scrittrice e illustratrice di libri per l’infanzia. In questo libro, racconta la storia di Paa, un bambino che vive in un villaggio dell’Africa. Il suo nome significa “gazzella”, perché corre molto veloce. Il compito di Paa è di andare al mercato a vendere le banane per realizzare qualche soldo. Ma un giorno, Paa, sul suo cammino fa un incontro singolare.
“Lian” di Chen Jiang Hong, Edizione Babalibri E’ una storia magica, con tutto il sapore della tradizione e con una morale semplice, ma importante. E’ un albo da sfogliare e risfogliare: le illustrazioni sono dei piccoli dipinti, realizzate con la tecnica dell’inchiostro e del colore su seta, tecniche pittoriche tradizionali della cultura artistica cinese. MEDIE:
“Leggere è un’avventura” di Massimo Birattari , Edizione Feltrinelli L’isola dei famosi, a misura ragazzo. Ma questa volta chi ha letto molti romanzi sa come trovare le soluzioni per sopravvivere…
“Chiedimi chi sono” di Anna Lavatelli e Anna Vivarelli, Edizione San Paolo Un romanzo che narra la storia di un lungo e avventuroso viaggio in carrozza attraverso l’Italia del Settecento. A compierlo sono due giovani, il paggio Dionigi e il contino Filiberto, scortati da un seguito di accompagnatori. Con la spensieratezza e l’entusiasmo dell’età, i due giovani si immergono nell’avventura, mettendo alla prova il proprio carattere e misurandosi con le contraddizioni di una società in crisi. e per i genitori
“Mio fratello rincorre i dinosauri” di Giacomo Mazzariol, Edizione Einaudi L’autore è nato nel 1997 a Castelfranco Veneto, dove vive con la sua famiglia. Il 21 marzo 2015 ha caricato su youtube un video “The simple interview” girato insieme a suo fratello Giovanni, che ne è il protagonista. Giovanni ha la sindrome di Down. Il video ha avuto moltissime visualizzazioni e il passo successivo è stato questo libro. E’ il racconto di come Giacomo ha imparato ad accettare e conoscere suo fratello, entrando nel suo mondo, lasciandosi positivamente travolgere e contagiare dalla sua vitalità.
“L’arte di correre” di Haruki Murakami, Edizione Einaudi E’ il libro autobiografico di uno scrittore-maratoneta. Per Murakami il correre e lo scrivere condividono la capacità di mantenere a lungo un ritmo costante, la forza di superare i momenti di difficoltà e l’abilità di finalizzare i chilometri percorsi ogni giorno, così come le righe scritte, a un progetto a lungo termine. In entrambe queste attività il segreto, sostiene Murakami, è la capacità di mantenere costante la motivazione intrinseca, una spinta interiore non legata ai risultati ottenuti ma al senso di soddisfazione per il lavoro fatto. Le sue riflessioni sulla corsa e sulla scrittura diventano un modo per una riflessione più ampia sul talento, sulla creatività, sui limiti e i nuovi orizzonti della condizione umana.
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8. Marts
Jeg vågnede op til en national strejke i den offentlige transport. Men solen skinnede, og jeg besluttede mig for at købe en cappuccino og gå de 4 kilometer, jeg har fra mit hus til lejren.
Jeg kom senere frem end planlagt, hvilket betød, at de frivillige som havde delt morgenmad ud, var taget afsted, da jeg kom. Jeg hilser på et par velkendte ansigter, men kan ikke spotte nogen af mine faste kilder, hverken Ibrahim, Zakarias eller Issa, som jeg mødte i lørdags. Der står et par kasser med æbler stablet ved indgangen, som tiltrækker lejerens immigranter. Jeg før øjenkontakt med en ung mand, der sidder inde i hovedteltet, og beslutter mig for at gå hen og hilse på ham.
Han hedder Jackie og er fra Etiopien. Han har kun været i lejren i en månedstid, og det er hans første møde med Europa, efter at være sluppet igennem modtagelsesprocessen på Sicilien. Han fortæller om sin tur med båd fra Libyen til Europa, 19 kolde, våde timer uden redningsvest, i november, kun iført t-shirt. Han spørger om jeg ryger, og jeg siger, at det gør jeg ikke - og fortæller at jeg løber meget, så jeg prøver ikke at ryge. Så lyser han op, og fortæller at han plejede at løbetræne i Ethiopien og drømte om at løbe atletikstævner. Men så blev situationen usikker i hans landsby, han var nødt til at flygte til Sudan, og der kunne han ikke løbetræne, men begyndte at ryge og drikke alkohol. Vi joker med, at når han får lov til at komme videre fra Italien, så kan vi løbetræne, stille op til et marathon og se hvem der er hurtigst.
Jeg forklarer hvem jeg er, og hvad jeg gerne vil med projektet.
Vi er alene i teltet, indtil en af lejrens afrikanske beboere kommer ind og sætter sig på en bænk over for os. Jeg er optaget af snakken med Jackie, så det tager noget tid, før det går op for mig, at noget er galt. Manden ridser mere og mere aggressivt med hvad der ligner et stykke plastik, eller en plastikkniv, i sin håndflade, indtil det bløder. Jackie forsøger at få ham til at holde op. Manden går hen og fører apatisk sin blodige håndflade frem og tilbage over teltdugen. Så tager han en betonblok og kaster ned i jorden, så den går i adskillige stykker. Han virker ustabil og vred. Han sparker til et bord, så det vælter. Bøjer sig ned og samler en flaske op. Vender sig mod os og bevæger sig målrettet i vores retning. Jeg ser spørgende og en smule panisk på Jackie og forsøger at aflæse hans reaktion. Jeg overvejer hvilke muligheder jeg har for at nå udgangen af teltet. De er ikke særlig gode. Jeg overvejer om Jackie vil forsvare mig - det virker sådan, men jeg er i tvivl om, hvorvidt han kan lykkes med det, hvis det er mig, manden går efter. “Don’t worry about him, it’s okay,” siger Jackie stille og opfordrer mig til ikke at kigge på ham. Jeg spørger, om det ikke er bedst, hvis vi går ud af teltet. Men det mener han ikke er en god idé lige nu. Jeg er i tvivl om manden bliver vredere hvis jeg kigger væk eller kigger på ham. Så jeg kigger på Jackie. Manden stopper op, kigger mig i øjnene. Så går han forbi mig, ud af teltet og smadrer flasken på jorden.
Nu griber en gruppe af lejerens beboere ind, og får ham til at falde ned. Senere fortæller Elias, fra Marokko, at manden var helt normal, da han ankom til lejren, men efter at have boet der et par uger, slog det klik for ham. Jeg holder øje med ham resten af dagen, og han befinder sig i hvad der virker som en blanding af konstant psykose og tvanghandlinger.
Han bliver ved med at cirkulere rundt i teltet, og da han er i den fjerneste ende, foreslår Jackie, at vi går ud af teltet. Jeg synes, det er en mægtig god idé og ånder lettet op, da vi går over til hans venner, som er fra Eritrea. Jackie er lejrens eneste etiopier.
Jeg hilser på Johannes, som er “lederen” af eritreanerne. Vi snakker om kristendom - de er orthodokse. Jackie bliver stresset af lejrens arabiske beboere. De ryger hash og kommer op og toppes hver aften, fortæller han. For et par dage siden, væltede de ned oven i hans telt, mens han sov. Jackie vil gerne til Frankrig, der er hans forældre og hans søster. Men han har ikke penge til en togbillet. Han ved ikke hvad han skal gøre. Han slår ud med armene og begynder at blive ophidset. Hvad skal han gøre? Hvordan skal han komme til Frankrig? Han kan prøve at snige sig på tog uden at betale. Hans familie har ikke mulighed for at sende ham penge - hvad skal han gøre? Jeg ved det ikke, siger jeg.
Johannes to brødre og far døde i krigen i Eritrea for 12 år siden. Nu er kun hans mor tilbage - hun er stadig i Eritrea. Ingen af dem vil have deres ansigt på billeder. Jackie vil måske godt, i morgen, hvis jeg har cigaretter med. Johannes bliver sur, og siger, at det er korruption. Jeg overtaler dem til at lade mig fotografere dem, med ansigtet skjult. Så stiller de sig op med knyttede næver krydset foran ansigtet. Tag et billede af det her, råber de. Jeg spørger, om det betyder noget særligt, det de gør med hænderne. De fortæller at det er et meget stærkt symbol i Afrika, at det betyder fængsel, eller at blive holdt som fange.
De bliver frustrerede af at tale om deres situation, og jeg beslutter mig for at give dem lidt ro, og vil gå hen for at fotografere blodet på teltdugen fra episoden tidligere.
På vej mod teltet vinker Karim mig over til sig. Han sidder sammen med gruppen af marokkanere og tunesere. De synes, det er okay at jeg fotograferer. Jeg sætter mig ned hos dem. De er ved at varme mælk op, over et olietønde-bål. Den varme mælk blander de med enorme mængder supper, og jeg bliver budt en kop, som jeg pligtskyldigt nipper til. Karim er en slags leder i lejren - jeg har snakket med ham før, og vist ham en lille arabiske tekst min veninde Amalie, der er sprogofficer, har oversat for mig. Der står, hvem jeg er, og hvorfor jeg fotograferer.
En af lejrens frivillige har også introduceret mig for ham, og fortalt mig, at hvis der opstår problemer, så er det ham, jeg skal hive fat i. Det er hyggeligt at sidde omkring the-selskabet. Dem, der ikke vil fotograferes, flytter hen foran et andet telt.
Elias fra Marokko er den eneste, der kan engelsk, så han oversætter mellem arabisk og engelsk. Tarik fra Tunesien viser mig sine tatoveringer, flere af dem, har fået tatoveret en hilsen til deres mor. De begynder at sammenligne tatoveringer, og jeg viser også min beskedne G-nøgle, resultatet af en dum beslutning i 3.G. Jeg er inde i varmen.
“Mor”
En ung frivillig kommer hen og hilser på. Hun hedder Julia og det er kun hendes 3. dag som frivillig i lejren. Hun virker lidt fortabt, og siger, at hun ikke ved, hvem der leder lejren, eller er blevet introduceret til noget, og spørger mig til råds. Jeg må skuffe hende med, at jeg bare er fotograf og ikke ved noget om organiseringen. Hun sætter sig ved os, og taler med drengene, indtil nogle af de lokale ildsjæle dukker op med frokosten.
Uden for madteltet møder jeg Issa. Jeg bliver rigtig glad for at se ham, jeg har ikke kunnet finde ham efter jeg mødte ham den første dag i lejren. Issa har boet i Norge i 9 år (arbejdet sort), og taler flydende norsk.
Vi kommunikerer på norsk/dansk. Han er endt i lejren, fordi han blev taget ved den danske grænse og sendt tilbage til Italien. Det er uklart, præcis hvorfor han befandt sig ved den danske grænse - altså hvorfor han havde været uden for Norge. Men han blev sendt til Ellebæk. Jeg sidder her til aften, oven på det Issa fortalte om Ellebak, og er en smule chokeret. Det er et lukket fængsel under kriminalforsorgen, som bruges til frihedsberøvede asylansøgere. Hvorfor han er endt i Ellebæk, har han svært ved at forklare.Men han viser en lønseddel fra Ellebæk, hvor han arbejdede i køkkenet for 384 kroner om ugen (37 timer).
Syret.
Ifølge Issa, arbejdede han i køkkenet i to uger (som indsat) og så blev han sendt 15 dage i isolationscelle, fordi han gav ekstra mad ud. Nu er han taget til Italien, for at tage tilbage til Irak. Last Stop Italy, siger han. Alt er bedre end Ellebæk, fortæller han oprevet, og lader mig fotografere lønseddelen mod at jeg lover at strege CPR-nummeret over. Han lader mig også fotografere ham, ude af fokus, så man ikke kan genkende ham.
Jeg får øje på Paolo, den ældre pensionist, og spørger ham, hvad hans rolle er. Han er altmuligmand forklarer han. Ligesom navnet på en James Bond film. Jeg spørger, hvad han skulle bruge Ibrahims nummer til, og han fortæller, at de skal bygge indgangen til lejren om i morgen, så det er nemmere at komme ind med vand til lejren. Jeg siger, jeg gerne vil fotografere det. Det synes han er fint, og fortæller mig at de går i gang efter frokosten i morgen.
Med en aftale på plads dagen efter, beslutter jeg mig for at tage hjem sammen med de frivillige.
Klokken er 15:30 og jeg har ikke fået andet mad, end den banan jeg spiste i morges, og så min cappucino. Jeg går de 4 kilometer hjem, så handler jeg ind, og laver mit første hjemmelavede måltid, siden jeg ankom til Rom. Det er som om, det først er i dag, jeg er faldet ordentligt til.
Da jeg overførte billederne til computeren, og gik dem igennem, for at se om alt var okay, dukkede billedet af den blodige teltdug op. For andre ligner det måske bare, at nogle har malet med orange farvekridt, men for mig var det en mavepuster.
Det var som om, morgenens begivenheder først ramte i det øjeblik. Der havde været for mange mennesker, skæbner og historier at forholde mig til, jeg havde ikke haft mulighed for at forstå, hvad der egentligt var foregået, før nu. Manden havde skåret sin håndflade op i ren og skær frustration. Apati. Nogle i lejren lever som var det et gratis, godt nok lavsi, hostel, et midlertidig stop på deres rejse til det rigtige Europa, men andre, som Jackie, og som den nu psykisk syge mand, er de fanget. De aner ikke, hvordan de skal komme videre. I et stressende miljø hvor det flyder med skrald, lort og marijuana, uden struktur, men i stedet daglige skænderier, slagsmål og konstant uro.
Jeg tror ikke, han ville have knust flasken i mit hovede. Men jeg tror oprigtigt, han overvejede det.
Jeg besluttede at det ikke var godt for mig, at sidde derhjemme og søbe rundt i det. Så nu sidder jeg på en ganske livlig bar, med en kold øl og har skrevet dagens begivenheder ned. Nu går hjemturen måske forbi Simones pizza, og så kan jeg få en småkage fra kagedåsen vi har, hvor jeg bor, inden sengetid. Jeg tænker på mine venner i lejren, som hverken har øl, pizza, småkager eller en rigtig seng - og tænker jeg burde have en dårlig samvittighed over at have det rart, men beslutter mig for at sætte pris på det i stedet.
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MARGINALIA Uma das primeras musicas brasileiras que consegui cantar, ha muito tempo, Torquato Neto e Gil
Eu brasileiro confesso Moi, brésilien, je confesse
Minha culpa, meu pecado, Ma faute et mon péché
Meu sonho desesperado, Mon rêve désespéré
Meu bem guardado segredo, Mon secret bien gardé
Minha aflição Ma souffrance
Eu brasileiro confesso Moi, brésilien, confesse
Minha culpa, meu degredo, Ma faute, mon exil
Pão seco de cada dia Pain sec au quotidien
Tropical melancolia Tropicale mélancolie
Negra solidão Noire solitude
Aqui e o fim do mundo Ici, c’est le bout du monde,
Aqui e o fim do mundo Ici, c’est le bout du monde,
Aqui e o fim do mundo Ici, c’est le bout du monde,
Aqui no terceiro mundo Ici, dans le Tiers-Monde,
Pede a benção e vai dormir Demande la bénédiction et va dormir
Entre as cascas das palmeiras entre les troncs des palmiers,
Araças e bananeiras Des goyaviers et bananiers
Ao canto da juriti Au chant de la juriti
Aqui meu pànico e gloria Ici, ma panique et ma gloire,
Aqui meu laço e cadeia Ici ma chaîne et ma prison
Conheço bem minha historia Je connais bien mon histoire,
Começa na lua cheia Elle commence à la pleine lune
E termina antes do fim Et se termine avant la fin.
Aqui e o fim do mundo Ici, c’est le bout du monde,
Aqui e o fim do mundo Ici, c’est le bout du monde,
Aqui e o fim do mundo Ici, c’est le bout du monde,
Minha terra tem palmeiras Sur ma terre il y a des palmiers
Onde sopra o vento forte Où souffle le vent trop fort
Da fome, do mêdo e muinto De la faim, de la peur et plus
Principalmente da morte Principalement de la mort
Oié lé là là
A bomba explode là fora La bombe explose là-bas loin
Agora o que vou temer C’est de ça que je vais avoir peur maintenant
Oh yes, nos temos bananas Oh yes, nous avons des bananes,
Atè pra dar e vender A en donner comme à en vendre
Oié lé là là
Aqui e o fim do mundo Ici, c’est le bout du monde,
Aqui e o fim do mundo Ici, c’est le bout du monde,
Aqui e o fim do mundo Ici, c’est le bout du monde,
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8 MESES MOZÃO!!! 😍❤ São 2h da manhã, eu acabei de fazer minhas rabanadas pra vender agora, então, eu acho q vc sabe o quanto é importante pra mim e sabe também o quanto eu te amo né? E independente do que aconteça no futuro, eu quero que saiba que você me faz bem como ninguém nunca me fez! Estar contigo me faz bem; Mesmo que seja só te olhando, mesmo que estejamos calados, até mesmo qnd estamos longe um do outro; E foi esse bem estar, essa paz, q eu procurei por anos e finalmente o encontrei com você. Mas eu tbm espero estar, te fazendo tao bem, assim como você me faz, pois a sua felicidade sempre será a minha felicidade. Bom mozão, nesses "SÓ" 8 meses, superamos brigas, desentendimentos, obstáculos e uma penca de outras coisas né? E ainda assim meu amor, estamos aqui, felizes por estarmos juntos, felizes por estar completando mais um mês juntos! ❤ Entenda meu anjo, eu amo vc nos mínimos detalhes... Seus gestos, seu sorriso, sua voz, seu cheiro, TUDO!!! E eu tenho TANTO orgulho de vc, do que você é e se tornou, que não tem como explicar! 😍 Tem 8 meses q vc, involuntariamente, me ensinou inúmeras coisas, que nem eu lembro de tudo... Com vc eu cresci, amadureci e entendi pq te ter ao meu lado foi e é a coisa mais extraordinária que já me aconteceu em toda vida! Aprendi com vc tbm, que devemos estar sempre atentos para os obstáculos da vida! E que com amor... com o NOSSO amor, conseguimos superar tudo e todos! Enfim meu soldadinho... para muitos 8 meses é pouco, para outros é muito, mais para mim, estando ao seu lado, não importa se é muito ou pouco, se foi fácil ou difícil, se demorou ou passou rápido... Nada disso me importa qnd é VC, que eu tenho ao meu lado sempre e para sempre, eternamente! 🙏 hahaha Obrigada por existir e me deixar fazer parte da sua vida 🙌 E só pra finalizar... MEU AMOR, saiba que eu te amo hoje, te amei ontem e vou te amar PARA SEMPRE (e sempre eternamente KKKK) 💘 Feliz 8 meses pra gente, meu príncipe!!! (at Enseada Do Bananal - Itacoatiara)
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