#una vita lunga un giorno
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La vita, proprio la vita
e io ho aspettato
Ha piovuto tutta la sera, tutta la notte e io ho aspettato ma tu non sei arrivata, e se qualcuno è arrivato certo non eri tu sono uscito in strada o sul balcone, non ricordo, e la pioggia scendeva, senza tregua, tutta la sera, tutta la notte, a meno che non siano state le stelle ad arrivare il cielo, l’eterno, il tempo dal principio, che è arrivato e mi è passato attraverso, così che la pioggia, se è piovuto, è arrivata e tu no, e io non ho mai detto a nessuno quanto è stato doloroso aspettare, quanti dischi ho suonato e tutte le canzoni parlavano di te, anche quelle che non parlavano affatto di te, anche il cielo parlava di te e il tempo, l’eterno, la pioggia, o se non di te della tua assenza, perché non sei arrivata e quella notte ho compreso il vero significato di buco nero, non solitudine, non dolore, non tragedia, non sole morto, ma qualcosa del genere, perché un buco nero è quando non arrivi quando decidi di vivere senza di me
no, non l’ho mai detto a nessuno, con quale dolore ho atteso, quanto è stata lunga la notte, che ogni minuto mi entrava dentro come un coltello smussato
e si piantava lì, che la notte mi si era avvolta intorno al collo come filo spinato, poi è arrivato il giorno e ha stretto più forte
Identico è il cielo, identico è il tempo e l’eterno è eterno, credo che sia una sequoia, ma forse non hai mai dovuto aspettare qualcuno che non è arrivato a meno che invece l’abbia provato e questo sia il motivo per tutti i buchi neri del cosmo, trecentomila all’ultimo conteggio
ecco quante volte non sei arrivata
Ricordo che non volevo sopravvivere alla notte, nemmeno vedere un nuovo mattino sorgere senza di te, avevo vent’anni e qualcosa e volevo morire
Come puoi continuare a battere chiedevo al cuore, nella tenebre del sangue
troppo giovane per sospettare che il cuore è il più vecchio muscolo del mondo, è un trattore ostinato, un pulsar costante
ma per molti mesi, molti, molti lunghi mesi, sei stata tu il mio inizio e la mia fine, chiudevo gli occhi e vedevo solo te che quella notte non sei arrivata, non hai risposto quando ho telefonato, e due giorni dopo ecco una lettera, scritta con una penna nera, diciamo una lettera da parte dell’amore, con l’inchiostro di un buco nero
Trent’anni più tardi salgo su un autobus ed eccoti lì, seduta davanti con in braccio un nipotino di tre anni, forse quattro, sei seduta con lui come a chiedere scusa per non essere arrivata quella notte di dicembre di tanto tempo fa quando la pioggia o le stelle sferzavano i vetri in Karlagata, mi si piantavano in fronte e l’eterno si era tramutato nella tua assenza e pensavo di morire
Ma se ti ricordi, il cuore è un trattore ostinato per questo posso prendere quell’autobus trent’anni dopo, vivo, con la barba, qualche cicatrice lasciata dalla vita, e tu sei lì e la vita, proprio la vita sta in mezzo tra me e te
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martedì scorso mio padre ha avuto un ictus. da qualche tempo c'erano dei segnali: era assente, non capiva sempre le cose, si addormentava senza motivo; pensavamo potesse essere l'inizio dell'alzheimer, ma la visita aveva dato esito negativo. oltre alla demenza, questi sintomi sono precursori di un'ischemia, e la mattina di martedì, dopo diversi giorni in cui si svegliava agitato, si è alzato con un crampo, che è un altro possibile sintomo, è andato in bagno ed è caduto, per fortuna senza farsi male. a mia madre, come sempre, ha detto che non fosse niente: lo fa sempre – sto bene, sto bene, non ti preoccupare, sto pensando di iscrivermi alla maratona, come a voler confermare il suo stato di salute. l'ha aiutato a tornare a letto e poi hanno fatto colazione, quindi lui è tornato in bagno, ma con la porta aperta, e da lì mia madre ha visto una parte del viso cadente. i miei vivono in campagna e l'ambulanza, nel rispetto di un protocollo incomprensibile, lo ha prima portato in un centro ospedaliero sì più vicino ma non attrezzato per le ischemie – anche se era evidente che quello fosse un episodio di pre-ictus. portarlo in quella clinica, fargli fare una tac con strumenti insufficienti, per poi avere come esito: "bisogna portarlo in un altro ospedale", il tutto con oltre due ore di tempo perse. nel frattempo, a mio padre è venuto l'ictus vero e proprio – e se era entrato, pur con fatica, al pronto soccorso camminando, ne è uscito paralizzato
i miei vivono in sicilia, e in tutta la regione ci sono meno di cinque centri specializzati per l'ictus; in lombardia ce ne sono trentuno. una volta trasportato d'urgenza, l'operazione è durata a lungo, forse due ore. io intanto avevo prenotato un volo d'urgenza, e mio fratello pure. ci hanno detto che l'attacco ischemico è stato grave; mia madre è distrutta, le mie sorelle pure. il giorno dopo lo vedo ed è forse la visione più dolorosa che abbia mai avuto. gli occhi velati, lo sguardo fisso verso l'alto, la bocca storta, gli arti paralizzati, incapace di deglutire. soffre di diabete e ipertensione, ma ha sempre vissuto in modo sano; in tutta la vita si è preso l'influenza soltanto due volte. ha una moglie e quattro figli e gli vogliamo tutti un mondo di bene. è un tipo silenzioso, taciturno, ma positivo e sempre sorridente, e non ci ha mai fatto mancare nulla. quarantotto anni di matrimonio e tratta mia madre con lo stesso amore del primo giorno, ed eccolo lì, come se dovesse espiare una colpa infinita per cui però non ha alcuna responsabilità
durante l'operazione ha ingoiato del sangue e solo uno dei due trombi è stato rimosso: l'altra arteria si è chiusa, irrimediabilmente. poi, la polmonite – denominata ab ingestis, che si sviluppa quando nei polmoni finisce un agente esterno, e che è mortale fino al trenta percento. queste giornate sono state un inferno, tra angosce e pianti isterici, qualcosa che non pensavamo di meritarci e che sicuramente lui non merita. la polmonite, però, sembra in regressione, i farmaci funzionano e lui inizia a stare meglio. dopo una vita passata a essere ottimista e sorridente, si commuove nel vederci, sussurra "ti amo" a mia madre, lui che in quarantotto anni di matrimonio l'avrà detto non più di dieci volte, per tenere preziose quelle parole. gli occhi sono più lucidi e ha ancora un ausilio per la respirazione, ma i medici dicono che sta migliorando. da sabato la polmonite è in regressione; nel saperlo sono scoppiato a piangere, poi ci siamo abbracciati tutti, i quattro figli e nostra madre. tra ieri e oggi, finalmente, abbiamo ricominciato a riconoscere il suo sguardo di sempre: il coagulo si sta assorbendo e forse hanno diminuito le benzodiazepine. ha iniziato la fisioterapia e sta rispondendo bene; lui è lucido, il cervello sembra non essere stato intaccato. la ripresa sarà lunga, mesi o forse anni e non è detto che sarà completa, ma non vediamo l'ora di riabbracciarlo
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Il giorno che ti metti a fare il conto di quante estati buone ti restano ancora, non degli anni che è una roba vaga e retorica, no, proprio le estati, la vera misura del tempo, e ti rendi conto che bene cha vada saranno quante, una ventina, magari anche meno o forse chissà poi magari alla fine in tutto saranno anche di più, solo che per te contano appunto solo quelle buone, quelle in cui avranno ancora un senso il mare, la luce lunga, il vino fresco, le cene all’aperto, i vestiti leggeri, i giri in bicicletta, e in quel preciso momento ti sembra di capire il senso della vita e come bisognerebbe viverla fin quando ce n’è.
- Lella Costa - Che bello essere noi.
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Ogni giorno, perdo tutto
e tu con me
e te;
e si sfuocano
le colazioni,
si induriscono
i biscotti al burro;
perdo il quadro
che ride e vive,
la cornice delle tende,
le verità stupende
che non ho detto e
la stupidità
di avere paura.
Perdo tutto, ogni giorno;
la pelle nuova,
la ruga che ho sorriso,
la ruga che ho pianto,
la voce,
la mia e la tua,
il coro che sono,
l’assolo.
Perdo parole
che avremmo potuto dirci, non dirci,
dire meglio.
Perdo possibilità
e una possibilità,
il ritmo del respiro,
la pazienza,
le sementi di un’idea.
E perdo le facce degli altri
in strada,
la mia su una vetrina buia.
Ogni giorno perdo uno scorcio
carico di sole,
e la mia età
salda,
che mi ancora alla terra
come un macigno
o una nascita,
che mi seduce
e trascina,
che tracima;
perdo la speranza
che esonda sulla mia fretta,
sulla mia calma.
Perdo
il miracolo di un giorno,
l’elemosina del tempo,
lo scialacquio degli attimi,
con la risacca magra
di qualche
felicità.
Ogni giorno perdo tutto:
il significato,
la velleità del buio
e gli abbagli,
la vastità sul bivio
e l’ombra lunga
degli sbagli,
le rime,
le rime per te,
l’amore,
la bambina che crede,
la bambina in cui credi,
e un’ansia del petto
che può fremere
e domandare
e guardare
e regnare ogni giorno,
mentre perde.
E perde tutto.
Perdo giurisdizione
ed emozione;
si consuma,
si annebbia,
sbraita come un fumo
la mia vita,
che ogni giorno perde me,
mentre perdo tutto.
Perdo il timpano dolce
sotto le voci affettive
che sono un’ala,
a curarmi,
o macerie.
Ogni giorno,
poi,
mi sveglio –
se mi sveglio –
e tutto,
tranne te
e tu con me,
ritrovo.
- Beatrice Zerbini
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Slacciarsi l'anima
Si sta togliendo il reggiseno: tra un po’ lui entrerà nella stanza e la vorrà trovare nuda e pronta per l'amore. Lei lo sa bene, come funziona lì e si prepara: obbediente, docile e muta. È diventata un'odalisca occidentale in un paese mediorientale. A lui non piace che lei sollevi proteste, ancorché sommesse, o che addirittura gli si neghi. Qualsiasi cosa stia facendo, quando lui ha un'esigenza di carattere sessuale, lei deve smettere e correre a prepararsi. Per quell'uomo ha abbandonato l'Italia e adesso vive in una terra calda ma arida e lontana migliaia di chilometri dalla sua terra.
È così che la vuole: è la schiava di piacere per il suo esclusivo uso. Però non si equivochi: quell'uomo potente, ricco e affilato come un rasoio, la ama sinceramente: l'ha scelta tra tante. È un uomo di potere, molto colto e di gusti raffinati. Ha a sua disposizione grandissime risorse economiche, mezzi notevoli e non le fa mancare mai nulla, basta che lei solo accenni. Le ha ordinato di licenziarsi e lei, nel bel mezzo di un interessante e sudato percorso professionale, l'ha fatto. Senza esitazioni. Non l'ha sposata: vuole che si senta sempre “in prova” e sull'orlo di un possibile abbandono.
Glielo ha detto chiaramente: dovrai essere la mia schiava per la vita, l'oggetto e la somma ricompensa dei miei risultati lavorativi. Io ti userò per i miei sfoghi sessuali. Sarai però al tempo stesso una Regina, la mia donna da soddisfare e ti ricoprirò di benessere, agi, denari e doni a tuo piacere. E lei, pazza d'amore per lui, ha accettato ed è finita rinchiusa in un vero e bellissimo castello arabo, tra odalische profumate e stupende che la servono ed eseguono i suoi ordini alla lettera. La massaggiano e preparano il suo corpo con olii profumati e tecniche modernissime. Poi glielo nutrono e curano con creme e unguenti.
Ne governano l'alimentazione scrupolosamente. La sorvegliano, proteggono e gentilmente la obbligano all'attività fisica quotidiana stabilita di almeno tre ore. La intrattengono con conversazioni, racconti, film e spettacoli in esclusiva. E poi: giù pettegolezzi e confidenze molto intime tra donne. Ogni giorno la lavano e la vestono. Nei periodi di lunga assenza del padrone, la tengono anche allenata all'amore usando appositi falli di gomma strap-on, plug, usando le loro mani e bocche esperte, sì da tenerne ben vive e soddisfatte le voglie.
L'ha organizzato lui: non è geloso delle odalische e anzi alcune sono state sue prescelte per qualche notte, in passato. Ma lei è un'altra cosa: e deve essere sempre pronta. Perché lui l'adora e vuole il suo corpo; l'anima di questa donna occidentale gli interessa, certo. Ma forse più come prezioso trofeo di caccia da possedere in esclusiva, quale intimo gioiello sul suo cuore. Eppure, in qualche modo è stregato completamente dai suoi occhi. Quando torna da un viaggio di lavoro, per prima cosa corre subito da lei; è sua gran cura il fatto di riuscire a soddisfarla, farla gridare di piacere e venire più volte sotto di lui.
Lei nella privacy dell'alcova deve dirgli delle parole intime prestabilite tra loro, che lui adora ascoltare ogni volta uscire dalle sue labbra. E con la bocca, secondo protocollo, lei scende sotto l'ombelico dell'uomo a rinnovare la sua totale sottomissione. Con un lungo, torrido e appassionato bacio intimo. Solo dopo, può esserci tutto il resto. Potrebbe avere delle mogli o altre donne; ma ha scelto di avere vicino solo lei. E lei ha scelto di essere prima di tutto una cosa sua; soltanto dopo si sente anche una donna. Strani sentieri di devozione, percorre l'amore.
RDA
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13 LUGLIO 1954 moriva FRIDA KAHLO
Un corpo fragile e uno spirito indomito.
Una vita difficile, quella di Frida Kahlo, segnata dalla lunga malattia e da grandi passioni, vissute senza remore, incondizionatamente con tutta sé stessa, abbandonano al cuore la razionalità.
La passione per l’arte, quella per il suo Messico e l’amore tormentato per Diego Rivera, il compagno di una vita.
Quella di Frida è stata una vita breve ma ricchissima perché vivere col cuore non significa limitarsi a contare i giorni, i mesi o gli anni, ma significa contare le emozioni, perché la vita non è mera sopravvivenza. E non è vero che chi vive più a lungo vive di più.
Frida Kahlo è stata un’artista coraggiosa, capace di trasformare la sofferenza in ispirazione, le sconfitte in capolavori, plasmando opere che sono un urlo orgoglioso e potente alla sfida del vivere.
LA VITA E LE OPERE DI FRIDA KAHLO:
RIASSUNTO IN DUE MINUTI (DI ARTE)
1. Frida Kahlo (Coyoacán 1907 – 1954) è considerata una delle più importanti pittrici messicane. Molti la annoverano tra gli artisti legati al movimento surrealista, ma lei non confermerà mai l’adesione a tale corrente.
Fin da bambina dimostra di avere un carattere forte, passionale, unito ad un talento e a delle capacità fuori dalla norma. Purtroppo la sua forza di carattere compensa un fisico debole: è infatti affetta da spina bifida, che i genitori e le persone intorno a lei scambiano per poliomielite, non riuscendola così a curare nel modo adeguato.
2. La prova più dura per Frida arriva però nel 1925. Un giorno, mentre torna da scuola in autobus viene coinvolta in un terribile incidente che le causa la frattura multipla della spina dorsale, di parecchie vertebre e del bacino. Rischia di morire e si salva solo sottoponendosi a 32 interventi chirurgici che la costringono a letto per mesi.
Ha solo 18 anni e le ferite al fisico la faranno soffrire per tutta la vita, compromettendo irrimediabilmente la sua mobilità.
3. Durante i mesi a letto immobilizzata da busti di metallo e gessi, i genitori le regalano colori e pennelli per aiutarla a passare le lunghe giornate. Questo regalo darà avvio ad una sfolgorante carriera artistica.
La prima opera di Frida è un autoritratto (a cui ne seguiranno molti altri) che dona ad un ragazzo di cui è innamorata.
4. I genitori incoraggiano sin da subito questa passione per l’arte, tanto da istallare uno specchio sul soffitto della camera di Frida, così che possa ritrarsi nei lunghi pomeriggi solitari. È questo il motivo dei numerosi autoritratti dell’artista. Lei stessa dirà: “Dipingo autoritratti perché sono spesso sola, perché sono la persona che conosco meglio”.
5. Frida Kahlo nel 1928, a 21 anni, si iscrive al partito comunista messicano, diventando una convinta attivista. È in quell’anno che conosce Diego Rivera, il pittore più famoso del Messico rivoluzionario. Lo aveva incontrato per la prima volta quando aveva solo quindici anni (e lui trentasei), sotto i ponteggi della scuola nazionale preparatoria, mentre Diego stava dipingendo un murale per l’auditorium della scuola.
6. Nel 1929 sposa Diego, nonostante lui abbia 21 anni più di lei e sia già al terzo matrimonio. Inoltre Diego ha fama di “donnaiolo” e marito infedele. Il loro sarà un rapporto fatto di arte, tradimenti, passione e pistole. Lei stessa dirà: “Ho subito due gravi incidenti nella mia vita… il primo è stato quando un tram mi ha travolto e il secondo è stato Diego Rivera.”
7. Frida Kahlo ha avuto molti amanti (uomini e donne), tra cui il rivoluzionario russo Lev Trotsky e il poeta André Breton, ma non riuscì mai ad avere figli, a causa del suo fisico compromesso dall’incidente. Quando rimase incinta del primo figlio, Frida fece di tutto per portare avanti la gravidanza. Si dovette arrendere solo quando i medici la costrinsero ad abortire per evitare che perdessero la vita sia lei che il bambino.
8. Frida Kahlo e Diego potevano considerarsi una “coppia aperta”, più per le infedeltà di Diego che per scelta di Frida, che soffrì molto per i tradimenti del marito che ebbe persino una relazione con la sorella minore di Frida, Cristina.
Vista l’impossibilità di fare affidamento sulla fedeltà di Diego, i due decisero di vivere in case separate, unite tra loro da un piccolo ponte, in modo che ognuno di loro potesse avere il proprio spazio “artistico”.
9. Le opere di Frida kahlo sono spesso state accostate al movimento Surrealista, ma Frida ha sempre rifiutato tale vicinanza sostenendo: “Ho sempre dipinto la mia realtà, non i miei sogni”.
10. L’album dei Coldplay Viva la vida or Death and All His Friends (2008) si ispira ad una celebre frase che la Kahlo scrisse sul suo ultimo quadro, otto giorni prima della sua morte a soli 47 anni per cause ancora non del tutto certe.
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Un professore di Lettere e Filosofia del liceo Tasso, Giancarlo Burghi, ha scritto una lettera aperta al ministro dell’Istruzione Valditara che è un autentico manifesto PARTIGIANO di difesa altissima della cultura e della Costituzione.
È lunga, ma merita davvero di essere letta tutta, condivisa, applicata. Fino in fondo.
“Egregio ministro,
Le scrivo di nuovo dalla desolazione della “trincea”: quella in cui ogni giorno, con le studentesse e gli studenti, combattiamo l’eterna guerra contro la semplificazione e la superficialità. Oggi, però, le scrivo per ringraziarla delle Linee guida sull’insegnamento dell’educazione civica che ci ha inviato all’inizio dell’anno scolastico. Da oggi abbiamo un punto fermo nel nostro lavoro di docenti ed educatori: ci dirigeremo nella direzione esattamente opposta a quanto ci indica. L’educazione civica, secondo lei deve «incoraggiare lo spirito di imprenditorialità, nella consapevolezza dell’importanza della proprietà privata». In modo quasi ossessivo nel documento traccia l’idea di una sorta di “educazione alla proprietà ”.
Ma cosa dovremmo farci di questo slogan vuoto? Stiamo oltrepassando finanche il senso del ridicolo, andando oltre la teoria delle tre “i” di berlusconiana memoria (inglese, impresa, internet). Ai nostri studenti, signor Ministro, l’articolo 42 della Costituzione lo leggiamo e lo spieghiamo: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge […] allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere [..] espropriata per motivi di interesse generale". Dice proprio questo la Costituzione! Però non si ispira a Pol Pot ma alla dottrina sociale della Chiesa, al cristianesimo sociale di Giorgio La Pira e Giuseppe Dossetti. Nelle Linee guida Lei continua, poi, con l’affermazione di sapore thatcheriano, ma in realtà generica e vuota quanto la prima, per cui dovremmo insegnare che «la società è in funzione dell’individuo (e non viceversa)».
Vede Ministro, se le dovesse capitare di sfogliare la Costituzione italiana scoprirebbe che il termine “individuo” semplicemente non compare. (…) Mi consenta di farle notare che, se sfogliasse la Costituzione, scoprirebbe che il termine “patria” compare solo una volta (perché Mussolini lo aveva profanato e disonorato) e per di più non ha niente a che fare con “i sacri confini nazionali” da difendere o l’italianità quale identità da salvaguardare contro la minaccia della sostituzione etnica.
La patria è il patrimonio dei padri e delle madri costituenti, vale a dire le istituzioni democratiche non separabili dai valori costituzionali: l’eguaglianza, la libertà, la pace, la giustizia, il diritto di asilo per lo straniero «che non ha garantite le libertà democratiche».
I patrioti non sono quelli che impediscono lo sbarco dei migranti, ma coloro che ogni giorno testimoniano il rifiuto della discriminazione. Cosi come patrioti non erano i fascisti che hanno svenduto la patria a Hitler e l’hanno profanata costringendo milioni di italiani ad offendere altre patrie, ma i membri dei GAP (che non erano i “gruppi di azione proletaria” come ebbe a dire, per dileggio, Berlusconi), ma i “gruppi di azione patriottica (appunto), che operavano nella Brigate Garibaldi dei patrioti comunisti italiani, protagonisti della Resistenza quale secondo Risorgimento.
Ci consenta di formare i nostri studenti ispirandoci a chi di patria si intendeva: non a Julius Evola o Giorgio Almirante, ma a Giuseppe Mazzini che ha ripetuto per tutta la vita che la patria non è un suolo da difendere avidamente ma una «dimora di libertà e uguaglianza» aperta a tutti: «Non vi è patria dove l’eguaglianza dei diritti è violata dall’esistenza di caste, privilegi, ineguaglianze. In nome del vostro amore di patria, combattete senza tregua l’esistenza di ogni privilegio, di ogni diseguaglianza sul suolo che vi ha dato vita. (Dei doveri dell’uomo). Mazzini non contrapponeva la patria all’umanità, ma la considerava il mezzo più efficace per tutelare la dignità di ogni essere umano: «I primi vostri doveri, primi almeno per importanza, sono verso l’ Umanità. Siete uomini prima di essere cittadini o padri. […] In qualunque terra voi siate, dovunque un uomo combatte per il diritto, per il giusto, per il vero, ivi è un vostro fratello: dovunque un uomo soffre, tormentato dall’errore, dall’ingiustizia, dalla tirannide, ivi è un vostro fratello. Liberi e schiavi, siete tutti fratelli. (Dei doveri dell’uomo)
E ci consenta, da educatori democratici, di trascurare le sue Linee guida, per illuminare le coscienze dei giovani con le parole di don Milani: «Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri». Egregio Ministro, dal momento che la costruzione di una cittadinanza consapevole avviene anche attraverso l’esercizio della memoria storica e civile, Lei ci ha inviato a una circolare con cui ha bandito un concorso per le scuole con lo scopo di celebrare la «Giornata Nazionale delle Vittime Civili delle Guerre e dei Conflitti nel Mondo». Il titolo del concorso: «1945: la guerra è finita!» Incredibile! Il 25 aprile 1945 che, prima dell’era Valditara, era semplicemente e banalmente la «liberazione dal nazifascismo» ora diventa un momento della «Giornata Nazionale delle Vittime Civili delle Guerre e dei Conflitti nel Mondo».
Cosa dovrebbero ricordare le giovani generazioni nella sua bizzarra idea di memoria civile? Ecco il suo testo: «Il popolo che ha subito sulla propria pelle gli orrori di quel tremendo conflitto, dai bombardamenti degli alleati alle rappresaglie nazifasciste [equiparati !] fino agli ordigni bellici inesplosi che, nei decenni a venire, hanno continuato a produrre invalidità e mutilazioni». E tutto per andare «al di là della tradizionale lettura vincitori-vinti», opposizione che attentamente sostituisce quella di antifascisti/liberatori e fascisti. Si tratta dunque, secondo lei, di ricordare una guerra tra tante, quasi un ineluttabile evento naturale in cui tutti sono cattivi (i liberatori, gli aguzzini e i partigiani) e dunque tutti ugualmente assolti nel tribunale della neostoria. Del resto, Ministro, devo darle atto di una certa garbata compostezza sulla memoria del 25 aprile. La sua sottosegretaria (la nostra sottosegretaria all’Istruzione) Paola Frassinetti la Festa della Liberazione l’ha festeggiata al campo 10 del Cimitero maggiore di Milano per onorare i volontari italiani delle SS. È immortalata in un video in mezzo a un drappello di camerati che sfidano, tra insulti e minacce, alcuni manifestanti antifascisti. Frassinetti si lascia andare alla rabbia ed esclama “ma vai aff…”.
Sempre a proposito di Linee guida per l’educazione civica… Da sottosegretaria del suo Ministero Paola Frassinetti, il 28 ottobre del 2024, anniversario della marcia su Roma, ha celebrato il “fascismo immenso e rosso”. Capisce, signor Ministro, perché ci sentiamo soli nella trincea? E perché le ho detto che è “passato al nemico” (il nemico è la parzialità, la manipolazione, la contrapposizione faziosa). Ma noi siamo combattenti testardi. Non avendo capi politici da lusingare, la nostra coscienza e la Costituzione antifascista sono le nostre uniche e inderogabili “linee guida” da seguire nel formare cittadine e cittadini liberi e consapevoli. Egregio Ministro, spero che queste parole non mi costino quella decurtazione dello stipendio che ha inflitto a un mio collega per aver pronunciato delle parole che Lei non ha gradito. Sarebbe non solo grave ma anche di cattivo gusto anche perché di recente insieme ad altri ministri lei lo stipendio ha cercato di aumentarselo.”
P. S. Le sue Linee guida stanno conseguendo i primi risultati. Qualche giorno fa uno studente che aveva studiato la divisione dei poteri di Montesquieu ha osservato che se un ministro fa una manifestazione sotto un tribunale per difendere un altro ministro sotto processo viola la separazione dei poteri. Aggiungendo che un ministro non è un semplice cittadino ma un membro dell’esecutivo, cioè di un potere dello stato. Gli ho risposto che ha ragione e gli ho dato un ottimo voto in educazione civica.
Con cordialità, prof. Giancarlo Burghi.
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Il giorno che ti metti a fare il conto di quante estati buone ti restano ancora, non degli anni che è una roba vaga e retorica,
no, proprio le estati, la vera misura del tempo, e ti rendi conto che
bene che vada saranno quante, una ventina, magari anche meno o forse
chissà poi magari alla fine in tutto saranno anche di più, solo che per te contano appunto solo quelle buone, quelle in cui avranno ancora un senso
il mare la luce lunga il vino fresco le cene all'aperto i vestiti leggeri
i giri in bicicletta, e in quel preciso momento ti sembra di capire il senso
della Vita e come bisognerebbe Viverla fin quando ce n'è.
Lella Costa
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Non riesco ad avere figli e mi sembra di aver buttato la mia vita fino ad ora e che oltre non ci sia uno scopo...
Ti racconto una cosa.
Io ho 50 anni e la nostra prima figlia è nata che avevo 25 anni... una giovane coppia per quei tempi (1997) e un'età che adesso sarebbe definita prepubere.
Non ti faccio mistero che per un certo periodo della mia vita ho provato un sentimento molto vicino al disprezzo misto rabbia per tutte quelle persone che proseguivano la loro adolescenza lunga ponendosi al centro del mondo e ignorando la lotta esistenziale che un genitore doveva portare avanti anche solo per riuscire ad andare a letto la sera senza strisciare le ginocchia sul pavimento.
Oggi dico che ognuno cresce con le esperienze che gli sono più congeniali ed essere genitori è solo uno dei tanti modi per conoscere meglio la realtà... non ti rende migliore, ti fornisce solo una buona occasione per ridiscutere la tua centralità nel mondo.
Un figlio non è uno scopo, né una benedizione né una maledizione.
Un figlio non consolida il tuo ruolo nella società né conferma la tua validità di essere umano... se proprio dobbiamo dirla tutta ti provoca un'overdose di inadeguatezza e ti svela ogni giorno una nuova sfumatura del termine 'ansia'.
La domanda che ti devi fare prima di 'Sarò una buona madre?' e un'altra...
'Saprò amare gli altri anche se non sono come me?'
In caso contrario il figlio che sarà potrebbe essere per te solo un riscatto oppure una soddisfazione personale o anche una dimostrazione. O, peggio, un modo per accontentare o legare a te qualcuno.
Un figlio, in realtà, è un atto di amore ma non verso te stessa o verso chi ti sta accanto... è un atto di amore (e di fede) verso ciò che non sei tu, verso quel mondo che, dal giorno della tua scelta, diventerà più ricco e ancora più pieno di amore.
Perchè il bambino non nasce nell'utero ma nella testa e nel cuore.
Sappi essere madre senza figli e quello che tu chiami 'scopo' diventerà una tua consapevolezza profonda con la quale potrai aprirti all'altro anche senza legami di sangue e scoprire che la famiglia non ha nulla a che vedere con la biologia o la parentela.
Io sono figlio unico ma ho mille fratelli e sorelle... e ho ben più che due figlie, credimi.
Saprai amare gli altri anche se non sono come te?
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Un giorno c'è la vita. Per esempio, un uomo sano, neanche vecchio, senza trascorsi di malattie. Tutto è com'era prima e come sarà sempre. Passa da un giorno all'altro pensando ai fatti suoi, sognando solo il tempo che ancora gli si prepara. Poi, d'improvviso, capita la morte. Un uomo esala un leggero sospiro, si abbandona sulla sedia, ed è la morte. La sua subitaneità non lascia spazio al pensiero, non dà occasione allo spirito di cercare una parola che possa consolarlo. Restiamo soli con la morte, col dato inoppugnabile della nostra mortalità. La morte dopo lunga malattia possiamo accettarla con rassegnazione. Anche che la morte accidentale si può attribuire al destino. Ma che un uomo muoia senza causa apparente, che muoia solamente perché è uomo, ci spinge così vicino all'invisibile confine tra la vita e la morte da farci domandare su che lato di esso ci troviamo. La vita si fa morte, ed è come se quella morte avesse posseduto questa vita da sempre. Morire senza preavviso. Come dire: la vita si interrompe. E può interrompersi in qualunque momento.
Paul Auster, L'invenzione della solitudine, 1982
Il grande scrittore americano muore oggi 1° Maggio 2024,all'età di 77 anni, dopo una malattia.
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Quel bar di periferia
Non amo frequentare le piazze, in particolare quella del mio paese, perché infuriano l’apparenza, la visibilità, la chiacchiera e il pettegolezzo.
E allora da sempre cerco la periferia, alla mano, frequentata da gente particolare, forse un po’ ai margini della società.
Un mio rifugio è il bar “da Vale”, nei dintorni, in una località poco lontana da dove abito, ma in cui ancora dominano la pace, la tranquillità e la campagna, che invecchiando apprezzo sempre di più. Il bar è il fulcro di questo luogo, in realtà l’unico esercizio commerciale presente.
Quando vado, ordino del vino bianco, con acqua e un po’ di limone, e mi siedo all’ombra per ricaricarmi.
Vale è un “vecchio comunista”, convinto, che ha viaggiato nei Paesi del Sudamerica, e perciò ama dannatamente il caldo.
Parla a bassa voce, con la saggia calma di chi sa che le sventure esistono, ma che da esse non bisogna farsi schiacciare.
Per questo, di fronte alla mia indole leggermente malinconica e sfiduciata, le sue battute sono salutari.
Il suo ottimismo è tale che quando, mentre parliamo, mi punge una zanzara, lui ne vede il beneficio: per la zanzara, ovviamente, giacché come tutti anche lei deve mangiare…
Vale rispetta la natura, quella più vera e selvaggia, infatti ha sei gatti e tre cani (tutti accolti perché non desiderati da altri), come me non mangia la carne, e ha creato un laghetto per le anatre, che vi nuotano al suono rilassante di campanelle che si muovono al vento.
E’ calmante Vale nel suo riso sommesso e spontaneo, nella sua convinzione che tutto sia finito ma che ognuno di noi sia ancora in tempo per scegliere chi vuole essere.
Per lui, al bando il consumismo, l’ipocrisia, l’imposizione e ogni forma di costrizione, di emarginazione.
E per me, sentirlo parlare è davvero un “elisir di lunga vita”…
Nel suo bar ci sono persone che non si trovano nei locali della “bella gente”, ma da loro c’è solo da imparare.
Bevono tanto, per smorzare certe delusioni e certe fatiche, o giornate troppo vuote, e proprio per questo da loro escono tanto urla selvagge quanto magnifici ragionamenti, che annoto febbrilmente nella mia memoria.
Enzo, per esempio, muratore che lavora sui tetti bollenti dell’estate, ogni giorno scende dall’auto del suo capo (puntualmente alle 18.00) e, prima ancora di sedersi, ordina la prima birra. Inizia così la sua serata “da Vale”, offrendo poi a tutti quelli che arrivano qualcosa da bere.
Per chi non lo sapesse ascoltare, Enzo è certo qualcuno da cui tenersi lontano, ma nella famiglia del bar, tutti sono attorno a lui.
Personalmente ne colgo le sfumature più generose come le umiliazioni subite.
Ecco perché in questi posti mi sento accolta, a mio agio, tra gente apparentemente diversa da me, e invece così vicina a me.
Tra gente che non bleffa, che non ha nulla di valore da darmi, ma che mi offre la genuinità umana che altrove non trovo.
(Pubblicato da "Bella di giorno" )
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Ci sono tante cose che avrei voluto dirti e tante altre che ci siamo persi. Avrei voluto dirti di quanto è bello il giorno prima di partire, di quanto è stato bello a Parigi insieme lasciando il mondo e i problemi da parte, i sogni che ti fai e tutta la voglia che hai di crederci, di quanto è bello trovare qualcuno uguale a te, di quanto può far male sentirsi soli, sperare, aspettare qualcosa che non arriverà mai. Avrei voluto parlare con te di ciò che ci rende simili ridere, piangere, di albe e tramonti che abbiamo visto da due posti differenti. Avrei voluto ascoltare il tono della tua voce che mi fa sempre sentire a casa, avrei voluto parlare con te per ore per poi arrivare a ridere come solo noi sappiamo fare. Avrei voluto dedicarti tutte le canzoni più belle, quelle che abbiamo sempre ascoltato, e cantare con te in macchina al tramonto dopo una lunga giornata. Avrei voluto guardare il tramonto in riva al mare e parlare del futuro insieme, avrei voluto passeggiare in riva al mare con te e sentire un po’ di malinconia. Perché sai, mi piace credere che su questo siamo simili. Avrei voluto sentire la tua buonanotte prima di andare a dormire dopo una giornata stressante, il tuo buongiorno anche dopo la notte più lunga. Avrei voluto vedere il tuo bicchiere di vino davanti la tv, la tua stanchezza al ritorno dal lavoro, i nostri piani per il futuro, il calore delle tue mani, il tuo maglione, la voglia di viaggiare, di sognare un posto migliore in cui vivere, la nostra casa insieme, i nostri vicini. Avrei voluto vivere la vita che avrei vissuto se tu fossi stato qui, presente nei miei giorni, nei miei anni. Il mio cuore ce l'hai con te, in un mondo in cui tu non sei mai andato via e io non ti ho mai perso. Pensami sempre, che in quel mondo ti sto sorridendo.
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Forse tutti avete visto la foto che ritrae l’allineamento della Luna con la Basilica di Superga e il Monviso. È una foto perfetta che racconta di un’attesa lunga sei anni. Io però voglio raccontarvi un’altra storia, quella del fotografo che l’ha scattata. Una storia di pazienza, di tenacia e di coraggio. Coraggio di cambiare radicalmente strada nel momento più difficile della propria vita.
Voglio iniziare però proprio da quello scatto, e da una domanda: si possono aspettare sei anni per scattare una #fotografia? Alla fine del 2017 Valerio aveva segnato sul calendario tutte le date delle fasi lunari, in particolare quelle in cui la luna tramontava in un determinato punto. Ogni sera “giusta” partiva per provare a portare a casa l’immagine che aveva sognato, ma c’era sempre un problema: le nuvole, la pioggia, la nebbia, la foschia… Così per sei volte, all’inizio di ogni anno, ha compilato il calendario e non ha mai sprecato una data possibile, ma senza successo. Alla fine, alle 18:52 del 15 dicembre 2023, la lunga attesa è stata premiata e la sua vita è cambiata.
All’inizio l’idea era quella di allineare la Basilica di #Superga e il #Monviso per fotografarli insieme. Valerio si era fatto aiutare dal mappamondo di Google Earth e aveva individuato quattro possibili punti. Il punto ideale lo aveva trovato a nord-est di Torino, sopra Castagneto Po, a 380 metri d’altezza. La prima volta che c’è salito si è reso conto che in quell’istantanea che aveva immaginato poteva entrare anche un terzo soggetto: la luna. Da quel momento si è messo a studiarne le fasi per scoprire che ci sarebbe stato soltanto un giorno perfetto in tutto l’anno.
E al sesto tentativo, dieci giorni prima di Natale, ha capito che forse ce l’avrebbe fatta: il cielo era limpido e l’aria asciutta. Così si è messo ad aspettare e quando tutto si è allineato e ha visto la sagoma del Monviso disegnata sulla Luna ha scattato. La mattina dopo, soddisfatto del risultato, ha spedito il file alla #Nasa, per partecipare al concorso “Astronomy Picture of the Day”, la risposta non si è fatta attendere: per l’ente spaziale americano la sua è stata la foto del giorno di Natale.
«È come se questa foto avesse sbloccato qualcosa, migliaia di persone hanno condiviso quell’immagine e hanno scoperto le mie foto che sono uscite dal Piemonte e sono andate in giro in tutto il mondo».
Conosco Valerio Minato pH da più di dieci anni, da quando ho notato il suo banco sotto i portici di Piazza Vittorio a Torino. Non vendeva libri, borse di cuoio, gioiellini, ma le sue fotografie, stampate su un supporto rigido e a prezzi accessibili a tutti. Ricordo che mi avevano colpito i soggetti ricorrenti: il Monviso, la Mole Antonelliana, il Po, le vecchie vetture del tram, ritratti però con prospettive originali.
Lo vedevo ogni fine settimana, con qualsiasi tempo, dietro il suo banco dalla mattina alla sera. Ho cominciato a fermarmi a chiacchierare e siamo diventati amici. Valerio è nato nel 1981 a Biella e nella sua vita la fotografia è arrivata dopo i trent’anni. Si era diplomato perito chimico tintore, aveva trovato subito un lavoro in un’industria tessile, poi era passato in una fabbrica chimica del settore gomma: «A 24 anni, dopo cinque passati in fabbrica, ho avuto un bruttissimo incidente sul lavoro: ho quasi perso un braccio, risucchiato da una macchina. Sono stato un mese e mezzo in ospedale, ho subito cinque interventi chirurgici, e tra un’operazione e l’altra ho deciso di cambiare tutto».
Così ha lasciato Biella e si è iscritto all’università a #Torino: Scienze forestali e ambientali. «Volevo una vita nuova, stare in un mondo completamente diverso. Volevo la natura e l’aria aperta».
All’ultimo anno di università compra una macchina fotografica e per gioco inizia a scattare, dopo la laurea trova lavoro in un’azienda, ma la passione per l’immagine occupa sempre più spazio dentro di lui. «Quando mi hanno offerto un contratto a tempo indeterminato ho deciso di dire di no, di fare una scelta ancora più totale di libertà. Ispirato dai banchi sotto i portici di Via Po mi sono iscritto all’albo degli “Operatori del Proprio Ingegno” e ho aperto il punto vendita delle mie foto».
Mario Calabresi
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E si, l'amore è un buco che ha bisogno d'essere riempito. Tantissime persone, sono sempre alla ricerca di un amore genuino, ma raramente, se non mai, lo trovano. Solo con Dio e il suo amore eterno potranno soddisfare quel doloroso vuoto spirituale, nel cuore di ogni uomo che ha creato. Tu hai qualcosa che loro hanno cercato per tutta la loro vita e di cui, hanno un disperato bisogno. Puoi sempre lasciar cadere un poco d'amore nel cuore di quelli a cui passi accanto, anche se solo con una parola, con un sorriso, o uno sguardo di simpatia e loro capiranno che, quel giorno Dio li ha visitati e amati. Il suo spirito glielo dirà! Un pò di amore va così lontano! Così lascia cadere quel piccolo seme d'amore in quel buco vuoto di quel cuore vuoto, poi, coprilo con il tepore amorevole dell'amore di Dio e, confida nel suo spirito caldo, l'acqua e un sole splendente farà poi sbocciare il miracolo di una nuova lunga vita. Può sembrare un bocciolo assai piccolo al principio soltanto un insignificante germoglio verde in confronto alla foresta di cui c'è bisogno. Beh, è solo un inizio. È l'inizio del miracolo di una nuova vita d'amore. Si un amore completo, appagante, dissetante, che soddisfa la mente, sazia l'anima, riempe il cuore.
lan ✍️
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Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.
Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi geni ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi.
Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.
Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene.
Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.
Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.
Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno.
E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica.
Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni.
Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda.
Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina.
E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
Dino Buzzati
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Abbattere e seppellire alberi per fermare il cambiamento climatico: l’idea di una startup sostenuta da Bill Gates
Un anno fa Merritt Jenkins si è trasferito da Boston a Twain Harte, in California, ai piedi della Sierra Nevada. Un mattiino si dirige verso un bosco di dieci acri nella Stanislaus National Forest. Qui la sua startup, Kodama Systems, sta perfezionando la sua macchina per la raccolta del legname, che pesa 17 tonnellate ed è lunga 7metri e mezzo. I taglialegna usano macchine del genere, per prendere tonnellate di alberi tagliati e detriti e trascinarle fuori dal bosco. La versione di Kodama è progettata per svolgere questo compito anche di notte, con meno persone, grazie a connessioni satellitari e camere avanzate a lidar (light detection and raging), le stesse utilizzate sulle auto a guida autonoma, per monitorare il lavoro da remoto. Non è facile. “Gli alberi hanno molte texture diverse”, dice Jenkins, 35 anni. “Ogni 3 metri il cammino è leggermente diverso”. Ma tagliare legna nell’oscurità non è la parte più intrigante dei programmi di Kodama, che ha raccolto 6,6 milioni di $ di finanziamenti dalla Breakthrough Energy di Bill Gates e da altri. Dopo avere tagliato gli alberi, Jenkins vuole seppellirli per contribuire a rallentare il cambiamento climatico e raccogliere compensazioni di carbonio che potrà poi vendere (e forse, un giorno, anche crediti d’imposta). L'idea è quella di piantare alberi per assorbire la CO2 dall’aria e poi vendere i crediti alle aziende, ai proprietari di jet privati o a chiunque altro abbia bisogno o voglia compensare le sue emissioni. Gli scienziati, però, sostengono che anche seppellirli possa ridurre il riscaldamento globale. Soprattutto nel caso di alberi che finirebbero altrimenti per bruciare o decomporsi, disperdendo nell’aria il carbonio che hanno immagazzinato. I giganteschi incendi divampati in California nel 2020 hanno evidenziato i rischi per l’aria, le proprietà e la vita posti dalle foreste troppo estese. “I cieli arancioni di San Francisco hanno rappresentato un punto di svolta”, afferma Jimmy Voorhis, head of biomass utilization and policy di Kodama. “Ora queste storie hanno un’eco diversa. L’allarme suona ancora più forte quest’anno, dopo che gli incendi in Canada hanno messo a rischio l’aria di New York, Washington e Chicago. Per affrontare il problema, lo Us Forest Service intende tagliare 70 milioni di acri delle foreste occidentali, soprattutto in California, nei prossimi 10 anni. In questo modo estrarrà più di un miliardo di tonnellate di biomassa secca. È consuetudine, dopo un disboscamento del genere, che i tronchi di dimensioni tali da essere di interesse commerciale finiscano alle segherie, mentre il resto viene in gran parte accatastato e bruciato in condizioni controllate. Kodama, invece, vuole seppellire gli avanzi in vasche di terra progettate per mantenere condizioni asciutte e senza ossigeno e proteggere il legno dalla putrefazione o dalla combustione. Oltre ai fondi raccolti da venture capital, Kodama ha già ricevuto sovvenzioni per 1,1 milioni di dollari dall’agenzia californiana che si occupa degli incendi boschivi. Altri si sono già impegnati ad acquistare i crediti di carbonio legati alle prime 400 tonnellate di alberi seppellite. Sul mercato, quei crediti dovrebbero fruttare 200 $ a tonnellata. Kodama conta di arrivare ad abbattere e seppellire più di 5000 tonnellate di alberi all’anno. L’idea di seppellire gli alberi sembra semplice e poco tecnologica, soprattutto se paragonata alle complesse tecnologie per la cattura del carbonio che vengono sviluppate per estrarre la CO2 dall’aria. Grazie all’Inflation Reduction Act approvato dai DEM nel 2022, società come Occidental Petroleum ed ExxonMobil potrebbero beneficiare di 85 $ di crediti d’imposta per ogni tonnellata di CO2 se riusciranno a perfezionare i sistemi per aspirare il gas direttamente dall’aria e trasferirlo tramite condutture, per poi iniettarlo nel sottosuolo. La legge incentiva alcuni di questi progetti con crediti d’imposta pari al 30% o più del capitale iniziale investito.
https://forbes.it/2023/08/04/kodama-systems-startup-abbatte-alberi-salvare-clima/
Non ho parole per commentare, se non che basta piantare nuovi alberi. Ma evidente non rende così tanto
https://www.science.org/doi/10.1126/science.aax0848
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