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UDIENZA DA PAPA GIOVANNI PAOLO II
UDIENZA DA PAPA GIOVANNI PAOLO II
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Eppure, mentre scrivo, ricordo il
vento del deserto che frusta le acque verdi; il cielo rivestito da una lamina di
azzurro violento; le donne enormi che dondolano per la città nei boubous di cotone indaco chiaro; le imposte delle case dello stesso
azzurro violento contro i muri grigio fango; gli uccelli del paradiso arancioni che
tessono i loro nidi a cestello nelle acacie piumose; i lustri giardinieri neri che
schizzano acqua dagli otri, amorosamente, su filari di cipolle verdazzurre; i magri,
aristocratici tuareg, d’aspetto soprannaturale, con scudi di pelle colorata e lance
lucenti, le facce incorniciate in veli indaco che come carta carbone tingono la
pelle di un blu temporalesco; i mori selvaggi con i riccioli a cavatappo; le
fanciulle dai seni sodi, fanciulle bela della vecchia casta schiava, nude fino alla
vita, che pestano nei mortai segnando il tempo con un canto monotono; e le
monumentali dame songhai con grandi orecchini a canestro, simili a quelli portati
dalla regina di Ur più di quattromila anni fa.
-Anatomia dell’irrequietezza- Bruce Chatwin
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Moshtari Hilal
Moshtari Hilal, artista visiva e scrittrice che opera tra Berlino e Amburgo, nella sua ricerca riflette sulla molteplicità delle culture e dell’identità collettiva, sfidando i concetti di bellezza tradizionale e gli stereotipi mediorientali.
La sua pratica artistica è una riconciliazione con la vergogna e la bellezza negata, per comprendere e criticare il potere e le continuità coloniali nella cultura visiva.
Utilizzando soprattutto disegno analogico e collage su foto, mette in discussione pregiudizi culturali e ideali estetici, raffigurando donne con peli sul viso e uomini che indossano veli, aprendo percorsi di riflessione e dibattito.
Partendo da autoritratti e immagini dall’archivio di famiglia, che utilizza in maniera eclettica, tratta motivi ricorrenti, come il naso prominente, i capelli neri, la figura della madre e i ricordi d’infanzia.
È cofondatrice del collettivo Afghan visual arts and history e del progetto di ricerca Curating Through Conflict with Care.
Nata a Kabul nel 1993, a due anni è emigrata in Germania assieme alla sua famiglia in fuga dall’Afghanistan.
Ha studiato Scienze Islamiche ad Amburgo, Berlino e Londra specializzandosi su Studi decoloniali e di genere.
Nel 2022, ha pubblicato, insieme al geografo politico Sinthujan Varatharajah, il libro English in Berlin – Exclusions in a Cosmopolitan Society che ha ricevuto il premio di sostegno per la critica dall’Accademia Lessing Wolfenbüttel.
Nel suo saggio Bruttezza che ha vinto il prestigioso Hamburg Literature Prize 2023, avvalendosi della forma scritta, ma anche attraverso disegni, fotografie e stranianti autoritratti, indaga sugli aspetti sociali e politici delle categorie estetiche.
Sostiene che la bruttezza, così come la razza, non esista sul piano della realtà, ma sia una categoria politico-economica utile a veicolare l’odio nei confronti di corpi e identità non conformi, da cui il capitalismo non riesce a produrre immediatamente valore e di cui deve quindi giustificare l’esclusione – in ultima istanza, la disumanizzazione – per renderne possibile lo sfruttamento.
Il fondamento teorico da cui parte non è tanto la ricerca di parole e termini nuovi per definire il bello o il brutto, quanto la radicale messa in discussione delle cause della bruttezza, quindi della società che la produce come categoria, oggi come ieri.
Ispirandosi a pensatori come Frantz Fanon e attingendo al femminismo nero e ai Disability Studies, infrange ogni stereotipo e chiarisce quanto persino un senso come la vista, all’apparenza “naturale”, sia costruito ed educato da standard che rafforzano rigide gerarchie sociali.
Unendo pensiero teorico a pagine più intime, liriche e familiari, conduce in un viaggio attraverso la vergogna e le paure che non siamo consapevoli di aver introiettato.
Tornata in Afghanistan una sola volta, per trovare i familiari rimasti lì, sogna di riuscire a crearci uno spazio culturale assieme al collettivo artistico Avah di cui fa parte.
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La tana che viveva nella follia
Alla sua casa arrivava tutto e tutto si fermava: l’odore aspro del Riachuelo, le grida dei ragazzi, la domenica, dalla Bombonera e la follia del quartiere. La sua casa erano anni che sembrava essere sul punto di crollare, però continuava come una ferita aperta eppure salda, in quell’angolo dove a volte alcuni -colpevoli o innocenti non aveva la minima importanza- restavano catturati. La "tana" aveva un’età imprecisa e memorie vive della sua bellezza. Qualcosa di lei, negli occhi e nel gesto con cui s’affacciava alla finestra, diventava indimenticabile. Però il suo nome, questo sì, se l’erano scordato, elemento innecessario, ridondante che non avrebbe potuto aprire nessuna porta. Lei apriva la sua porta e neppure chiedeva agli altri il loro nome. Uno poteva restare sotto il suo sguardo in un lungo silenzio, senza perdere il suo sorriso, senza provocare domande o pretendere significato. Gli altri, quelli che accompagnavano, aspettavano fuori. Non sapevano, mai seppero quello che accadeva dentro, si fermavano sul marciapiede fumando sigarette scadenti, facendo scommesse, parlando della disgrazia, di quello che non meritavano, di quello che si era andato spezzando nel corso del tempo. L’unica attitudine che non si permettevano era l’impazienza. Potevano giocare a carte per ore o amoreggiare o contare le barche nel porto, riconoscere come il vento nascondeva nelle fessure delle pareti i suoi racconti salati, potevano restare tutta la notte senza mangiare né sedersi, camminando, ridendo tra loro, riscuotendo il calore di una lacrima respinta, potevano rimanere uniti e coltivare inopportune solitudini. La follia se n’era restata dentro, loro l’accompagnavano soltanto, le mostravano la casa d’angolo e giocavano con il tempo. Così la "tana" era diventata nel quartiere un mistero condiviso. Nessuno si ricordava della prima volta. Molti anni prima lei cuciva vestiti per fuori, aveva un innamorato con occhi azzurri e i suoi genitori ancora vivi, odorava di pulito e di mandarino e sul suo corpo mediterraneo, quando si muoveva per le strade del quartiere, si fissavano gli sguardi degli uomini. Tutto cominciò di colpo; ogni vicino può raccontare la sua storia, ripetere circostanze, evocare fantasmi. È certo che ci fu un primo, però si perse il racconto tra i molti che seguirono. La "tana" smise di cucire, lasciò il suo innamorato o lui la lasciò, questo non lo sa nessuno, lasciò che la morte serena dei suoi genitori la collocasse in quel luogo di veglie, di richieste disperate e di pericolosa pienezza che le veniva dal suo inspiegabile e imprevisto potere. Le avevano portato bambini che erano impazziti in un pomeriggio di giochi, che non riconoscevano i propri genitori vedendoli alla fine del giorno, le avevano portato donne dai seni morbidi e anima dura, che lasciavano il loro sangue scorrere lungo le gambe e si coprivano il viso con veli rotti e polverosi tirati fuori da vecchie casse, le avevano portato ragazzi di commovente bellezza che erano impazziti per amore o dietro un sogno perduto e uomini senza aver vissuto o affogati nelle loro vite, e vecchi che avevano smesso di ascoltare e di parlare, schiacciati dal peso dei loro stessi ricordi e molti altri, altri che già non conservavano traccia se non nel suo cuore, nelle sue mani ferme e amorose che non vestivano più corpi, però cucivano anime dentro pelli crocifisse. Como lo facesse, lei sola, in una casa abbastanza umile, lei senza studi, senza magia, semplicemente con le parole che le uscivano di bocca, sconosciute fino a un momento prima anche a lei, con il gesto con il quale rinchiudeva nelle sue mani il tremito dell’altro e lo sguardo dei suoi occhi neri che cercavano l’altro tra sguardi perduti, come lo facesse, nessuno voleva saperlo. Per tutti, quello che importava era che chi usciva da quella casa d’angolo lasciava dentro la sua follia, ritornava ad essere riconoscibile, quello che era prima che qualcosa di estraneo, di terrificante gli accadesse. Quando la "tana" camminava per il quartiere i suoi beneficiati ne cercavano l’attenzione con volti luminosi; ancora una volta lei percepiva le loro storie e i loro segreti. Quelli che la ringraziavano erano gli altri, quelli che accompagnavano, quelli che provavano a farle regali che lei non accettava. A lei era sufficiente la luce che i suoi pazzi le permettevano di condividere. Così un giorno, scendendo dalla sua nave, in un’ora di riposo, seduto in un baretto, parlando, bevendo e raccontando di viaggi a compagni improvvisati, un giovane marinaio spagnolo vide la donna attraversare la strada, avvolta nel chiarore che i visi di molti bambini e donne e uomini proiettavano su di lei. Mai aveva visto niente di simile, si guardò intorno per ritrovare anche negli altri la sua stessa sorpresa, però nessuno sembrava vedere quello che lui vedeva. Allora smise di parlare di viaggi e cominciò a fare domande su di lei, la sua età, il suo nome, chi era, quello che stava accadendo lì. I vicini lo guardavano senza sapere come fermare la sua curiosità, non erano disposti a raccontargli nulla, dopo tutto era uno di fuori, simpatico, bravo ragazzo, però sempre di fuori. Cercarono di farlo tornare alle sue avventure, gli offrirono birra, lo accompagnarono per Caminito mostrandogli tra lamiere e colori come si può dipingere il dramma della vita, però non poterono tirarlo fuori dalla sua persistente ossessione. Alla fine, quasi all’alba, vinti dalle sue domande ostinate, gli raccontarono la storia, o per meglio dire, quello che sapevano della stessa. Il giorno dopo il marinaio bussò alla porta d’angolo. La donna aprì la finestra e lo guardò. Nessuno lo accompagnava, nessuno voleva cambiarlo. Del tutto solo sul marciapiede deserto il ragazzo le disse: “Mi hanno raccontato che lei cura i pazzi. Ne ho bisogno” e già spingeva la porta con le sue braccia forti. La donna scese ad aprirgli, lo lasciò entrare nell’ombra. “Questo non sarà un gioco” mormorò. Il marinaio si ricordò di luoghi lontani e di lune rosse nel cielo. Sentì qualcosa nelle sue ginocchia e nel suo petto, però lei già gli aveva preso il viso tra le sue mani. Il marinaio spagnolo, si raccontava, fu l’unico uomo sano che, uscendo dalla casa di quella donna, si portò con sé intatta e assoluta la sua follia. Foto di copertina generata con Copilot per Cinque Colonne Magazine Read the full article
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Quando Mah Gul è stata decapitata La maggior parte di noi non saprà mai chi era Mah Gul, oppure si dimenticherà molto presto di lei. Mah Gul era una giovane donna di 20 anni e viveva a Herat, in Afghanistan. È stata decapitata dalla famiglia di suo marito, nell��ottobre del 2012, per aver rifiutato di prostituirsi. Il mondo non ha tremato. Quando Mah Gul è stata decapitata, nessuno ha acceso una candela. Nessuno ha pregato per lei. Nessuno le ha scattato una foto. Nessuna città ha esposto manifesti con sopra il suo nome e la sua foto. Nessuno ha raccontato la storia della sua vita, i suoi sogni, la sua felicità, la sua tristezza, il suo sorriso o il modo in cui osservava il mondo. Quando Mah Gul è stata decapitata, nessuno ha elogiato la sua integrità, il suo coraggio, la sua moralità. Quando Mah Gul è stata decapitata, i miei amici di Facebook scrivevano dei loro cibi preferiti o delle loro difficoltà quotidiane. Quando Mah Gul è stata decapitata, gli spensierati ragazzi afghani definivano una giovane donna come una puttana. Quando Mah Gul è stata decapitata, i Taliban usavano le donne come copertura per portare i loro feriti agli ospedali. Quando Mah Gul è stata decapitata, gli stanchi poliziotti afghani fumavano in cima alla collina Maranjan. Quando Mah Gul è stata decapitata, un poeta descriveva il sapore che avevano le labbra della sua amata. Quando Mah Gul è stata decapitata, i reportage parlavano del dibattito presidenziale in America. Quando Mah Gul è stata decapitata, un soldato in Afghanistan scriveva una lettera a suo figlio. Quando Mah Gul è stata decapitata, gli insegnanti afghani ricopiavano per l’ennesima volta una storia noiosa e distorta sulle lavagne. Quando Mah Gul è stata decapitata, una prostituta di Kabul era appoggiata a un muro freddo, piangendo dalla fame. Quando Mah Gul è stata decapitata, le emittenti televisive afghane trasmettevano le soap opera indiane. Quando Mah Gul è stata decapitata, il nostro vicino stava picchiando di nuovo sua moglie. Quando Mah Gul è stata decapitata, le donne di Herat stendevano le camicie ad asciugare, sperando di sentirsi un giorno libere. Quando Mah Gul è stata decapitata, le donne americane facevano yoga per alleviare lo stress. Quando Mah Gul è stata decapitata, un intellettuale afghano commentava il fatto che oggi le donne indossano veli più piccoli, e un mullah locale predicava di come il lavoro alle donne promuove la prostituzione. Quando Mah Gul è stata decapitata, Angelina Jolie non lo sapeva. Quando Mah Gul è stata decapitata, le nostre allieve non hanno indossato veli neri in segno di lutto. Quando Mah Gul è stata decapitata, il presidente era molto impegnato. Quando Mah Gul è stata decapitata, il mondo non ha tremato. In ogni parte del pianeta, le persone continuano la catena di montaggio delle loro vite. Quando Mah Gul è stata decapitata, sua madre ha sorriso, perché sua figlia era finalmente libera. di Noorjahan Akbar
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TORTE DAL PASTICCERIE SICILIANE
Era stata una giornata di merda, di quelle che quando arriva sera speri che non vi sia più un domani, che un meteorite investa la terra o che uno dei tanti pazzi che guidavano una nazione con bombe atomiche, decidesse di premere qualche bottone, così per vedere che effetto faceva e incominciasse a mandare testate nucleari a destra e a sinistra, fino a coprire il mondo di fuoco e di cenere, felice di aver creato la sua apocalisse personale con cui passare alla storia ,anche se questa finiva con lui. Invece al solito non succedeva un cazzo se non che lui rientrando a casa rivedeva, una dopo l’altra, tutte le figure di merda che aveva fatto e tutti gli sbagli che aveva ripetuto uguali a ieri e al giorno prima. Decise di tirarsi su ed entrò nella prima pasticceria che trovò per strada ed ordinò una torta. “quale torta? – fece la commessa sorridente e professionale – una torta per il compleanno, una per una visita, per una festa, per un incontro….” “Una torta” rispose lui seccato. “Una sette veli, con sette strati di cioccolato? Una cassata semplice? una tradizionale? Una moderna? una personalizzata?....” “una torta….normale” ripeté lui cosciente che stava ancora una volta finendo per fare un'altra figura di merda “La scelga, dietro di lei nella vetrina” disse infine la commessa rassegnata Lui si voltò e tirando un sospiro di sollievo, guardò la vetrina. Il primo ed il secondo livello della vetrina erano piene delle solite torte, principalmente cassate e sette veli. C’era qualche Red Velvet e quindi qualcuna di compleanno. Poi la vide. Era li, seduta su una torta, i capelli neri, le gambe di un colore perlaceo scoperte. Spostò lo sguardo da un'altra parte sfuggendo al suo, poi però tornò lentamente a guardarla e si fissarono negli occhi. La trovava bellissima, con i suoi occhioni grandi e le rose accanto al volto. Riassumeva con semplicità la bellezza delle donne, quella che non invecchia, appassendo tra accidia e cattiveria. “Prendo questa” disse alla commessa deciso e lei lo accontentò servendolo velocemente perché l’orario di chiusura si avvicinava. Camminò velocemente verso casa, con lo scatola della torta in evidenza, attento a non fargli prendere scosse pericolose che potessero farle del male. A casa liberò il tavolo dal solito casino che lasciava quando usciva di casa e si preparò due uova al tegamino tagliando velocemente delle fette di salame. Aprì lo scatolo e mise la torta dal lato opposto della tavola, così potevano guardarsi. Mangiò lentamente osservandola. Ad un certo punto incominciò a parlarle dicendole che lei era fortunata ad essere fatta di pasta di mandorle e a non poter provare niente se non la serenità di essere. Non aveva un capo testa di cazzo come il suo ed un fratello che gli rompeva i coglioni per i problemi che avevano nella casa dei genitori che era di proprietà comune. Si servì due dita di whisky e si mise sul divano portando la torta e appoggiandola nel posto accanto al suo. Mentre guardava la televisione le raccontava la storia del film che vedevano e quando il protagonista incontra una ragazza, le disse che era simile a quella rompicoglioni della sua ex e le raccontò come era finita male chiedendole un giudizio su quanto gli era successo. Lei lo guardava con i suoi occhioni e non parlava. Lui capì che gli stava dando ragione con quel suo silenzio assoluto e la cosa lo fece sentire felice. Penso che alla fine lei lo capiva più di quei tanti che parlavano e si scaccolavano e che erano vivi solo perchè ci voleva sempre un po' di rumore di sottofondo per far passare il tempo. Lei però era superiore a tutto questo, perché lei era bellissima e le persone belle donano sempre una parte della bellezza che hanno anche semplicemente sorridendo. Con lei non si sentiva più solo e pensando a tutti quelli che nascondevano la propria solitudine dentro ad un cellulare, un libro o una passeggiata nei campi, si sentì fortunato e felice ad averla li, accanto a lui. Prima di andare a dormire la mise nel frigo e le mando un bacio chiudendole delicatamente la porta. Andò a dormire sereno pensando a lei e sperando di poterla sognare di notte e già pensando alla felicità di rivederla domani mattina appena avrebbe preso il latte per la colazione dal frigo. Una voce dentro di lui gli disse che le difficoltà e la mala gente della vita, lo stavano facendo scivolare lentamente nella follia facendolo impazzire di solitudine. Si rispose che era meglio parlare con lei che con i suoi amici e colleghi. Si disse che lei sapeva come prenderlo a lo accettava per com’era senza giudicarlo come invece facevano tutti gli altri. Era sempre meglio di un gatto che pisciava per casa o di un social in cui cercare inutilmente qualcuno che ti capisse. Lei era buonissima così com’era, anche senza mangiarla.
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E poi arriva la notte
cupa e solitaria notte
piena di sogni infranti
lasciati in un angolo.
Popolata da draghi
e fantomatici eroi
trappola illusoria
di magie e sortilegi
Fantasticherie di rospi
e magiche fate
filtri d'amore amari
per donzelle funeste
Trotti di cavalli neri
capricciosi e lesti
cavalieri senza spada
e dame senza veli...
Adoro la notte mi fa compagnia .....d.p.©
fantasticare...
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_Il ragazzo e la luna_
C'era una volta un ragazzo che amava passare il tempo sul tetto di casa sua. Amava guardare il sole sorgere e tramontare, nascere e morire, il giorno e la notte susseguirsi, ricorrersi, lasciarsi il posto o rubarselo voracemente. Amava guardare l'orizzonte tingersi di una miriade di colori pastello all'alba, quando si macchia di rosa, e il sole orla d'oro le soffici nuvole, che come bambagia assorbono tutti quei colori candidi e leggeri, colorandosi anch'esse. Quando il suo azzurro si accentua e diventa sovrano di quel dipinto surreale. Quando il sole lascia stendere pigramente i suoi raggi per tutta la loro lunghezza sulla tela celeste che però sembra non conoscere fine, e parrà sempre immensa e indefinita.
Amava il cielo quando diventa di metallo e come un telo bagnato pesa incombendo sulle case e sulle strade, dandogli la sensazione di essere schiacciato e di soffocare sotto quelle nubi compatte, cariche di pioggia.
Amava il cielo al tramonto, che quando la luna incomincia a trasparire tra i suoi veli turchesi, esso arrossisce, e viene striato dalla luminosità del sole, che perisce lentamente per quella bellezza letale, esplodendo come un vulcano e sporcando con la sua lava tutto il manto del cielo, schizzando le morbide nuvole e emanando aloni d'oro sull'orizzonte, che come teli lo coprono fino a non permettere ai suoi raggi di penetrare, ed ecco che, in quel l'attimo, è giunta la notte.
Le persone corrono ai musei per ammirare i dipinti, lui correva sul tetto a guardare il cielo morire, divenire notte, e al contrario dei monotoni musei, ogni giorno lo spettacolo era libero e sempre diverso.
E tutte le speranze, le lacrime, i sogni, i desideri si levano dalla terra e trovano riposo in quel buio silenzioso.
Le vede lassù, che splendono, le emozioni che il suo cuore ha sempre soppresso, ma che il cielo, al contrario, gli ha dato la possibilità di brillare, plasmandone la loro luminosità, attribuendogli la forma di stelle.
Ed è proprio questo il momento che il ragazzo preferisce. Quando le tenebre trionfano, quando la sua amata luna �� lassù, alta e fiera.
Aveva gli occhi blu come il cielo del caldo e rassicurante mattino estivo, ma lui li odiava, lui li voleva di quel blu in cui tutte le ombre si fondono assieme fino ad avvolgere ogni cosa.
E lì c'era sempre la sua luna, che coi suoi argentei raggi gli illuminava il viso di pallida malinconia, baciandogli leggermente la fronte, la testa iniziava a diventare più leggera e a volare sull'oceano dei ricordi. Questi erano per lo più tristi, perchè per un amante del cielo che gioia può esserci in basso, sulla terra? Ripensando alla sua solitudine, a tutte le delusioni che la vita gli aveva riservato e regalato con tanta delicatezza e facilità, alle risa di scherno, al dissenso... di fronte a tutto il disprezzo riserbatogli solo perchè amava quel mondo così lontano e astratto, il ragazzo desiderava sempre più avvicinarcisi e diventare tutt'uno con esso.
Ogni sera si lasciava cullare dal vento che soffiava sul tetto, non importava quanto fosse forte, anche se rischiava di cadere, il ragazzo rimaneva lì. Se pioveva tanto meglio, adorava sentire l'acqua appoggiarglisi sulla fronte, lisciargli i capelli ribelli, scorrere giù per le sue guance gareggiando con le lacrime mascherate, bollenti e salate come il mare. Scorrere giù solcando il suo corpo, modellandolo a loro piacere, entrando nella maglia, inzuppandola e descrivendo perfettamente ogni curva e spigolo del suo petto e torace nivei, fino a fermarsi all’orlo dei jeans neri e strappati come la sua anima. E intanto guardava la sua luna e agognava a raggiungerla. Se qualcuno lo avesse osservato anche solo per un attimo in momenti come quelli, avrebbe colto all'istante l'agonia e il dolore dei suoi occhi cristallini, che brillavano alla luce lunare come i sogni di un bambino.
C'era così tanta intesa tra quei due corpi, uno celeste e gelido, l'altro caldo e umano. Ma la sua anima era più fredda del ghiaccio perenne, e nemmeno il tepore dei raggi del tramonto la scioglievamo un pochino.
Una sera particolarmente intrisa di false speranze e lancinante e straziante afflizione, desolazione, disperazione, patimento; il ragazzo decise che era giunta l'ora di raggiungere la sua amata. Così si alzo in piedi, e in equilibrio precario prese la rincorsa e saltò, librandosi in volo. Era leggero come l'aria, che gli accarezzava il corpo marmoreo, gli gonfiava la camicia che indossava e gli sferzava i capelli corvini sul viso, ma lo portava verso l'alto. Verso la luna. Fu un incontro impregnato di struggimento riarso, che ruppe il ragazzo in mille pezzettini, che la brezza notturna portò in giro creando nuove stelle, quelle stesse stelle fatte delle sue emozioni bandite.
Il mattino seguente, l'alba assunse un particolarmente insolito colore rosso cremisi, purpureo, oscuro e macabro, sanguinoso. Mentre il mondo si stava svegliando ignaro, ammirato anche dell’anomalo fenomeno, una bambina correva nel suo giardino e, non vedendo un sasso che sporgeva, cadde sbucciandosi le fragili e diafane ginocchia. Notò che il colore del sangue delle sue ferite e quello del cielo era lo stesso, e allora capì, capì che qualcosa di estremamente spaventoso era successo.
E il ragazzo, finalmente, era felice. Nel cielo, con la sua amata luna.
-crybaby-teenidle
#social anxiety#sadbeautifultragic#sadness#sad#suicidedeath#Suicide#luna#Moon#ragazzo#storia#my story#diario
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riflessione
mi capita spesso di pensare a quanto Ermal mi abbia aiutato, in questi pochi mesi, ed è tutto così... surreale.
la sua musica mi ha trovato in un periodo delicato, ero da poco uscita da uno dei momenti più neri e bui della mia vita, uno di quei momenti che ti risucchiano come in un buco nero, e quindi precipiti, precipiti all'infinito, fino a che non interviene qualcuno o qualcosa. avevo appena imboccato (o meglio.. mi ci ero fiondata ad occhi chiusi) una strada ai miei occhi lontana anni luce da quelli che erano, e nonostante tutto sono, i miei progetti, credevo di dover definitivamente salutare le mie idee di arte e musica, stavo per buttare via poesie, canzoni e dipinti, poi è arrivata la sua musica, la sua voce.
A parte te.
` sempre sarai l'eccezione di un difetto, un respiro lento che scandisce il tempo che nessuno ferma mai.
Schegge.
` non sei mai stata mia, eppure ti ritrovo in me come un ricordo senza origine.
Voce del verbo.
` quanta forza servirà per diventare debole?
Vietato morire.
` cambia le tue stelle, se ci provi riuscirai (...) ricorda di disobbedire, e ricorda che è vietato morire.
le canzoni che mi hanno accarezzato il cuore con la delicatezza di una piuma, ma con l'intensità di un pugno in pieno viso, strappandomi dalle grinfie del labirinto in cui mi ero persa.
usavo esprimermi solo in inglese, l'italiano mi ha sempre dato una sensazione di vulnerabilità, e ingenuamente pensavo che essere incomprensibile alla maggior parte fosse la soluzione ad ogni turbamento -poi ho letto parole, in italiano, in cui mi sono specchiata per davvero, e allora ho capito. ho capito che l'inglese non era uno scudo efficiente -o meglio, ho capito che nessuno scudo serve davvero, perché impedisce di guardarsi negli occhi, sorridersi e sussurrarsi "ti capisco, non sei sola" con una sincerità nuda, che mette i brividi, piccoli spostamenti d'aria generati dai moti del cuore.
non è semplice, vedete, spiegare cosa rappresenti la musica per me, non lo è mai stato... ma da quando "conosco" Ermal mi sento meno sola, e sento che questo è uno dei miracoli della musica: se è quella giusta, ti fa compagnia in silenzio, ti regala un sorriso timido mentre ti rivolge uno sguardo di intesa, uno sguardo che solo voi capite, ed è questo il bello.
ho ripreso a scrivere, a suonare, ho ritrovato quell'amore che credevo essersi perso in un cuore impolverato, tanto batteva piano; ho ripreso a sperare, mi sento più fragile, ma non lo vedo più come un contro. ben venga la fragilità, dopotutto siamo un po' tutti statue di vetro soffiato sotto i mille veli che ci coprono.
perché scrivo tutto ciò qui? perché lo condivido con voi? non ho legato con nessuno nel fandom, è raro che mi faccia avanti, ma vorrei ringraziare tutte le persone qui perché con le vostre storie, le vostre foto, le vostre idee... con le vostre eccedenze accompagnate i miei pensieri.
se qualcuno è arrivato a questo punto: con ogni probabilità non ci conosciamo, ma voglio ringraziarti lo stesso, perché nonostante tutto sei qui, e resistere non è mai poco.
concludo la mia mega riflessione inconcludente ma che avevo bisogno di esternare perché, si sa, certe volte si sente il bisogno di lasciare un peso per non rovinare l'equilibrio instabile trovato con tanta, troppa, immane fatica.
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La Camelia Collezioni - presentazione 2023
e-mail : [email protected]
Le nostre collezioni sono visibili solo in occasione di mostre, allestimenti a tema e virtualmente collegandosi al sito www.lacameliacollezioni.com Per informazioni, consulenze e restauro : [email protected] – Pagina Facebook: la camelia collezioni – Instagram : la_camelia_collezioni
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Paese, paese
Paese, paese
di chiacchiere urlate da un balcone all’altro,
di parchi abbandonati alle siringhe,
ricordi e spazzatura
Paese che vive nelle canzoni dei Grest,
abitato da veli neri di suore
e da sagome irsute che sguazzano nei canali
Paese di santi, di pazzi, di eroi
di tramonti di zanzare
di radicchi e neon
Paese assediato
da cemento e uva,
creatura viva di bellezza putrida.
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Sotto l'esperta guida del padre e maestro, il figlio aveva desiderato ardentemente di possedere le ali. Per molti anni, in lunghe ore di lavoro nei suoi sogni, era andato fabbricandosele, penna dopo penna, muscolo dopo muscolo, ossicino dopo ossicino, finché esse avevano pian piano assunto forma. Le aveva fatte crescere nella giusta posizione dalle scapole (era particolarmente difficile percepire con esattezza la propria schiena in sogno), e a poco a poco aveva imparato a muoverle nella maniera adeguata. Aveva messo a dura prova la propria pazienza continuando a esercitarsi finché, dopo innumerevoli tentativi falliti, era riuscito per la prima volta a sollevarsi per un breve istante da terra. Ma poi aveva acquistato fiducia nella propria opera, grazie all'incrollabile benevolenza e severità con cui il padre lo guidava. Col passare del tempo si era talmente abituato alle ali che le considerava in tutto e per tutto una parte del suo corpo, al punto da avvertire in esse sensazioni di dolore o di benessere. Infine aveva cancellato dalla memoria gli anni trascorsi senza possederle. Le aveva avute fin dalla nascita, al pari degli occhi o delle mani. Era pronto. Non era affatto proibito lasciare la città-labirinto. Al contrario, chi vi riusciva veniva considerato un eroe, un uomo di grande talento, e della sua leggenda si continuava a parlare a lungo. Ma ciò era consentito solo alle persone felici. Le leggi cui sottostavano gli abitanti del labirinto erano paradossali, ma immutabili. Una delle più importanti diceva: Soltanto chi lascia il labirinto può essere felice, ma soltanto chi è felice può uscirne. Però le persone felici erano rare nei millenni.
Chi era disposto a tentare doveva prima sottoporsi a un esame. Se non riusciva a superarlo, la punizione non cadeva su di lui, ma sul suo maestro, ed essa era dura e crudele. Il viso del padre si era fatto estremamente serio, allorché gli aveva detto: « Ali di questo tipo portano soltanto chi è leggero. Ma è solo la felicità a rendere leggeri ». Poi aveva fissato a lungo il figlio con sguardo indagatore e infine gli aveva chiesto: « Sei felice? » Oh, se si trattava di quello non c'era alcun pericolo. Era tanto felice che pensava di potersi librare in aria anche senza ali, dal momento che amava. Amava con tutto l'ardore del suo giovane cuore, amava senza riserve e senza ombra di dubbio. E sapeva che il suo amore era corrisposto altrettanto incondizionatamente. Sapeva che la sua amata lo stava aspettando e che al termine del giorno, dopo aver superato l'esame, sarebbe andato da lei nella sua stanza celeste. Allora, leggera come un raggio di luna, si sarebbe adagiata fra le sue braccia e, uniti in quell'interminabile amplesso, si sarebbero librati sopra la città lasciandosene alle spalle le mura come un giocattolo per il quale erano diventati ormai troppo grandi; avrebbero volato sopra altre città, sopra foreste e deserti, mari e montagne, avanti, sempre più avanti, fino ai confini del mondo. Sul corpo nudo egli non portava altro che una rete da pesca che lo seguiva, come un lungo strascico, per le strade e i vicoli, i corridoi e le stanze, secondo il cerimoniale prescritto per quell'ultimo, decisivo esame. Era certo di riuscire ad assolvere il compito che gli era stato assegnato, sebbene non lo conoscesse. Sapeva solo che esso si confaceva sempre alla natura dell'esaminando. Perciò non era mai uguale a quello di un altro. Si poteva dire che il compito consisteva proprio in questo, nell'indovinare, in base a un'effettiva conoscenza di sé, in che cosa consistesse. L'unica rigida norma alla quale doveva attenersi era quella di non entrare, per nessun motivo, per la durata dell'esame, cioè fino al tramonto, nella stanza celeste della sua amata. Altrimenti sarebbe stato subito escluso da tutto il resto. Sorrise, ripensando all'espressione grave, quasi furente, con cui il suo adorato, benevolo padre gli aveva comunicato il divieto. Non provava in sé la benché minima tentazione di trasgredirlo. A questo riguardo non c'era alcun pericolo, poteva stare tranquillo. In fondo non era mai riuscito a capire bene tutte quelle storie in cui qualcuno, proprio a causa di un tale divieto, si era sentito irresistibilmente spinto a violarlo. Camminando per le strade e gli edifici ingannevoli della città- labirinto, era già passato più volte davanti al fabbricato a forma di torre al cui ultimo piano, quasi sotto il tetto, abitava la sua amata, e due volte persino davanti alla sua porta, al numero 401. E aveva proseguito, senza neppure fermarsi. Ma il vero esame non poteva consistere in questo. Sarebbe stato troppo, troppo semplice. Ovunque gli capitasse di andare, si imbatteva in infelici che lo seguivano con occhi pieni di ammirazione, di rimpianto o anche d'invidia. Molti li conosceva già, sebbene gli incontri fra le persone non potessero mai essere provocati intenzionalmente. Nella città-labirinto la posizione e la disposizione delle case mutavano di continuo, cosicché era impossibile darsi appuntamenti. Ogni incontro era casuale o voluto dal destino, a seconda di come lo si volesse intendere. D'un tratto il figlio avvertì che qualcosa tratteneva la rete dietro di lui e si voltò. Seduto sotto l'arco di un portone, vide un mendicante con una gamba sola, che aveva infilato una delle stampelle nelle maglie della rete. « Che fai? » gli chiese. « Abbi pietà! » rispose il mendicante con voce roca. « Per tè non sarà un gran peso, mentre a me darà molto sollievo. Tu sei un uomo felice e potrai sfuggire al labirinto. Ma io resterò qui per sempre, perché non sarò mai felice. Perciò ti prego, porta via con te almeno un po' della mia infelicità. Così prenderò anch'io un minimo di parte alla tua salvezza. Sarebbe una consolazione per me. » Raramente le persone felici sono dure d'animo: propendono alla compassione e desiderano far partecipi anche gli altri della propria ricchezza. « Bene », disse il figlio, « sono contento di poterti rendere un favore per così poco. » Già al successivo angolo di strada incontrò una donna dal volto emaciato, vestita di stracci, assieme a tre bambini mezzo morti di fame. « Non vorrai certo negarci quanto hai concesso a quello là », gli disse, piena d'odio. E attaccò alla rete una piccola croce da sepolcro. Da quel momento la rete si fece più pesante, sempre più pesante. Di infelici ce n'erano in gran quantità nella città-labirinto e ognuno di loro, imbattendosi nel figlio, attaccava qualcosa alla rete, una scarpa o un gioiello prezioso, un secchio di latta o un sacco colmo di denaro, un capo di vestiario o una stufetta di ferro, una ghirlanda di rose o un animale morto, un utensile o addirittura, in ultimo, il battente di una porta. Si avvicinava la sera e con essa la fine dell'esame. Il figlio, piegato in avanti, procedeva a fatica, passo dopo passo, quasi dovesse lottare contro una bufera violenta e silenziosa. Il suo viso grondava sudore ma egli era ancora pieno di speranza, perché credeva di aver capito in che cosa consisteva il suo compito e, nonostante tutto, si sentiva abbastanza forte per portarlo a termine. Poi venne il crepuscolo e ancora nessuno era comparso per dirgli che quanto aveva fatto bastava. Senza sapere come, era arrivato, con l'infinito carico che si trascinava dietro, alla terrazza sul tetto dell'edificio a torre in cui si trovava la stanza celeste della sua amata. Non aveva mai notato che da lì si scorgeva in basso una spiaggia, ma forse fino a quel momento non era mai stata in quel luogo. Il figlio divenne profondamente inquieto nel rendersi conto che il sole si stava già immergendo dietro l'orizzonte caliginoso. Sulla spiaggia c'erano quattro persone che, come lui, avevano le ali, e, sebbene non potesse vedere colui che parlava, udì chiaramente che venivamo dichiarate libere. Gridò verso il basso chiedendo se lo avessero dimenticato ma nessuno gli prestò attenzione. Con mani tremanti armeggiò attorno alla rete, ma non riuscì a togliersela di dosso. Gridò ancora a lungo, chiamando ora il padre perché venisse ad aiutarlo, mentre si sporgeva il più possibile dal parapetto. All'ultima, morente luce del giorno, vide laggiù la sua amata completamente avvolta in veli neri venire condotta fuori della porta. Apparve quindi, tirata da due morelli, una carrozza nera il cui tetto era costituito da un unico grande ritratto, il viso colmo di dolore e di disperazione del padre. L'amata salì nella carrozza e il veicolo si allontanò fino a sparire nell'oscurità. In quel momento il figlio comprese che il suo compito era stato quello di disubbidire e che non aveva superato l'esame. Sentì le sue ali create in sogno avvizzirsi e cadere a terra come foglie d'autunno, e capì che non avrebbe più potuto volare ne essere felice e che per il resto della sua vita sarebbe rimasto nel labirinto. Perché adesso vi apparteneva.
Michael Ende - Lo Specchio nello Specchio, secondo racconto
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A Ventimiglia, dove la frontiera si fa tangibile come in una zona di guerra, c’è chi fa entrare tutti, senza chiedere i documenti e dispensando umanità: una signora di 55 anni, Delia. «Tutti abbiamo diritto a un futuro migliore. Se i residenti dicessero a questi ragazzi anche solo “buongiorno”, basterebbe già quello a cambiare le cose»
Alcuni lo chiamano con disprezzo «il bar dei negri». Si trova a pochi passi dalla stazione di Ventimiglia. «Gestisco questo posto da 15 anni» dice Delia, 55 anni, figlia di commercianti. «Tre anni fa mi ha aiutato mio fratello per alcuni mesi perché seguivo mia madre in ospedale, è stato lui ad aprire le porte ai primi ragazzi. Io li chiamo ragazzi, immigrati non mi piace, e poi immigrati lo siamo un po’ tutti».
NELL’ESTATE DEL 2015 la Francia ha applicato gli «Accordi di Chambery» che prevedono la possibilità di respingere i migranti da un paese all’altro. Per farlo bisogna violare un accordo chiave dell’Ue, Schengen, che vieta controlli sistematici alle frontiere. Da tre anni sono iniziate le operazioni al confine che rimandano indietro chi è sprovvisto di documenti francesi. Molti migranti in transito rimangono a lungo bloccati a Ventimiglia.
Nel bar di Delia a mezzogiorno ci sono poche persone. A un tavolo tre ragazzi parlano. Due sono attivisti della rete 20k, che unisce diversi gruppi locali impegnati nella solidarietà. Il terzo vive a Ventimiglia da qualche anno, viene dal Pakistan. «Quest’anno c’è meno gente» mi dicono.
«MOLTI ATTIVISTI sono stati allontanati con denunce e fogli di via. E i migranti sono vessati. Tra i respingimenti brutali della polizia francese e le retate di quella italiana. Il campo dei Balzi Rossi, dal quale nel 2015 partivano le manifestazioni per chiedere l’apertura dei confini, è stato sgomberato due anni fa. Questa primavera è stata evacuato anche l’accampamento a Via Tenda. Quasi ogni settimana partono pullman pieni di persone fermate per strada e spedite all’hotspot di Taranto, misura costosa e inutile perché chi può torna qui, per provare a uscire dall’Italia. Oggi i pochi rimasti in città si devono nascondere nelle anse del fosso. Fare solidarietà attiva è sempre più difficile mentre fiorisce il business dei passeur, persone che offrono passaggi per la Francia in cambio di soldi».
AL BANCONE DEL BAR c’è la signora Delia, le dà una mano Alessandra, sua nipote. «Non posso più permettermi di assumere. Da ormai tre anni i clienti non entrano più in questo bar. Solo perché faccio entrare tutti e do una mano a chi ha bisogno. Sono stata insultata e boicottata da chi passava di qua e vedeva qualche ragazzo nero fuori o al bancone. Oggi rischio di chiudere. Ho problemi di salute e andare avanti è faticoso». Il bar Hobbit è centrale eppure, a parte solidali e migranti, non entra nessuno.
NEL POMERIGGIO ARRIVANO due ragazze, anche loro attive nelle azioni solidali che dal 2015 hanno preso vita dentro ma soprattutto fuori le ong che operano sul campo. «A Ventimiglia ce ne sono pochi di posti così» dicono «nessuno in centro. Negli altri bar rispondono male ai ragazzi stranieri, oppure chiamano la polizia. Delia è stata tra i pochi ad aprire le porte. Qui possono entrare e consumare o anche solo riposare e caricare il telefono. Molti arrivano e vengono a sapere di questo bar tramite il passaparola». Il bar di Delia offre alle persone in transito una delle cose più preziose nel percorso doloroso e solitario della fuga: la socialità.
«IO SONO UN’IMMIGRATA DOC» dice Delia «appena nata venni in Liguria con i miei genitori dal Sud. A tre anni emigrai in Australia. Lì ho fatto le scuole elementari. A 10 anni i miei mi hanno riportata in Italia. Mi vestivo, mangiavo, e parlavo in maniera diversa dai miei coetanei e per questo sono stata maltrattata. Mi sono sentita immigrata in patria. Ho voluto trasformare la mia esperienza negativa in qualcosa di positivo. Evitare che altri patissero le mie stesse sofferenze». Il bar ha una saletta sul retro, dentro ci sono tavoli e scaffali. Libri, quaderni e materiale scolastico. Due anni fa Delia e una sua amica hanno organizzato un corso di italiano gratuito.
A VENTIMIGLIA LE STRUTTURE per l’accoglienza sono scarse. L’unica attrezzata è il campo della Croce Rossa, trasferito fuori città per le lamentele dei residenti. Per entrarci bisogna registrarsi e fare domanda di asilo in Italia. Ma la maggior parte delle persone che arrivano al confine desiderano andare in Francia o Gran Bretagna, richiedere asilo in Italia sarebbe controproducente. Altri scappano dalla povertà e probabilmente non otterrebbero lo status di rifugiato. Dopo gli sgomberi molti vivono nascosti, vengono per la distribuzione di un pasto gratuito da parte del collettivo Kesha Niya sotto il ponte di via Tenda, anche se il comune sta cercando di ostacolare l’accesso costruendo muretti e reti.
«NON RIESCO A FAR FINTA di niente» racconta Delia, «vedevo per strada bambini che piangevano di caldo, di sete, senza che nessuno facesse nulla. Li ho fatti entrare, ho dato da mangiare gratis se non avevano soldi. Ho messo una sdraio per far riposare le donne incinte. Alcune passano la giornata in piedi perché non hanno un posto dove andare. Ho visto tante persone che si vergognano a chiedere aiuto. La scorsa settimana è entrato un uomo sulla cinquantina, veniva dal Sudan. Non ha detto niente ma ho capito. Gli ho fatto un piatto di pasta, ci ha messo 3 ore a mangiarlo. Poi mi ha detto che non mangiava da 4 giorni».
LA SCELTA DI DELIA, sembrerebbe straordinaria visti i tempi, ma raccontata da lei, appare come l’unica possibile. «Io non ho mai fatto politica» aggiunge «sono una lavoratrice, non ho mai avuto un credo particolare. Faccio solo ciò che sento. Gli altri esercenti, sono loro nel torto, se conoscessero la professione saprebbero che negli esercizi pubblici si devono far entrare tutti. Io poi a volte ci metto del mio e quello che posso lo do. Anche se odio quando c’è qualcuno che se ne approfitta». Tuttavia in questi tre anni i problemi del bar non sono stati creati dai ragazzi che lo frequentano ma soprattutto dai clienti italiani che hanno disertato il posto e dalle istituzioni che l’hanno tormentato con presidi all’esterno e controlli igienico sanitari. «In 40 anni di lavoro non li avevo mai visti tutti questi controlli» dice Delia «mi genera ansia sentirmi presa di mira, insieme alla precarietà economica della mia attività».
DA PIÙ DI UN ANNO collettivi, ong, e persone solidali di Ventimiglia e dintorni hanno scoperto la realtà del bar Hobbit. Da allora organizzano delle inziative di sostegno per il bar. «D’estate riesco ad andare avanti grazie all’aiuto delle persone che vengono a fare aperitivi o mi mandano comitive di volontari, ma d’inverno diventa difficile. La città si svuota e quelli che dovrebbero garantire le entrate sono i ventimigliesi che lavorano nei dintorni». Da loro invece il bar di Delia non ha ricevuto mai sostegno «mi hanno sputato, mi hanno intimato di chiudere, hanno sfasciato per dispetto la serratura di quella porta d’ingresso, è ancora rotta non ho i soldi per aggiustarla».
NEL BAR ENTRA UN RAGAZZO nero, camicia e dossier in mano, saluta Delia calorosamente «lui ha fatto il corso di italiano qui al bar» dice lei con un grande sorriso «adesso lavora per l’Oxfam». «Sono appena tornato da Mentone Garavan ero lì a monitorare» dice lui. Mentone è la prima cittadina francese al confine. La piccola stazione è presidiata da pulmini della polizia francese e tutti i treni che arrivano dall’Italia vengono fermati e perlustrati. Controlli su base razziale avvengono sistematicamente. Il confine è presidiato su due punti, entrambi militarizzati. La frontiera si fa tangibile come in una zona di guerra».
«Ho un piccolo fazzoletto di terra fuori città, aggiunge Delia, potrei far lavorare qualcuno dei ragazzi, mettendoli in regola. Ma purtroppo non è possibile. I vicini non vogliono vedere neri. È una questione cromatica, hanno paura del colore della pelle».
L’ECONOMIA DI VENTIMIGLIA – in realtà – è foraggiata dalla crisi del confine, tra dipendenti delle ong e forze dell’ordine, un nuovo indotto economico è stato portato nella città proprio dalla presenza dei migranti. Eppure molti si lamentano. «Questa situazione difficile mi ha portato anche tante cose belle. Ho conosciuto persone che come me aiutavano gli altri e questo mi ha fatto sentire meno sola. Anche con alcuni ragazzi sono nati rapporti di amicizia, mi hanno ribattezzata mama africa» dice ridendo «uno di loro è diventato un amico di famiglia, lo invitiamo al ristorante con noi, lui si imbarazza per come la gente ci guarda, non sono abituati a vedere un nero al ristorante». «Mi fanno rabbia certe persone» continua «mandano i figli a studiare all’estero per un futuro migliore e maltrattano gli immigrati. Tutti abbiamo diritto a un futuro migliore. Se i residenti dicessero a questi ragazzi anche solo “buongiorno”. Basterebbe già quello a cambiare le cose». Mama Africa ha gli occhi lucidi, mentre alcuni attivisti di passaggio al bar avvertono che domani saranno fatti i pullman per Taranto. Vuol dire che la polizia girerà per le strade cercando persone da deportare nell’hotspot pugliese. Per chi è in strada domani non sarà un giorno di pace.
Shendi Veli
da il manifesto
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Valentina Neri, nome reale, moglie di un senatore della Repubblica, poetessa e scrittrice, ha curato un libro per Santelli editore, appena uscito. Il titolo è Gang White, Senza Veli, e racconta la storia di un gruppo di uomini milanesi che anni fa hanno formato un gruppo per organizzare Gang Bang, ossia un’attività sessuale in cui una donna si concede a più uomini contemporaneamente. A La Zanzara su Radio 24 Valentina Neri racconta: “Dobbiamo uscire dalla paura dello stigma sociale, la paura di venire allo scoperto. Più lo facciamo, più questa cosa diventa normale e accettata”. Dice ancora: “Ho fatto gang bang prima del matrimonio. Poi mi sono presa un periodo di pausa, e dopo ho ricominciato. Mio marito lo sa, mi conosce, siamo ancora sposati. E poi ne scrivo apertamente nei miei libri. Ma non ha mai partecipato, no. Adesso ho smesso di nascondermi, di mettermi i veli. Quante ne ho fatte? Di gang ne avrò fatte una decina, per adesso”. Sei consapevole che le donne che hanno queste esperienze sessuali e lo confessano sono considerate da puttane, nel senso più spregevole del termine?: “Sì, certo. Proprio per questo bisogna raccontare. E poi ci sono insulti peggiori di puttana. Una cosa è sicura: se tu confessi di fare sesso in modo trasgressivo te lo dicono come un insulto e hai addosso uno stigma sociale, invece è solo un divertimento come un altro. La gente si deve abituare, ci sono molte cose che non erano permesse, molte cose che non erano considerate normali”. (...) Con quanti uomini sei andata al massimo in una gang?: “Non ricordo, credo dieci. Si possono fare tante cose con dieci maschi. Le persone si alternavano, gente che viene, gente che esce, roba che ti resta addosso. E’ un gioco, un divertimento, è come fare una giornata al luna park, una specie di antidepressivo”. (...) Da "la Zanzara - Radio 24"
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Olympia di Édouard Manet è un celebre dipinto dallo stile rivoluzionario che suscitò un grande dibattito in occasione della sua esposizione al Salon di Parigi del 1865.
Édouard Manet, Olympia, 1863, olio su tela, 130,5×190 cm. Parigi, museo d’Orsay
Descrizione di Olympia di Édouard Manet
Una giovane donna priva di abiti è distesa su un letto rivolta verso il fronte del dipinto. Il suo viso non rivela alcuna emozione e lo sguardo acuto è puntato in avanti. La protagonista indossa solamente alcuni gioielli, orecchini di perla e un bracciale. Intorno al collo poi è annodato un laccetto nero e sottile. Ai piedi porta un paio di zoccolette gialle mentre tra i capelli spunta un’orchidea rossa. Il braccio sinistro è piegato e sostiene il busto, invece la mano destra copre il pube della ragazza.
A destra del dipinto, una donna di colore guarda la protagonista porgendo un mazzo di fiori avvolto in una carta bianca. Accanto a lei poi un gatto nero alza la coda e guarda con sospetto in avanti.
Il materasso è coperto da lenzuolo bianco sgualcito mentre grandi cuscini sostengono il busto della giovane. Sotto di lei inoltre spunta un telo giallo decorato con motivi a fiori. L’ambiente è minimamente descritto e molto sobrio. A sinistra, si individuano un paravento marrone e una tenda verde scostata in alto.
Interpretazioni e simbologia di Olympia di Édouard Manet
Manet nel dipinto Olympia propose una nuova interpretazione del nudo femminile, un genere appartenente alla tradizione della pittura occidentale. L’artista infatti ricorse ad una rappresentazione diretta e priva di compromessi con la morale borghese dell’epoca. La prostituta è quindi rappresentata in modo prosaico senza veli, anche fisicamente, e con un linguaggio crudo. Al posto del nudo idealizzato, Manet propose una immagine fredda e realista di una giovane cortigiana. La sua figura infine non è rivisitata con filtri mitologici, allegorici o simbolici ma rappresenta solo una prostituta nuda. Anzi, la posa che la tradizione classica assegna a Venere viene qui destinata alla rappresentazione del meretricio.
Olympia infatti era un soprannome molto comune riservato alle cortigiane nell’Ottocento. Il gatto nero poi era un simbolo erotico legato alla sessualità femminile. Inoltre la serva che porge un mazzo di fiori espone l’offerta di un cliente.
Alcuni dettagli chiariscono inoltre il contesto del dipinto. Le lenzuola sono sgualcite e indicano che la ragazza passa molto tempo adagiata. L’orchidea rossa fra i capelli è un segno di sensualità. Anche i gioielli indossati senza troppa raffinatezza segnalano la vita pubblica della giovane.
I riferimenti alla tradizione
Manet fece riferimenti diretti però a opere del passato quali la Venere di Urbino di Tiziano, la Maja desnuda di Goya e Vélasquez. Inoltre riprese i personaggi dell’odalisca e della schiava nera da autori come Ingres. Nel territorio veneto poi tale iconografia era tipica della tradizione del Cinquecento.
La Venere dipinta da Tiziano dallo sguardo ammaliante, simbolo di femminilità e fedeltà domestica, diventa nell’opera di Manet una prostituta che guarda sfrontatamente verso l’osservatore. Tale immagine ricordava anche le prime fotografie di giovani donne che lavoravano nelle case di tolleranza dell’epoca.
Il dipinto quindi offrì molti aspetti provocatori nei confronti di coloro che sostenevano la tradizione accademica e la morale borghese. Intanto le forme prive di modellato e circondate dai toni neri sono esplicitamente esposte. Poi la giovane donna offre uno sguardo deciso e diretto, privo di pudore per la sua nudità cosi esposta. Nonostante questo Manet non era interessato a provocare i tradizionalisti, quanto a rappresentare il vero senza filtri morali.
I committenti, le collezioni, la storia espositiva e la collocazione
Manet espose l’Olympia in occasione del Salon di Parigi del 1865.
Claude Monet, il maestro impressionista, nel 1890, organizzò una sottoscrizione pubblica per offrire il dipinto allo Stato francese. L’opera dal 1890 al 1907 si trovò così al Musée du Luxembourg di Parigi. Nel 1907 l’amministrazione dei musei lo attribuì poi al Museo del Louvre di Parigi dove rimase dal 1907 al 1947. Dal 1947 al 1986 fu sempre di proprietà del Museo del Louvre ma esposto alla Galleria Jeu de Paume. Infine nel 1986 il comune di Parigi lo destinò al Musée d’Orsay.
L’artista e la società. La storia dell’opera Olympia di Édouard Manet
Manet progettò con attenzione l’opera e l’idea di realizzare un nudo di tale impatto era già nelle sue intenzioni durante il viaggio in Italia dal settembre del 1853. In tale occasione infatti realizzò un disegno della Venere di Urbino di Tiziano. L’artista disegnò anche una copia del dipinto di Goya, la Maja, conosciuto grazie a stampe calcografiche. Di questa attenta preparazione rimangono molti disegni e vari bozzetti.
Victorine Meurent nel 1863 posò per offrire la sua immagine alla figura di Olympia. La giovane era infatti la modella preferita di Manet negli anni Sessanta dell’Ottocento.
La giuria del Salon parigino del 1865 accettò l’opera temendo l’organizzazione di un nuovo “Salon des refusés”, come era avvenuto già nel 1863. Il soggetto rappresentato nel dipinto suscitò però diverse critiche. Lo stile diretto e privo del filtro neoclassico o mitologico determinò infatti la condanna dell’opera. Anche il pittore realista Gustave Courbet non apprezzò le novità del dipinto. I detrattori criticarono la scelta di rappresentare un corpo nudo femminile con un realismo che giudicarono offensivo. Infatti la posa, le forme non idealizzate e i colori suscitarono la loro indignazione. Sull’onda emotiva alcuni visitatori della mostra cercarono di distruggerla e gli organizzatori del Salon misero due poliziotti a protezione del dipinto.
Alcuni intellettuali però si schierano in difesa dell’opera come Charles Baudelaire. Lo scrittore Èmile Zola considerò l’immagine una convincente rappresentazione della realtà vicina anche alle descrizione di alcuni suoi personaggi come quello di Nana.
Lo stile di Olympia di Édouard Manet
Manet dipinse l’Olympia con lo stesso stile di rottura che utilizzò anche ne La colazione sull’erba. Le figure non sono modellate con le mezze tinte del chiaroscuro. Inoltre le campiture che costruiscono le forme non sono sfumate ma piatte. Infatti Manet per ritagliare le figure e i dettagli dello spazio ricorse a contrasti di luminosità, di temperatura cromatica e tra colori complementari.
La tecnica
Olympia di Edgar Manet è un olio ad impasto su tela di 130,5 x 190 cm.
Il colore e l’illuminazione
Il dipinto di Manet, coloristicamente, è risolto grazie a diversi contrasti. Infatti le figure in primo piano si staccano dallo sfondo scurissimo perché sono molto chiare. Inoltre la veste della domestica è rosa, dipinta contro lo sfondo verdastro e freddo. Il panneggio del lenzuolo è reso con toni azzurrini che contrastano per complementarietà con il marrone arancio del pavimento e del paravento.
La scena è illuminata da una luce diretta e cruda che proviene dal fronte del quadro. Virtualmente giunge così dallo spazio nel quale si trova l’osservatore. È quindi una illuminazione che svela senza alcuna discrezione il corpo della giovane. Infatti la luce non crea alcuna atmosfera ma sembra illuminare un set espositivo che valorizza un prodotto piuttosto che svelare un corpo femminile.
Lo spazio
La scena ritrae un ambiente chiuso che si intravede sullo sfondo scuro. Come ne la Colazione sull’erba, la prospettiva geometrica è azzerata e i dettagli ambientali suggeriscono la presenza di una stanza annullando la profondità.
La composizione e l’inquadratura
Il dipinto è di forma rettangolare e formato orizzontale. L’inquadratura poi è piuttosto semplice e permette la rappresentazione del letto di profilo che traversa l’intera superficie in larghezza.
La struttura compositiva infine è ordinata su semplici linee ortogonali che creano una griglia sulla quale si inserisce il busto leggermente obliquo della protagonista.
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