#una vita lunga un giorno
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Un professore di Lettere e Filosofia del liceo Tasso, Giancarlo Burghi, ha scritto una lettera aperta al ministro dell’Istruzione Valditara che è un autentico manifesto PARTIGIANO di difesa altissima della cultura e della Costituzione.
È lunga, ma merita davvero di essere letta tutta, condivisa, applicata. Fino in fondo.
“Egregio ministro,
Le scrivo di nuovo dalla desolazione della “trincea”: quella in cui ogni giorno, con le studentesse e gli studenti, combattiamo l’eterna guerra contro la semplificazione e la superficialità. Oggi, però, le scrivo per ringraziarla delle Linee guida sull’insegnamento dell’educazione civica che ci ha inviato all’inizio dell’anno scolastico. Da oggi abbiamo un punto fermo nel nostro lavoro di docenti ed educatori: ci dirigeremo nella direzione esattamente opposta a quanto ci indica. L’educazione civica, secondo lei deve «incoraggiare lo spirito di imprenditorialità, nella consapevolezza dell’importanza della proprietà privata». In modo quasi ossessivo nel documento traccia l’idea di una sorta di “educazione alla proprietà ”.
Ma cosa dovremmo farci di questo slogan vuoto? Stiamo oltrepassando finanche il senso del ridicolo, andando oltre la teoria delle tre “i” di berlusconiana memoria (inglese, impresa, internet). Ai nostri studenti, signor Ministro, l’articolo 42 della Costituzione lo leggiamo e lo spieghiamo: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge […] allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere [..] espropriata per motivi di interesse generale". Dice proprio questo la Costituzione! Però non si ispira a Pol Pot ma alla dottrina sociale della Chiesa, al cristianesimo sociale di Giorgio La Pira e Giuseppe Dossetti. Nelle Linee guida Lei continua, poi, con l’affermazione di sapore thatcheriano, ma in realtà generica e vuota quanto la prima, per cui dovremmo insegnare che «la società è in funzione dell’individuo (e non viceversa)».
Vede Ministro, se le dovesse capitare di sfogliare la Costituzione italiana scoprirebbe che il termine “individuo” semplicemente non compare. (…) Mi consenta di farle notare che, se sfogliasse la Costituzione, scoprirebbe che il termine “patria” compare solo una volta (perché Mussolini lo aveva profanato e disonorato) e per di più non ha niente a che fare con “i sacri confini nazionali” da difendere o l’italianità quale identità da salvaguardare contro la minaccia della sostituzione etnica.
La patria è il patrimonio dei padri e delle madri costituenti, vale a dire le istituzioni democratiche non separabili dai valori costituzionali: l’eguaglianza, la libertà, la pace, la giustizia, il diritto di asilo per lo straniero «che non ha garantite le libertà democratiche».
I patrioti non sono quelli che impediscono lo sbarco dei migranti, ma coloro che ogni giorno testimoniano il rifiuto della discriminazione. Cosi come patrioti non erano i fascisti che hanno svenduto la patria a Hitler e l’hanno profanata costringendo milioni di italiani ad offendere altre patrie, ma i membri dei GAP (che non erano i “gruppi di azione proletaria” come ebbe a dire, per dileggio, Berlusconi), ma i “gruppi di azione patriottica (appunto), che operavano nella Brigate Garibaldi dei patrioti comunisti italiani, protagonisti della Resistenza quale secondo Risorgimento.
Ci consenta di formare i nostri studenti ispirandoci a chi di patria si intendeva: non a Julius Evola o Giorgio Almirante, ma a Giuseppe Mazzini che ha ripetuto per tutta la vita che la patria non è un suolo da difendere avidamente ma una «dimora di libertà e uguaglianza» aperta a tutti: «Non vi è patria dove l’eguaglianza dei diritti è violata dall’esistenza di caste, privilegi, ineguaglianze. In nome del vostro amore di patria, combattete senza tregua l’esistenza di ogni privilegio, di ogni diseguaglianza sul suolo che vi ha dato vita. (Dei doveri dell’uomo). Mazzini non contrapponeva la patria all’umanità, ma la considerava il mezzo più efficace per tutelare la dignità di ogni essere umano: «I primi vostri doveri, primi almeno per importanza, sono verso l’ Umanità. Siete uomini prima di essere cittadini o padri. […] In qualunque terra voi siate, dovunque un uomo combatte per il diritto, per il giusto, per il vero, ivi è un vostro fratello: dovunque un uomo soffre, tormentato dall’errore, dall’ingiustizia, dalla tirannide, ivi è un vostro fratello. Liberi e schiavi, siete tutti fratelli. (Dei doveri dell’uomo)
E ci consenta, da educatori democratici, di trascurare le sue Linee guida, per illuminare le coscienze dei giovani con le parole di don Milani: «Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri». Egregio Ministro, dal momento che la costruzione di una cittadinanza consapevole avviene anche attraverso l’esercizio della memoria storica e civile, Lei ci ha inviato a una circolare con cui ha bandito un concorso per le scuole con lo scopo di celebrare la «Giornata Nazionale delle Vittime Civili delle Guerre e dei Conflitti nel Mondo». Il titolo del concorso: «1945: la guerra è finita!» Incredibile! Il 25 aprile 1945 che, prima dell’era Valditara, era semplicemente e banalmente la «liberazione dal nazifascismo» ora diventa un momento della «Giornata Nazionale delle Vittime Civili delle Guerre e dei Conflitti nel Mondo».
Cosa dovrebbero ricordare le giovani generazioni nella sua bizzarra idea di memoria civile? Ecco il suo testo: «Il popolo che ha subito sulla propria pelle gli orrori di quel tremendo conflitto, dai bombardamenti degli alleati alle rappresaglie nazifasciste [equiparati !] fino agli ordigni bellici inesplosi che, nei decenni a venire, hanno continuato a produrre invalidità e mutilazioni». E tutto per andare «al di là della tradizionale lettura vincitori-vinti», opposizione che attentamente sostituisce quella di antifascisti/liberatori e fascisti. Si tratta dunque, secondo lei, di ricordare una guerra tra tante, quasi un ineluttabile evento naturale in cui tutti sono cattivi (i liberatori, gli aguzzini e i partigiani) e dunque tutti ugualmente assolti nel tribunale della neostoria. Del resto, Ministro, devo darle atto di una certa garbata compostezza sulla memoria del 25 aprile. La sua sottosegretaria (la nostra sottosegretaria all’Istruzione) Paola Frassinetti la Festa della Liberazione l’ha festeggiata al campo 10 del Cimitero maggiore di Milano per onorare i volontari italiani delle SS. È immortalata in un video in mezzo a un drappello di camerati che sfidano, tra insulti e minacce, alcuni manifestanti antifascisti. Frassinetti si lascia andare alla rabbia ed esclama “ma vai aff…”.
Sempre a proposito di Linee guida per l’educazione civica… Da sottosegretaria del suo Ministero Paola Frassinetti, il 28 ottobre del 2024, anniversario della marcia su Roma, ha celebrato il “fascismo immenso e rosso”. Capisce, signor Ministro, perché ci sentiamo soli nella trincea? E perché le ho detto che è “passato al nemico” (il nemico è la parzialità, la manipolazione, la contrapposizione faziosa). Ma noi siamo combattenti testardi. Non avendo capi politici da lusingare, la nostra coscienza e la Costituzione antifascista sono le nostre uniche e inderogabili “linee guida” da seguire nel formare cittadine e cittadini liberi e consapevoli. Egregio Ministro, spero che queste parole non mi costino quella decurtazione dello stipendio che ha inflitto a un mio collega per aver pronunciato delle parole che Lei non ha gradito. Sarebbe non solo grave ma anche di cattivo gusto anche perché di recente insieme ad altri ministri lei lo stipendio ha cercato di aumentarselo.”
P. S. Le sue Linee guida stanno conseguendo i primi risultati. Qualche giorno fa uno studente che aveva studiato la divisione dei poteri di Montesquieu ha osservato che se un ministro fa una manifestazione sotto un tribunale per difendere un altro ministro sotto processo viola la separazione dei poteri. Aggiungendo che un ministro non è un semplice cittadino ma un membro dell’esecutivo, cioè di un potere dello stato. Gli ho risposto che ha ragione e gli ho dato un ottimo voto in educazione civica.
Con cordialità, prof. Giancarlo Burghi.
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La vita, proprio la vita
e io ho aspettato
Ha piovuto tutta la sera, tutta la notte e io ho aspettato ma tu non sei arrivata, e se qualcuno è arrivato certo non eri tu sono uscito in strada o sul balcone, non ricordo, e la pioggia scendeva, senza tregua, tutta la sera, tutta la notte, a meno che non siano state le stelle ad arrivare il cielo, l’eterno, il tempo dal principio, che è arrivato e mi è passato attraverso, così che la pioggia, se è piovuto, è arrivata e tu no, e io non ho mai detto a nessuno quanto è stato doloroso aspettare, quanti dischi ho suonato e tutte le canzoni parlavano di te, anche quelle che non parlavano affatto di te, anche il cielo parlava di te e il tempo, l’eterno, la pioggia, o se non di te della tua assenza, perché non sei arrivata e quella notte ho compreso il vero significato di buco nero, non solitudine, non dolore, non tragedia, non sole morto, ma qualcosa del genere, perché un buco nero è quando non arrivi quando decidi di vivere senza di me
no, non l’ho mai detto a nessuno, con quale dolore ho atteso, quanto è stata lunga la notte, che ogni minuto mi entrava dentro come un coltello smussato
e si piantava lì, che la notte mi si era avvolta intorno al collo come filo spinato, poi è arrivato il giorno e ha stretto più forte
Identico è il cielo, identico è il tempo e l’eterno è eterno, credo che sia una sequoia, ma forse non hai mai dovuto aspettare qualcuno che non è arrivato a meno che invece l’abbia provato e questo sia il motivo per tutti i buchi neri del cosmo, trecentomila all’ultimo conteggio
ecco quante volte non sei arrivata
Ricordo che non volevo sopravvivere alla notte, nemmeno vedere un nuovo mattino sorgere senza di te, avevo vent’anni e qualcosa e volevo morire
Come puoi continuare a battere chiedevo al cuore, nella tenebre del sangue
troppo giovane per sospettare che il cuore è il più vecchio muscolo del mondo, è un trattore ostinato, un pulsar costante
ma per molti mesi, molti, molti lunghi mesi, sei stata tu il mio inizio e la mia fine, chiudevo gli occhi e vedevo solo te che quella notte non sei arrivata, non hai risposto quando ho telefonato, e due giorni dopo ecco una lettera, scritta con una penna nera, diciamo una lettera da parte dell’amore, con l’inchiostro di un buco nero
Trent’anni più tardi salgo su un autobus ed eccoti lì, seduta davanti con in braccio un nipotino di tre anni, forse quattro, sei seduta con lui come a chiedere scusa per non essere arrivata quella notte di dicembre di tanto tempo fa quando la pioggia o le stelle sferzavano i vetri in Karlagata, mi si piantavano in fronte e l’eterno si era tramutato nella tua assenza e pensavo di morire
Ma se ti ricordi, il cuore è un trattore ostinato per questo posso prendere quell’autobus trent’anni dopo, vivo, con la barba, qualche cicatrice lasciata dalla vita, e tu sei lì e la vita, proprio la vita sta in mezzo tra me e te
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E' ora di bilanci, me lo ripeto, me lo ripeto e me lo ripeto, ripensando a quanto abbia fatto schifo questo anno e quanto, invece, avrebbe potuto essere migliore. Avevo due strade, scegliere me o togliere pezzi di me nel tentativo di incastrarmi in un cuore che per me non aveva spazio. Ho scelto la seconda e me ne sono presa tutte le conseguenze. Non ho avuto attimi di luce, non c'è stato un continuo sentirmi amata e rispettata; era tutto un urlare senza mai essere sentita, era un sentirmi perennemente messa all'ultimo posto, ho scelto una persona che mi ha resa invisibile. E' ora di bilanci, ed il bilancio di questo anno, si chiude in negativo. Negativo perché ho lottato per una persona che non muoveva nemmeno un dito per me, però mi riempiva le orecchie di parole e promesse, di cazzate; negativo perché non mi sono mai arresa ed ero lì sempre, a tentare, a provare, per poi sentirmi dire che ero invadente. Il mio desiderio di chiarire, di amore e di rispetto, di essere presa in considerazione era invadente. Ha fatto talmente male che avevo perso la mia luce, l'amore non ti fa questo, no? Mi ero promessa che mai nessuno avrebbe avuto il potere di mancarmi di rispetto, di invalidare i miei sentimenti ancora una volta, e invece. Mi sono fidata di un cuore egoista, di un cuore apparente, è stato stupido da parte mia credere che sapere di tutto il mio dolore, gli avrebbe fatto venir voglia di proteggermi, come un qualcosa di cui aver cura. Ma no, no, sono stata proprio io a dargli la pistola carica ogni volta, a dire "spara ancora, mira meglio", e lo ha fatto. Non vorrei essere lunga, ma questo anno è stato pazzesco. Però ho capito cosa non voglio al mio fianco, una persona che non sa tenermi e non vuole nemmeno lasciarmi andare, ferma tra i "forse" i "se" ed i "ma", tra le incertezze che non merito più. Io che quando amo, amo in modo saldo, fermo, forte, sicuro; non merito di essere uno stupido forse nella vita di chi non sa cosa vuole. Quando mi sono ritrovata a fare i conti con una me che avevo messo in ripostiglio, mi sono accorta che lì per me non c'era più nutrimento e dovevo andarmene il prima possibile. Quindi ho preso il mio cuore a pezzi e sono scappata, tornando da chi invece, mi amava davvero, e lì ho trovati tutti lì pronti ad accogliermi. Ho fatto delle nuove promesse a me stessa, mi sono estraniata da tutto, ho preso le distanze dalle persone e il telefono non squilla più. Nessuno mi cerca, nessuno mi guarda, nessuno mi vede. Non voglio più essere vista solo per prendere da me quello che fa comodo, voglio camminare nella mia pace adesso, lontano da tutti. Questo dolore forse mi serviva, mi serviva per imparare a non mettermi più da parte, a non rimpicciolirmi più solo per stare in posti stretti che non appartengono a me, solo per un briciolo di amore. Non mi importa più sapere perché, non mi importa più sapere l'altra versione della storia per poter controbattere che "non è vera!". In amore io non scappo mai, resto fino alla fine, fino a quando capisco che se mi fa male, non è amore. Non mi importa più capire; ho dato tante possibilità che sono state gettate al vento perché era più facile dare per scontata la mia presenza, fino al giorno in cui di me ne resta solo l'eco. Insomma, quest'anno mi ha insegnato cosa non è l'amore, ancora una volta. Quindi mi sto ricostruendo, più distaccata dagli altri, più attaccata a me. Un giorno sarò amata senza mai dover chiedere di essere rispettata, un giorno sarò amata proprio nello stesso modo in cui amo. Ho letto una frase molto bella che dice "e se mai l'amore dovesse ritrovarmi, spero che sia con qualcuno che tremi all'idea di ferirmi", ecco, è così che spero che sar��. Ma so che il mio viaggio adesso non riguarda l'amore, riguarda me. Devo prendermi cura di quella bambina della quale tutti si sono presi gioco e conoscere quella donna che permette agli altri di farla sentire meno di quella che è. Questo anno è stato tremendo, ma sono viva e sono grata di ogni giorno in cui respiro. In fine, vi auguro di riuscire a distinguere sempre un cuore sincero da uno codardo.
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martedì scorso mio padre ha avuto un ictus. da qualche tempo c'erano dei segnali: era assente, non capiva sempre le cose, si addormentava senza motivo; pensavamo potesse essere l'inizio dell'alzheimer, ma la visita aveva dato esito negativo. oltre alla demenza, questi sintomi sono precursori di un'ischemia, e la mattina di martedì, dopo diversi giorni in cui si svegliava agitato, si è alzato con un crampo, che è un altro possibile sintomo, è andato in bagno ed è caduto, per fortuna senza farsi male. a mia madre, come sempre, ha detto che non fosse niente: lo fa sempre – sto bene, sto bene, non ti preoccupare, sto pensando di iscrivermi alla maratona, come a voler confermare il suo stato di salute. l'ha aiutato a tornare a letto e poi hanno fatto colazione, quindi lui è tornato in bagno, ma con la porta aperta, e da lì mia madre ha visto una parte del viso cadente. i miei vivono in campagna e l'ambulanza, nel rispetto di un protocollo incomprensibile, lo ha prima portato in un centro ospedaliero sì più vicino ma non attrezzato per le ischemie – anche se era evidente che quello fosse un episodio di pre-ictus. portarlo in quella clinica, fargli fare una tac con strumenti insufficienti, per poi avere come esito: "bisogna portarlo in un altro ospedale", il tutto con oltre due ore di tempo perse. nel frattempo, a mio padre è venuto l'ictus vero e proprio – e se era entrato, pur con fatica, al pronto soccorso camminando, ne è uscito paralizzato
i miei vivono in sicilia, e in tutta la regione ci sono meno di cinque centri specializzati per l'ictus; in lombardia ce ne sono trentuno. una volta trasportato d'urgenza, l'operazione è durata a lungo, forse due ore. io intanto avevo prenotato un volo d'urgenza, e mio fratello pure. ci hanno detto che l'attacco ischemico è stato grave; mia madre è distrutta, le mie sorelle pure. il giorno dopo lo vedo ed è forse la visione più dolorosa che abbia mai avuto. gli occhi velati, lo sguardo fisso verso l'alto, la bocca storta, gli arti paralizzati, incapace di deglutire. soffre di diabete e ipertensione, ma ha sempre vissuto in modo sano; in tutta la vita si è preso l'influenza soltanto due volte. ha una moglie e quattro figli e gli vogliamo tutti un mondo di bene. è un tipo silenzioso, taciturno, ma positivo e sempre sorridente, e non ci ha mai fatto mancare nulla. quarantotto anni di matrimonio e tratta mia madre con lo stesso amore del primo giorno, ed eccolo lì, come se dovesse espiare una colpa infinita per cui però non ha alcuna responsabilità
durante l'operazione ha ingoiato del sangue e solo uno dei due trombi è stato rimosso: l'altra arteria si è chiusa, irrimediabilmente. poi, la polmonite – denominata ab ingestis, che si sviluppa quando nei polmoni finisce un agente esterno, e che è mortale fino al trenta percento. queste giornate sono state un inferno, tra angosce e pianti isterici, qualcosa che non pensavamo di meritarci e che sicuramente lui non merita. la polmonite, però, sembra in regressione, i farmaci funzionano e lui inizia a stare meglio. dopo una vita passata a essere ottimista e sorridente, si commuove nel vederci, sussurra "ti amo" a mia madre, lui che in quarantotto anni di matrimonio l'avrà detto non più di dieci volte, per tenere preziose quelle parole. gli occhi sono più lucidi e ha ancora un ausilio per la respirazione, ma i medici dicono che sta migliorando. da sabato la polmonite è in regressione; nel saperlo sono scoppiato a piangere, poi ci siamo abbracciati tutti, i quattro figli e nostra madre. tra ieri e oggi, finalmente, abbiamo ricominciato a riconoscere il suo sguardo di sempre: il coagulo si sta assorbendo e forse hanno diminuito le benzodiazepine. ha iniziato la fisioterapia e sta rispondendo bene; lui è lucido, il cervello sembra non essere stato intaccato. la ripresa sarà lunga, mesi o forse anni e non è detto che sarà completa, ma non vediamo l'ora di riabbracciarlo
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Slacciarsi l'anima
Si sta togliendo il reggiseno: tra un po’ lui entrerà nella stanza e la vorrà trovare nuda e pronta per l'amore. Lei lo sa bene, come funziona lì e si prepara: obbediente, docile e muta. È diventata un'odalisca occidentale in un paese mediorientale. A lui non piace che lei sollevi proteste, ancorché sommesse, o che addirittura gli si neghi. Qualsiasi cosa stia facendo, quando lui ha un'esigenza di carattere sessuale, lei deve smettere e correre a prepararsi. Per quell'uomo ha abbandonato l'Italia e adesso vive in una terra calda ma arida e lontana migliaia di chilometri dalla sua terra.
È così che la vuole: è la schiava di piacere per il suo esclusivo uso. Però non si equivochi: quell'uomo potente, ricco e affilato come un rasoio, la ama sinceramente: l'ha scelta tra tante. È un uomo di potere, molto colto e di gusti raffinati. Ha a sua disposizione grandissime risorse economiche, mezzi notevoli e non le fa mancare mai nulla, basta che lei solo accenni. Le ha ordinato di licenziarsi e lei, nel bel mezzo di un interessante e sudato percorso professionale, l'ha fatto. Senza esitazioni. Non l'ha sposata: vuole che si senta sempre “in prova” e sull'orlo di un possibile abbandono.
Glielo ha detto chiaramente: dovrai essere la mia schiava per la vita, l'oggetto e la somma ricompensa dei miei risultati lavorativi. Io ti userò per i miei sfoghi sessuali. Sarai però al tempo stesso una Regina, la mia donna da soddisfare e ti ricoprirò di benessere, agi, denari e doni a tuo piacere. E lei, pazza d'amore per lui, ha accettato ed è finita rinchiusa in un vero e bellissimo castello arabo, tra odalische profumate e stupende che la servono ed eseguono i suoi ordini alla lettera. La massaggiano e preparano il suo corpo con olii profumati e tecniche modernissime. Poi glielo nutrono e curano con creme e unguenti.
Ne governano l'alimentazione scrupolosamente. La sorvegliano, proteggono e gentilmente la obbligano all'attività fisica quotidiana stabilita di almeno tre ore. La intrattengono con conversazioni, racconti, film e spettacoli in esclusiva. E poi: giù pettegolezzi e confidenze molto intime tra donne. Ogni giorno la lavano e la vestono. Nei periodi di lunga assenza del padrone, la tengono anche allenata all'amore usando appositi falli di gomma strap-on, plug, usando le loro mani e bocche esperte, sì da tenerne ben vive e soddisfatte le voglie.
L'ha organizzato lui: non è geloso delle odalische e anzi alcune sono state sue prescelte per qualche notte, in passato. Ma lei è un'altra cosa: e deve essere sempre pronta. Perché lui l'adora e vuole il suo corpo; l'anima di questa donna occidentale gli interessa, certo. Ma forse più come prezioso trofeo di caccia da possedere in esclusiva, quale intimo gioiello sul suo cuore. Eppure, in qualche modo è stregato completamente dai suoi occhi. Quando torna da un viaggio di lavoro, per prima cosa corre subito da lei; è sua gran cura il fatto di riuscire a soddisfarla, farla gridare di piacere e venire più volte sotto di lui.
Lei nella privacy dell'alcova deve dirgli delle parole intime prestabilite tra loro, che lui adora ascoltare ogni volta uscire dalle sue labbra. E con la bocca, secondo protocollo, lei scende sotto l'ombelico dell'uomo a rinnovare la sua totale sottomissione. Con un lungo, torrido e appassionato bacio intimo. Solo dopo, può esserci tutto il resto. Potrebbe avere delle mogli o altre donne; ma ha scelto di avere vicino solo lei. E lei ha scelto di essere prima di tutto una cosa sua; soltanto dopo si sente anche una donna. Strani sentieri di devozione, percorre l'amore.
RDA
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Il giorno che ti metti a fare il conto di quante estati buone ti restano ancora, non degli anni che è una roba vaga e retorica, no, proprio le estati, la vera misura del tempo, e ti rendi conto che bene cha vada saranno quante, una ventina, magari anche meno o forse chissà poi magari alla fine in tutto saranno anche di più, solo che per te contano appunto solo quelle buone, quelle in cui avranno ancora un senso il mare, la luce lunga, il vino fresco, le cene all’aperto, i vestiti leggeri, i giri in bicicletta, e in quel preciso momento ti sembra di capire il senso della vita e come bisognerebbe viverla fin quando ce n’è.
- Lella Costa - Che bello essere noi.
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Ogni giorno, perdo tutto
e tu con me
e te;
e si sfuocano
le colazioni,
si induriscono
i biscotti al burro;
perdo il quadro
che ride e vive,
la cornice delle tende,
le verità stupende
che non ho detto e
la stupidità
di avere paura.
Perdo tutto, ogni giorno;
la pelle nuova,
la ruga che ho sorriso,
la ruga che ho pianto,
la voce,
la mia e la tua,
il coro che sono,
l’assolo.
Perdo parole
che avremmo potuto dirci, non dirci,
dire meglio.
Perdo possibilità
e una possibilità,
il ritmo del respiro,
la pazienza,
le sementi di un’idea.
E perdo le facce degli altri
in strada,
la mia su una vetrina buia.
Ogni giorno perdo uno scorcio
carico di sole,
e la mia età
salda,
che mi ancora alla terra
come un macigno
o una nascita,
che mi seduce
e trascina,
che tracima;
perdo la speranza
che esonda sulla mia fretta,
sulla mia calma.
Perdo
il miracolo di un giorno,
l’elemosina del tempo,
lo scialacquio degli attimi,
con la risacca magra
di qualche
felicità.
Ogni giorno perdo tutto:
il significato,
la velleità del buio
e gli abbagli,
la vastità sul bivio
e l’ombra lunga
degli sbagli,
le rime,
le rime per te,
l’amore,
la bambina che crede,
la bambina in cui credi,
e un’ansia del petto
che può fremere
e domandare
e guardare
e regnare ogni giorno,
mentre perde.
E perde tutto.
Perdo giurisdizione
ed emozione;
si consuma,
si annebbia,
sbraita come un fumo
la mia vita,
che ogni giorno perde me,
mentre perdo tutto.
Perdo il timpano dolce
sotto le voci affettive
che sono un’ala,
a curarmi,
o macerie.
Ogni giorno,
poi,
mi sveglio –
se mi sveglio –
e tutto,
tranne te
e tu con me,
ritrovo.
- Beatrice Zerbini
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13 LUGLIO 1954 moriva FRIDA KAHLO
Un corpo fragile e uno spirito indomito.
Una vita difficile, quella di Frida Kahlo, segnata dalla lunga malattia e da grandi passioni, vissute senza remore, incondizionatamente con tutta sé stessa, abbandonano al cuore la razionalità.
La passione per l’arte, quella per il suo Messico e l’amore tormentato per Diego Rivera, il compagno di una vita.
Quella di Frida è stata una vita breve ma ricchissima perché vivere col cuore non significa limitarsi a contare i giorni, i mesi o gli anni, ma significa contare le emozioni, perché la vita non è mera sopravvivenza. E non è vero che chi vive più a lungo vive di più.
Frida Kahlo è stata un’artista coraggiosa, capace di trasformare la sofferenza in ispirazione, le sconfitte in capolavori, plasmando opere che sono un urlo orgoglioso e potente alla sfida del vivere.
LA VITA E LE OPERE DI FRIDA KAHLO:
RIASSUNTO IN DUE MINUTI (DI ARTE)
1. Frida Kahlo (Coyoacán 1907 – 1954) è considerata una delle più importanti pittrici messicane. Molti la annoverano tra gli artisti legati al movimento surrealista, ma lei non confermerà mai l’adesione a tale corrente.
Fin da bambina dimostra di avere un carattere forte, passionale, unito ad un talento e a delle capacità fuori dalla norma. Purtroppo la sua forza di carattere compensa un fisico debole: è infatti affetta da spina bifida, che i genitori e le persone intorno a lei scambiano per poliomielite, non riuscendola così a curare nel modo adeguato.
2. La prova più dura per Frida arriva però nel 1925. Un giorno, mentre torna da scuola in autobus viene coinvolta in un terribile incidente che le causa la frattura multipla della spina dorsale, di parecchie vertebre e del bacino. Rischia di morire e si salva solo sottoponendosi a 32 interventi chirurgici che la costringono a letto per mesi.
Ha solo 18 anni e le ferite al fisico la faranno soffrire per tutta la vita, compromettendo irrimediabilmente la sua mobilità.
3. Durante i mesi a letto immobilizzata da busti di metallo e gessi, i genitori le regalano colori e pennelli per aiutarla a passare le lunghe giornate. Questo regalo darà avvio ad una sfolgorante carriera artistica.
La prima opera di Frida è un autoritratto (a cui ne seguiranno molti altri) che dona ad un ragazzo di cui è innamorata.
4. I genitori incoraggiano sin da subito questa passione per l’arte, tanto da istallare uno specchio sul soffitto della camera di Frida, così che possa ritrarsi nei lunghi pomeriggi solitari. È questo il motivo dei numerosi autoritratti dell’artista. Lei stessa dirà: “Dipingo autoritratti perché sono spesso sola, perché sono la persona che conosco meglio”.
5. Frida Kahlo nel 1928, a 21 anni, si iscrive al partito comunista messicano, diventando una convinta attivista. È in quell’anno che conosce Diego Rivera, il pittore più famoso del Messico rivoluzionario. Lo aveva incontrato per la prima volta quando aveva solo quindici anni (e lui trentasei), sotto i ponteggi della scuola nazionale preparatoria, mentre Diego stava dipingendo un murale per l’auditorium della scuola.
6. Nel 1929 sposa Diego, nonostante lui abbia 21 anni più di lei e sia già al terzo matrimonio. Inoltre Diego ha fama di “donnaiolo” e marito infedele. Il loro sarà un rapporto fatto di arte, tradimenti, passione e pistole. Lei stessa dirà: “Ho subito due gravi incidenti nella mia vita… il primo è stato quando un tram mi ha travolto e il secondo è stato Diego Rivera.”
7. Frida Kahlo ha avuto molti amanti (uomini e donne), tra cui il rivoluzionario russo Lev Trotsky e il poeta André Breton, ma non riuscì mai ad avere figli, a causa del suo fisico compromesso dall’incidente. Quando rimase incinta del primo figlio, Frida fece di tutto per portare avanti la gravidanza. Si dovette arrendere solo quando i medici la costrinsero ad abortire per evitare che perdessero la vita sia lei che il bambino.
8. Frida Kahlo e Diego potevano considerarsi una “coppia aperta”, più per le infedeltà di Diego che per scelta di Frida, che soffrì molto per i tradimenti del marito che ebbe persino una relazione con la sorella minore di Frida, Cristina.
Vista l’impossibilità di fare affidamento sulla fedeltà di Diego, i due decisero di vivere in case separate, unite tra loro da un piccolo ponte, in modo che ognuno di loro potesse avere il proprio spazio “artistico”.
9. Le opere di Frida kahlo sono spesso state accostate al movimento Surrealista, ma Frida ha sempre rifiutato tale vicinanza sostenendo: “Ho sempre dipinto la mia realtà, non i miei sogni”.
10. L’album dei Coldplay Viva la vida or Death and All His Friends (2008) si ispira ad una celebre frase che la Kahlo scrisse sul suo ultimo quadro, otto giorni prima della sua morte a soli 47 anni per cause ancora non del tutto certe.
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Il giorno che ti metti a fare il conto di quante estati buone ti restano ancora, non degli anni che è una roba vaga e retorica,
no, proprio le estati, la vera misura del tempo, e ti rendi conto che
bene che vada saranno quante, una ventina, magari anche meno o forse
chissà poi magari alla fine in tutto saranno anche di più, solo che per te contano appunto solo quelle buone, quelle in cui avranno ancora un senso
il mare la luce lunga il vino fresco le cene all'aperto i vestiti leggeri
i giri in bicicletta, e in quel preciso momento ti sembra di capire il senso
della Vita e come bisognerebbe Viverla fin quando ce n'è.
Lella Costa
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Il podcast integrale in cinque puntate su Rai Play Sound : https://www.raiplaysound.it/programmi/9999unagrandevitalunga
“Mi auguravano una grande vita lunga”,dice Giovanni Farina. Fino al 31 dicembre 9999. Giovanni Farina è stato ergastolano. Fine Pena Mai. Giovanni Farina è sopravvissuto all’ergastolo al quale era stato condannato. Giovanni Farina è sopravvissuto alla sua leggenda, quella dell’imprendibile bandito Farina, indicato come la mente del sequestro di Giuseppe Soffiantini, uno degli ultimi e più clamorosi sequestri di persona, nel 1998. Gli avevano detto che non avrebbe più rivisto i suoi monti, i Monti della Calvana, gli chiedevano se non aveva capito che doveva morire in carcere.
Questi Monti della Calvana dove Giovanni Farina è cresciuto, sono i monti dove il cineasta Giovanni Cioni è tornato a vivere, proprio negli anni del sequestro Soffiantini, che è stato nascosto qui. È su questi monti, in una casa non lontana dalla sua casa abbandonata, che Giovanni Farina e Giovanni Cioni si ritrovano per questa conversazione –e si ritrovano proprio il giorno in cui Farina finisce di scontare la sua pena. Il giorno in cui sarebbe libero. Sarebbe, dice.
Un viaggio sonoro e cinematografico –di immagini sonore come delle reminiscenze. Le parole ripercorrono una vita, la rivivono. Ci portano lontano nel tempo –la sua infanzia di pastore sardo in Toscana, il clima di sospetto e di criminalizzazione con il quale si scontra, i primi arresti e le fughe, la famiglia dispersa. Le parole ci portano lontano nello spazio -nella giungla del Venezuela, in Australia, nella caverna dei lunghi anni di isolamento. Le parole –negli anni di carcere per sopravvivere Giovanni ha iniziato a usare le parole, a scrivere testi, racconti, poesie, di uno splendore struggente per lottare contro l’oscurità. Nelle parole di Giovanni c’è l’ostinazione alla vita, una vita dispersa da ritrovare.
9999 UNA GRANDE VITA LUNGA
un podcast di Giovanni Cioni,
prodotto da RUMORE
registrazione e sound design Saverio Damiani
produzione artistica Pinangelo Marino
vincitore del Premio Lucia 2024:opere
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LA CONFESSIONE DI UNA PADRONA
(C'è del sesso, ma è propedeutico per il racconto)
La Confessione
“Deve essere qui” Disse Tindara avvicinandosi ad una porta del lungo corridoio dalle pareti spoglie pieno, su di un lato, di sedie vuote e sull’altro di porte chiuse su cui un foglio di carta attaccato con il nastro adesivo indicava chi esercitava in quella stanza qualche branchia della professione medica. Quello che stava guardando Tindara diceva “Dottoressa Manuela Barillà – psicologa” Apri la porta ma la stanza era buia, per cui richiuse la porta e si girò a guardare le sedie. “Veni cà Giusy, Sittamuni” Disse alla ragazza che la seguiva docile e con una faccia rassegnata. Si accomodarono sulle sedie. Ti passò una mano sui capelli accarezzando la ciocca bianca che le partiva sulla sinistra della fronte e che si allargava sui capelli mossi ingrigendosi sempre di più fino a scurirsi quando i capelli arrivavano sul collo raccogliendosi in lunghe onde. Osservò Giusy. La ragazza si era lasciata andare sulla sedia stanca e preoccupata, concentrata a guardare il pavimento. Teneva le mani nelle tasche del soprabito rosso come i suoi capelli, quasi a non voler toccare nulla di quell’ospedale che la impauriva. Aveva una lunga ruga che correva lungo la sua fronte larga e gli occhi passavano dall’esser tristi al diventare ora preoccupati ora decisi e determinati, un mutare che rivelava il ribollire dei suoi pensieri. Tindara prese il telefono ed aprì la galleria delle immagini. Fece scorrere le foto velocemente arrivando a quelle dell’anno precedente e ne scelse una che si allargò sullo schermo. Nella penombra di una stanza, una raggio di sole giallognolo illuminava il corpo di un ragazzo seminudo disteso su un lettino. Il ragazzo aveva gli occhi chiusi, i capelli sparsi disordinatamente sul cuscino bianco, il suo volto era coperto da una barba di qualche giorno. Il suo corpo sudato, era disteso tra le lenzuola del letto e quasi risplendeva nella penombra. Aveva gli arti muscolosi e le vene ben marcate di chi li usava ogni giorno per lavorare che quasi contrastavano il suo volto da bambino. Tindara lo guardò senza che il suo volto mostrasse la minima espressione e facendo attenzione che Giusy non vedesse cosa stava osservando. Faceva così ogni volta che aveva bisogno di coraggio, o quando si sentiva triste per qualcosa di spiacevole che era successo. Quel corpo la faceva sentire più forte, più viva, come se nessuno in quel momento potesse contrastarla per dirle di no.
Sentì dei passi e si voltò a guardare da dove loro due erano venute. Vide arrivare una donna bassa quanto lo era lei, con un camice bianco aperto che svolazzava nel suo camminare velocemente, mostrando il suo maglioncino di kashmire ed il costoso jeans firmato. Portava degli occhiali firmati forse più spessi dei suoi, appoggiati su un volto tondo coperto di un esagerato fondotinta. “buongiorno – fece velocemente la nuova venuta, senza neanche osservarle come se fosse presa a sanare tutti i mali del mondo e non avesse tempo per essere educata e considerare chi la stava aspettando – scusate il ritardo” Aggiunse in modo automatico, quindi le guardò entrambe e poi con la faccia seria chiese in modo freddo e antipatico “Signorina Giusy, ma perché è venuta? Ho invitato solo la signora Tindara” “Ho chiesto io a Giusy di venire. È in ansia per Bastiano e ho pensato che sentire la nostra discussione l’avrebbe aiutata a capire come aiutare il suo fidanzato” “Allora, signore, precisiamo, qui sono io che devo pensare al il signor Bastiano e con chi parlare e quando – fece seccata con un piglio da prima della classe - poi c’è la privacy” “Ma è Giusy che dovrà vivere con lui per tutto il resto della sua vita. Ha più diritto di tutti a capire. Se c’è chi soffre per chi ama, nascondersi nella privacy è una ipocrisia” “certe cose è meglio che restino tra le persone a cui riguardano” Fece enigmatica la dottoressa guardando fissa Tindara “Bastiano non parla molto ma sa giudicare le persone. Di donne ne ha conosciuto. Se ha scelto Giusy per la sua vita, vuol dire che la ritiene una persona che sa capire e giudicare con la sua testa. Poi non vede che si sta tormentando per sapere cosa fare? Non possiamo lasciarla nel dubbio e tormentata da voci e dicerie che sono poi false” E guardò la psichiatra perché capisse quello che doveva capire. “dottoressa, per favore, voglio sapere. Ne ho bisogno per avere la forza per andare avanti” Fece Giusy con un filo di voce La dottoressa la guardò quasi con compassione “Va bene, venga anche lei: se sentirà cose spiacevoli la responsabilità sarà della signora Tindara” “me ne assumo la responsabilità Dottoressa: stia tranquilla” Ma dentro di se, la sua anima paesana replicò per come era la sua natura “ma va affanculu tu e cu ti cacoi” La dottoressa aprì loro la porta e le fece accomodare di fronte ad una piccola scrivania, dietro cui si sedette. “mi dica signorina Giusy, come sta andando il suo fidanzato.” Sorrise nel chiederlo e Tindara capì che era un sorriso di circostanza, un professionale invito ad iniziare la discussione. “Ecco, non ci sono stati altri … episodi. Bastiano lavora tranquillamente e non ha avuto più altre … ricadute” “bene, prende ancora i calmanti quando sente ansia” “si” Rispose Giusi con un filo di voce, guardando con aria complice Tindara. “Figurati se gli diamo quelle cose - commentò la Tindara interiore - non è nu pacciu, uno che dobbiamo stordire con le pastiglie” “Bene – ripeté soddisfatta la psicologa – potete sospendere per un po' se non vi sono altre crisi” Osservò i suoi appunti ed iniziò lentamente a parlare come un giudice che legge una sentenza “Ecco, ho fatto venire la signora Tindara per avere un quadro completo del signor Bastiano, perché penso che il suo disturbo depressivo ricorrente sia dovuto a un senso di colpa eccessivo che lo porta a fargli perdere l’autostima e a rifugiarsi nel sonno o nella immobilita. È un modo con cui si fugge a decisione e scelte che non si sanno gestire. Per questo ci si rifugia in sé stessi, si chiudono i contatti con il mondo esterno che si percepisce come ostile, incapace di capirci e pronto solo a giudicarci impietosamente. Signora Tindara lei non era presente quando è successo la prima volta?”
Chiese guardandola da sopra gli occhiali che le erano scivolati sulla punta del naso “Pari proprio na cucca peggio i mia” Pensò sorridendo Tindara e continuo ad alta voce
“no dottoressa, io non c’ero. Stava andando con Giusy a vedere la casa che volevano comprare per il matrimonio e d’improvviso Bastiano si è seduto sopra una sedia nel laboratorio della pasticceria e non si è più mosso.” “era come se dormisse – continuò Giusy - Solo quando gli ho detto che ormai si era fatto troppo tardi e non potevamo più andare si è come svegliato tornando normale.” “Bene” - Fece la dottoressa scrivendo qualcosa e continuò – la seconda volta è stata quando avete fatto le prove in chiesa no?” “Si dottoressa – rispose prontamente Giusy – eravamo arrivati e il prete ci ha fatto un sermone sull’amore eterno e gli impegni che richiede: dedizione, comprensione, perdono, fedeltà. Sulla fedeltà il prete si fermò a lungo, lamentandosi che al giorno d’oggi tutti tradivano tutti, prima e dopo il matrimonio e che questa era la prova che il diavolo usava il sesso per rovinare le famiglie. Bastiano mi ha chiesto di andare un momento fuori e da allora non ricorda più niente” “Si, io ero li come testimone e lui ha detto “esco un momento” e non l’abbiamo più visto; solo dopo mezzora che aspettavamo abbiamo sentito gridare una signora che era andata a confessarsi e ha visto dentro il confessionale Bastiano che dormiva tanto pesantemente da sembrare morto”
Giusy si contorse le mani e continuò
“dottoressa, cos’è che ha: non è che non vuole più sposarsi? Che non mi vuole più bene” “non dire queste cose – fece seria Tindara – non è così. … E’ che deve abituarsi all’idea, come tutti maschi” “A quale idea signora Tindara ?” Fece la psicologa guardandola severamente “All’idea che deve cambiare abitudini” “e quali in particolare signora Tindara” La incalzò la dottoressa. Tindara dentro di se sorrise e si disse “Chi pensi che mi futti? Ti pari chi haiu u cabbuni bagnatu? Strunza sucaminchia” “Dottoressa, Bastianu è un artista – fece replicando ad alta voce come stava spiegando qualcosa di complicato ad un bambino - è uno che con un po' di zucchero, due uova è un po' di farina, crea dei capolavori di dolci! Ha mai mangiato il suo Babà al limoncello? I bignè alla crema di gelso? Le hanno mai regalato un suo panettone alla crema di mandarino? Il suo budino al mosto di vino con la cannella e le mandorle? Vi sono persone che vengono da Catania solo per poterli assaggiare!! Sono dolci che nessuno prima di lui è stato capace di immaginare e di fare o che lui prende dalla tradizione ricreandoli. Tutto questo andare, girare, fare e dire per il matrimonio lo stressa, gli ferma l’ispirazione, uccide la sua creatività” “Ma questo non può farlo cadere in stato catatonico Signora! Io penso invece che il signor Bastiano si senta in colpa con la signorina Giusy per certe abitudini, certi modi di fare che aveva prima di conoscerla” “Dottoressa non c’è un prima e un dopo nel modo di essere di Bastiano.” “Vuol dire che lui è sempre lo stesso?” Chiese ironica la psicologa “Si, è sempre lui” “Quindi quello che faceva prima lo fa ancora” “E che cosa faceva prima dottoressa?” “non so, ma parlando con il signor Bastiano mi è sembrato che lui nutra per lei un ammirazione e rispetto che normalmente è difficile trovare così forte tra un dipendente e il suo datore di lavoro: forse si sente in colpa per questa ammirazione … o forse non è solo ammirazione” Tindara sorrise “Dottoressa, parliamoci chiaro, cosa vuol dire?” La dottoressa fece una faccia neutra, quasi indifferente come quella di un serpente prima di mordere “Ecco, io penso che il legame che c’è tra lei e il signor Bastiano sia molto, molto forte. Una forza che non può essere solo dovuta al rapporto di lavoro. Nel discutere con lui ho notato che l’ha citata lo stesso numero di volte della signorina Giusy. Alle volte scambiava il vostro nome e nei sogni che mi racconta c’è sempre una figura femminile di una certa età di cui ha bisogno di lui, che lui non può lasciare perché c’è un impegno che non sa gestire. Un bisogno descritto con immagini che potrebbero avere anche un risvolto sessuale. Penso che Bastiano, pur amando la signorina Giusy, sia ancora legato a lei signora Tindara, …alle abitudini che gli dava … e che forse gli dà ancora, tanto da farlo sentire … in difetto con se stesso” Giusy si volto a guardare Tindara che restò impassibile come se il discorso non la riguardasse
C’era afa. Afa e non sapevo cos’altro. Qualcosa che dentro da giorni mi turbava, mi inquietava, mi innervosiva, e che in quella domenica pomeriggio di agosto sembrava dovesse esplodermi dentro. Era un periodo in cui facevo cose che non avevo mai fatto. Mi prendevo cura dei miei capelli, delle unghie, della pelle. Levavo la mia esuberante peluria da tutte le parti del mio corpo che non le competevano, anche in quei punti che nessuno poteva vedere. Mi ero fatta le unghie di una fotomodella ed avevo incominciato a usare sempre il rossetto, scegliendo sempre quelli più costosi, così come per le scarpe e i girocolli d’oro o di perle. Ogni volta che scendevo a Messina tornavo con un profumo che ero capace di finire in una settimana e questo perché volevo che mi si notasse, mi si considerasse non solo come la signora Tindara, la padrona della panetteria e una delle più ricche del paese. Volevo essere considerata come donna. Da chi non lo sapevo, non l’immaginavano, ma avevo bisogno di pensare che potevo piacere, che potevo ancora interessare, che non ero tornata ad essere la vecchia e sfortunata Tinderuccia ed essere commiserata per questo: mi avevano già commiserata e quando ero piccola.
In quei momenti, quando il negozio era chiuso e non avremmo fatto pane per quella notte avrei voluto che qualcuno mi portasse a passeggiare nel viale san Martino a Messina, o a Taormina. Avrei potuto andarci da sola, ma non era questo quello che volevo. Volevo che qualcuno mi ci portasse e facesse con me tutte quelle cose che Bastiano e i suoi amici facevano alle loro amiche per divertirsi. Invece stavo chiusa nel negozio e seduta al bancone controllavo i conti degli altri negozi come facevo ogni domenica quando tiravo le somme per capire come stava andando e mettere da parte i soldi. Un’abitudine che avevo preso quando i debitori di mio marito avevano incominciato a bussare alla porta esigendo da me il pagamento dei suoi debiti. Ora non avevo più di questi problemi ma ogni domenica, in attesa che qualcuno mi portasse a spasso, tiravo sempre le somme.
Però in quel pomeriggio afoso e silenzioso, la volontà di confermare una sicurezza economica che ormai era certezza, mi era passata. Volevo altro, qualcosa che mi desse piacere, che mi facesse felice. Mi ricordai che nel frigorifero, nella cucina dietro il forno, c’era una granita che Karl mi aveva preso al mattino ma che non avevo toccato. Mi avviai verso la cucina, attraversai il piccolo corridoio tra le mura della casa e il forno, entrai nella stanza in cui viveva Bastianu e mi avvicinai al frigorifero. In quell’istante vidi Bastiano sdraiato sul lettino posto sotto la piccola finestra. Era quasi del tutto nudo, a parte uno slip che non tratteneva la sua virilità che il sonno aveva ritemprato. I capelli lunghi e spettinati, la barba lunga e rada, i pettorali sviluppati a forza di sollevare sacchi di farina, le braccia muscolose, le dita grosse e forti, le vene grandi e marcate, le cosce robuste di chi si muoveva facendo chilometri ogni giorno. La mia anima tremò ed il mio cuore per un attimo si fermò. Non lo avevo mai visto così, non l’avevo mai considerato per quello che quel corpo ispirava o per l’uso che potevo farne.
Forse sto dicendo una bugia. Giorni prima stavo prendendo le casse dentro cui mettiamo le forme di pane a lievitare. Erano in alto, su una mensola. Ne stavo prendendo una mettendomi sulla punta dei piedi e d’improvviso questa con un'altra mi cade quasi addosso. Rivedo quel momento come accadesse adesso: riesco a fermarla ma non posso prenderle bene e bloccarle. Allora Bastianu viene e da dietro grazie alla sua altezza, mi aiuta bloccandole con le sue mani. Nel far questo, il suo corpo urta il mio ed io lo sento lungo tutta la schiena. Fu un brivido che mi corse dentro la spina dorsale risvegliando quel serpente voglioso che cacciando mio marito, avevo addormentato. “lassa a pigghiu jo” Mi disse, e spinse in alto le casse restando con il suo corpo attaccato al mio e strusciandosi contro di esso. Non so se lo fece apposta. Ma era tanto che nessuno toccava il mio corpo e la pressione del suo, l’odore del suo sudore, squarciarono i miei sensi, liberandoli, vogliosi e affamati. Pensai che la mia carne reagisse in quel modo inaspettato per la solitudine che aveva provato. Ma quello che dentro me avevo sentito, non era una carezza: era piacere che voleva essere, crescere e consumarsi. Un piacere, epidermico, tangibile che scese dentro di me a svegliare desideri forse volgari, stupidi, inutili, eppure, intensissimi. Desideri di una donna sola che, non per sua scelta, era prigioniera di una aridità carnale dono della sua cattiva sorte. Ed ora, vedendolo li nudo su quel letto, quei desideri tornarono a strisciare dentro ogni intimità del mio corpo, bruciando come ferite dolorose e dolcissime. Percepivo la presenza, la sensualità di quel corpo come se fosse il calore di un fuoco lontano ma che arrivava fino a dentro la mia anima, accendendo con essa ogni altro mio pensiero e desidero sedati dalla sorte. Bruciavano soprattutto quelle parti che avrebbero dovuto dare solo piacere, ma che mio marito, nel suo egoismo maschile, aveva sempre ignorato, violentandole e così facendo, spegnendone la sensibilità e l’interesse. Quel corpo che si offriva era bellissimo, e a vederlo li, disponibile e gratuito, le mie labbra si aprirono come a volerlo baciare. La mia lingua mi sorprese sporgendosi dalle labbra e muovendosi come se stesse leccando un gelato fatto da quei muscoli di Bastiano che, inesperta com’era, avrebbe voluto accarezzare, esplorare con goloso desiderio e oscena voglia. Sentii il cellulare contro la coscia, lo presi velocemente e scattai una foto e corsi via, spaventata da quanto avevo fatto: dalla incontrollata danza della mia lingua col suo osceno desiderio, da quel voler rubare quel corpo, anche se solo in una foto, per tenerlo con me e non lasciarlo più, per poter immaginare di fare con lui, tutto quello che la mia carne chiedeva e che la mia anima, ora confusa e spaventata da sé stessa, sognava, desiderava. Pretendeva.
Tindara scosse la testa “Dottoressa lei sta alludendo a cose che per buona creanza non voglio neanche pensare. Io con Bastiano? Ma signora mia lei ‘nzonna, vagheggia e francamente mi delude, mi delude molto dottoressa” “Ah si - fece gelida la dottoressa – mi spieghi allora perché Bastiano ha per lei così tanta “ammirazione”” “No dottoressa, è lei che deve spiegare a noi perché, e mi sembra che lei non abbia le idee molto chiare. Mi dica ad esempio lei sa quando Bastiano ha iniziato a lavorare?” “Mi ha detto che a tredici anni era andato a lavorare da Domenico, la pasticceria che ora è di sua proprietà” “E le ha detto anche perché suo padre lo ha portato lì?” “Perché negli altri negozi come il barbiere o il falegname c’erano già altri ragazzi” “No, non perché lo ha portato nella pasticceria di don Domenico, ma perché lo ha portato a lavorare? Vede, lei non lo può sapere, la famiglia di Bastiano abita sui monti, con altre famiglie tutte imparentate. Hanno la ‘nciuria, il soprannome “i Rimiti” ,gli “Eremiti” , perché vivono della loro campagna e dei loro boschi e non hanno bisogno di nulla, tanto che vengono al paese solo per le grandi feste, una, due volte l’hanno. Che bisogno aveva suo padre di metterlo da un Mastro se aveva mandrie e greggi da custodire, campi da arare, vigne da zappare e uliveti da curare?”
Guardò la dottoressa che non fece nessun movimento
“Glielo dico io, perché quando è nato, sua madre ha avuto una emorragia ed è morta. Lui è stato svezzato da sua sorella Sarina. Ma i suoi fratelli lo trattavano male perché dicevano che aveva ucciso la loro madre. Per questo suo padre lo ha messo a mastro in paese, perché in famiglia non lo trattavano bene. Suo padre, preoccupato per come i fratelli lo consideravano, lo ha portato da una vecchia zia in paese. Ogni giorno il piccolo Bastiano andava da don Domenico a lavorare, dall’alba a quando era notte fonda. Ed ora le dico un'altra cosa che lei non può sapere ma che è importante. Quando il padre lo ha portato da don Domenico, quest’ultimo gli ha detto “vedi io non ho apprendisti perché chi lavora con me, deve avere capacità particolari. Se tuo figlio le ha, resta e io gli insegno un mestiere meraviglioso, se non ce l’ha, lo porti via” e diede a Bastiano un dolce e gli chiese “che giusti senti?” e lui subito ”Pasta sfoglia farcita di mele con Marsala, sento poi la buccia di limone e vaniglia, una vaniglia che non è quella nelle bustine” Don Domenico sorrise. “Infatti, è vaniglia Tahiti. Ecco – disse don Domenico – lui per questo lavoro va bene, quando assaggia sente quello che c’è dentro” e lo prese con se. È stato l’unico allievo di don Domenico, l’unico a cui il vecchio Mastro diceva e spiegava i segreti della sua arte. Non le dico l’invidia e la rabbia dei figli” SI rivolse a Giusy, “ “quando vi siete incontrati la prima volta in pasticceria cosa ha fatto Bastiano?” “Mi ha dato un pezzo di torta e mi ha chiesto gli ingredienti “E tu li hai indovinati?” “Tutti” “Lo vede dottoressa? Giusy è stata l’unica a ripetere quello che ha fatto Bastiano quando ha iniziato a lavorare. Per Bastiano lei non è semplicemente, la sua ragazza. E’ l’unica che può comprendere la sua arte e l’unica per cui può inventare e creare. E’ la sua ispirazione” La dottoressa le rispose mentre prendeva appunti “Qui non è in discussione l’amore di Bastiano per la signorina Giusy…. Ma forse un altro amore” Tindara guardò la dottoressa “Ma quali amuri e brodo i ciciri … dottoressa ….”
Era voglia, solo voglia. Me ne rendevo conto ora che, tornata dietro il bancone, guardavo la foto di Bastianu seminudo. Era la voglia di possedere quel corpo lo così com’era, forte e tonico, per stringerlo contro il mio di donna matura, sgraziato forse ma soffice e caldo, sentendo su di esso le sue mani stringermi ed esplorarmi, cercarmi e saziarmi. Era la voglia di far scivolare la sua lingua in ogni mia parte e lo stesso fare con lui: accarezzarlo, stringerlo, leccarlo, baciarlo, succhiarlo, schiacciandolo con il mio peso e sentire il suo sul mio corpo. Era il desiderio osceno di dargli ogni piacere e rubarglielo per goderne e nutrirmene. La mia mano finì sotto il bancone dove ero tornata dopo averlo fotografato. Scese, laggiù in mezzo alle gambe e la stringevo con le mie cosce in quel punto, per evitare che lei facesse quello che le mani, la lingua o il sesso di lui avrebbero dovuto fare: seminare, far rifiorire e strappare il piacere dal mio corpo.
Liberarlo, finalmente.
Mio marito faceva il suo dovere coniugale per il suo unico uso e consumo, obbligandomi, coprendomi con il suo sudore acido e stordendomi con l’odore di alcool e tabacco del suo alito malato. Mi faceva vedere filmati osceni pretendendo che, innocente ed inesperta com’ero, facessi con lui quello che quelle svergognate facevano con i loro verri. Ma io non ne capivo il senso, lo scopo, non sentivo quel piacere che lui insultandomi e picchiandomi, diceva di provare. Ora però, io avrei voluto fare tutte quelle cose oscene che avevo subito, con quel corpo seminudo, giovane e pieno di forza. Spensi disperata il telefono e levai la mano dalle cosce, mi alzai uscendo per strada impaurita da quanto provavo, sconvolta da quanto desideravo. Corsi in chiesa per fuggire al diavolo che si contorceva nella mia carne come un serpente prima di rompere il guscio dell’uovo in cui era cresciuto e uscire libero e padrone, affamato e impietoso. In chiesa mi inginocchiai disperata dicendo “Signuruzzu libberami i sta tentazione, i sti mali pinseri, i stu diavulu chi mi mancia i canni. È nu carusu! è nu carusu Signuri mei! Chi mali fici p‘aviri sti tintazioni sti disii ill’infennu! È nu carusu u criscii jò, puria esseri me figghiu! Picchì Signuri mei, picchì sti pinseri, stu malu focu intra i me canni. Libbirami signuruzzu, libbirami i stu diavulu chi mi tenta” e pregavo, pregavo come non avevo fatto mai. Poi alzai gli occhi e vidi l’altare di san Sebastiano, con la statua in gesso del Santo seminudo trafitto di frecce, colorato da un rosa denso e lucido come il corpo di Bastiano. Aveva gli stessi muscoli e lo stesso volto da bambino di Bastiano, e ad osservarlo, a contemplarlo stupita di notarlo solo in quel momento, mi sentii persa, persa, persa, come se fossi diventata pazza e ne avessi avuto alla fine la conferma nel vedere nella statua del santo, lo splendido goloso corpo di chi, oscenamente e volgarmente desideravo.
“Comunque, tornando a quanto dicevamo – continuò Tindara - Bastiano iniziò a lavorare perché la famiglia non aveva per lui nessuna considerazione cosa che invece trovava in don Domenico. Purtroppo poi don Domenico venne a mancare e i suoi parenti, la prima cosa che fecero, fu mandarlo via anche se era un pasticcere provetto. Ai figli non era andato giù la preferenza che don Domenico aveva dato a lui invece che a loro. Allora Bastiano sentì che io cercavo un aiuto perché mio padre era appena morto per un infarto. Lo avevo trovato alcuni giorni prima disteso sul pavimento della sua camera da letto con in mano dei pezzi di giornale e senza di lui non sapevo come far andare avanti il panificio visto che mio marito pensava solo alle carte e alle sue donne di strada.” “che età aveva quando lo assunse allora?” “Aveva circa si e no diciotto anni” “Come mai lo fece stare a casa sua? Non aveva una casa dove abitare nel paese?” “La vita di chi fa il pane, non è come quella degli altri lavoratori. Mio padre si alzava all’ una di notte e incominciava ad impastare per preparare i panini, il pane comune e quello che chiamiamo il pane di grano duro. Verso le sei c’era la prima infornata. Poi quando sfornava andava a Messina a prendere i prodotti che servivano in negozio. Bisognava muovere sacchi di farina pesanti e ceste piene di pane caldo. E’ un lavoro massacrante, che fa sudare e sporcare ma la zia dove stava Bastiano era vecchia e non gli lavava neanche le magliette bianche con cui lavorava. Chi lo vedeva per strada pensava che fosse stato a zappare. Mio padre aveva comprato due case, una attaccata all’altra. Nei piani superiori aveva fatto una infinità di stanze e vi abitavamo noi. A pianterreno c’è il negozio e, attaccati, il panificio e il grande forno. Dietro il forno c’era una stanza di servizio in cui abbiamo messo una cucina, un bagno e un letto per appoggiarci quando potevamo. La stanza era un avanzo della casa che dava sul vicolo e vi avevamo mantenuto anche la porta di entrata, così che era indipendente dal resto della casa. Bastiano dormiva li perché poteva mangiare quello che gli cucinavo e riposare quando il lavoro lo permetteva. Poi ho incominciato a lavargli i vestiti, a stirarglieli, a comprarglieli, a mandarlo dal parrucchiere o dal dottore se non stava bene perché nessuno si curava di lui. Con il tempo sono diventata la madre che non ha conosciuto, un’amica, un punto di riferimento importante” “Ma suo marito non aveva niente da ridire per questo ragazzotto che le stava in casa?” “Mio marito pensava solo a giocare. Era la sua droga. Se stava in negozio mi sparivano i soldi, se ci aiutava a fare il pane combinava di proposito dei danni, così aveva un motivo per farsi cacciare da mio padre e andarsene a giocare a carte.
Poi successe il patatrac.
C’era una ragazza che veniva al negozio solo quando c’era mio marito e veniva sempre con una bellissima collana al collo. Pensavo che fosse la solita paesana che voleva esibire i suoi gioielli. Un giorno sono andata nella gioielleria di Messina dove compravamo i regali per i battesimi e cresime perché una mia comare aveva avuto una bambina. Il gioielliere, tutto contento, appena mi vede mi chiede se la collana che mio marito mi aveva comprato mi fosse piaciuta. Lo guardo stupita e gli chiedo di quale collana parlasse. Lui me ne fa vedere una simile a quella che la ragazza che veniva in negozio portava al collo. Dottoressa mi è venuta una rabbia che se mio marito fosse stato li, gli avrei cavato gli occhi e mangiato il cuore. Ma nel tornare al paese incominciai a pensare. Dove poteva aver preso i soldi se continuava a perdere a carte? Arrivata a casa vado a vedere dove mio padre conservava il denaro che era sotto il cassetto basso del comò, nella sua camera da letto. Lì c’erano tutti i soldi che guadagnavamo in piccoli pacchetti che potevano stare tra l’ultimo cassetto e il corpo del grande comò. Quando levo l’ultimo cassetto vedo che la base del comò ha ancora qualche pacchetto di soldi. Allora ne prendo uno e lo apro. Dentro vedo che vi sono due o tre banconote che coprono fogli di giornali tagliati come banconote. Da fuori sembrava che ero milionaria: in realtà, quel disgraziato di mio marito mi aveva rubato tutto!! Forse mio padre aveva scoperto che i soldi che aveva sudato, erano scomparsi e gli era venuto l’infarto. Se ne fossi sicura avrei già denunciato mio marito. Quando comprendo che tutti i risparmi sono scomparsi, Dottoressa impazzisco! Prendo tutte le cose di mio marito, i vestiti, le scarpe, i libri, le carte e le butto dalla finestra, in piazza ingiuriandolo il più che potevo, gridando che se lo avessi visto gli avrei sparato.”
si fermò un istante
“lui era troppo vigliacco per farsi vedere e da allora non l’ho più visto. L’avevo sposato perché sono come sono, piccola, grossa, con gli occhialoni e il naso curvo come il becco di un gufo e solo lui mi aveva cercato quando tutte le mie coetanee erano già sposate da anni. Quando si era presentato elegante, educato, gentile, io me ne sono innamorata subito e gli credevo quando mi parlava del suo amore. Ma ormai avevo capito che l’amore di cui parlava era quello che aveva per i miei soldi. Scomparso lui, come tanti corvi su un cadavere, arrivarono tutti i suoi debitori con cambiali dove c’era la mia firma. Quel maledetto di mio marito aveva perso una fortuna e per non finire sparato in qualche angolo di strada, aveva falsificato la mia firma. Mi consigliai con un avvocato e lui mi disse che, per come si poteva, magari dilazionando, era meglio pagare e prendersi le cambiali: da un momento all’altro avrebbero potuto pignorarmi il forno ed io avrei impiegato anni a dimostrare che quella firma non era la mia.”
Si fermò di nuovo e con il fazzoletto si asciugo le labbra
“Ero disperata. Non avevo un aiuto, un soldo, un qualcosa per potermi difendere da quei corvi. Allora Bastianu. aveva ormai ventuno anni e lavorava di fronte al forno giorno e notte in silenzio e con impegno. Mi vide che piangevo seduta in un angolo del panificio e mi chiese cosa era successo. Gli spiegai che avevo bisogno di soldi per pagare i debitori e salvare il forno. Mi disse con quell’entusiasmo che hanno solo i ragazzi che non c’era problema. Avremmo fatto più pane, avremmo fatto la focaccia la sera e i cornetti di notte. Avremmo venduto di più guadagnando il doppio. Gli dissi che era solo e che non poteva fare tutto. Rispose che avremmo preso suo cugino Karl che era autistico, e che suo padre Sabbuccio voleva far lavorare perché da quando erano tornati dalla Germania, non parlava con nessuno. Per Sabbuccio il figlio che lavorava era un modo per farlo integrare nel paese dove non conosceva nessuno dato che parlava poco e principalmente in tedesco. Io conoscevo bene Sabbuccio, era stato mio compagno di classe alle elementari e gli dissi di si. Poi fece venire una sua nipote, Razudda, che aveva avuto un figlio senza sposarsi e aveva bisogno di guadagnare qualcosa. Potevo pagarli quando avevo i soldi e come tutti nella sua famiglia, quando iniziavano a lavorare non si fermavano mai. Poi, su consiglio di Bastianu, abbiamo incominciato a fare il pane usando la farina di un grano antico, il Perciasacchi che mi vendevano i suoi zii. Questo grano è come il Kamut così il pane prendeva un gusto buonissimo, antico e gustoso. Ebbe un grande successo, dai paesi vicini venivano solo per comprare quel pane. Così un mio cugino con un furgone ha incominciato a portare il pane anche ai paesini della costa. Sfornavamo pane in continuazione, pane di grano duro, pane comune, pane con pancetta, con olive, e poi piccoli o grandi panini, una focaccia buonissima alla Norma alle patate, alla cipolla, alla Margherita, alla Messinese e cornetti di tutti i tipi. E tutto con Bastianu che controllava ogni cosa, che aveva sempre nuove idee e che con la sua esperienza e gentilezza guidava Karl e gli altri lavoranti che poi abbiamo preso per poter fare tutta quella produzione. Bastiano ha questo talento, se lei gli fa assaggiare un pezzo di pane, lui le sa dire la farina, il lievito madre, gli ingredienti ed è capace di rifarlo, non uguale, ma più buono. Abbiamo aperto un negozio nel paese sul mare perché il nostro che è chiuso in mezzo ai monti ed ha sempre meno abitanti. In quel negozio vendiamo il pane e tutti i prodotti che i suoi parenti Rimiti ci davano: formaggi, salame, olio, olive, sott’olio, maccheroni fatti in casa, funghi, vino e aceto. E cosi, di paese in paese abbiamo aperto altri negozi, gestiti da parenti, amici creando una cooperativa che ormai è una macchina che da soldi. Ormai i soldi non li conservavo più in mazzetti sotto il cassetto del comò, ma nelle scatole per le scarpe.”
Guardò la dottoressa
“in tutto questo tempo io l’ho vestito, l’ho nutrito, l’ho curato. Io sono stata la mamma che non ha mai avuto e lui è stato il mio aiuto fidato, il mio consigliere e confidente, anche se abbiamo più di vent’anni di differenza. Tra noi c’è un rapporto come tra fratello e sorella. - si fermò per sottolineare il suo pensiero - Non ci sono cose strane o cose sporche tra di noi”
Gli uomini si possono imbrogliare, ma Dio no, non potevo imbrogliarlo: la mia era una voglia sporca, oscena e disgustosa. Ma mi attirava. Mi possedeva, non riuscivo più a negarla o a vincerla. Come tutti i deboli incominciai a pensare che solo saziandola potessi vincerla. Sono tornata a casa dalla chiesa disperata perché il desiderio di lui non si spegneva. Quella sera non entrai neanche nel panificio e il giorno dopo lo evitai e così fu per diversi giorni e per evitarlo andavo a vedere gli altri negozi, andavo dal commercialista, dai fornitori cercando di essere più impegnata che potevo. Ma la notte non riuscivo a dormire, mi muovevo nel letto come se fosse pieno di carboni accesi, fino a che non accendevo il telefonino e guardavo la foto che avevo fatto. Stavo a guardarlo per ore, a seguire ogni curva del suo corpo, ogni suo più piccolo particolare e dentro mi sentivo bruciare come se avessi nel mio corpo un mare di lava fusa, che ondeggiava lambendo quelle parti del corpo che volevano essere saziate, cercando il modo di uscire, di far esplodere questa mia carne sgraziata e far bruciare la sua pelle con i miei baci rapaci e le mie tenerezze lascive. Nello stesso tempo, mi vergognavo di quanto provavo, perché non riuscivo a controllarlo, a soffocarlo, a capire come spegnerlo. Perché era questo che più di tutto mi sconvolgeva, perché non capivo questa improvvisa voglia di Bastiano, che avevo visto diventare uomo un ragazzo per cui ero stata quella madre che madre non ero. Quel ragazzo che fino a pochi giorni prima avevo avuto accanto giorno e notte ascoltando i suoi sogni innocenti come i suoi occhi e raccontandogli i miei problemi, cercando di spiegargli la vita per fargli vincere quella sua sensazione che nessuno lo amasse e volesse. Ora dovevo cercare di non pensare che fosse lì, un piano sotto il mio letto, seminudo e disponibile.
Finché un sabato notte lo sentii rientrare dall’uscita settimanale che faceva con gli amici. Sapevo che come sua abitudine si sarebbe fatto una doccia prima di coricarsi e subito pensai a quel corpo coperto da infinite goccioline d’acqua desiderando di essere una di loro per scivolare sulla sua pelle, e leccare ogni parte. Allora, smisi di pensare, mi alzai e vestita solo della mia costosa camicia da notte, scesi da lui. Non sapevo perché, o se lo sapevo, non lo volevo ammettere, ma sentivo che dovevo scendere, dovevo vederlo. Ne avevo bisogno, Scesi velocemente e lo raggiunsi dietro al forno. Stava uscendo dalla doccia, il corpo pieno di gocce d’acqua e coperto solo da una tovaglia che gli circondava i fianchi.
Mi salutò sorridendo “Prendo una bottiglia d’acqua” dissi dirigendomi verso il frigo, poi mostrandomi sorpresa aggiunsi “Ma così tutto bagnato ti verrà un accidente” E presi dal suo armadio una tovaglia di spugna e mi misi ad asciugargli le spalle e i capelli grondanti d’acqua toccandolo con voglia “non sei più un bambino devi riguardarti” Dicevo mentre gli accarezzavo con la tovaglia le spalle “e chistu, chi jè” Feci mostrando stupore indicando un segno rosso che aveva sul collo “Nenti, fu Mariarosa” “ e come ha fatto? Ti desi nu muzzicuni?” Sorrise “no, era mezza brilla e mi ha detto che ero il meglio della compagnia e mi ha fatto questo succhiotto” “Mariarosa è a to zita?” Chiesi con indifferenza mentre dietro di lui, gli accarezzavo delicatamente le spalle con l’asciugamano “no, è troppo bambina. A me piacciono più mature” Rispose ridendo “Hai gustu …” Risposi e lentamente scesi con le mie labbra a coprire il segno di Mariarosa e continuai baciandolo poco più sopra e ancora più sopra poi lasciai la mia lingua libera di scivolare fino al suo lobo per esplorare il suo orecchio e mordere il suo tenero lobo. Le mie mani esploravano il suo petto, accarezzandolo e scendendo verso la muraglia della tovaglia che custodiva i suoi desideri, il suo piacere, il cibo per le mie voglie. Levai con delicatezza quell’inutile, ipocrita copertura e accarezzai i miei sogni più segreti. Girò il volto a guardarmi ed io osservai quel volto da bambino che mi guardavano in bilico tra un dolcissimo desiderio e un inutile sorpresa.
Ci guardammo.
Ero il serpente che osserva la colomba prima di morderla a morte. Questo mi sentivo e me ne vergognavo ma mi eccitavo al solo pensarlo. Fu la mia lingua, il messaggero della parte oscura della mia mente a rompere gli indugi. Uscì dalle mie labbra e lo saluto, ondeggiando di fronte alle sue labbra, sfidandole, provocando il suo corpo, stordendo la sua anima. E la sua anima rispose nello stesso modo, la sua lingua uscì a sfiorare la mia, a girare intorno a lei, finché le sue labbra la imprigionarono e la risucchiarono dentro la sua bocca. Calda, liquida, dolce. Sentì le sue mani esplorarmi, stringermi, imprigionarmi, desiderarmi, ubbidire agli angoli bui e volgari del suo desiderio, così come facevano le mie, come, affamata, faceva la mia bocca che incomincio a baciarlo a leccare le sue gocce di acqua, a scendere sempre più in basso, fino alla vergogna più infima solo per trarne il piacere più forte. Per me e per lui. Per prepararlo a saziarmi. Per anticipargli quel paradiso che in me avrebbe provato. Quando tutta la mia saliva aveva coperto tutti gli angoli da cui nasceva il suo piacere, mi alzai, staccandomi da lui. Lentamente arretrai levandomi tutti quei sottili vestiti che coprivano il mio infuocato corpo. Arrivai al tavolo dove mangiavamo. Senza mai levare gli occhi da quel corpo di cui avevo ancora il gusto salato in bocca.
Mi sedetti e allargai quanto più potevo le gambe. “Veni” Gli dissi, comandandolo a saziarmi. Lui fu ubidiente. Dolcemente, vogliosamente ubidiente. Si avvicinò lentamente, sorridendo e mi baciò sulle labbra e continuò a baciarmi, sul collo, sul seno. Ma io lo fermai e con le mani, spinsi la sua testa giù ad esplorare con la sua bocca, la sorgente del mio piacere, ad aprirla, a leccarla, come se fosse un gelato, un dolcissimo gelato. Nessuno l’aveva mai fatto per me, e nell’imporgli di darmi quel piacere sentii che era questo quello che mi mancava. Finalmente avevo trovato quello che cercavo con i costosi profumi e cure per il mio corpo: sentirmi adorata, come deve esserlo una dea, una regina, una padrona. Quando alla lingua lui aggiunse le sue dita io conobbi il piacere, quello vero, non quello rapido e distratto con cui mio marito saziava il suo volgare e blasfemo desiderio. Provavo quel piacere, triviale nel modo, divino nel risultato, che il mio corpo desiderava, che la mia anima nera pretendeva, che il diavolo che c’era in me ordinava. Fu un lampo di luce che mi attraversò bruciandomi di dolcezza. Ero una oscura mosca caduta nel miele dorato in cui affondava annegata dal puro piacere. Ero un serpente inebriato dal suo veleno. Ero una donna che apprezzava il frutto del suo corpo. Ero l’origine di quel piacere che finalmente ero mio, solo mio, per sempre mio. Si alzò senza far caso a tutto quello che provavo, come tutti quegli amanti inesperti, preoccupati solo di dare senza chiedere nulla. Sentii che era un mio schiavo, servo primogenito delle mie estasi. Era questo quello che ancor di più appagava la mia sensualità, un piacere più intenso di quello della carne: era il comandarlo! Io che avevo sempre ubbidito a mio padre, a mio marito, al prete a tutti i maschi che avevo incontrato nella mia vita, ora ero la sua padrona, seduta sul mio trono, e lui mi aveva onorato inginocchiandosi per donarmi quanto lui non stava ancora provando.
Era questo che faceva dilatare le mie narici per inebriarmi mentre saziavo la mia voglia. Senza preamboli lo attirai a me spingendolo dentro a nutrire i miei desideri ancor più affamati. Fu in me, ubbidiente e voglioso. Fu una spada rovente che mi attraversò per sciogliere quella che fino ad ora era stata la mia carne gelata dal tradimento. Un lampo luminoso nella eterna notte gelida del mio grembo. Continuava baciandomi sul collo, stringendomi i capezzoli, tirandoli. torcendoli, come i capricci delle sue amiche gli avevano insegnato. Il dolore che mi dava era altro piacere. Lo gustavo in silenzio.
Era la prima volta che il mio corpo mi donava gioia.
Si fermò. Mi fece scendere dal tavolo e mi fece voltare facendomi sdraiare sulla pancia. Alzò la mia gamba sinistra e la fece appoggiare sul tavolo. Tornò dentro di me con una mano che tormentava i miei capezzoli e un altra che accarezzava amorevolmente le punta del mio sesso. Era piacere puro sentire il suo corpo sulla mia schiena, mentre urtava instancabile il mio tondo e sgraziato posteriore. Tutto ormai mi dava piacere, un piacere osceno, volgare. La sua mano lasciò il mio capezzolo e affondò le dita nei miei capelli, li strinse e con forza fece voltare il mio volto verso di lui. Lo sguardai stupida dalla sua improvvisa rudezza, ma prima che la mia bocca potesse chiudersi, la sua lingua la violò e scese dentro di lei a cercare la mia. Era questo quello che volevo, che desideravo dentro di me: che mi cercasse per godere. Nuovamente raggiunsi il massimo piacere, con la sua mano che spellava il mio sesso e gli rubava il lento balenio dell’orgasmo. Godetti ancora. Persa in quella elettricità carnale che mi attraversa il corpo e mi portava dove la carne non è carne ma solo un brivido, lo schiocco di una frusta, l’eruzione di un vulcano. Morì e rinacqui, adorando quel corpo che mi possedeva mentre ubbidiente saziava i miei desideri. Anche lui raggiunse il piacere. Forse forte quanto il mio. Lo senti ansimare, accasciarsi di me, come una grossa onda che urla e sparisce nella sabbia della riva che aveva sconvolto con la sua forza. Sentii il suo fuoco accendersi dentro il mio grembo, nel freddo sterile e inutile vuoto in cui non sarebbe mai nata una vita. Ansimava come ansimavo io, stanchi e poco abituati a quei giochi carnali dove la fatica è solo una misura dell’intensità con cui il piacere ci travolge. Avevo desiderato per prima, lo avevo fatto cadere negli abissi delle mie voglie, avevo vinto il suo corpo perché mi ero nutrita della sua forza, avevo succhiato dalla sua vita, la sua anima innocente, facendo brillare con essa la mia anima nel buio dell’esistere. Eppure, ancora non ero sazia.
“comunque grazie a lui ha guadagnato molto bene, questo non l’invoglia a tenerlo con sé? A farlo sentire in colpa perché la sta lasciando?” Gracchiò la voce sgraziata della Dottoressa “No. Gli dovevo tutto, ma Bastiano è anche una persona buonissima che non chiede per sé mai nulla, ma non vuole che gli altri gli dicano cosa fare. È restato con me perché poteva fare quello che voleva e se aveva un’idea io gli davo i mezzi per realizzarla. Non pretendeva mai nulla, ma io gli davo qualche soldo in più degli altri e lui era contento anche se neanche li spendeva perché non gli dava valore: a lui importa solo sentire il gusto delle sue farine e dei suoi dolci e creare un nuovo dolce o un pane diverso. I soldi erano solo un riconoscimento, non un fine. Per questo ho deciso di fare qualcosa di importante per lui, di soddisfare il suo sogno più grande: aprire una pasticceria! Perché lui dentro è pasticcere. Ha ancora il quaderno dove scriveva le ricette che gli diceva don Domenico e se lei vedesse questo quaderno, lo troverebbe pienissimo di mille altre ricette che ogni giorno inventa e che vorrebbe sperimentare. Passa il suo tempo a vedere tutti quelli che mettono sui social le foto o i filmati dei dolci. Sul suo computer ha più di diecimila ricette e conosce tutti i pasticceri di questo mondo. Così ho comprato il laboratorio e la casa nella piazza del paese dove don Domenico aveva la pasticceria e che i suoi inutili figli hanno fatto fallire. Ho dato tutto a Bastiano dicendogli che era tutto suo e che li era libero di fare quello che voleva. Da quel momento lo vedevo solo una volta alla settimana per controllare i conti. Quando mi ha detto che aveva conosciuto Giusy e che voleva sposarla sono stata contentissima! Io gli ho regalato le fedi e il viaggio di nozze che faranno. Perché voglio che abbia quello che ne io ne lui abbiamo avuto: una famiglia” “un atteggiamento encomiabile signora che per una persona che non è mai stato abbandonato, che ha avuto rapporti sociali, normali e quotidiani, porterebbero sicuramente ad una esistenza normale. Ma Bastiano ha avuto una infanzia piena di sensi di colpa, di rifiuti, di rapporti limitati a don Domenico e a lei: abbandonare il proprio mondo è traumatico per tutti, ma non ci spinge a chiuderci in noi stessi, a rifugiarci nel sonno per la predica di un prete sulla fedeltà. Lo dico a tutti e due: dovete affrontare il problema accettando il fatto che per Bastiano il matrimonio ha qualcosa che lo obbliga a fuggire in se stesso e, man mano che la data si avvicina, sarà sempre peggio. Lei signora Tindara può anche dirmi che per lei Bastiano è un figlio, ma dalle discussioni che abbiamo fatto, per lui non è solo una madre adottiva”
mi ero nutrita della sua forza, avevo succhiato dalla sua vita la sua anima innocente, facendo brillare con essa la mia anima nel buio dell’esistere. Ma non ero ancora sazia. Sdraiata sulla pancia sul tavolo, mi girai. Era sudato come lo ero io. “vieni, facciamoci una doccia” Gli dissi prendendolo per mano e tirandolo nel bagno. Si lasciò insaponare e lasciò che le mie mani lo accarezzassero ovunque. Il suo corpo aveva un profumo buono, non quello del bagnoschiuma che aveva usato, ma quello del desiderio. Un profumo intenso, che mi entrava nel naso e come una spina arrivava in fondo nel cervello, ad aprire le gabbie in cui avevo chiuso le mie voglie, per farle uscire e scivolare dense dentro il mio sangue, a guidare le mie labbra, la mia lingua, le mie mani, la mia sete del suo corpo. Lo strinsi contro il mio che lo avvolse. Lo baciai sotto rivoli di acqua che scendevano lungo i nostri corpi come ruscelli su i fianchi del monte. Lo guardai e mi sorrise. Era contento. Lo feci uscire dalla doccia e con un lenzuolo di spugna lo asciugai strofinandolo e baciando la pelle che asciugavo. “Hai ancora voglia?” Chiese e io che gli stavo asciugando i piedi lo guardai dal basso verso l’alto con tra i miei occhi ed i suoi, tutto quel suo corpo che avevo desiderato. “Si” Risposi sinceramente. Allora avvicinò la mia testa e disse solo “saziati”
E così feci e quando fu della consistenza giusta, lo portai a letto e salii su di lui, muovendomi come una regina sul suo cavallo ora in avanti ora indietro per quanto piacere trovavo o gli davo. Sorrideva stringendomi il grosso seno osservando il mio volto preso dal piacere lascivo di dominarlo. Poi mi fece scendere e sdraiato dietro di me, mi prese come aveva fatto prima sul tavolo. Lo sentivo spingere e stringere il mio seno. La cosa lo eccitò e quel dondolare di circostanza diventò irruento, cattivo, voglioso. Spinsi la sua mano a stringere il mio sesso e con la mia strinsi i suoi capelli tenendo ferma la sua testa perché la mia lingua giocasse con la sua. Arrivò forte come il vento di maestrale, il mio corpo sussultava dal piacere come una pergola colpita dalla grandine. Ero io che lo usavo, che lo gustavo per come volevo, come faceva mio marito con me, quando mi faceva subire tutte le peggiori volgarità che le sue puttane gli insegnavano. Ma adesso, ero io la padrona del piacere e lui era il servo che doveva saziarmi. Questo pensiero mi bruciò dentro, mi esaltò, squarciò la mia mente abbagliandola di luce.
Ero io, finalmente, la padrona.
La mia anima divenne liquida e usci da ogni mia parte, le cosce incominciarono a tremare e per un minuto il mondo intorno a me si spense. Sentì che anche lui, travolto dal mio, dava sfogo al suo piacere. Ansimando lentamente si spense mentre io, come una foglia morta che si staccava da una quercia, svogliatamente planavo ritrovandomi tra le sue braccia. Ritornando in questo orribile mondo dove ero brutta, goffa e sola. Fu così che iniziammo e che con regolarità continuammo. Mai sazi. Mai Pentiti, Mai stanchi. Quel fare l’amore, non era amore, lo sapevamo, ma aveva dell’amore la forza, la capacità di distruggere il presente, la possibilità di volare via, lontano da tutto e da tutti, come se fosse una droga che ci regalavamo l’uno con l’altra. Ma non era amore. Non lo era. Non poteva esserlo. Era una solitudine che violentava un'altra solitudine.
“Dottoressa, io non sono sua madre, sono il bene che nessun altro gli ha dato, ma lui deve capire che per il suo stesso bene, io sono ormai il passato. Lei ha studiato e può trovare il modo giusto di dirglielo. Siamo venute a parlarle proprio per dirle questo: quello che lui pensa o pensava, non conta nulla, conta che ha qualcuno che gli vuole bene e con questo qualcuno deve vivere il resto della vita” “Purtroppo questo lo deve capire lui, io più che sostenerlo psicologicamente non posso fare altro! Se è vero tutto quello che ha detto, o anche se non fosse vero, Bastiano non riesce a trovare un equilibrio tra di voi: per lui avete la stessa importanza, per lui scegliere equivale a far del male a una di voi due. Io per questo l’avevo chiamata: lei deve trovare il modo di uscire dalla sua vita”
Tindara guardò la dottoressa con un’aria cattiva
“io sono già uscita dalla sua vita nel momento in cui ha incontrato a Giusy, ed è questo che lei non ha afferrato. Se lei non sa capire e aiutare Bastiano, lo dica pure troveremo un altro modo” La dottoressa la guardò come se stesse per scoppiare e con voce sempre più alterata le rispose “Glielo ripeto perché forse lei non vuole capire: Bastiano non si può aiutare se lei non esce dalla sua vita” Tindara l’osservò con il volto che improvvisamente diventò indifferente e freddo “Va bene, se lei continua e pensarla cosi, faccia pure. Per me lei finisce qui” Si alzò di scatto e si rivolse a Giusy “Si ci vò parrari tu, paraci puru: jo fini” E senza salutare se ne uscì.
Attraversò camminando velocemente e nervosamente il corridoio ed uscita su uno dei viali che circondavano il Policlinico si incamminò lungo il primo che vide. Ad un certo punto notò una panchina vuota sotto un albero, si fermò a guardarla e alla fine si sedette con gli occhi fissi di fronte a se indifferente a tutto Dopo circa mezzora arrivò Giusy che si sedette accanto a lei e le chiese senza guardarla. “Perché non le hai voluto dire che andavate a letto?” Giusy sapeva tutto. Forse Bastianu le aveva parlato di loro perché lui era fatto così: a chi voleva bene non nascondeva nulla. Era una sua qualità
“Perché non è questo il problema di Bastianu” “e allora qual’ è il suo problema? Fammelo capire una volta per tutte” fece Giusy esasperata dalla situazione. Tindara sbuffò e si voltò da un'altra parte senza guardarla e dopo un attimo di silenzio, incominciò a parlare sottovoce come se parlasse a sé stessa. “Sabbuccio, quando ha capito che suo figlio non era come gli altri, ha incominciato a studiare e si è fatto una certa cultura su quello che c’è nella testa degli uomini e come funziona. Lui mi ha detto che ognuno di noi viaggia verso la sua felicità come una nave in un mare senza fine. La sua intelligenza, il suo talento, la sua immaginazione sono le vele che catturano il vento della vita e che lo spingono avanti. Ma il timone di questa nave è il bambino che siamo stati, quello stesso bambino che pensiamo sia scomparso dentro noi quando abbiamo raggiunto la pubertà. Ma lui è li. Ricorda tutto. L’amore, l’abbandono, le gioie e i pianti. È lui con le sue paure, i suoi desideri che sceglie la rotta verso cui la nave naviga, che decide di cosa abbiamo bisogno e quindi chi siamo. A volte navighiamo senza problemi, altre volte il bambino che ci guida, non riesce a trovare la sua rotta perché si spaventa e ha paura o è arrabbiato con il mondo perché non gli da quello che vuole. Allora incomincia a far girare la nave in tondo, disorientato e perso.”
Si fermò in silenzio per un attimo.
“Quasi due anni fa Sabbuccio, mi ha chiamato dicendomi che suo figlio gli aveva telefonato preoccupato per Bastianu perché non era andato a lavorare. Mi disse che Karl era scioccato per questo e mi chiese di vedere se era successo qualcosa a suo nipote Bastiano. La cosa mi stupì ed andai nella sua stanza a vedere. Era li, sdraiato sul letto che guardava il tetto. “Bastià chi succidiu?” gli ho chiesto “nenti, nenti” mi rispose ma non si mosse e non mi guardava. Allora vedo sul suo comodino una lettera, la prendo e la leggo. Era di una scuola per pasticceri di Parma, una famosa, dove solo i migliori vanno. La lettera, in modo molto gentile diceva che non potevano accettare la sua iscrizione perché non aveva titoli: non aveva frequentato scuole specializzate né aveva mai gestito una pasticceria. “non te la prendere Bastià, questi non sanno quanto sei bravo. Poi ci sono altre scuole.” Ma lui si arrabbia. Mi dice gridando che non potrà mai andare in nessuna scuola perché per lui era già stato difficile fare le medie e non era mai andato alle superiori. Quello che sapeva, lo sapeva perché io l’avevo forzato a leggere i libri di pasticceria e a cercare le ricette su internet. Di tutto il resto, di quello che c’era fuori dal forno, non sapeva nulla. Aggiunge che lui non è che sperava qualcosa dalla scuola di Parma, ma voleva capire se finalmente poteva fare il pasticciere, se ne avesse le capacità, invece così nulla, non poteva fare nulla. Non l’avevo mai visto in quello stato, ne immaginavo che dentro di lui vi fosse tutta questa frustrazione. “Bastià non ti avvilire – gli faccio - vedrai che troviamo una soluzione. Puoi andare a Messina dai nostri compaesani pasticceri, fai passare un anno e ripresenti la domanda e vai”. Sul momento si è calmato e mi chiede “ma tu verrai con me, non è vero?” io lo guardo stupita e gli rispondo “come faccio, devo mandare avanti tutti i negozi, non posso farlo da Parma” “devi venire! devi venire, io senza te non so muovermi, non saprei cosa fare, dove andare, come organizzarmi, mi sentirei come quando andavo da don Domenico, che mi sentivo solo e dovevo solo ubbidire” “ma Bastiano, cosa dici, non sei un diverso e non hai bisogno di me” “No , no, non posso farcela senza di te, sei la mia maestra, il mio google-map che sa sempre dove andare e cosa fare. Poi, anche tu hai bisogno di me per fare l’amore e dimenticare tutti i tuoi problemi: io sono la tua droga. Lo faremo quando vorrai, ogni minuto se ti servirà: con me sarai felice vedrai.” “Ma che dici Bastiano, non è così che si vive….” Ma non era la verità quello che dicevo. Lui capisce sempre il nocciolo delle questioni ed quello che mi aveva detto d’improvviso mi apparve come la vera realtà che stavo vivendo, qualcosa che dentro di me sapevo senza volerla ammettere: lo usavo per dimenticare la mia solitudine.
Come gran parte della mia vita anche il sesso era stato solo un’illusione. Con lui sedavo le mie ansie e nascondevo i miei sensi di colpa per mio padre, i figli che non avevo avuto, gli sbagli fatti o subiti che leggevo nei sorrisini ironici della gente, il vuoto in cui ero finita per salvare il forno e pagare i debiti e accumulare, accumulare soldi che non sapevo spendere ed erano solo la misura del mio essere nulla. “E allora per te cos’è quello che facciamo se per me è una droga” Gli chiesi arrabbiata dalla mia scoperta. Lui esitò qualche secondo “È qualcosa che non mi fa pensare. Perché dopo sto bene anch’io e mi vengono in testa tante idee nuove. Perché così mi consideri e posso stare con tè” “ma Bastiano, così nessuno di noi due risolve i suoi problemi. Poi, potrei essere tua madre, sono di un altro tempo, tu devi trovare la tua strada, devi stare con i tuoi amici, i tuoi compagni, costruirti un futuro che io non potrò darti. Ma perché non ti trovi una ragazza e ti sposi?” “io … lo vorrei, ma … ma dovrei cambiare vita, avere altre abitudini, uscire sempre, non avere più te come riferimento … No no, fuori da questa stanza, senza di te, ci sono solo problemi. Qui sto bene. C’è il pane caldo, ci sei tu. Fuori sono solo uno stupido, solo qualcuno che a scuola andava male, solo qualcuno che le ragazze non vorrebbero mai presentare ai genitori anche se vogliono divertirsi con me. Sono solo un bambino che suo padre ha nascosto in una pasticceria perché ha ucciso sua madre. Devo stare qui. Qui sto bene, tutti mi vogliono bene e mi rispettano. Qui sono importante, guadagno bene senza problemi, tu Karl, i clienti tutti mi volete bene.” “Bastiano ma non è così. Non puoi restare chiuso per tutta la vita nel di dietro di un forno. Tu hai talento per i dolci, e ogni talento è un dono di Dio, lo devi usare, lo devi far conoscere” “A chi dovrei farlo conoscere’ a gli altri? loro mi vogliono così, senza talento. Un talento è una responsabilità, per lui bisogna fare delle scelte … difficili, molto difficili … ma se nessuno ne parla, è come se non esistesse. Il mio non esiste. Basta, non ne voglio parlare. Basta” Si è messo in posizione fetale e si è addormentato.” “Già allora?” “Si già allora. Io sono rimasta a guardarlo e poi mi sono sdraiata accanto a lui e l’ho abbracciato. A lui piace essere abbracciato perché da bambino nessuno l’abbracciava. Mi sono chiesta cosa potevo fare, perché Bastiano ha cambiato la mia vita ma non riusciva a cambiare la sua. Ecco per una settimana sono rimasta li a pensare, a ragionare, senza arrivare ad una conclusione. Lui era nervoso, appena qualcuno gli diceva qualcosa rispondeva incazzato.
Il sabato successivo tornò prima del previsto dalle sue serate con gli amici. Gli chiesi perché. Mi rispose che una sua amica voleva fare, ma lui l’aveva mandata a quel paese. Stranita gli chiesi spiegazioni. “Era la zita di mio compare Melo, non potevo mancargli di rispetto. Lui le vuole bene e lei fà con il primo che incontra. Ma chi fimmina è? “ “Si vede che si voleva solo divertire, oppure non l’ama” “L’amore, l’amore: tutti a riempirsi la bocca con questa parola, ma che cosa è l’amore? Spiegamelo!” Chiese alterato dalla rabbia “È quando tu pensi sempre a qualcuno e lo vorresti sempre con te, in ogni minuto della tua giornata. Tu non hai mai amato?” “se è questo l’amore no, mai” “non ami neanche me?” “che c’entra tu sei diversa” “e cioè? che cosa sono per te?” “te l’ho detto, un riferimento, una certezza, … una sorella” “con le sorelle non si fanno certe cose” “va bhe, noi lo facciamo perché così ci liberiamo la testa e perché ci piace. È il nostro modo di non pensare a niente, il nostro spinello. Così poi io torno nel mio buco a fare pane e a vedere i programmi dei dolci sullo smartphone, e tu torni a combattere ed impazzire con i fornitori, il commercialista e gli operai. Noi ci vogliamo bene come due naufraghi finiti sulla stessa zattera che si aiutano per necessità e bisogno ma che non si amano, non si desiderano e si pensano solo per quello che serve a tirare avanti” Aveva ragione, come sempre. L’uno serviva all’altro per vincere il malessere di dover lottare con tutti per poter sopravvivere in quella gabbia invisibile che era la nostra solitudine. Ma al di la di questo, non c’era un progetto, un futuro da programmare insieme. Il nostro non era e non è amore. Eravamo due animali chiusi in gabbia, due animali di successo in quello che facevano ma dei falliti per come vivevamo in mezzo agli altri. Incominciai a cercare su internet articoli di psicologia che mi aiutassero a capire cosa fare. Ma mi perdevo in tutte quelle spiegazioni e parole nuove. L’unico che conoscevo e che sapeva spiegarmi le cose era Sabbuccio e gli chiesi aiuto. Lui mi aiutò ad arrivare al punto del problema …” Giusy sorrise e chiese con malizia “Bastianu dice che voi due ora state insieme…” Sorrise anche Tindara e quasi arrossì abbassando lo sguardo “Quando eravamo bambini e a scuola giocavamo a bandiera, Sabbuccio si metteva sempre di fronte a me e quando chiamavano il nostro numero mi faceva vincere sempre, anche se ero goffa e correvo come un piccolo ippopotamo. Crescendo, mi difendeva sempre quando mi prendevano in giro perché ero uno sgorbio con gli occhialoni e i peli sul labbro. Forse allora mi voleva bene. Ma lui stava nelle campagne tra pecore e maiali ed io ero la ragazza più ricca del paese. Per questo se ne è andato via, in Germania. Li ha studiato e ha iniziato a lavorare in banca. Poi gli è nato Karl e subito ha capito che aveva problemi. Gli hanno diagnosticato una forma di autismo e Sabbuccio è tornato a studiare e si è preso una laurea in pedagogia, per capire ed aiutare Karl. Quando sua moglie è morta, è tornato al paese perché dove stavano, vedeva che trattavano Karl da handicappato. Qui, i suoi parenti, i Rimiti non lasciano indietro nessuno. Lui mi ha fatto capire tante cose, anche di me. Ad esempio che quando si fa l’amore non bisogna essere qualcuno come una troia, o una sottomessa o una padrona. Bisogna essere sé stessi perché è questo l’amore: poter essere se stessi senza doversi nascondere.”
Si fermò a guardare le mani
“A furia di chiedergli cose, ho capito che per me ha un sentimento diverso da quello della sola amicizia. Gli ho chiesto cosa vedeva in me per tenermi sempre in considerazione dopo che era stato via per tanti anni. Lui mi ha risposto che ha un difetto agli occhi: non vede le forme, il corpo delle persone, ma solo le loro anime e la mia, da quando ero piccola, per lui è bellissima. Nel dirmi questo ha messo la mano in tasca e ha tirato fuori un pupazzetto, uno di quelli che c’erano una volta negli ovetti di cioccolato. Mi ha ricordato quando da bambini alle elementari, avevo visto che aveva finito la sua piccola merenda che si era portato da casa e non aveva altro, mentre tutti i nostri compagni tiravano fuori barrette di cioccolato e ovetti Kinder. Io lo avevo visto messo in un angolo tutto triste che faceva finta di niente e gli avevo regalato l’uovo di cioccolato che mi ero portata e che conteneva quel pupazzetto. Lui ha attraversato la sua vita con quel pupazzetto in tasca tenendolo sempre con se. Nel raccontarmi delle elementari mi mise il pupazzetto in mano. Io l’ho guardato, stupita e confusa, poi ho guardato lui e avrei voluto baciarlo, ma tutte le cose che mi sono successe … con mio marito … con Bastiano … non so! È come se l’unico mio talento sia quello di fare solo le cose sbagliate … o troppo in un senso o in quello opposto … Non lo so”.
Tindara si fermò e dalla tasca tirò fuori un fazzoletto soffiandosi il naso.
“ Non lo so. Mi manca il coraggio di crederci ancora. Una delle cose che ho in comune con Bastiano, è la difficoltà a capire questo mondo e le persone che lo abitano e a decidere di conseguenza. Tutte le decisioni che ho preso, le ho prese solo per disperazione. Poi con Sabbuccio, vedrò, devo ancora capire cosa voglio. Ora devo pensare a Bastiano.” Sistemò il fazzoletto in tasca e fissò Giusy negli occhi “Parlando con Sabbuccio di Bastianu, lui mi ha detto una parola che avevo dimenticato. Mi ha detto “se lo vuoi felice, gli devi ridare quello che lui pensa di aver perso, la sua dignità.” Ecco, quando mi ha detto questa parola, tutto mi fu chiaro. Era questo quello che Sabbuccio da bambino mi voleva dare facendomi vincere a bandiera, quella dignità che una bimba “streusa” e derisa pensava di non avere. È questo quello che a Bastianu manca, il sentirsi degno di se stesso, dei suoi sogni, di chi gli vuole bene, senza dover nascondersi o fuggire dormendo. Dopo che Sabbuccio mi ha detto in quel modo, ho pensato a lungo, poi sono andata a comprare il laboratorio di pasticceria di don Domenico, con la casa al piano superiore. Ho portato Bastiano nel vecchio laboratorio e gli ho detto che doveva rimetterlo in servizio, che era un investimento importante, che solo lui poteva aiutarmi. Gli ho detto di occuparsi della mobilia, dei decori, del personale, di tutto e l’ho lasciato fare tenendolo lontano dal vecchio forno. Gli ripetevo che era una cosa importante, che ci avevo messo tanti soldi, che solo lui poteva trasformare quel rifugio di gatti randagi, nella migliore pasticceria della Sicilia. L’ho mandato in giro a cercare le macchine che gli servivano, a comprare gli ingredienti per i dolci che da sempre avrebbe voluto fare, a frequentare altri pasticcieri con la sua stessa passione. Io mi sono preoccupata di tutta la carta bollata che serviva, della partita IVA, delle planimetrie e così via. Ho speso un mucchio di soldi ma ne avrei speso il doppio se fosse servito a far felice Bastianu e a non farlo più sentire un “diverso”, uno “sbaglio”. Si fermo e guardò il cielo
“Che cosa ha Bastiano? Ha paura perché è stato rifiutato da chi doveva amarlo e proteggerlo. Perché è sempre stato considerato uno strano, uno che sa fare cose che nessun altro sa fare, ma che preferisce nascondersi per non mostrarsi migliore degli altri ed essere nuovamente messo da parte. Ha paura di lasciare l’unico posto dove era sereno, le uniche persone che lo consideravano, l’unica donna con cui poter avere un po' di sicurezza. È questo quello che ha. Io di Sabbuccio non gli ho detto niente, non volevo che pensasse che lo mandavo dall’altra parte della piazza perché c’era un altro. Comunque, era troppo preso dalla pasticceria per pensare a me e tornare a scambiare il sesso che facevamo, con la sicurezza che gli davo. Era felice quando ha aperto la pasticceria e ancor di più quando ti ha conosciuto. Ma non è abituato a decidere, a rischiare, perché dentro di se si sente ancora solo. Ha paura di dover lasciare quanto ha, per una vita che non sa bene come affrontare senza un chiaro riferimento. Ha paura di sbagliare di deludere tutti, e te per prima. Ha paura di vivere in una casa che dà sulla piazza del paese dove tutti lo vedono e che non è la stanza dietro il forno in cui si era nascosto. Paura di mostrarsi a te come una persona fragile e insicura perché dentro di sé pensa che quello che è, lo deve agli altri. Ha paura di non esserti fedele e di tradirti appena io o una sua amica vogliamo levarci una voglia. Lui ti ama e vorrebbe essere lui a guidarti in questa vostra nuova vita, ma ha paura. Ha paura di perdersi dietro alla burocrazia, ai pagamenti, ha paura che tu scompaia per colpa sua improvvisamente come gli hanno detto ha fatto con sua madre, ha paura di dimostrarsi sbagliato in questa avventura che per lui sta diventando sempre più grande, più difficile e complicata. Ma non ti lascerebbe mai, perché sa che con questi capelli rossi sei una “diversa” anche tu, una che i compagni di classe additavano ridendo. Sei come lui e per questo che ti ha amato da subito, dal primo momento che gli hai sorriso dopo aver assaggiato il dolce che ti aveva offerto. Per il bambino che guida la sua nave, e che per paura lo tiene chiuso nel suo piccolo porto, tu sei ora il mare aperto, il domani, la speranza di cambiare, ed ha paura di fallire, di non riuscire e di essere lasciato di nuovo dietro un forno, a sentire il pane lievitare e la sua anima morire.”
Giusy chinò la testa a riflettere “Ma io cosa posso fare? Io ho i miei problemi e lui non parla. A volte non c’è bisogno che parli perché io so già cosa vorrebbe dirmi. Altre volte, è come se avesse paura di me. Non so cosa fare” Tindara la guardò. Si stava perdendo anche lei. “no, guarirà, ma non grazie alle pillole della dottoressa. La chiave di tutto deve essere il tuo amore. Se tu gli vuoi bene devi prendergli la mano e fargli capire che non è solo, che tu lo ami proprio perché non è come gli altri. Deve capire che sarai al suo fianco in ogni momento, che hai bisogno di lui, perché è questo quell’amore che né io né nessuna delle sue amanti occasionali gli abbiamo mai dato. Per questo ti ho chiesto di venire, perché speravo che quella stronza laureata ti sapesse spiegare, come fanno le dottoresse, le cose che ti ho detto e ti potesse aiutare a capire cosa fare. Invece niente.”
Giusy la guardò
“e allora? cosa dovrei fare e cosa posso realmente fare?” Tindara sorrise e prese le mani della ragazza tra le sue “Amalo, semplicemente, come fa lui con te. E’ l’unica arma che hai: il tuo amore. Amalo con la stessa dedizione e bisogno con cui vuoi essere amata e capita. Per me l’amore è una follia che guarisce tutte le altre follie di questo mondo. E non è gratis, perciò, visto che lo hai, tienilo stretto. Io, la dottoressa, tutto il mondo, siamo solo comparse, tu e lui siete la vostra vera vita. Al momento giusto farai tutto quello che servirà quando servirà: stai tranquilla. Perché Bastianu è speciale e anche tu lo sei. Comunque, se capita nuovamente che si addormenta, tu chiamami, saprò io cosa fare. Altro che quella stronza con il camice”.
Capitò qualche sera dopo. Tindara era con Razzudda a distribuire cornetti e focaccia ai tanti nottambuli di paese. Gli suonò il cellulare e vide il numero di Giusy, rispose e senti solo “Veni, s’addumintoi” Disse a chi serviva al bancone che doveva andare e uscì. Aveva pensato molte volte a quel momento e ogni volta arrivava alla solita conclusione: Giusy doveva risvegliarlo alla vita. Entrò sul retro della pasticceria e attraverso la scala interna salì all’appartamento dove stava Bastiano. Era buio, solo alla fine del lungo corridoio dove era salita, si intravedeva una luce fioca. Camminò lentamente verso quella che ricordava essere la camera da letto. Entrò nella grande camera e vide sul letto Bastiano che dormiva in posizione fetale. Accanto c’era Giusy con una vestaglia leggera che lo osservava a braccia conserte. Si avvicinò e le chiese “Comu fu?”
“stavamo parlando dei conti del negozio. Gli ho detto che il ragioniere Santoro ci deve ancora pagare i dolci fatti per il matrimonio della figlia tre mesi fa. Insistevo di andare dall’avvocato perché i soldi sono tanti e Santoro ci prende in giro dicendoci che domani avrebbe pagato, ma fino ad ora niente. Bastianu ha detto che lo avrebbe richiamato per parlargliene, invece è venuto qua e si è messo a dormire. Non so più cosa fare” Le braccia le scesero lungo i fianchi. Tindara sorrise. Si avvicinò a Bastianu e lo guardò. Gli aggiustò una ciocca che gli cadeva sulla fronte “Pari n’anciuleddu non è veru?” Disse voltandosi verso Giusy sorridendo “Si un angelo che mi farà morire” Fece lei sconsolata. Tindara fece la faccia seria e si girò verso fi lei “Ora lo sveglio, ma poi devi parlargli tu” “E cosa devo dirgli se non mi ascolta mai” “Perché parli al Bastiano sbagliato, quello che è bravo, che ha talento, successo e tanta paura di sbagliare, di interagire con gli altri. Devi parlare al bambino, quello che è al timone della sua vita. Al bambino che ha paura, che non vuole affrontare il ragionier Santoro. Devi cercare dentro di te la tua bambina e devi far parlare loro due in un modo che si possano capire. Devi dirgli le tue paure per fargli vincere le sue. L’amore che hai per lui ti farà trovare le parole giuste e il modo più adatto.” “ma come? … non capisco!” “Ti faccio vedere” Si avvicinò Bastiano e si sdraiò sul letto vicino a lui. Aggiustò di nuovo il ciuffo dei suoi capelli, poi, con voce calda incominciò a parlare “ Bastianu, suggiti … Dai Bastianu isati c’amu fari u pani …” E lo accarezzava sul volfo e sul corpo. Poi avvicinò le sue labbra a quelle di lui e in un sospiro ripeté “Bastianu … susiti … fozza” Giusy vide la lingua di lei scivolare tra le labbra di lui e riapparire dopo alcuni secondi inseguita da quella di Bastianu. “ susiti …. È taddu … u pani livitoi” Gli occhi di Bastianu si aprirono e guardarono quelli di Tindara. Lei l’osservò e gli sorrise. “Giusy, ha bisogno di te, vuole parlarti - e si voltò verso la ragazza. Bastianu fece lo stesso e vedendo Giusy si irrigidì - a vidi quant’è bedda? Ed è scantata picchi a lassi sempri sula” Giusy lo guardo e vide il suo volto diventare preoccupato come se stesse cercando di capire cosa succedeva “a vidi com’è bedda – continuò Tindara, con voce lenta – una accussi bedda chi ti voli tantu beni, na trovi chiù: idda nasciu pi tia e tu? Tu chi fai? Ti metti a dommiri? Scappi? chi omu si?” E lo baciò sulle labbra delicatamente. Bastianu si separò subito da lei quasi non volesse i suoi baci di fronte a Giusy “No iddu nun scappa” Disse improvvisamente Giusy e sia Tindara che Bastiano la guardarono stupiti perché era la prima volta che la sentivano parlare siciliano. “Iddu, ora, non scappa chiù – e sorrise mordendosi il labbro inferiore come se un pensiero malizioso le era fiorito nel cuore. Si sbottonò il primo bottone della camicetta e lentamente continuò a sbottonare tutti gli altri mentre, con la stessa lentezza parlava, quasi sottovoce - nun è veru cori mei? Nun scappi chiù … picchi jo u sacciu chi hai…”
Si levò la camicetta, facendola cadere con noncuranza per terra e lo stesso fece con la gonna. “Jo u sacciu che si ‘ncazzatu … picchì tutti ti mancaru i rispettu … ti lassaru sulu pi strada comu a nu cani … “ Si levò il reggiseno e lo lasciò scivolare accanto alla camicetta e allo stesso modo fece scivolare lungo le gambe le mutandine, restando di fronte a Bastianu tutta nuda, con la sua pelle bianchissima che quasi brillava nella penombra della stanza e la sua peluria rosso fuoco che ne esaltava ancor di più la luminosità. “Tutti ti lassaru cori mei – si mosse e salita sul letto lentamente gattonò verso Bastiano e Tindara – Ti lassaru i toi, ti lassò u to mastru Don Duminico, ti voli lassari puru Tindara chi ti trattoi i figghiu e maritu” Si sdraiò al fianco di Bastiano con il suo seno generoso che gli sfiorava il naso e la mano che si insinuava nella sua camicia ad accarezzargli il petto. “… ma jo, … jo nun ti pozzu lassari … tu si a vita mei … nascisti pi mia … e jo u sacciu …” Ed incominciò a baciarlo in ogni angolo del volto, con delicatezza, come se fosse un bambino “ jo u sacciu chi tu nun ti scanti, chi si unu capaci i vutari u munnu …, unu chi tutti muntuurannu comi u megghiu” E lo baciò a lungo mentre la sua mano lentamente lo spogliava. Sfiorò con il seno il naso di Bastiano “u senti u ciauru? U ciaru da me peddi ? tu senti tutti i ciauri e u sai chi ciauru è chistu?” E gli sfiorò con un capezzolo le labbra, cosi che lui potesse morderlo “ … è u ciaru du me focu … du nostru focu … tizzalu Bastianu … fallu chiù ranni … nui semu divessi: nui, ni vulemu beni Bastianu … nto munnu nuddu si voli beni comi a nui dui … jo nun ti lassu, Bastianu … nun ti pozzu lassari … jo ti vogghiu beni … si a me vita” E lo baciò con un bacio lungo, intenso a cui lui rispose con la stessa intensità e voglia. Tindara lentamente si staccò da Bastiano mentre Giusy lo spogliava. Si alzò dal letto e fece due passi indietro osservando i due corpi avvinghiati, affascinata dalla calda luce sensuale che emanavano. Gli venne voglia di spogliarsi anche lei e di avvinghiarsi con loro. Capì però che per loro due, lei non era più li e si sentì di troppo. Indietreggiò ancora di più con gli occhi fissi sui due ragazzi ormai completamente nudi, con Giusy che sussurrava parole che solo il cuore di Bastianu sentiva e le mani di Bastianu che lente scivolavano su quel corpo d’avorio. Arrivò alla porta e l’aprì, uscì e la rinchiuse alle sue spalle e subito si appoggiò contro di essa, chiudendo gli occhi e lanciando un lungo sospiro come se avesse appena superato una fatica degna di Ercole. Dopo qualche secondo si riprese e di corsa tornò al negozio.
Come ogni lunedì mattina, alle nove precise, Sabbuccio entrò nel negozio con un vassoio di cornetti e tazze di cappuccino. Salutò Tindara che al bancone stava preparando un panino caldo farcito con la mortadella, per il solito studente che si era alzato tardi e che era già in ritardo per l’ultimo pullman che partiva per Messina. Sabbuccio si diresse verso il panificio lanciando il suo solito “Gutte morning” per far capire al figlio che era arrivato. Attraversò il negozio con il vassoio in mano, sorridendo a Tindara che lo osservava, come affascinata dalla sua camicia tedesca perfettamente stirata, i suoi jeans attillati che evidenziavano le gambe sportive e il sedere perfetto che lei riteneva uguale, nella forma e sostanza, a quello di Bastiano. Sabbuccio, arrivato nel panificio, incominciò a distribuire cornetti e cappuccini parlando ora in tedesco con il figlio, ora in siciliano con gli altri due aiutanti, prendendoli in giro per le vittorie o le sconfitte delle loro squadre di calcio.
Una volta che aveva finito di discutere con il figlio, tornò nel negozio e si avvicinò al bancone dietro cui Tindara si attardava in attesa di Razzuda. “Bastiano ti manda questi dolci” Le fece mostrando una scatolina fatta da un unico foglio pieno di disegni di limoni e piegato con una cura che ed una abilità che rivelava la mano attenta e precisa di Giusy. “Bastianu? È resuscitato? È da sabato che lui e la sua zita non si fanno vedere” “No stamattina erano in negozio, tutti affaccendati a preparare pacchetti e dolci. Appena sono entrato Bastiano mi ha chiesto di aspettare che doveva mandarti dei dolci per te. Mi sembrava a posto! Anzi era tutta energia: mentre ero li che Giusy mi incartava le paste, lo vedevo che guarniva una torta e parlava con il vivavoce al telefono con un ragioniere. Gli diceva di preparare i soldi che stava mandando i sui cugini, i Gemelli a ritirarli. Più questo ragioniere gli diceva di lasciar perdere che soldi non ne aveva, più lui gli inventava che questo suo rifiuto avrebbe fatto incazzare i gemelli, perché i soldi doveva darli a loro … Gli diceva che i Gemelli sono persone rozze e ignoranti, che si arrabbiano facilmente e che gli avrebbero distrutto la casa … anzi, gli diceva di mandar via le donne, perché a uno dei gemelli lo ‘ciuriavano’, “Spezzaconna” perché una volta un caprone gli aveva dato una testata e lui con un pugno gli aveva spezzato un corno. L’altro, gli diceva, lo chiamano “Sfilatino” perché con l’omonimo coltello sapeva ammazzare un agnello tanto velocemente che neanche la povera bestia se ne accorgeva. A quel punto il ragioniere gli ha detto che gli stava facendo un bonifico immediato e di non scomodare i suoi cugini” “Ma i gemelli sono due pezzi di pane …. – disse sorridendo Tindara – lo stava prendendo in giro” E sorrise per la furbizia di Bastianu contenta che Giusy lo avesse guarito. “mi ha detto di darti questi due dolci che aveva appena inventato” Aprì con delicatezza la scatola fatta piegando e ripiegando con una precisione giapponese un sottile foglio di carta. Quando lo aprì videro solo due pasticcini. Uno coperto da una gelatina rossa e l’altro da cioccolato fondente con una spirale di cioccolato bianco simile a quella che Tindara aveva tra i capelli. A vedere quest’ultimo pasticcino, lei alzò perplessa le sopracciglia.
Sabbuccio la guardò e chiese “Posso azzardare un ipotesi?” “dimmela” “La pasta rossa è Giusy e quella al cioccolato sei tu” “ma sai cosa vuol dire?” “che vi vuole bene?” “ o, che adesso Giusy e Tindara sono la stessa cosa, che non ha più motivo di avere paura” Sabbuccio sorrise “allora possiamo mangiarle?” “certo” Lei prese quella al cioccolato e le diede un morso e lo stesso fece lui con la pasta rossa. Inghiottito il primo boccone fu lui a parlare “è buonissima: la gelatina è di melograno, la crema di gelso bianco con un sentore di liquirizia e un profumo di rosa – restò in silenzio – è una dichiarazione d’amore. Per gli ebrei il melograno è onesta purezza, per i cristiani è il matrimonio, la madre che nutre, il gelso è la passione dell’amore, la liquirizia è una radice, a dire che lei è la sua radice, la rosa è per antonomasia l’amore delicato e perfetto. Bastiano non crea dolci, scrive poesie. E il tuo di cosa sa?” “È cioccolato, ha un sentore di speziato di pepe nero, ma dentro c’è una crema di mango, con un gusto di cannella. Cosa vuol dire?” “Interessante. Il cioccolato è legato al piacere, il mango è il frutto dell’amicizia e la cannella è nobiltà, aristocrazia” “davvero?” “si, ma è legata anche alla fenice che con la cannella costruiva il suo nido. Vuol dire rinascita, rigenerazione. Penso che abbia creato questo dolce solo per te.” Lei sorrise “Può essere. Ma il sentore di pepe? “per i romani era un bene prezioso, forse vuol dire che l’amicizia che gli dai è una ricchezza intensa e piacevole.” La guardò ed i suoi occhi si fermarono a guardare le sue labbra “comunque, mi piace sentire il profumo speziato delle tue labbra” I suoi occhi tornarono a fissare quelli di lei.
Mi guardava. Mi guardava nello stesso modo di quando eravamo bambini. Io una palla pelosa con dei fondi di bottiglia come occhiali e lui un bambino denutrito con le ginocchia sbucciate e il maglione consunto ereditato dal fratello maggiore. Fu però come se vedessi quegli occhi per la prima volta, e per la prima volta capissi quello sguardo. Una volta a mare dei ragazzi hanno invitato delle mie amiche a fare un giro in motoscafo e portarono pure me per non lasciarmi da sola sulla spiaggia. Andavamo veloci sul mare calmo in una splendida giornata d’agosto. Ad un certo punto, una barca ci tagliò la rotta e, per evitarla, il timoniere fece una virata così brusca che sentii il cuore quasi uscirmi da petto. Ecco, a vedere gli occhi di Sabbuccio, provai la stessa cosa perché d’improvviso, la bambina brutta e ridicola che guidava la mia vita nel mare dell’esistere, aveva fatto una brusca virata e dà che navigava in cerchio tra sbagli, incertezze e solitudine, a che aveva deciso di cambiare rotta, di scegliere una volta per tutte, la direzione giusta. Con i gomiti mi alzai sul bancone dietro cui c’era Sabbuccio, gli misi un braccio al collo per non cadere all’indietro, tirando il suo volto vicino al mio, avvicinai le mie labbra alle sue, e dopo un secondo di esitazione, lo baciai. La bambina che avevo dentro, il bambino denutrito che lui aveva dentro di se, erano salpati verso l’orizzonte.
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Non riesco ad avere figli e mi sembra di aver buttato la mia vita fino ad ora e che oltre non ci sia uno scopo...
Ti racconto una cosa.
Io ho 50 anni e la nostra prima figlia è nata che avevo 25 anni... una giovane coppia per quei tempi (1997) e un'età che adesso sarebbe definita prepubere.
Non ti faccio mistero che per un certo periodo della mia vita ho provato un sentimento molto vicino al disprezzo misto rabbia per tutte quelle persone che proseguivano la loro adolescenza lunga ponendosi al centro del mondo e ignorando la lotta esistenziale che un genitore doveva portare avanti anche solo per riuscire ad andare a letto la sera senza strisciare le ginocchia sul pavimento.
Oggi dico che ognuno cresce con le esperienze che gli sono più congeniali ed essere genitori è solo uno dei tanti modi per conoscere meglio la realtà... non ti rende migliore, ti fornisce solo una buona occasione per ridiscutere la tua centralità nel mondo.
Un figlio non è uno scopo, né una benedizione né una maledizione.
Un figlio non consolida il tuo ruolo nella società né conferma la tua validità di essere umano... se proprio dobbiamo dirla tutta ti provoca un'overdose di inadeguatezza e ti svela ogni giorno una nuova sfumatura del termine 'ansia'.
La domanda che ti devi fare prima di 'Sarò una buona madre?' e un'altra...
'Saprò amare gli altri anche se non sono come me?'
In caso contrario il figlio che sarà potrebbe essere per te solo un riscatto oppure una soddisfazione personale o anche una dimostrazione. O, peggio, un modo per accontentare o legare a te qualcuno.
Un figlio, in realtà, è un atto di amore ma non verso te stessa o verso chi ti sta accanto... è un atto di amore (e di fede) verso ciò che non sei tu, verso quel mondo che, dal giorno della tua scelta, diventerà più ricco e ancora più pieno di amore.
Perchè il bambino non nasce nell'utero ma nella testa e nel cuore.
Sappi essere madre senza figli e quello che tu chiami 'scopo' diventerà una tua consapevolezza profonda con la quale potrai aprirti all'altro anche senza legami di sangue e scoprire che la famiglia non ha nulla a che vedere con la biologia o la parentela.
Io sono figlio unico ma ho mille fratelli e sorelle... e ho ben più che due figlie, credimi.
Saprai amare gli altri anche se non sono come te?
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Un giorno c'è la vita. Per esempio, un uomo sano, neanche vecchio, senza trascorsi di malattie. Tutto è com'era prima e come sarà sempre. Passa da un giorno all'altro pensando ai fatti suoi, sognando solo il tempo che ancora gli si prepara. Poi, d'improvviso, capita la morte. Un uomo esala un leggero sospiro, si abbandona sulla sedia, ed è la morte. La sua subitaneità non lascia spazio al pensiero, non dà occasione allo spirito di cercare una parola che possa consolarlo. Restiamo soli con la morte, col dato inoppugnabile della nostra mortalità. La morte dopo lunga malattia possiamo accettarla con rassegnazione. Anche che la morte accidentale si può attribuire al destino. Ma che un uomo muoia senza causa apparente, che muoia solamente perché è uomo, ci spinge così vicino all'invisibile confine tra la vita e la morte da farci domandare su che lato di esso ci troviamo. La vita si fa morte, ed è come se quella morte avesse posseduto questa vita da sempre. Morire senza preavviso. Come dire: la vita si interrompe. E può interrompersi in qualunque momento.
Paul Auster, L'invenzione della solitudine, 1982
Il grande scrittore americano muore oggi 1° Maggio 2024,all'età di 77 anni, dopo una malattia.
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Quel bar di periferia
Non amo frequentare le piazze, in particolare quella del mio paese, perché infuriano l’apparenza, la visibilità, la chiacchiera e il pettegolezzo.
E allora da sempre cerco la periferia, alla mano, frequentata da gente particolare, forse un po’ ai margini della società.
Un mio rifugio è il bar “da Vale”, nei dintorni, in una località poco lontana da dove abito, ma in cui ancora dominano la pace, la tranquillità e la campagna, che invecchiando apprezzo sempre di più. Il bar è il fulcro di questo luogo, in realtà l’unico esercizio commerciale presente.
Quando vado, ordino del vino bianco, con acqua e un po’ di limone, e mi siedo all’ombra per ricaricarmi.
Vale è un “vecchio comunista”, convinto, che ha viaggiato nei Paesi del Sudamerica, e perciò ama dannatamente il caldo.
Parla a bassa voce, con la saggia calma di chi sa che le sventure esistono, ma che da esse non bisogna farsi schiacciare.
Per questo, di fronte alla mia indole leggermente malinconica e sfiduciata, le sue battute sono salutari.
Il suo ottimismo è tale che quando, mentre parliamo, mi punge una zanzara, lui ne vede il beneficio: per la zanzara, ovviamente, giacché come tutti anche lei deve mangiare…
Vale rispetta la natura, quella più vera e selvaggia, infatti ha sei gatti e tre cani (tutti accolti perché non desiderati da altri), come me non mangia la carne, e ha creato un laghetto per le anatre, che vi nuotano al suono rilassante di campanelle che si muovono al vento.
E’ calmante Vale nel suo riso sommesso e spontaneo, nella sua convinzione che tutto sia finito ma che ognuno di noi sia ancora in tempo per scegliere chi vuole essere.
Per lui, al bando il consumismo, l’ipocrisia, l’imposizione e ogni forma di costrizione, di emarginazione.
E per me, sentirlo parlare è davvero un “elisir di lunga vita”…
Nel suo bar ci sono persone che non si trovano nei locali della “bella gente”, ma da loro c’è solo da imparare.
Bevono tanto, per smorzare certe delusioni e certe fatiche, o giornate troppo vuote, e proprio per questo da loro escono tanto urla selvagge quanto magnifici ragionamenti, che annoto febbrilmente nella mia memoria.
Enzo, per esempio, muratore che lavora sui tetti bollenti dell’estate, ogni giorno scende dall’auto del suo capo (puntualmente alle 18.00) e, prima ancora di sedersi, ordina la prima birra. Inizia così la sua serata “da Vale”, offrendo poi a tutti quelli che arrivano qualcosa da bere.
Per chi non lo sapesse ascoltare, Enzo è certo qualcuno da cui tenersi lontano, ma nella famiglia del bar, tutti sono attorno a lui.
Personalmente ne colgo le sfumature più generose come le umiliazioni subite.
Ecco perché in questi posti mi sento accolta, a mio agio, tra gente apparentemente diversa da me, e invece così vicina a me.
Tra gente che non bleffa, che non ha nulla di valore da darmi, ma che mi offre la genuinità umana che altrove non trovo.
(Pubblicato da "Bella di giorno" )
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Ci sono tante cose che avrei voluto dirti e tante altre che ci siamo persi. Avrei voluto dirti di quanto è bello il giorno prima di partire, di quanto è stato bello a Parigi insieme lasciando il mondo e i problemi da parte, i sogni che ti fai e tutta la voglia che hai di crederci, di quanto è bello trovare qualcuno uguale a te, di quanto può far male sentirsi soli, sperare, aspettare qualcosa che non arriverà mai. Avrei voluto parlare con te di ciò che ci rende simili ridere, piangere, di albe e tramonti che abbiamo visto da due posti differenti. Avrei voluto ascoltare il tono della tua voce che mi fa sempre sentire a casa, avrei voluto parlare con te per ore per poi arrivare a ridere come solo noi sappiamo fare. Avrei voluto dedicarti tutte le canzoni più belle, quelle che abbiamo sempre ascoltato, e cantare con te in macchina al tramonto dopo una lunga giornata. Avrei voluto guardare il tramonto in riva al mare e parlare del futuro insieme, avrei voluto passeggiare in riva al mare con te e sentire un po’ di malinconia. Perché sai, mi piace credere che su questo siamo simili. Avrei voluto sentire la tua buonanotte prima di andare a dormire dopo una giornata stressante, il tuo buongiorno anche dopo la notte più lunga. Avrei voluto vedere il tuo bicchiere di vino davanti la tv, la tua stanchezza al ritorno dal lavoro, i nostri piani per il futuro, il calore delle tue mani, il tuo maglione, la voglia di viaggiare, di sognare un posto migliore in cui vivere, la nostra casa insieme, i nostri vicini. Avrei voluto vivere la vita che avrei vissuto se tu fossi stato qui, presente nei miei giorni, nei miei anni. Il mio cuore ce l'hai con te, in un mondo in cui tu non sei mai andato via e io non ti ho mai perso. Pensami sempre, che in quel mondo ti sto sorridendo.
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Forse tutti avete visto la foto che ritrae l’allineamento della Luna con la Basilica di Superga e il Monviso. È una foto perfetta che racconta di un’attesa lunga sei anni. Io però voglio raccontarvi un’altra storia, quella del fotografo che l’ha scattata. Una storia di pazienza, di tenacia e di coraggio. Coraggio di cambiare radicalmente strada nel momento più difficile della propria vita.
Voglio iniziare però proprio da quello scatto, e da una domanda: si possono aspettare sei anni per scattare una #fotografia? Alla fine del 2017 Valerio aveva segnato sul calendario tutte le date delle fasi lunari, in particolare quelle in cui la luna tramontava in un determinato punto. Ogni sera “giusta” partiva per provare a portare a casa l’immagine che aveva sognato, ma c’era sempre un problema: le nuvole, la pioggia, la nebbia, la foschia… Così per sei volte, all’inizio di ogni anno, ha compilato il calendario e non ha mai sprecato una data possibile, ma senza successo. Alla fine, alle 18:52 del 15 dicembre 2023, la lunga attesa è stata premiata e la sua vita è cambiata.
All’inizio l’idea era quella di allineare la Basilica di #Superga e il #Monviso per fotografarli insieme. Valerio si era fatto aiutare dal mappamondo di Google Earth e aveva individuato quattro possibili punti. Il punto ideale lo aveva trovato a nord-est di Torino, sopra Castagneto Po, a 380 metri d’altezza. La prima volta che c’è salito si è reso conto che in quell’istantanea che aveva immaginato poteva entrare anche un terzo soggetto: la luna. Da quel momento si è messo a studiarne le fasi per scoprire che ci sarebbe stato soltanto un giorno perfetto in tutto l’anno.
E al sesto tentativo, dieci giorni prima di Natale, ha capito che forse ce l’avrebbe fatta: il cielo era limpido e l’aria asciutta. Così si è messo ad aspettare e quando tutto si è allineato e ha visto la sagoma del Monviso disegnata sulla Luna ha scattato. La mattina dopo, soddisfatto del risultato, ha spedito il file alla #Nasa, per partecipare al concorso “Astronomy Picture of the Day”, la risposta non si è fatta attendere: per l’ente spaziale americano la sua è stata la foto del giorno di Natale.
«È come se questa foto avesse sbloccato qualcosa, migliaia di persone hanno condiviso quell’immagine e hanno scoperto le mie foto che sono uscite dal Piemonte e sono andate in giro in tutto il mondo».
Conosco Valerio Minato pH da più di dieci anni, da quando ho notato il suo banco sotto i portici di Piazza Vittorio a Torino. Non vendeva libri, borse di cuoio, gioiellini, ma le sue fotografie, stampate su un supporto rigido e a prezzi accessibili a tutti. Ricordo che mi avevano colpito i soggetti ricorrenti: il Monviso, la Mole Antonelliana, il Po, le vecchie vetture del tram, ritratti però con prospettive originali.
Lo vedevo ogni fine settimana, con qualsiasi tempo, dietro il suo banco dalla mattina alla sera. Ho cominciato a fermarmi a chiacchierare e siamo diventati amici. Valerio è nato nel 1981 a Biella e nella sua vita la fotografia è arrivata dopo i trent’anni. Si era diplomato perito chimico tintore, aveva trovato subito un lavoro in un’industria tessile, poi era passato in una fabbrica chimica del settore gomma: «A 24 anni, dopo cinque passati in fabbrica, ho avuto un bruttissimo incidente sul lavoro: ho quasi perso un braccio, risucchiato da una macchina. Sono stato un mese e mezzo in ospedale, ho subito cinque interventi chirurgici, e tra un’operazione e l’altra ho deciso di cambiare tutto».
Così ha lasciato Biella e si è iscritto all’università a #Torino: Scienze forestali e ambientali. «Volevo una vita nuova, stare in un mondo completamente diverso. Volevo la natura e l’aria aperta».
All’ultimo anno di università compra una macchina fotografica e per gioco inizia a scattare, dopo la laurea trova lavoro in un’azienda, ma la passione per l’immagine occupa sempre più spazio dentro di lui. «Quando mi hanno offerto un contratto a tempo indeterminato ho deciso di dire di no, di fare una scelta ancora più totale di libertà. Ispirato dai banchi sotto i portici di Via Po mi sono iscritto all’albo degli “Operatori del Proprio Ingegno” e ho aperto il punto vendita delle mie foto».
Mario Calabresi
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