#trasporti navali
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benzinazero · 1 year ago
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Emissioni globali di CO₂ per tipologia di trasporto [Our World in Data]
Grafico da Our World in Data In questo articolo di Our World in Data vediamo la distribuzione in percentuale delle emissioni di CO₂ per tipologia di trasporto, sintetizzata nel grafico sopra e così traducibile: 45,1% – Trasporto passeggeri (include auto, motocicli, autobus e taxi) 29,4% – Trasporto merci su gomma 11,6% – Aviazione (81% passeggeri, 19% trasporto merci) 10,6% – Trasporto su…
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scienza-magia · 1 year ago
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Accaparramento porti Africani da parte della Cina e degli Emirati
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Nella lotta per i porti, la Cina trova gli Emirati in Africa. Il caso Tanzania. Sul controllo dei porti in Africa si sta aprendo una competizione tra Cina ed Emirati. Pechino vuole sfruttare la narrazione win-win per essere presente in un settore dove Abu Dhabi ha avviato i propri progetti strategici per il futuro. Nel programma per consolidare la cosiddetta “collana di perle”, gli Emirati Arabi Uniti trovano la Cina come un rivale strategico in Africa? Un tempo il progetto di Abu Dhabi prevedeva (informalmente, come ambizione nota ma non troppo dichiarata) di agganciare la loro collana alla Maritime Silk Road, la componente marittima della Belt & Road Initiative. Ora, a distanza di un decennio dal lancio dei reciproci progetti, i due Pesi si ritrovano in una condizione di competizione, che non è esplicita, ma logica conseguenza del sovrapporre i propri interessi in territori comuni. Che siano essi le infrastrutture portuali in genere, o specificamente i singoli Paesi. Per Pechino, quelle basi servono anche per costruire un network di postazioni utilizzabili anche come basi navali militari (dai dati del Council on Foreign Relations sono dual use la gran parte dei porti in cui la Cina ha investito). Per Abu Dhabi, i porti consolidano una dimensione internazionale, quella commerciale, dove attraverso la logistica portuale e aziende strategiche controllate dalla famiglia regnante, il Paese ha assunto una propria centralità globale. Nel 2021, gli Emirati Arabi Uniti hanno celebrato il 50° anniversario della fondazione, e lanciato un documento in 50 principi, che traccia la traiettoria di sviluppo degli Emirati Arabi Uniti per i prossimi 50 anni. Un’area chiave di interesse è in una politica estera rinnovata che mette l’economia al primo posto. In questo, il ruolo del porto Jabel Ali di Dubai avrà un ruolo chiave, come super hub che connette Asia e Africa secondo lo slogan “One Port, One Node” (espressione coniata da Eleonora Ardemagni di Ispi).
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Nell’ultimo decennio, gli Emirati Arabi Uniti sono stati il quarto investitore in Africa, dopo Cina, Unione Europea e Stati Uniti. Gli investimenti emiratini nel continente hanno raggiunto quasi 60 miliardi di dollari, destinati principalmente a infrastrutture, energia, trasporti e logistica. Tuttavia, un recente accordo multimilionario tra il governo della Tanzania e Dubai Ports World (DP World), di proprietà della famiglia reale emiratina, ha scatenato l’indignazione pubblica e l’opposizione politica, rischiando di essere un precedente che compromette l’efficacia dell’influenza emiratina in Africa. Prima di andare avanti val la pena ricordare che la Tanzania è il Paese in cui la Cina ha investito più fondi, con 10,8 miliardi piazzati negli anni in due porti, di cui uno può essere usato dalle navi militari: sul grande porto di Bagamoyo, il principale dell’Africa orientale, il quale ha raccolto la gran parte degli sforzi cinesi (aiutati dal fondo sovrano omanita), ci sono progetti di ampliamento che stanno già mettendo in difficoltà il Paese; l’altro è Dar es Salaam, che come dice il Quotidiano del Popolo serve da “sea gate” da e per diversi Paesi africani, aprendo la porta dell’Oceano Indiano. Il deal controverso e la Cina In base all’accordo firmato il 22 ottobre con gli emiratini, DP World investirà 250 milioni di dollari per ammodernare e gestire in esclusiva circa due terzi del porto di Dar es Salaam per 30 anni, con investimenti potenziali fino a un miliardo di dollari nel periodo di concessione. Nonostante sia stato firmato ufficialmente a ottobre, le notizie sul contratto sono emerse a luglio, suscitando le preoccupazioni dei gruppi della società civile e dell’opposizione, che hanno sostenuto che il contratto violava la Costituzione della Tanzania e metteva a rischio la sovranità nazionale. Ad agosto, l’Alta Corte di Mbeya ha respinto una petizione che contestava la legalità dell’accordo portuale. C’erano state proteste e non è impossibile che la Cina abbia cavalcato certi malumori con campagne di disinformazione. Inoltre, le organizzazioni per i diritti umani stanno sempre più esaminando i recenti accordi degli Emirati Arabi Uniti, in particolare dopo l’arresto dei critici che si oppongono a questi accordi. L’anno scorso, oltre 70.000 Masai sono stati sfrattati dalle loro terre ancestrali in Tanzania per la creazione di una riserva di caccia di lusso, presumibilmente destinata alla famiglia reale emiratina nell’ambito degli sforzi per incrementare il turismo degli Emirati Arabi Uniti. Questi precedenti e tali contesti sono un elemento di valore per le campagne comunicative. Su Dar es Salaam, per esempio, i critici sostengono che i termini dell’accordo favoriscano eccessivamente gli Emirati Arabi Uniti, minando i diritti e la gestione locale. Questo contesto può essere sfruttato da certe narrazioni. Tuttavia, il ministro dei Trasporti tanzaniano, Makame Mbarawa, ha dichiarato che la Tanzania manterrà il 60% dei guadagni. Il coinvolgimento di DP World in Africa è iniziato oltre due decenni fa con la gestione del porto di Gibuti, espandendo i suoi investimenti in vari Paesi, tra cui Angola, Egitto, Marocco, Mozambico, Senegal e, in modo controverso, una concessione trentennale in Somaliland nel 2016. A questa, nel tempo, si sono uniti una dozzina di progetti che hanno consolidato la presenza emiratina in Africa. Il perseguimento dell’influenza regionale da parte di Abu Dhabi, tuttavia, deve affrontare le sfide poste dal dominio della Cina, come detto. Già nel 2018, il governo di Gibuti ha sequestrato il porto di Doraleh, costruito e gestito dagli Emirati Arabi Uniti, consegnandolo a China Merchants Port Holdings. DP World, che aveva ottenuto una concessione da 50 anni dal 2006, ha contestato la mossa, citando una violazione del suo accordo di “accesso esclusivo”. Le tensioni si erano acuite già quando Gibuti aveva respinto le proposte per una base militare degli Emirati Arabi Uniti, ma aveva permesso alla Cina di stabilirne una nel 2017. Gli sforzi marittimi degli Emirati Arabi Uniti in Africa hanno preceduto in alcuni casi la Cina, ha recentemente analizzato Ardemagni. Si consideri l’esempio del porto di Maputo in Mozambico, dove DP World ha responsabilità di gestione dal 2006. La Cina ha avviato una collaborazione con il Mozambico per la ristrutturazione del porto di Beira nel 2017, arrivando molto più tardi. Analogamente, DP World supervisiona le operazioni del porto di Dakar in Senegal dal 2008, mentre i progetti infrastrutturali della Cina nel Paese si sono fatti notare dieci anni dopo, nel 2018. Read the full article
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ilpianistasultetto · 4 years ago
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Il 14 settembre riaprono le scuole. La prima volta, da 100 anni, mentre si e' dentro una pandemia mondiale. Dagli anni '90 in poi l'argomento scuola non e' stato mai in cima alla lista di nessuna forza politica. Berlusconi ha governato 10 anni facendo condoni, parlando di giustizia, leggi ad-personam e regalando qualche dentiera gli anziani. Stessa cosa hanno fatto i governi si sx, quasi sempre con le stesse ricette della dx e qualche piccola distinzione sui diritti civili e sociali. Salvini e Meloni sono in politica da 30 anni, hanno votato tagli a tutto, istruzione, sanità, trasporti, enti comunali e regionali e su ogni comparto pubblico per far quadrare i conti dei governi di cui facevano parte pur di salvare la loro poltrona da 15mila euro al mese..
Salvini e Meloni hanno rilasciato negli anni migliaia e migliaia di interviste, di ospitate televisive, di dibattiti politici. Si sono sempre presentati agli appuntamenti elettorali con i loro cavalli di battaglia: legge e ordine con lo slogan "padroni in casa nostra", via dell'europa, condoni edilizi e fiscali, blocchi navali per fermare i migranti, mai sanatoria. No alle moschee, difesa della religione cattolica, flat tax per lasciare piu'soldi nelle tasche dei ricchi, delle imprese, di artigiani e commercianti. Più soldi alle forze armate. Quota 100 per mandare prima la gente in pensione, voucher per lavoratori temporanei e flessibilita' del lavoro per aiutare gli imprenditori. No alla misura delle zucchine o delle vongole imposte dall'Europa. Soldi all'agricoltura, a scuola e sanita' privata. Più carceri e meno magistratura.
Un punto soltanto non hanno mai toccato, mai mai, l'istruzione, la scuola pubblica.
Qualcuno di voi ha mai sentito qualche politico accorarsi sul tema scuola fino a dimettersi? Qualcuno ha mai visto cadere un governo su questo tema? Salvini che ha una collezione di almeno 100 felpe con 100 scritte diverse, dalla polizia ai vigili del fuoco, da "padania libera" a "forza Vesuvio".. lo avete mai visto con indosso una felpa con la scritta "viva la scuola pubblica" o fare qualche manifestazione a sostegno di presidi, alunni e insegnanti? Avete mai sentito dire alla Meloni e i suoi elettori ricette per ristrutturare o costruire nuove scuole? Avete mai sentito un elettore di dx (pochi a sx) rivendicare il diritto allo studio per tutti i ragazzi di questo Paese? Vi ricordate, a memoria d'uomo, una manifestazione nazionale per una scuola migliore con alla testa il trio Salvini-Meloni-Berlusconi?
E ora, tutta questa accozzaglia di politici e milioni di loro votanti ,all'improvviso salgono in cattedra e provano a fare la lezioncina a una ministra che per il 14 settembre deve riaprire le scuole garantendo la sicurezza per 8 milioni di studenti.
Ora tutti hanno la loro bella ricetta, tutti si stracciano le vesti perche' le scuole sono fatiscenti e gli arredi fanno schifo. Ora sono diventati tutta un'unica falange, un ariete pronto a lanciarsi contro la Ministra Azzolina denigrando ogni iniziativa presa. No alle mascherine tra i banchi, no ai doppi turni, no alla didattica a distanza, no ai banchi monoposto. Insomma, no a tutto e al contrario di tutto. Poi ci sono le mamme e i papa', i genitori degli alunni. Su questi stendo un velo pietoso perche' nel mio ricco vocabolario troverei, purtroppo, solo aggettivi negativi per chiamarli in causa.. @ilpianistasultetto
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corallorosso · 5 years ago
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L’Italia non è più un porto sicuro a causa del Coronavirus di Annalisa Girardi Per tutta la durata dell'emergenza coronavirus, l'Italia non potrà più essere considerata un porto sicuro. E in quanto tale non permetterà quindi l'attracco alle navi umanitarie che salvano i migranti nel Mediterraneo. "Per l'intero periodo di durata dell'emergenza sanitaria nazionale, derivante dalla diffusione del virus Covid-19, i porti italiani non assicurano i necessari requisiti per la classificazione e definizione di Place of Safety (luogo sicuro), in virtù di quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo, sulla ricerca e il salvataggio marittimo, per i casi di soccorso effettuati da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell'area Sar italiana": questo il contenuto di un decreto interministeriale firmato dalla ministra dell'Interno, Luciana Lamorgese, la ministra dei Trasporti, Paola De Micheli, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e il ministro della Salute, Roberto Speranza. Un provvedimento che arriva settimane dopo la dichiarazione dello Stato d'emergenza che, come ricordato nello stesso decreto, è stato proclamato a fine gennaio. Ma che è stato prontamente firmato nel momento in cui ci sono 150 persone a bordo della Alan Kurdi, nave umanitaria della Ong tedesca Sea-Eye, che si avvicinano alle coste italiane in attesa, appunto, di un porto sicuro di sbarco. I migranti sono stati soccorsi dalla Alan Kurdi in due diversi salvataggi: in uno di questi, raccontano gli attivisti, alcuni miliziani libici hanno anche esploso diversi colpi in mare contro i naufraghi. ... La Ong ha ribadito su Twitter: "Anche quando la vita in Europa si è quasi fermata del tutto, i diritti umani vanno protetti. I migranti soccorsi hanno bisogno di un porto sicuro". Che però non troveranno in Italia, a quanto stabilisce il decreto firmato da quattro ministri. ... Che cosa stabilisce il decreto "Considerato che alle persone eventualmente soccorse, tra le quali non può escludersi la presenza di casi di contagio Covid-19, deve essere assicurata l'assenza di minaccia per la propria vita, il soddisfacimento delle necessità primarie e l'accesso ai servizi fondamentali sotto il profilo sanitario, logistico e trasportistico", la situazione attuale in Italia non permette di considerare il Paese un luogo sicuro, si legge. Si sottolinea quindi che l'Italia, colpita com'è dall'epidemia di coronavirus, non può assicurare l'assenza di minacce alla vita dei migranti, se questi dovessero sbarcare sul suolo italiano. Come se non si trattasse di persone in fuga da guerra, abusi e violenza. https://www.fanpage.it/
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calogerogalvano · 3 years ago
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https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=3087461331530516&id=100008000374122
GALVANOPROJECT 👑👽🏦
sta ad indicare la vendita di beni e merci a prezzi estremamente ridotti che avviene quando un imprenditore affronta la bancarotta o subisce un incidente, tipicamente un incendio, mina irrimediabilmente la prosecuzione dell’attività commerciale. In ambito sportivo il medesimo termine indica la vendita sul mercato di tutti i giocatori più validi e più retribuiti di una società a causa di problemi finanziari.
Nell’ambito della cyber security, invece, questo termine è stato adottato per indicare un attacco organizzato e strutturato alle infrastrutture critiche di una nazione. L’intenzione dell’attaccante è quella di arrestare la rete dei trasporti, i servizi economici e finanziari, nonché i servizi primari e lasciare governo, istituzioni e forze militari e di polizia nella più completa impotenza.
L’attacco è tipicamente strutturato in tre fasi per ciascuna delle quali cerco di tracciare uno scenario di massima e le possibili conseguenze:
Fase 1 – Compromissione e controllo della rete dei trasporti: treni, autostrade, segnaletica stradale, sistemi di controllo del traffico aereo e della movimentazione aeroportuale, ferrovie, metropolitane e infrastrutture portuali e marittime. Nel breve termine si ottiene una situazione di grande caos, di ingorghi e incidenti stradali, di impossibilità di movimento e un forte rischio di incidenti ferroviari, navali e aerei. Successivamente, l’arresto dei trasporti causa la mancata consegna dei beni di prima necessità, dei medicinali urgenti e del carburante, nonché l’impossibilità per diverse persone di raggiungere il posto di lavoro. Inizia il caos e il panico fra la popolazione.
Fase 2 – Compromissione dei servizi economici e finanziari: arresto dei sistemi che regolano gli scambi in borsa e le reti interbancarie nazionali e internazionali. Nel breve termine si ottiene la paralisi dell’intero sistema: le carte di debito e credito non funzionano più, i servizi di Internet Banking non sono disponibili, gli sportelli ATM e i terminali POS vanno fuori linea rendendo impossibili prelievi di denaro e pagamenti telematici. In poco tempo la gente esaurisce il contante e non può ottenerne altro, di conseguenza aumenta ulteriormente lo stato di confusione e paura generale.
Fase 3 – Arresto dei servizi primari: energia elettrica, acqua, gas, rete fognaria e telecomunicazioni. Black out, indisponibilità di acqua corrente e gas, impossibilità di contattare i servizi di emergenza sanitaria o le forze di polizia in caso di necessità. I generatori di emergenza di cui sono dotate le grandi aziende erogano energia elettrica fino al completo esaurimento del combustibile a disposizione che avviene più o meno entro le 72 ore. L’indisponibilità delle comunicazioni telefoniche, satellitari e della rete Internet impedisce alla popolazione di comprendere l’entità del fenomeno e acuisce ulteriormente la già grave situazione di panico e terrore. La prolungata indisponibilità dei servizi primari causa gravi interruzioni di servizio negli ospedali, dove i reparti più critici devono registrare gli inevitabili decessi dei pazienti meccanicamente o elettronicamente assistiti. Successivamente si fanno strada gravi problemi di sicurezza nelle industrie petrolchimiche e nelle centrali nucleari, dove non è più possibile assicurare i fondamentali servizi di protezione e contenimento.
Milioni di persone per strada o chiuse in casa nella più totale impotenza, senza poter comunicare, senza potersi procurare alimenti di prima necessità e senza sapere come gestire la situazione. Penso sia abbastanza facile immaginare quali conseguenze in termini di terrore, rabbia, isteria, panico e caos possono configurarsi in caso di un attacco di questa portata e vi assicuro che la possibilità di registrare decessi di massa non è poi così remota. Terrificante, vero?
La negazione
Come spesso avviene quando il rischio è talmente elevato da risultare inimmaginabile, la reazione della massa è di etichettare l’eventualità come surreale e irrealizzabile. Questa reazione in psicologia viene definita “negazione” e consiste in una spessa corazza protettiva che ci impedisce di guardare in faccia qualcosa che non saremmo in grado di accettare o gestire.
Spesso, quando un individuo sente che un certo argomento lo porta verso una conclusione non gradita, alza questa barriera di rifiuto, solida e impenetrabile, anche a costo di apparire ridicolo. Un meccanismo tanto facile da riconoscere negli altri quanto invisibile in noi stessi, ma che non va né deriso né disprezzato: è una preziosa valvola di sicurezza che consente all’individuo di non impazzire e di non cadere nel disorientamento che gli comporterebbe un’eventualità così difficile da contemplare. È già successo a tutti noi.
Una reazione più che comprensibile per la gente comune, ma non consentita ad un professionista di sicurezza delle informazioni: chiudere gli occhi o voltare la testa dall’altra parte non risolve il problema, perciò non resta che guardarlo in faccia, comprenderlo appieno e adottare le necessarie misure di protezione e prevenzione.
Le infrastrutture critiche nazionali
Al giorno d’oggi intere nazioni sono interamente basate sui computer e sull’automazione industriale. Le infrastrutture critiche nazionali, ovvero trasporti, finanza e servizi primari, operano per mezzo di sistemi di controllo industriale che sfruttano tecnologie informatiche per il controllo sull’erogazione e per il monitoraggio remoto di apparati e servizi.
I sistemi di controllo industriale sono composti da dispositivi programmabili di controllo logico (PLC) per la gestione dei processi industriali, sistemi di controllo distribuito (DCS) per l’elaborazione e l’acquisizione delle informazioni da apparati distribuiti e da sistemi di controllo di supervisione e acquisizione di dati (SCADA) per il monitoraggio e il controllo dei servizi.
Sistemi che sono stati disegnati, prodotti e messi in funzione dieci, venti anni fa o anche prima, in scenari dove la documentazione e le misure di protezione informatica sono da sempre concetti sconosciuti e dove sistemi operativi obsoleti, non aggiornati e non aggiornabili, interfacce di comunicazione antiquate e rozze, scarsa conoscenza informatica e assenza di documentazione tecnica e architetturale costituiscono la normalità. In impianti vecchi di qualche decennio nessuno è più in grado di sapere con certezza a cosa serve un particolare cavo o quale impatto può avere un qualsiasi evento sull’erogazione dei servizi.
Ebbene, la cosiddetta infrastrutture critiche nazionali sono ormai interamente basate su sistemi come quelli descritti e tutto è regolato e controllato per mezzo dell’informatica. Con l’aggravante costituita dalla forte privatizzazione attuata sulle aziende di servizio, di trasporto e sugli istituti finanziari che ha reso pressoché impotenti i governi, i quali non sono più in grado di imporre adeguate misure di sicurezza a tutela della popolazione, se non per mezzo di opportune leggi che sono però molto lontane a venire.
Una minaccia reale
Stando a diverse fonti specializzate, i sistemi industriali sono vulnerabili a numerose tipologie di attacco a causa della relativa obsolescenza tecnologica, del mancato aggiornamento con le necessarie patch di sicurezza, dell’insufficiente ricorso alla protezione perimetrale e antivirus. Il ricorso ad analisi di sicurezza, vulnerability assessment e penetration test è rarissimo e, nei pochi casi in cui si sceglie di realizzare verifiche di sicurezza, i sistemi più critici non vengono toccati per paura di interruzioni di servizio difficilmente gestibili.
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lucasmasala86 · 3 years ago
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Disastro trasporti, Todde punge ancora il governo: “Più confronto su collegamenti navali con la Sardegna”
Disastro trasporti, Todde punge ancora il governo: “Più confronto su collegamenti navali con la Sardegna”
{$inline_image} Leggi la notizia su Casteddu Online Disastro trasporti, Todde punge ancora il governo: “Più confronto su collegamenti navali con la Sardegna”
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sciatu · 7 years ago
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LIBERTY SICILIANO - ERNESTO BASILE
L’inizio del 1900, fu un periodo della storia della Sicilia, ricco di avvenimenti. Una nuova classe imprenditoriale facente capo ai Florio, aveva sviluppato l’economia con miniere, vino, tonnare, trasporti navali e così via. Le nuove classi agiate, sostituivano lentamente i vecchi Baroni con cui, per continuità storica, si imparentavano. Ma accanto ai vecchi blasoni, i nuovi imprenditori, volevano anche nuovi palazzi, nuovi edifici costruiti ed arredati con lo stile più moderno dell’epoca: il Liberty. Avevano quindi bisogno di chi poteva interpretarlo al meglio per non farli sfigurare di fronte alla nobiltà italiana o tedesca con cui avevano continui contatti. Il “Profeta” del liberty in Sicilia fu Ernesto Basile, che ebbe con il pittore Bergler (vedi post precedenti) e con il proprietario delle omonime officine, Vittorio Ducrot, una simbiosi artistica continua e prolifica. Così fu possibile non solo creare nuovi palazzi, ma anche affrescarli ed arredarli in ogni dettaglio nel più puro stile liberty prima che tale stile si diffondesse nelle altre città italiane. Fu una creazione globale che andava, dalle sedie alle librerie fino all’arredamento completo dei palazzi e alla loro costruzione. Ogni particolare era re-inventato e creato in un inarrestabile sforzo creativo e quindi realizzato a Palermo dai maestri ebanisti o carpentieri locali. Alcuni sottolineano che la sua inarrestabile fortuna come architetto e design, derivi da un innato incredibile talento e dall’essere figlio di un altro eminentissimo architetto. Si dimentica però come Basile fosse un grande studioso e conoscitore dell’architettura Arabo-Normanna e della relativa esuberante concezione di architettura creata dai più semplici dettagli, quella concezione che in fondo ha applicato in tutte le sue opere.
The beginning of the 1900s was a period of the history of Sicily, full of events. A new entrepreneurial class headed by the Florio, had developed the economy with mines, vibo, tuna, naval transport and so on. The new wealthy classes slowly replaced the old Barons with whom they were related by historical continuity. But next to the old coats of arms, the new entrepreneurs, they also wanted new buildings, new buildings built and furnished with the most modern style of the era: the Liberty. They therefore needed those who could interpret it to the best so as not to make them disfigure before the Italian or German nobility with whom they had continuous contacts. The “Prophet” of the liberty in Sicily was Ernesto Basile, who had with the painter Bergler (see previous posts) and with the owner of the homonymous workshops, Vittorio Ducrot, a continuous and prolific artistic symbiosis. Thus it was possible not only to create new buildings, but also to fresco them and furnish them in every detail in the purest liberty style before this style spread to other Italian cities. It was a global creation that went from chairs to bookcases to complete furnishing of buildings and their construction. Every detail was re-invented and created in an unstoppable creative effort and then realized in Palermo by local master cabinet-makers or carpenters. Some point out that his unstoppable fortune as an architect and design derives from an innate incredible talent and from being the son of another eminent architect. But we forget how Basile was a great scholar and connoisseur of the Arab-Norman architecture and of the relative exuberant conception of architecture created by the simplest details, that concept which he applied in all his works.
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latinabiz · 4 years ago
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Approvato a Genova il primo piano nazionale di ship recycling
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Ship Recycling Ship Recycling Ship Recycling Ship Recycling Ship Recycling Ship Recycling Ship Recycling Ship Recycling Ship RecyclingShip recycling a Genova Il Comandante della Capitaneria di Porto di Genova ha approvato, nei giorni scorsi, il piano di riciclaggio della MN Mar Grande di bandiera italiana, la cui demolizione sarà eseguita a Genova presso i Cantieri Navali San Giorgio del Porto. Si tratta di un’ex cementiera costruita nel 1970, avente una lunghezza di 96 metri e una stazza lorda di circa 2800 tonnellate. La nave si trova già ormeggiata nel porto di Genova e sarà demolita in circa 90 giorni. È il primo caso di demolizione navale in Italia avviato ai sensi del Regolamento UE 1257/2013 e delle vigenti linee guida dell’International Maritime Organization, attraverso le quali vengono assicurate procedure compatibili per le matrici ambientali (aria, acqua, suolo) e, contestualmente, la sicurezza e la salute dei lavoratori. Con Decreto Ministeriale 12 ottobre 2017 il Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti (di concerto con il Ministro dell’Ambiente) ha, infatti, assegnato al Comando Generale delle Capitanerie di porto la vigilanza sulla corretta applicazione del Regolamento comunitario, affidando agli uffici territoriali del Corpo l’approvazione dei piani di ship recycling e l’esecuzione delle relative attività di controllo. Le operazioni prevedono una prima fase di alleggerimento con la nave in galleggiamento, seguita da una seconda fase in bacino nel corso della quale è prevista la rimozione di tutti i liquidi ancora presenti a bordo (oli residui, acque di sentina, etc.) e il taglio di tutte le lamiere, dalle sovrastrutture alla chiglia. Tutti i materiali pericolosi presenti a bordo - compreso l’amianto - sono stati rigorosamente inventariati e il piano di ship recycling approvato dall’Autorità marittima ha certificato il rispetto delle norme vigenti sulla gestione dei rifiuti e sulla prevenzione delle matrici ambientali.  Tutti i rifiuti, prodotti dalla demolizione dell’unità, saranno quindi caratterizzati e soggetti a preciso tracciamento, con previsione del maggior recupero possibile presso impianti esterni al porto. Il procedimento di approvazione ha visto il coinvolgimento della Città Metropolitana di Genova, che a suo tempo ha rilasciato al cantiere “San Giorgio del Porto” l’autorizzazione integrata ambientale per l’attività di demolizione navale, di A.R.P.A.L., che ne ha approvato il piano di monitoraggio e controllo per tutte le fasi delle operazioni, nonché di una serie di altri enti interessati, a vario titolo, dall’attività di demolizione. San Giorgio del Porto è l’unico cantiere italiano iscritto nell’elenco europeo dei cantieri autorizzati a demolire navi superiori a 500 tonnellate di stazza, potendo vantare una lunga esperienza nel settore delle demolizioni navali, tra le quali il relitto della Costa Concordia. Read the full article
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darthdodo · 4 years ago
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L’errata corrige su questo blog è stata censurata.. e purtroppo per evidenti motivi di favore dell’host proprietario tumblr del dominio, almeno sui server italiani è stata retrodatata nella benemerita malacreanza di certo sangue marcio istituzionale...
CON CIO’ 
vi lascio ad un dilemma e ad un calcolo che specula sui numeri di una carneficina assai pratica quanto mai spietata e che è un pugno nell’occhio della  buonafede e di ogni commemorazione di quei 10000 morti che ricordano lo strazio di circa 3 milioni di imbecilli dilaniati dai V1: uno sbarco in Normandia che ha prodotto al primo giorno..  quel 6 Giugno 1944, dalle prime luci dell’alba ad ondate interminabili ogni due ore in un incedere di batiscafi incalzante e incessante ogni 20 minuti spostava sulle 5 spiagge degli scontri le truppe di quello che tutti avrebbero visto come la testa di ponte e che invece permise all’operazione Overlord/Neptune di avere un discreto margine di becchime per gabbiani che i resoconti dell’epoca rimarcano in stime non inferiore ma quasi bambinesco.
Delle 1089 unità riportate sulla bibliografia antologica e ufficiale del WW2 ad oggi non esistono storie o testimonianze che si riallaccino a quelle sequenze fotografiche o foto di cortesia dell’orrore materiale che videro gli occhi impietriti degli uomini in quell’attimo che piovevano bombe da ogni dove e in una battigia deserta sentivano fischiare l’artiglieria nel presentimento di aver riposto quella fiducia nelle mani di chi li avrebbe trucidati senza esitazione;
dei 12500 trasporti necessari e sufficienti per fare di questo sbarco non più una scampagnata o un capitolo bizzarro da consegnare alla storia, infatti si dovevano disporre e dispiegare più mezzi di quelli che esige 1089 batiscafi e li spaccia per una grande forza di assedio, poiché solamente nell’istante che si fosse aspettato il rimpatrio di quei mezzi anfibi LCVP, capaci a pieno carico di trasportare 36 soldati per volta, intanto rientravano nelle tempistiche meno sfavorevoli dalle operazioni sul mediterraneo e cioè nel numero esatto in cui un contingente che si pone all’interno di una macchina bellica perfetta dal teatro del nord africa alle insenature della Normandia avviene in una forza inarrestabile e alle fasi frenetiche di un’avanscoperta spiazzata, spezzata e spazzata sotto il fuoco dell’artiglieria nemica che indietreggiando offriva copertura sulla costa fortificando, e di fatto proteggendo un dominio quasi bunkerato allo sproposito dai cannoni kilometrici che sui convogli navali alleati bersagliavano e cannoneggiavano a loro volta quella trincea di sabbia ghiaiosa in attacchi sferrati dall’alba al tramonto .. e ad ogni uomo che sacrificava affacciava la sua testa di ponte su quelle scogliere; quindi partendo da 300 mezzi per ogni spiaggia, ogni ondata che doveva ammassare sulle scogliere ben difese e fortificate dai nazisti con migliaia di uomini non solo equipaggiati ma sicuramente pronti a resistere, arresi solo alle lunghe distanze da ripiegare, soprattutto preparati allo sfondamento ..bisognava illudere i giovani volontari e i freschi eserciti di una coalizione che le perdite sarebbero state accettabili, che ogni minaccia sarebbe stata sventata nel nome del bene.. nel mentre che dalle navi i marinai assistevano ignari distratti o frastornati ad uno spettacolo che alzava tanta polvere quanto cuoceva e sbrindellava i corpi martoriati e massacrati di centinaia di migliaia di coglioni, di sprovveduti e fiduciosi britannici, tedeschi e americani con la facilità e la docilità di quelle puttane che si lasciano fottere.
In estate quel 6 giugno del 44 c’erano 17 ore di luce la possibilità di eseguire per ogni veicolo impegnato alla velocità di 12 nodi orari diversi approdi andata e ritorno in circa 7/8 ondate e la consistente opportunità di triturare lontano dagli occhi indiscreti di quei marinai i valorosi che sotto un fuoco martellante sia nemico che amico come degli idioti si trovavano stretti fra l’incudine e il martello e avendo il mare alle spalle e l’inferno davanti più un muro naturale che la scogliera frapponeva come ostacolo mentre i colpi d’artiglieria e le bombe termobariche V1 finivano e straziavano il resto di loro..
Se fossero stati 1089 mezzi anfibi impegnati si avrebbero avute  313.632 soldati schierati e al primo giorno un terzo almeno di questi morti.. ma molto più realisticamente sono stati utilizzati 9000 LCVP che hanno dispiegato diverse divisioni in 2.592.000 unità per le prime 24 ore e per un totale di circa 1 milione netto di perdite alleate e 40000 tedesche..
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uldericodl · 5 years ago
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Migranti. La Pietra (FdI): da governo bando per affittare navi. 1 milione di euro, 350 euro a persona al giorno per la Rubattino. Ma Italia non era porto non sicuro? Un bando del ministero dei Trasporti per noleggiare unità navali al fine di ospitare i migranti soccorsi in mare.
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paoloxl · 5 years ago
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1. Dopo le prime fasi di soccorso, la nave umanitaria Alan Kurdi della Ong tedesca Sea Eye, a bordo della quale si trovavano decine di naufraghi salvati nelle acque internazionali a nord delle coste libiche, aveva chiesto al Viminale la indicazione di un porto sicuro di sbarco (place of safety) come previsto dal diritto internazionale del mare. Già dall’adozione dello stato di emergenza legato alla diffusione del COVID-19, il 31 gennaio di quest’anno sarebbe stato necessario un piano di distribuzione delle persone soccorse in mare, ma la risposta del governo italiano si è limitata inizialmente all’imposizione delle procedure di quarantena ed al tentativo di ritrasferire in altri paesi europei i pochi naufraghi che venivano ancora soccorsi dalle navi umanitarie. Ancora in questa ultima occasione si è tentato di scaricare sulla Germania l’onere di indicare un porto di sbarco o di garantire comunque l’accoglienza dei naufraghi. Un tentativo fallito, con il definitivo accantonamento del Protocollo provvisorio di Malta, stipulato lo scorso anno con alcuni paesi europei, per la chiusura delle frontiere e la sospensione del Regolamento Dublino e del Trattato di Schengen da parte di tutti gli stati membri dell’Unione Europea.
La risposta del governo alla richiesta proveniente dalla Alan Kurdi di fornire un porto di sbarco sicuro si è quindi risolta in un Decreto interministeriale che costituisce sul piano amministrativo un inasprimento del decreto sicurezza bis (D.L. n. 53/2019, convertito nella L. n. 77/2019), voluto da Salvini quando era ministro dell’interno. Nelle stesse ore nelle quali il governo italiano bloccava lo sbarco dei naufraghi soccorsi dalla Alan Kurdi, ormai giunta nella zona SAR italiana a sud di Lampedusa, un’altra imbarcazione di legno con decine di migranti partita dalle coste libiche entrava nel porto di Lampedusa sotto scorta della Guardia di Finanza, ed un altro piccolo sbarco “autonomo” si verificava in provincia di Trapani. Mancano ancora notizie di un altro barcone che, dopo la partenza dalla Libia, sembrava diretto verso le coste siciliane. sembrerebbe che anche questo, nella scorsa notte, sia arrivato a Lampedusa. Gli sbarchi evidentemente non si arrestano con misure amministrative e di polizia che si pongono al di fuori del principio di legalità e dello stato di diritto, impedendo il completamento delle operazioni di soccorso in acque internazionali.
Nella giornata del 7 aprile, dopo un tentativo di coinvolgimento della Croce Rossa nel trasbordo su un’altra nave (militare?) dei naufraghi soccorsi dalla Alan Kurdi, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il ministro degli esteri, con il ministro dell’interno, e con il ministro della salute, ha adottato un decreto interministeriale “mirato” che, con esclusivo riferimento ai “casi di soccorso effettuati da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell’area SAR italiana”, dichiara che “per l’intero periodo dall’emergenza sanitaria derivante dalla diffusione del virus COVID-19, i porti italiani non assicurano i necessari requisiti per la classificazione e definizione di Place of Safety (“luogo sicuro”, in virtù di quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo, sulla ricerca ed il salvataggio marittimo”. Nel riferimento alle “navi straniere” si potrebbero ricomprendere anche navi di altri paesi come navi commerciali o navi militari, ma da anni le navi commerciali non effettuano soccorsi in acque internazionali, se non in rari casi nei quali hanno piuttosto collaborato con i libici, e le navi della missione IRINI di Eunavformed, hanno per mandato come porto di sbarco un porto greco. Frontex ha ritirato da tempo i suoi assetti navali presenti nel Mediterraneo centrale perché coinvolti in troppi eventi di soccorso e ritenuti dunque un pull factor (fattore di attrazione). Il decreto interministeriale, in nome della tutela della salute (anche dei migranti), è quindi mirato principalmente ad impedire lo sbarco in un porto italiano dei soli naufraghi soccorsi dalle Organizzazioni non governative.
Il decreto interministeriale adottato dal ministro delle infrastrutture ha natura di atto amministrativo ed incide gravemente su materie coperte dalla riserva di legge e disciplinate da Convenzioni internazionali che non sono derogabili da atti discrezionali di singoli ministri, come peraltro ha riconosciuto recentemente la Corte di Cassazione nel caso Rackete. Le norme di provenienza internazionale, peraltro, non possono essere richiamate a convenienza, ma vanno lette nel loro complesso ed applicate secondo le leggi di attuazione ed alla luce del richiamo che ne fanno gli articoli 10 e 117 della Costituzione italiana. Gli orientamenti prevalenti della giurisprudenza hanno finora escluso che atti di natura amministrativa possano derogare norme di fonte internazionale aventi forza di legge per effetto delle leggi di attuazione e del dettato costituzionale. Esiste ancora il principio di gerarchia delle fonti e non appare derogabile in nome della proclamazione dello stato di emergenza da COVID-19, adottato dal governo italiano il 31 gennaio scorso. Non si può utilizzare lo stato di emergenza derivante da una pandemia per criminalizzare ulteriormente gli interventi di soccorso umanitario operati dalle navi delle ONG, alle quali si nega il porto sicuro di sbarco, impedendo così il completamento delle operazioni di salvataggio in alto mare.
La Corte di Cassazione, con la decisione dello scorso febbraio, ha confermato “la valutazione del Giudice di Agrigento, che ha ritenuto non ci fossero i presupposti per convalidare l’arresto, eseguito in quel descritto contesto fattuale, poiché operante il divieto di cui all’art. 385 cod.proc.pen., è corretta. La verosimile esistenza della causa di giustificazione è stata congruamente argomentata. In questo ambito, il provvedimento ripercorre, necessariamente, le fonti internazionali (Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare, SOLAS-Safety of Life at Sea, Londra, 1974, ratificata dall’Italia con la legge n. 313 del 1980; Convenzione SAR di Amburgo del 1979, resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 147 del 1989 e alla quale è stata data attuazione con il D.P.R. n. 662 del 1994; Convenzione UNCLOS delle Nazioni Unite sul diritto del mare, stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’Italia dalla legge n. 689 del 1994), sia allo scopo di individuare il fondamento giuridico della causa di giustificazione, identificata nell’adempimento del dovere di soccorso in mare, sia al fine di delinearne il contenuto idoneo a scriminare la condotta di resistenza. Proprio le citate fonti pattizie in tema di soccorso in mare e, prima ancora, l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare, norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta e pertanto direttamente applicabile nell’ordinamento Io interno, in forza del disposto di cui all’art. 10 comma 1 Cost. – tutte disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima -, sono il parametro normativo che ha guidato il Giudice nella valutazione dell’operato dei militari per escludere la ragionevolezza dell’arresto della Rackete, in una situazione nella quale la citata causa di giustificazione era più che “verosimilmente” esistente. Nè si potrebbe ritenere, come argomenta il ricorrente, che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “place of safety”). Il punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR dispone: «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile». Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) allegate alla Convenzione SAR, dispongono che il Governo responsabile per la regione SAR in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Per l’Italia, il piace of safety è determinato dall’Autorità SAR in coordinamento con il Ministero dell’Interno. Secondo le citate Linee guida, «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.12). «Sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative». (par. 6.13)”.
Per la Corte di Cassazione, “Non può quindi essere qualificato “luogo sicuro”, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave. Ad ulteriore conferma di tale interpretazione è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale”.
2. Appare evidente come, nelle premesse giustificative del decreto interministeriale qui in esame, il ministro delle infrastrutture, di concerto con gli altri ministri coinvolti nella firma del provvedimento, abbia richiamato solo parzialmente il diritto internazionale del mare con un ritorno a tutte quelle motivazioni adottate in precedenza da Salvini per le ordinanze “ad navem” che tendevano a “chiudere” i porti italiani. Ma solo con esclusivo riferimento alle navi delle Organizzazioni non governative che avessero effettuato attività di soccorso in mare, con motivazioni puntualmente disattese da diverse decisioni dei giudici di merito, e da ultimo dalla Corte di Cassazione, che hanno ribadito l’obbligo dello stato italiano di indicare un porto di sbarco sicuro quando comunque una nave soccorritrice fosse entrata nella zona SAR (ricerca e salvataggio) italiana, salva la successiva valutazione in sede giurisdizionale del comportamento del comandante e dell’equipaggio.
Tra gli atti internazionali richiamati nelle premesse e il contenuto normativo del provvedimento, si ricordi un atto amministrativo adottato da alcuni ministri, e non una fonte primaria di legge, si richiamano Convenzioni che sono violate dal provvedimento e non certo ne costituiscono una premessa logica o legale. Il decreto firmato ieri dai ministri delle infrastrutture, degli esteri (?), dell’interno e della salute, proprio per quanto affermato dalla giurisprudenza, viola la Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo che vieta trattamenti inumani o degradanti e i respingimenti collettivi ( art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla Convenzione) e l’art. 33 della Convenzione di Ginevra che impone di prendere in esame tutte le eventuali richieste di protezione delle persone che giungono ad una frontiera, seppure marittima, senza procedere a respingimenti indiscriminati, come si realizzerebbero invece con la chiusura dei porti di sbarco attraverso la dichiarazione che, in questo momento di crisi sanitaria, l’Italia non sarebbe in grado di garantire “porti sicuri di sbarco”. solamente se i naufraghi sono soccorsi da navi battenti bandiera straniera al di fuori della zona SAR italiana. Una misura che appare gravemente discriminatoria e che non è neppure in linea con una interpretazione integrata e coerente del Diritto internazionale del mare che non si può esaurire, come invece si rileva del decreto interministeriale, nel mero richiamo dell’art. 19 della Convenzione UNCLOS di Montego Bay. Con lo stesso artificio interpretativo adottato dalle ordinanze di Salvini prima e dal decreto sicurezza bis poi, che la Giurisprudenza ha ritenuto non idoneo a piegare la valenza cogente delle Convenzioni internazionali e del diritto dei rifugiati, quando si tratta di salvataggio in mare e di accesso al territorio per chiedere protezione. Il passaggio delle navi delle ONG attraverso il mare territoriale di qualunque Stato per sbarcare naufraghi non può essere considerato recante “pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero” (art. 19.1 UNCLOS). Infatti, l’art. 19.2.e UNCLOS prevede esplicitamente che l’imbarco e lo sbarco di persone al solo fine di ottemperare agli obblighi di salvare la vita in mare sono attività ricomprese nella nozione di passaggio inoffensivo.
3. Le altre premesse giustificative del decreto interministeriali si risolvono nel richiamo ai diversi provvedimenti adottati dal governo dopo la dichiarazione dello stato di emergenza COVID-19 il 31 gennaio scorso, per fronteggiare il diffondersi dell’epidemia, provvedimenti che non sembrano però idonei a sospendere l’applicazione dello stato di diritto e la applicabilità delle norme internazionali in materia di ricerca e soccorso dei naufraghi o delle persone comunque in pericolo (distress) in acque internazionali. Ed appare certamente fuori luogo il richiamo a provvedimenti come il DPCM 11 marzo 2020 con il quale si riducono o si sopprimono “i servizi automobilistici interregionali e di trasporto ferroviario, aereo e marittimo”, o al Decreto interministeriale n. 120 del 17 marzo 2020 con il quale si disciplinano “le misure di ingresso delle persone fisiche in Italia e le relative prescrizioni al fine di evitare la diffusione ed il contagio del COVID-19”. Misure di carattere amministrativo che evidentemente non fondano alcun potere del ministro delle infrastrutture circa la decisione di impedire lo sbarco in un porto italiano soltanto dei naufraghi soccorsi da una nave battente bandiera straniera, atteso che continuano regolarmente gli sbarchi “autonomi” e quelli effettuati con l’assistenza di mezzi della Guardia di finanza. Se vi sono pericoli di carattere epidemiologico non si vede perché non possono essere affrontati con procedure di quarantena e di accertamenti sanitari, come peraltro è avvenuto fino a poche settimane nel caso di soccorsi operati da altre navi umanitarie, da ultimo la Ocean Viking di SOS Mediterraneé.
4. A fronte dell’esiguo numero di profughi soccorsi in mare dalla Alan Kurdi, e dalle limitate prevedibili capacità di intervento di questa stessa nave, l’unica rimasta operativa dopo il ritiro delle altre ONG, laddove fosse rimessa nelle condizioni di operare altri soccorsi nel Mediterraneo centrale, appare davvero pretestuosa la motivazione del decreto interministeriale, secondo cui, tenuto contro della situazione di emergenza connessa alla diffusione del Coronavirus e dell’attuale “situazione di criticità dei Servizi sanitari regionali”, e dell’ impegno straordinario svolto dai medici e da tutto il personale sanitario per l’assistenza ai pazienti Covid-19, non risulta allo stato possibile assicurare sul territorio italiano la disponibilità di tali luoghi sicuri (luoghi di sbarco sicuri, n.d.a.), senza compromettere la funzionalità delle strutture nazionali sanitarie, logistiche e di sicurezza dedicate al contenimento della diffusione del contagio e di assistenza e cura ai pazienti Covid-19 ″. Per quanto si richiami la dichiarazione del 30 gennaio 2020 con la quale l’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) ha dichiarato la natura pandemica del COVID-19, non si rinviene ancora alcun caso di positività ai migranti soccorsi negli ultimi mesi dalle navi umanitarie nel Mediterraneo centrale, e non sembra comunque che tale tipo di argomentazione, seppure collegata alla dichiarazione dello stato di emergenza adottato dal governo italiano il 31 gennaio scorso, possa sospendere l’applicazione delle norme internazionali, europee ed interne che nella interpretazione che ne ha fornito la giurisprudenza, fino alla sentenza della Corte di Cassazione dello scorso febbraio, ribadiscono l’obbligo degli stati di completare le operazioni di salvataggio da chiunque svolte, garantendo un luogo sicuro di sbarco. Il rifiuto, aprioristico e indistinto, di un governo, peggio di un singolo ministro, di far approdare la nave in un place of safety in Italia comporta l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo, e viola dunque il divieto di espulsioni collettive previsto dall’art. 4 del Protocollo n. 4 alla CEDU e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. L’invito a fare rotta verso un altro stato (ad esempio Malta o la Tunisia, o addirittura la Germania), rivolto ad una nave che ha effettuato un soccorso in acque internazionali e che si trova all’interno della zona SAR di un paese come l’Italia, quindi già sottoposta ad una giurisdizione nazionale, viola il diritto internazionale e priva le persone dei diritti di chiedere asilo e di fare valere una difesa effettiva, sanciti dagli articoli 10 e 24 della Costituzione italiana.
5. Altre motivazioni addotte alla base del decreto ministeriale adottato dal governo, come la possibilità, non documentata, che tra i naufraghi vi possano essere soggetti positivi al COVID-19, o la considerazione che alle persone soccorse deve essere assicurata “l’assenza di minaccia per la propria vita, il soddisfacimento di necessità primarie e l’accesso a servizi fondamentali sotto il profilo sanitario, logistico e trasportistico”, se non il riferimento all’impegno delle forze di polizia nel controllo del territorio, tradiscono la pretestuosità del decreto che sembra mirato esclusivamente a bloccare le attività di ricerca e salvataggio in mare delle ONG, con una ulteriore ed indebita criminalizzazione delle attività di soccorso umanitario.
Il decreto interministeriale tradisce la sua vera finalità, che mira a costituire ulteriori premesse per iniziative dei prefetti e della magistratura che portino al sequestro delle navi umanitarie ed alle incriminazioni dei comandanti e dei capi missione, quando nell’individuare i casi di soccorso che sarebbero compresi nel divieto di sbarco in un porto italiano, atteso che l’Italia intera non potrebbe garantire un place of safety (POS), un porto di sbarco sicuro, fa riferimento esclusivamente ”ai casi di soccorso effettuati da parte di unità battenti bandiera straniera che abbiano condotto le operazioni al di fuori dell’area SAR italiana, in mancanza del coordinamento del IMRCC Roma”. Sarebbe dunque il “coordinamento” delle attività SAR da parte della Centrale operativa della Guardia costiera italiana, ormai indirizzata dalle scelte del ministro dell’interno, che distinguerebbe i soccorsi per i quali i porti italiani resterebbero aperti, pure in presenza della pandemia da COVID-19, da quelli per i quali l’Italia non sarebbe in grado di garantire porti sicuri di sbarco, quelli operati dalle ONG e comunque da navi battenti bandiera straniera, al di fuori della zona SAR italiana e senza il “coordinamento” delle autorità italiane.
In considerazione della collaborazione in corso da tempo con la sedicente guardia costiera “libica”, riconfermata ancora di recente anche a livello europeo con l’operazione IRINI di Eunavfor Med, e dei pregressi accordi e protocolli stipulati dall’Italia con il governo di Tripoli, in particolare il Memorandum d’intesa del 3 febbraio 2017, si può ritenere che il decreto interministeriale adottato ieri riconfermi implicitamente l’obbligo delle navi straniere che soccorrano naufraghi nella pretesa zona SAR libica, di riconsegnare le persone alle motovedette di quel paese. Le stesse motovedette che riconducono i naufraghi nei centri di detenzione alla mercé dei trafficanti e che ancora pochi giorni fa non hanno esitato ad aprire il fuoco per impedire una operazione di salvataggio già avviata dalla Alan Kurdi. Sarà altro materiale per le attività istruttorie del Tribunale Penale internazionale sulla collaborazione tra la guardia costiera libica e le autorità italiane, ma potrebbe diventare presto, se scatteranno altre incriminazioni a carico degli operatori umanitari, oggetto di indagine da parte della magistratura italiana.
L’intero sistema dei soccorsi in mare non potrebbe del resto funzionare se si dovesse riconoscere il diritto dello stato costiero di “scaricare” sullo stato di bandiera, magari dall’altra parte del globo, la responsabilità per la indicazione del luogo di sbarco. Anche per l’incertezza derivante da siffatti criteri di responsabilità, quando l’armatore sia di un paese diverso da quello di bandiera della nave.
6. La giustificazione del decreto interministeriale consistente nella motivazione che “le attività assistenziali e di soccorso da attuarsi nel “porto sicuro” possono essere assicurate dal paese di cui le unità navali battono bandiera laddove abbiano condotto le operazioni al di fuori dell’area SAR italiana, in assenza del coordinamento del IMRCC Roma”, si risolve in una grave reiterazione delle motivazioni sottese alle ordinanze adottate dal precedente ministro dell’interno Salvini contro le navi umanitarie e risulta in contrasto con il diritto internazionale che non consente allo stato nella cui zona SAR si trovi già l’imbarcazione soccorritrice di respingere a tempo indeterminato i naufraghi, trattenuti a bordo contro la loro volontà in condizioni di estremo disagio fisico e psichico. Non è del resto dimostrato o dimostrabile che le imbarcazioni che hanno provveduto a salvare vite in mare abbiano le dotazioni necessarie, in termini di sicurezza, autonomia e viveri per raggiungere il paese di bandiera con il loro “carico umano”. Come non appare possibile, e questo lo ribadisce bene la Corte di Cassazione e la giurisprudenza italiana, che le trattative con i governi di altri paesi siano svolte sotto il ricatto del trattenimento indebito dei naufraghi a bordo della nave soccorritrice. Un copione triste che abbiamo già visto con le scelte del governo di cui Salvini era ministro dell’interno, e che adesso viene riproposto in versione “emergenza da COVID-19”, in assenza di altri presupposti legali, e potremmo aggiungere morali e politici.
Come emerge da una relazione tenuta nel maggio del 2017 dal Contrammiraglio Nicola Carlone davanti alla Commissione parlamentare sull’attuazione degli accordi di Schengen ”la normativa SAR internazionale (in particolare la Ris. MSC 167(78) del 2004) prevede che tutte le questioni che non riguardino il SAR in senso stretto, quali quelle relative allo status giuridico delle persone soccorse, alla presenza o meno dei prescritti requisiti per il loro ingresso legittimo nel territorio dello Stato costiero interessato o per acquisire il diritto alla protezione internazionale, ecc., devono di norma essere affrontate e risolte solo a seguito dello sbarco nel luogo sicuro di sbarco (POS) e non devono comunque causare indebiti ritardi allo sbarco delle persone soccorse od alla liberazione della nave soccorritrice dall’onere assunto”. Si aggiunge poi che un “luogo di sbarco sicuro”, in base alle specifiche “linee guida” elaborate dall’IMO con la più volte menzionata Ris. MSC 167(78) del 2004, dev’essere, tra l’altro, “un luogo dove la vita delle persone soccorse non è più minacciata e dove è possibile poter far fronte ai loro bisogni fondamentali (es.: cibo, riparo e cure sanitarie)”. Non si può escludere che questo luogo sia l’Italia, soltanto perchè adesso si è proclamato lo stato di emergenza per la diffusione del COVID- 19. La situazione di Malta, o di altri paesi del Mediterraneo, inclusa la Spagna, risulta certamente più critica della situazione che si riscontra nelle regioni di sbarco della penisola italiana, come la Sicilia o la Puglia, anche sulla base dei dati sanitari e del quadro normativo.
7. Rimangono ancora inascoltati gli appelli che l’OIM e l’UNHC hanno lanciato perchè anche nel Mediterraneo centrale si garantissero vie legali di fuga e missioni di soccorso coordinate tra gli stati e le Organizzazioni non governative. Ci sarebbe da auspicare, ma le più recenti convulse reazioni all’emergenza delle forze politiche in Parlamento non lasciano molto da sperare, che i principi sanciti dalla Corte di Cassazione vengano riconosciuti anche dal legislatore con l’abrogazione degli articoli 1 e 2 del decreto sicurezza bis (D.L. n. 53/2019, convertito nella L. n. 77/2019) che permettevano, e permettono tuttora al ministro dell’interno, piuttosto che al ministro delle infrastrutture, di impedire o ritardare lo sbarco in un porto sicuro dei naufraghi soccorsi da mezzi privati, soprattutto nel caso in cui questi appartengano alle organizzazioni non governative, ritenute “complici dei trafficanti”, “taxi del mare”, “fattori di attrazione (pull factor)“, definizioni spregevoli in contrasto con la realtà, oltre che con i dati normativi, che adesso i chiari principi affermati dalla Corte di Cassazione avrebbero dovuto spazzare via. Sarà importante che tali principi, soprattutto nella parte in cui si ribadiscono gli obblighi di soccorso a carico degli stati fino alla indicazione di un porto di sbarco sicuro, già presi in considerazione nei numerosi casi di archiviazione delle accuse contro le ONG, siano tenuti presenti negli eventuali procedimenti giudiziari che potrebbero essere avviati nei confronti degli operatori umanitari della Alan Kurdi, come nei diversi processi ancora aperti a Trapani (Iuventa), ancora nella fase delle indagini preliminari a quasi tre anni dai fatti, ed a Ragusa (Open Arms), addirittura per violenza privata.
La mancanza di un piano sbarchi del governo, di fronte alla ripresa delle partenze dalla Libia in piena guerra civile, sta offrendo il pretesto per riaccendere la tensione nei luoghi di arrivo ed a Lampedusa in particolare. Il prezzo più alto di questa ennesima violazione del diritto internazionale in nome dello stato di emergenza, non sarà pagato dagli operatori umanitari ma soprattutto dai migranti, che ancora in questi giorni, se non raggiungono direttamente le coste italiane, risultano dispersi. Migliaia di persone che a causa della pressione esercitata sulle navi delle ONG, a partire dal Memorandum di intesa con il governo di Tripoli del 2 febbraio 2017 e del Codice di condotta adottato dall’ex ministro dell’interno Minniti, sono state abbandonate in mare o respinte con l’aiuto della sedicente guardia costiera “libica”. La guardia costiera di un governo che non controlla neppure il territorio della capitale e che, come è stato dimostrato, risulta collusa con le organizzazioni criminali che tutti a parole dicono di volere combattere. Con questa guardia costiera, piuttosto che con le navi umanitarie delle ONG, il governo italiano, con la scelta di non garantire un porto di sbarco sicuro ai naufraghi che siano soccorsi al di fuori della zona SAR italiana, preferisce adesso collaborare in nome dell’emergenza da COVID-19.
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samdelpapa · 4 years ago
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nere, l’omofobia, la xenofobia, la sopraffazione del più forte economicamente sul più debole, la corruzione. Questo diritto il proletariato lo deve rivendicare con forza e imporlo con la rivoluzione sociali- sta armata, perché non gli è riconosciuto dalla Costituzione in vigore e non lo può conquistare per via parlamentare, quando avrà creato tutte le condizioni per estromettere dal potere la bor- ghesia, l’ultima classe sfruttatrice e oppressora della storia. A questo scopo è di fondamentale importanza definire e delimitare correttamente il proletariato. Per il PMLI il proletariato, o classe operaia, è co- stituito dalle operaie e dagli operai dell’industria, dell’agricoltura e dei servizi: ossia dalle operaie e dagli operai di fabbrica e di officina, dell’edilizia, dei cantieri navali, delle miniere, delle braccian- ti e dei braccianti, delle salariate e dei salariati agricoli, delle operaie e degli operai dei trasporti terrestri, marittimi e aerei, delle operaie e degli operai occupati a domicilio, delle operaie e de- gli operai dell’artigianato e del commercio, del- le operaie e degli operai della sanità e dell’inte- ro pubblico impiego, nonché dei servizi pubblici (elettricità, gas, acqua, telecomunicazioni, poste, igiene, centraline, ecc.), i disoccupati già operaie e operai, i pensionati ex operaie e operai. Il governo Draghi Il governo di Mario Draghi è un ostacolo per la conquista del potere politico del proletariato e quindi va combattuto e spazzato via, costruen- do “il più rapidamente possibile un largo fronte unito di tutte le forze politiche, sindacali, sociali, culturali, religiose antidraghiane”, come ha auspi- cato il Comitato centrale del PMLI nel documento del 17 febbraio. Tale documento denuncia che il governo Draghi: “è una disgustosa ammucchiata dei partiti della destra e della ‘sinistra’ borghesi attorno al banchiere massone Mario Draghi. Esso è il risultato di un golpe bianco del presidente del- la Repubblica Sergio Mattarella, il quale senza consultare i partiti del parlamento ha assegnato, attraverso Draghi, il potere politico direttamente alla grande finanza e alla Ue imperialista. Un av- venimento che non https://www.instagram.com/p/CQGnL-dBlJr/?utm_medium=tumblr
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ufficiosinistri · 5 years ago
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La linea più lunga
C'era un sapone che stava per finire. Non si ricordava se fosse quello in casa o quello del bagno del lavoro, appoggiato sul lavandino biancastro, sotto ad uno specchio che nessuno mai puliva. Ogni volta che si lavava le mani o si controllava il biancore dei denti gli tornava in mente. Se le guardò per alcuni attimi, le dita che ballavano sul volante al semaforo appena prima di svoltare verso casa. Era venerdì e la città si preparava velocemente al weekend, attenta a non lasciarsi sfuggire nessuna nuova occasione, carica di odio accumulato durante i giorni lavorativi. Scorse con lo sguardo le dita stanche di lavoro, il sole faceva luccicare le unghie che aveva imparato a non mangiarsi da qualche mese, dall’ultima volta che lei lo aveva ripreso perché che cazzo, te le mangi sino all’osso. La notte prima non era riuscito praticamente a prendere mai sonno: gli schiamazzi dei ragazzi del vicinato che passavano le serate al bar sotto casa erano stati pressoché incessanti. Facevano bene, avrebbero dovuto radere al suolo il quartiere, ogni sera era la loro occasione buona per farlo. Quel quartiere isolato dal resto della normale vita cittadina, abitato da studenti fuorisede, che vi si erano trasferiti perché gli affitti costavano poco, e senza scritte sui muri, nemmeno una bestemmia o un insulto verso la Juventus.
Rallentò al semaforo. Alla sua destra c’era un’automobile bianca, guidata da un uomo magro, con i capelli lunghi raccolti in un viscido codino, che parlava al telefono mentre il suo barboncino bianco, incazzato sul sedile accanto al suo, abbaiava a qualcosa (o qualcuno) che osava camminare sul marciapiede lì vicino. Alla sua sinistra, invece, il meccanico più in voga del quartiere confabulava animatamente con un cliente che gesticolava, indicando di volta in volta diverse parti della sua automobile, adagiata sul ponte sollevatore e in attesa di andare sotto ai ferri. La serranda dell’officina era aperta, e lo sarebbe rimasta almeno sino a tarda serata. Sarebbe stato un weekend freddo, per essere appena novembre. La gente iniziava a nascondere il mento dentro ai cappotti, e Teresa gli aveva tirato fuori le sciarpe, dagli armadi di camera loro. Una cosa che lo aveva sempre affascinato, dei meccanici per automobili, sono gli astanti: persone e conoscenti del capo officina che amano stazionarci e tenere compagnia a clienti e operai. Dando consigli, commentando i passanti, leggendo ad alta voce i giornali mentre, intorno a loro, la vita continua con i suoi inesauribili ritmi.
Aveva paura di tornare a casa.Teresa lo aveva lasciato il giorno prima e sapeva che, prima o poi, avrebbe dovuto fare i conti con quella situazione. Era giunto quel momento, appena un giorno dopo. Si era attardato a parlare delle partite del weekend con un paio di colleghi di lavoro che di calcio non avevano mai capito un cazzo ma che avevano da ridire su ogni sua opinione, aveva finito il suo caffè delle quattro e mezza sorseggiandolo pian piano nonostante fosse la solita fetida brodaglia da macchinetta, guardando la città fumante fuori dalla finestra. Che poi la sua squadra non era nemmeno nella stessa serie di quelle tifate dai suoi colleghi. Giocava due serie sotto. Aveva comunque atteso troppo nel decidere cosa fare. Se dirlo prima ai suoi, se parlarne con suo fratello, a quali fra i suoi amici più stretti portare la notizia. Non erano passate nemmeno ventiquattro ore e il tempo sembrava restringersi sempre di più, soffocandolo. Non sapeva come e quando dirlo ai suoi. Sua madre non avrebbe detto nulla, suo padre l’avrebbe presa come una cosa impossibile da schedare mentalmente e quindi non avrebbe detto nulla. Il fatto è che, alle volte, aveva paura di sentirli. Temeva che potessero star male. Che non avessero più soldi per pagarsi la benzina, che le loro biciclette non andassero più bene, che fossero angosciati per lui. Quando erano piccoli, lui e quel codardo di suo fratello erano andati in vacanza con loro in Irlanda, in camper. Avevano passato una notte nel parcheggio dell’imbarco di Holyhead, vicino a Liverpool, in compagnia di altri camper, di camionisti e di europei di sinistra pronti per godersi le meritate ferie. Alcune motrici portavano e trascinavano dei container gialli con la scritta “Pandoro”: lui e suo fratello avevano chiesto perché ci fosse quella parola in italiano, che ricordava loro il Natale e l’Italia, e sua madre aveva loro risposto è un gioco di parole, la ditta di trasporti navali si chiama P&O e vogliono fare gli spiritosi. Era rimasto affascinato da quella risposta: lei l’aveva scandita così semplicemente da lasciare lui e suo fratello ammutoliti. Nonostante questa eterna sicurezza che sua madre aveva continuato a infondergli, era in perenne pensiero per loro.
Avrebbe quindi chiesto loro delle valigie e degli scatoloni per portar via le sue cose. Avrebbe iniziato coi vestiti, poi con le cose per il calcio. Poi con i libri, tanto ne aveva pochi. Poi sarebbe stato il turno dei dischi, delle sue pentole per cucinare. A seguire, avrebbe portato via delle scatolette. Sono sempre importanti, le scatolette. Tonno, fagioli, piselli, pasta in bianco, Coca Cola. Si può vivere così.
 Non lo riconosceva più, gliel’aveva detto la sera prima. Dopo cena. Stava sparecchiando con il telegiornale in sottofondo. Il motivo per il quale lo aveva lasciato era quello. Mentre stava sparecchiando le tre cose rimaste sul tavolo. C’erano delle briciole e non sapeva da dove potessero venire, non avevano mangiato pane a cena. Solo una minestra, rimasta in freezer dal novembre precedente e fatta riscaldare con un po’ di sale. Lui non era stato in grado di rispondere, lei gli aveva chiesto perché non dicesse niente e lui non era stato in grado di risponderle, un’altra volta. Le aveva chiesto se solo lei fosse disposta a ripensarci ma lei gli rispose non lo so, toccandosi gli occhiali e i capelli corti, giocandoci con le dita.
Dormì sul divano, lei nel letto. La mattina non si incrociarono, lei usciva sempre prima, lasciando la casa fredda e silenziosa mentre lui si svegliava borbottando e annusando se il piscio del mattino puzzasse o meno.
 Parcheggiò la macchina sotto casa, era venerdì pomeriggio e già gli esseri umani iniziavano a sciamare dentro e fuori dal bar dall’altra parte della strada, esseri umani che quando non erano al bar facevano la spesa all’Esselunga e portavano i cani a passeggio nelle aiuole delle rotonde. Giubbotti leggeri nonostante il freddo di novembre, ciabatte, sigarette, aliti pesanti, mani mangiate dalle impalcature, occhi gialli, occhi cisposi. Si preparavano al fine settimana così, iniziando a bere dalle sei di sera per finire non si sa in quale giorno e quale ora della settimana successiva. Il bar trasmetteva le partite ed era pieno di esseri umani dal venerdì pomeriggio alla domenica notte. Senza esclusione di colpi, senza soluzione di continuità. Era affascinato da quel modo di vivere, ogni volta che entrava nel bar per recuperare qualche birra per la serata sul divano o un paio di litri di latte per la mattina dopo in casi d’urgenza, Riccardo rimaneva interi minuti a contemplare quelle esistenze e quelle abitudini, cercandone gli aspetti più sinceri e splenetici per arrivare a capire cosa si provasse realmente ad abitare in una città del suo tempo, un centro urbano di medie dimensioni circondato da svincoli autostradali, campi umidi, cascine abbandonate.
 Aveva conosciuto Teresa in un luogo come quello, tre anni e due mesi prima di quel venerdì. Era un bar del centro città, un posto gestito da gente che conosceva. Lui era seduto a godersi gli ultimi frammenti d’estate assieme ad altri amici, fuori, ai tavolini sul marciapiede lercio. Avevano già compiuto almeno tre giri, era un venerdì anche quel giorno. Lei stava lavorando, accompagnando una mezza dozzina di utenti di un centro diurno in giro per la città. Alcuni di loro dovevano andare al bagno ed erano entrati nel bar, urlando e smuovendo l’aria annoiata che pervadeva la stanza. Teresa era la più grande ed esperta tra gli educatori e dettò i turni per la toilette con assoluta compostezza. Non l’aveva mai vista in giro, prima, in città. Forse aveva appena finito l’università. Grazie all’aiuto delle quattro birre che aveva in corpo iniziò a parlare con il barista, di cosa ci fosse in giro per la città durante quel weekend. Teresa era nei pressi del bancone ed era stata coinvolta nel discorso, mentre i turni ai servizi igienici si stavano ordinatamente esaurendo. Chissà se sono messi in maniera decente, i cessi, aveva pensato lui. Lei gli aveva sorriso ma lui aveva voluto mantenersi distaccato, anche se non aveva tolto un secondo gli occhi dal suo collo e dalla sua bocca, dalle sue gambe e dai suoi capelli.
Teresa lo aveva lasciato e gli aveva dato tre giorni per portar via, da casa loro, le sue cose. Vestiti, libri, dischi, appunti. Le cartellette del lavoro, le sue bottiglie di vino, i suoi fumetti incorniciati alle pareti, il suo borsone rosso, le scarpe da calcio lasciate ad asciugare sul balcone dopo ogni allenamento, i calzettoni che aveva accumulato in tutti quegli anni di categorie e allenamenti. Avrebbe avuto tre giorni per portar via tutto. Non uno in più e non uno in meno. Lunedì mattina avrebbe annusato il suo piscio da solo. E poi non avrebbe più sentito le sue mani lunghe e fredde, le unghie mangiate con cui giocava con le sue dita quando le diceva che no, non voleva guardare le serie Tv di pomeriggio perché era una cosa troppo angosciante: la gente, nelle altre parti della città e del mondo, esce e compra vestiti, per esempio. Incontra conoscenti, si fa due risate, non mette il tagliandino del parcheggio a pagamento preoccuparsi delle multe. Non mette nemmeno il disco orario.
 Come se non bastasse, quel sabato, avrebbe dovuto giocare. Aveva ripreso ad allenarsi dopo cinque anni di pausa, cinque anni in cui si era dedicato a cercare lavoro e finire l’università. Teresa l’aveva spinto a farlo, in modo da distrarsi e tornare a fare una cosa che lo avrebbe, tra le altre cose, tenuto in forma. All’inizio lo fece solo per accontentarla, poi ci mise impegno e ritrovò un posto da titolare, scavalcando anche giocatori più esperti ed anziani di lui. Non era mai stato un giocatore affidabile, ma l’aver incontrato Teresa ed essersi scontrato con il suo pragmatismo, lo aveva spinto ad impegnarsi con tenacia in qualsiasi cosa facesse.
 Arrivò al campo in anticipo, non fumava più da qualche settimana e non riusciva più a calcolare il tempo da dedicare alle sigarette. Accanto al cancello arrugginito del campo sportivo c’era un autolavaggio. Un addetto all’autolavaggio era seccato dalle cianfrusaglie che il cliente che stava servendo aveva lasciato nel bagagliaio. Le spostava di malavoglia, sembrava imprecasse o per lo meno, lui lo sentiva imprecare. Sul tavolino bianco, apparecchiato per rendere ai clienti l’attesa più comoda, c’erano dei giornali e un posacenere. E un ombrellone copriva tutto.
Controllò di aver preso tutto, ieratico. Il borsone grigio era appoggiato sul sedile posteriore, ne palpò le tasche laterali per appurare la presenza di: portafoglio, telefono, chiavi. Avanzava ancora del tempo, così decise di ricordare mentalmente la strada che aveva appena percorso, quei pochi chilometri dalla sua città, quando andava in vacanza in montagna dai suoi nonni. L’estate in cui aveva iniziato a pescare. Passava il viaggio con la faccia schiacciata contro i vetri della station wagon, guardando il paesaggio e cercando di trovare cambiamenti rispetto all’ultima volta che vi ci era passato, l’anno prima. Le rocce intorno al torrente umide lambite dal sole dopo una notte burrascosa, il colore opaco dell’acqua che, dopo la pioggia, aveva cambiato fisionomia: i sassi sul greto spostati dalla piena, i rami trascinati verso valle, i segni della pioggia sulle rive sabbiose ancora fredde. Era il momento più opportuno per prendere le trote più grosse, che alle prime luci dell’alba uscivano a perlustrare il fondale del torrente per poter cacciare meglio gli insetti, ancora vivi sul pelo dell’acqua o quelli incastrati tra i massi adagiati sull’alveo. Le trote, di mattina, specialmente se la notte aveva piovuto, erano sempre affamate e voraci. Si ricordava ancora tutto, poteva vivere quegli istanti non appena ne avesse avuto voglia, riusciva a sentire i profumi dell’erba gelata, l’odore dell’acqua stagnante, i suoni della civiltà attutiti dal fragore del fiume. Riusciva a sentire nel naso l’odore del sangue della prima trota che aveva pescato in vita sua, che le sgorgava dalle branchie mentre la teneva stretta tra le mani, senza rispetto. Se ne vergognava ma era una cosa necessaria, in quel momento. Fu quella la sua prima trota. Arrivava dal freddo fondale di un torrente, arrivava da una vita che si era guadagnata cacciando, resistendo al ghiaccio, schivando le esche di centinaia di altri pescatori. Chissà cosa l’aveva spinta a cedere, a rendersi così violabile. Solo per lui. Una creatura così perfetta, che arrivava dai fondali gelidi.
L’ultima volta che era andato a pescare era già adulto, aveva appena compiuto diciotto anni. Andò a casa di Maurizio, un suo amico della montagna che pescava anche lui. Andò da lui a pranzo, cucinarono una pastasciutta al sugo e bevvero vino rosso, fumando anche mentre mangiavano. La casa era vuota e le voci e i rumori rimbombavano, mentre i due commensali continuavano a ringraziarsi a vicenda inutilmente e intanto le vette delle montagne, in ottobre, iniziavano a diventare scure presto.  La tovaglia di plastica bianca e rossa a quadretti sporca, il lampadario che non riusciva a illuminare l’ambiente perché il sole, fuori, stava cercando di scaldare le ultime anime.
“Ma tu che vivi qui, ci pensi mai alle cime delle montagne, qui intorno?”
“Ci penso, le vedo e ci penso. Sono sempre le stesse montagne.”
“E ci pensi mai a come possano essere sole, quando magari la gente ci sale solo una o due volte all’anno? In primavera, d’inverno, quando qui non c’è nessuno all’infuori di voi che ci abitate.”
“No, le montagne sono qui da prima di noi.”
“Non credi, però, che sia un po’ come pensare a cosa ci sia e cosa rimanga nei suoi cassetti quando uno muore?”.
Finirono una bottiglia da due litri di vino rosso in due, andarono a pescare trote al torrente e dopo dieci minuti in cui non presero niente Riccardo appoggiò un piede su un sasso scivoloso di serpentino, che credeva stabile. La gamba gli slittò al di sotto della conformazione rocciosa e lo stinco si conficcò nella friabile ma tagliente pietra di serpentino, appena al di sopra dello stinco. La carne della sua gamba rimase lì per le mosche, mentre lui veniva portato all’ospedale più vicino dai genitori di Maurizio: da quel giorno non andò mai più a pescare.
 Arrivò al campo in anticipo, molto prima dei suoi compagni. Il paese dove giocava in casa la squadra degli avversari di turno era piccolo, ma si era ugualmente guadagnato le sue divisioni interne. La parte più a Nord, per esempio, veniva chiamata Vietnam, perché durante il periodo della guerra del Vietnam esplosero le tubature dell’acqua a causa del freddo troppo rigido, sino ad inondare alcune vie all’interno della parte del paese. Sembrava un campo di battaglia e i giovani del posto iniziarono a chiamare quella zona Vietnam.L’avversario si chiamava con un nome del cazzo. Era una squadra esperta, che aveva disputato il campionato in diverse occasioni raggiungendo sempre le prime posizioni di classifica, ma soprattutto era una squadra formata da gente che lui e i suoi compagni conoscevano bene. Alcuni dei giocatori che ora vi militavano avevano provato qualche allenamento con la sua squadra ma se n’erano andati dopo appena dieci o quindici giorni di preparazione atletica precampionato. Sapevano già che avrebbero giocato per un’altra squadra del campionato, e questo lui e altri suoi compagni non lo accettavano. Non ci si comporta così, significa che il calcio non ti ha insegnato nulla o che tu non hai mai voluto ascoltare ciò che il calcio ti avrebbe voluto insegnare.
Ma il problema principale era che, quella volta, avrebbe dovuto marcare Ermes. Lo aveva già incontrato altre volte, sulla sua fascia destra. Era biondo. Alto. Veloce. Una volta, a pochi minuti dalla fine della partita, Ermes gli aveva fatto fallo. Non era un fallo cattivo ma sentì dolore. Erano arrivati insieme sulla stessa palla, la stessa inutile palla che razzolava per il lato del centrocampo quando un’ala rimaneva troppo alta e il terzino si avventurava sulla linea di metà campo. Non cadde in terra, rimase in piedi e l’arbitro fischiò fallo. Il guardialinee dalla sua parte, un dirigente della sua squadra, si mise ad urlare. L’arbitro lo zittì immediatamente: aveva già fischiato e non c’era bisogno di protestare. Lui fece qualche saltello su un piede solo, quello non infortunato, e poi iniziò ad appoggiare anche quello che aveva preso la botta, il colpo di Ermes, che se ne stava intanto tornando verso i suoi ranghi. Ci rimase male, contrariato. I suoi compagni gli intimarono sin da subito di restituire il servizio a chi glielo aveva rifilato, ma si rifiutò non lo volle nemmeno pensare o architettare. Prima di tutto, non era mai stato capace di picchiare. In secondo luogo, poi, stavano vincendo due a zero e mancava una manciata di minuti allo scadere. Gli dispiaceva andare apposta sull’uomo, avrebbero già perso e sarebbe stata una domenica pessima per loro, dal rientro degli spogliatoi a casa, dal pranzo in famiglia ai gol delle partite della Serie A in televisione. Non aveva mai picchiato volontariamente, giocando a calcio. Una volta ci provò a farlo, l’arbitro lo vide e gli sventolò per la seconda volta il cartellino giallo. Fu espulso ma loro, i blu, vinsero. Naturalmente.
Tornò a casa deluso, accompagnato sulla utilitaria appena comprata del papà ricco di un suo compagno di squadra che non giocava mai e che lo faceva incazzare sempre perché non giocava mai. Varcò la porta d’ingresso, che cigolava. Suo padre non l’aveva ancora oliata. Salutò di malavoglia sua madre che era ai fornelli per preparare il pranzo della domenica. Salutò suo padre che non era venuto a vederlo giocare, avendo smontato dal turno di notte. Gettò il borsone con forza in camera sua e sua madre gli disse di non farlo mai più, che non si poteva rovinare una giornata per una partita del cazzo di quello sport da ignoranti.
Quando Riccardo e Teresa si erano conosciuti ma non abitavano ancora insieme, lo mandavano spesso a lavorare a Genova e Ancona, per riunioni e meeting e incontri con la dirigenza, lei gli scriveva di non aver paura ma non glielo diceva mai al telefono. Non aver paura della nebbia che li divideva, delle corsie in autostrada, delle altre persone, degli orari che doveva sopportare fino a tardi, degli altri maschi che le giravano intorno, che magari avevano letto più libri di lui. Glielo scriveva via messaggio, sì, ma quando parlavano al telefono mai.Riccardo non devi aver paura, dai, gli scriveva. Ma a lui sarebbe piaciuto sentirla nominare il suo nome anche se era lontano, a Genova o Ancona, e non si sarebbero visti per quattro o cinque giorni di fila. Sentirle scandire il suo nome. Avrebbe voluto sentirsi dire da lei “anche se ti succedesse qualcosa io ti amerò per sempre” . Qualcosa nel senso di qualcosa di brutto.
 “Se non fossi in servizio, ti offrirei da bere” le aveva detto lui quel venerdì pomeriggio. Era la prima volta che si incontravano.
“Non sono un poliziotto.” gli rispose lei.
Lo colpirono le sue gambe, lunghe, che si attorcigliavano su loro stesse mentre stava ferma, in piedi, ad aspettare, e i suoi capelli, corti biondo platino, tinti, leggermente rasati sopra le orecchie.
“Lo so che non sei un poliziotto, qui non vengono se non per fare storie.”
“Ve la spassate, qui, non è vero?�� rilanciò gettando lo sguardo oltre le spalle di lui, verso i suoi amici seduti al tavolino grigio, incrostato di zucchero e briciole di patatine.
Si ritrovavano ogni venerdì e ogni sabato. A loro piaceva fumare tra una birra e l’altra, leggere le notizie di giornali che rimanevano ad aspettare lettori tutta la giornata, parlare di calcio, scommettere. Fumavano a grandi boccate, guardando le macchine che passavano. Alcuni di loro li conosceva solo per come si comportavano al bar, e riusciva a creare con loro rapporti stabili. Al di fuori, niente. Per questo iniziò a bere. Nessuno gli faceva domande, nessuno gli chiedeva se gli piacesse la birra che stava bevendo. Si fumava le sue sterline (termine che aveva imparato ad usare durante un’estate passata a Birmingham, perchè fare le vacanze studio a Londra era da stronzi) liberandosi la mente dalle chiamate al lavoro, dalla codardia di suo fratello, dagli sguardi delle ragazze che passavano lì nei dintorni, squadrando il quadro globale della situazione con alterigia. Le mattinate dopo, però, non riusciva a stare in campo. Arrivava all’appuntamento con la squadra in ritardo, dopo essersi svegliato con un macigno sullo stomaco e una piallatrice nelle orecchie. Fumava cinque sterline da casa sua al campo, in macchina, senza rendersi conto della radio in sottofondo, e una volta iniziata la partita diventava subito cattivo, falloso, inaffidabile. Le sbornie nelle serate che precedevano gli incontri lo rendevano così. I postumi.
“Noi? No, qui non contiamo nulla, noi. È che non ti ho mai vista da queste parti, non è il fatto di spassarcela o meno.”
“Non hai capito che lavoro faccia e non hai nemmeno capito che sto lavorando.”
Alzò le braccia in segno di resa e chiese scusa. Sorridendole, anche. Forse fu proprio quel modo sgarbato ma sincero di scusarsi che la spinse, il giorno seguente, a ritornare in quel bar, in quel luogo dove i poliziotti non andavano, per incontrarlo nuovamente e farsi offrire una birra.
Dopo un anno passato, veloce, a vedersi come se fossero due amici che si innamorano ogni giorno, lei gli aveva chiesto di andare a star da lei, in una casa che le avevano lasciato i suoi genitori in eredità prima di divorziare. Lui aveva già un lavoro, un lavoro da impiegato, e lei anche. In qualche scuola, in qualche casa-famiglia. Insomma, erano felici, stavano bene senza dissimulare troppo sui propri progetti futuri.
Il fatto è che lui non aveva mai smesso, realmente, di bere.
I suoi maledetti trentun anni e le sue responsabilità da lavoratore lo spingevano a farlo di nascosto, a far finta di essere sobrio quando tornava a casa dopo serate in giro per i bar con i suoi amici e i suoi compagni di squadra più anziani. Ma lei se ne accorgeva sempre e alle volte litigavano, alle volte lei lo riempiva di sberle e ogni volta lui le prometteva che quella sarebbe stata l’ultima volta. Era troppo forte il richiamo di quegli sguardi vitrei, di quell’indolenza da bancone con cui aveva convissuto per anni. Ma si amavano e non importava, alla fine facevano sempre pace.
 Si sedette accanto a Picco, negli spogliatoi. Le panchine erano gelide, cigolavano. Le finestrelle, le uniche due, erano rimaste aperte tutta la notte, evidentemente, ed avevano congelato pian piano l’ambiente.  
Il mister li guardava. Guardava loro e guardava gli altri, i giocatori più forti di loro, quelli su cui la squadra contava. Aveva le mani da ex ciccione, una volta glielo aveva anche detto, prima di mettersi a vomitare a bordo campo subito dopo una sostituzione. Aveva le mani da ex ciccione, i peli in parti della faccia inammissibili e sembrava masticasse sempre qualcosa: un filo d’erba, un suo dente, una cicca.
“Fai fatica a reggerti in piedi” gli diceva, mentre cercava un appiglio per appoggiarsi e vomitare.
“Oggi devi correre il doppio, Ricca’. Ti devi fare tutta la linea, la tua linea, ma al doppio della velocità e il doppio delle volte. È la linea più lunga ed è la riga che nessuno, né fra i tuoi compagni né fra i tuoi avversari, avrà mai l’onore di calpestare durante la partita. È un privilegio che solo tu potrai vere, in questa partita. Renditene conto. Sei un’ala. Te la devi fare tutta, devi correre. Se sei in difficoltà guardati a destra e scarica, se non c’è nessuno cerca il fallo ma sempre lungo la tua linea. Devi farti vedere, i tuoi compagni (si girò verso di loro, quelli forti, indicandoli) devono trovarti sempre lì. E poi, Picco non sta al massimo della forma e ti devi sacrificare, Ricca’.” Masticava qualcosa, credeva fosse un’unghia.
“Non avere paura, lo so che c’è Ermes sulla tua linea ma non avere paura. È ingrassato, non è più quello di una volta.” Continuò.
Col cazzo.
Ermes era sempre più alto di lui, riusciva a tenere i capelli ancora come se fosse un ventenne, col cerchietto da chiavatore come faceva Nuno Gomes ai tempi della Fiorentina. Densi, crespi alle radici. Era abbronzato, aveva i tatuaggi ed era nettamente più forte. E non si era bevuto tutte le birre e gli amari secchi che aveva bevuto lui negli ultimi dieci anni, soprattutto. Sicuramente era più veloce e aveva un tocco più preciso del suo. I suoi passaggi erano sempre precisi.
“Ricca’, a che pensi?”
Gli avrebbe voluto rispondere penso a domani e a tutti gli scatoloni che devo fare perché la mia ragazza, la persona con cui convivo da due anni, mi ha lasciato, e non ho ancora ben chiare le ragioni per cui l’abbia fatto. Avrei potuto cercarla, oggi, parlarci, cercare di prometterle qualcosa come ho sempre fatto, invece sono qui in questo spogliatoio sudicio con voi, per l’ennesima volta, a giocare una partita che non avrà nulla di diverso da tutte le altre che abbiamo giocato assieme. E che nonostante tutto, mi sento a casa e avverto un affetto da parte di tutti voi, che non sapete nulla delle mie vicende e della mia vita del cazzo, che non riesco a sentire in nessun’altra parte del mondo e non sentirò mai così forte, in tutta la mia esistenza. Lo star qui con voi è un peso, cercare di seguire i tuoi schemi antiquati è asfissiante, ma non ne posso fare a meno. Non posso fare a meno di scrutare le ragnatele agli angoli dello spogliatoio e non posso fare a meno di provare schifo nell’appoggiare per terra i piedi nudi, dopo la partita, sulla coltre di fango che ricopre il pavimento di questa merda che la squadra che ci ospita chiama spogliatoio. Non riesco a smettere sebbene abbia fallito come compagno di una persona che mi ha dato sempre tutto e non riesco a smettere sebbene sappia di non avere più fiato, di non avere più voglia.  E le tue mani rimarranno sempre quelle di un ex ciccione.
“Penso che se Picco non stava bene, poteva anche rimanere a casa.”, rispose.
Entrarono in campo e il sole iniziava a farsi vedere dietro alle nuvole e dietro ai tetti rossi del paese, nella parte Vietnam. Il lato in ombra dei tetti, rivolto verso il rettangolo verde e marrone, trasmetteva un freddo pungente. Lo trasmetteva al suo sguardo, alle sue scarpe e ai suoi movimenti su quel terreno duro, fatto per gente che gioca al sabato pomeriggio mentre tutti, nelle città, vanno a far compere nei centri commerciali, stanno in famiglia, scherzano per le strade vivendo quegli attimi di libertà come una necessaria liberazione.
Sbagliò i primi tre passaggi in avanti, ma non causò grossi problemi ai suoi. Ai più bravi. Tutti e tre vennero intercettati dal mediano dei loro, un grosso scoglio posizionato lì in mezzo, tra difesa e centrocampo, apposta per sminuzzare le manovre degli avversari.
“La linea più lunga, Ricca’!” urlava il mister. Avrebbe dovuto stirarla, percorrerla come gli veniva indicato ma non ci riusciva. Non ne vedeva la fine, vedeva solo i movimenti della chioma bionda di Ermes che trottava da una parte all’altra. Non riusciva più a controllare la lunghezza di quella linea, alla sua sinistra, che avrebbe dovuto rappresentare per lui un privilegio. I suoi compagni più bravi non lo rimproveravano perché era uno dei più vecchi e dei più attaccati alla squadra, ma se le sarebbe meritate tutte, le loro eventuali sarchiature.
Riuscì a superare lo scoglio davanti alla difesa avversaria grazie alla disattenzione dimostrata da Ermes nei confronti della copertura. Gli anni iniziavano a farsi sentire anche per lui, e sicuramente aveva bevuto meno palombari, in vita sua. Il roccioso mediano si era spostato sulla sua sinistra, lasciandogli quei tre metri di spazio che gli permisero, nonostante il terreno brullo, di lanciare rasoterra Lino, l’attaccante di riserva che aveva lavorato per un anno a Londra da un Kebabbaro lituano. Riuscì a spostarsi la palla sul destro e a fare l’uno a zero.
“Hai visto che se arrivi sino in fondo alla linea più lunga riesci a giocare, Ricca’?”
La partita finì quattro a uno per loro. Dopo quella prima rete, si chiusero a riccio intorno al loro portiere, lasciando ad Ermes la libertà di fare quello che voleva. Il sole era ormai calato del tutto dietro ai tetti del Vietnam e il mister si era tumulato nel suo cappotto da navigato uomo sportivo blu scuro, accigliato e meditabondo, lasciando fuori solo gli occhi, per seguire stanco le gesta dei suoi uomini.
Nello spogliatoio, nessuno parlava. Rimase ad osservare i suoi piedi, una volta tolte le scarpe, avvolti nel nastro adesivo e nei calzettoni rossi. Solo Picco commentava i risultati delle partite di Serie A. Lui sì che ne capiva, di calcio e di Serie A. Mica come i suoi colleghi, da anni fallimentari simpatici. Se fosse rimasto a casa, dato che stava male, però, sarebbe stato meglio per tutti. Si domandò cosa continuasse a spingerlo a giocare a pallone, a giocare a pallone con quella gente. A continuare imperterrito, ogni sabato, ad ascoltare gli stessi discorsi, ad impegnarsi sui palloni che gli passavano accanto, a vedere le stesse facce incancrenite dalle settimane passate al lavoro, intenerite da affetti familiari scontati ma pur sempre tangibili. Scrivevano alle mogli, prima durante e dopo le partite, mandavano loro le foto. Si chiese cosa lo spingesse, ancora, dopo vent’anni, a dilatare le narici una volta sedutosi negli spogliatoi, cercando di assaporare ancora di più quell’atmosfera densa di tensione e grinta che accompagnava ogni partita.
Parcheggiò l’automobile sotto ciò che stava diventando il suo ex balcone che era già buio. Gli abitanti della via stavano chiudendo i silenziosi cancelli automatici che delimitavano le loro proprietà, isolandosi nei loro cortili. Le luci lampeggiavano sicure del loro compito, cercando di combattere la foschia che stava già risalendo i muri dei palazzi, viscida. Alcuni abitanti, nelle loro dimore, erano sicuramente già attaccati al telefono ad ordinare cinese, africano, pizza con bibita in omaggio. Spense il motore e si tastò la tasca del giaccone per controllare in ordine la presenza di chiavi, portafoglio e cellulare. Messaggi niente, chiamate perse nemmeno. Negli androni, i carrelli della spesa lasciati lì sino al prossimo giro al supermercato di turno. Le vetrate del bar davanti a quella che stava per diventare la sua ex casa, densamente appannate, testimoniavano una precoce fitta presenza di clienti al suo interno. Consultò l'ora sul display del telefono, era già iniziato il primo anticipo del sabato. Ripensò all’incombenza di preparare valigie e scatoloni con le sue cose, si domandò come avrebbe fatto con le centinaia di bustine trasparenti che aveva utilizzato in quegli anni per conservare bollette pagate, multe, scontrini.
Si mise a tracolla il borsone e si avviò verso l'ingresso del locale. Guardò un’altra volta verso casa sua, casa loro. Ripassò mentalmente gli oggetti e i ricordi che avrebbe dovuto ricatalogare, riposizionare, disporre in scatoloni che si sarebbero sfaldati e valigie che non usava da mesi. I suoi dolci nelle credenze. Non appena mise piede nel bar davanti a casa, alzò lo sguardo verso i presenti. Solo allora gli fu chiaro il motivo per cui Teresa lo avesse lasciato.
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tmnotizie · 6 years ago
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ANCONA – Si è svolta ieri ad Ancona, ed in contemporanea con tutti i Comandi regionali d’Italia, la celebrazione del 154esimo anniversario dell’istituzione del Corpo delle Capitanerie di porto, avvenuta il 20 luglio 1865 con la firma del Decreto istitutivo da parte del re Vittorio Emanuele II.
La cerimonia è stata anche l’occasione per ricordare il 30esimo anniversario della costituzione della Guardia Costiera, che del Corpo rappresenta l’articolazione tecnico-operativa, avvenuta l’8 giugno del 1989.
Per l’occasione, è stata deposta una corona d’alloro nello specchio acqueo antistante la “Madonnina del Trave” – località Portonovo (AN) – in onore di tutti i caduti del mare. All’evento, a bordo della Motovedetta CP 285, dislocata presso il porto di Ancona, hanno preso parte il Dott. Antonio D’Acunto – Prefetto di Ancona, S.E. Rev.ma  Mons. Angelo Spina – Arcivescovo dell’Arcidiocesi Ancona-Osimo, la Dott.ssa Ida Simonella – Assessore al porto di Ancona, il Generale di Brigata Fernando Nazzaro – Comandante della Legione Carabinieri Marche, il Generale di Brigata Fabrizio Toscano – Comandante Regionale della Guardia di Finanza, il Colonnello Ascenzo Tocci – Comandante Militare Esercito Marche, il Capitano di Vascello Roberto Fabio del Comando Scuole della Marina Militare, il Colonnello Luca Massimi – Comandante del Centro di Formazione Aviation English dell’Aeronautica Militare di Loreto, l’Ing. Felice Di Pardo – Direttore Regionale dei Vigili del Fuoco, il Dott. Claudio Cracovia – Questore della Provincia di Ancona, Don Dino Cecconi – Cappellano del porto di Ancona, accolti dal Contrammiraglio Enrico Moretti – Direttore Marittimo delle Marche.
L’Ammiraglio Enrico Moretti, rivolgendo un saluto a tutte le Autorità civili, militari e religiose intervenute, ha rivolto un saluto a tutti i 450 uomini e donne appartenenti al Corpo delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera della Regione Marche, ringraziandoli per il loro operato per la salvaguardia della vita umana in mare, tutela dell’ambiente marino e della risorsa ittica, per la sicurezza della navigazione, in un Paese con 8.000 chilometri di costa nel quale circa l’85% delle merci viaggia per mare.
In concomitanza presso la sede del Comando Generale del Corpo, si è svolta la visita del Presidente della Camera dei Deputati, on. Roberto Fico, del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, sen. Danilo Toninelli, e del Capo di Stato Maggiore della Marina, Ammiraglio di Squadra Giuseppe Cavo Dragone, accolti dal Comandante Generale, Ammiraglio Ispettore Capo Giovanni Pettorino.
Nel suo discorso di apertura l’Ammiraglio Pettorino, rivolgendo un saluto ideale agli 11.000 uomini e donne del Corpo, rappresentati idealmente dai colleghi in servizio presso la sede, ha ripercorso brevemente la storia recente, con particolare riferimento agli eventi più salienti degli ultimi 30 anni.
Il Capo di Stato Maggiore della Marina, Ammiraglio Cavo Dragone, ha rivolto parole di stima e vicinanza a tutti gli uomini e donne, militari e civili, del Corpo, soprattutto a quelli impegnati a bordo dei mezzi navali e aerei per il servizio e per il bene del Paese.
Il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti sen. Toninelli, nel congratularsi per i risultati raggiunti dal Corpo, ha rivolto un plauso per lo svolgimento dell’operazione Mare Sicuro, inaugurata il 1° giugno e volta a garantire la sicurezza in mare di bagnanti e diportisti per tutta la stagione estiva.
“Tutti gli italiani apprezzano il vostro sforzo per la tutela dell’incolumità delle persone e per la difesa della legalità. E’ anche grazie alla vostra attività che milioni di nostri concittadini possono e potranno godersi l’estate in tranquillità sulle nostre splendide coste. Ecco perché possiamo dire che il lavoro delle Capitanerie ci aiuta a valorizzare le bellezze del nostro Paese”.
Alle parole del Ministro Toninelli hanno fatto eco quelle del Presidente della Camera dei Deputati, on. Fico, ribadendo – nel suo intervento – l’apprezzamento delle Istituzioni per il lavoro che con tanto impegno la Guardia Costiera svolge quotidianamente nell’assolvimento dei suoi compiti istituzionali e, in particolar modo, a salvaguardia della vita umana in mare.
I festeggiamenti nella città di Ancona proseguono oggi 19 luglio, presso la Loggia dei Mercanti, alla presenza del Sig. Rodolfo Giampieri – Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Centrale, del Dott. Gino Sabatini – Presidente della Camera di Commercio Marche, degli operatori portuali, nonché di una nutrita rappresentanza del personale della Guardia Costiera della Regione Marche, dove verranno proiettati alcuni filmati che ripercorreranno i momenti più significativi della storia del Corpo delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera.
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purpleavenuecupcake · 6 years ago
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Eni: accordo tra Syndial e Veritas per realizzare a Porto Marghera un impianto che trasformerà la frazione organica dei rifiuti solidi urbani in carburanti di nuova generazione
L’Intesa è stata firmata tra Syndial, la società ambientale di Eni, e la multiutility della Città Metropolitana di Venezia per realizzare un prototipo industriale “Waste to fuel” che lavorerà fino a 150 mila tonnellate anno di FORSU per produrre bio olio e bio metano Porto Marghera rinasce con l’economia circolare: è stato sottoscritto oggi a Venezia un Protocollo di Intesa tra Syndial (Eni) e Veritas per studiare congiuntamente le modalità di realizzazione, in un’area dismessa e bonificata del petrolchimico a Porto Marghera, di un impianto industriale che trasformerà la frazione organica dei rifiuti solidi urbani (FORSU) in bio olio e bio metano. L’accordo, promosso dal sindaco di Venezia e della Città Metropolitana Luigi Brugnaro, è stato sottoscritto da Vincenzo Maria Larocca, Amministratore delegato di Syndial, società ambientale di Eni, e da Andrea Razzini, Direttore generale di Veritas, multiutility che effettua la raccolta, la valorizzazione e il trattamento dei rifiuti nel territorio veneziano. L’intesa prevede che le parti condividano valutazioni tecniche e di governance per la gestione e realizzazione dell’impianto. Nello specifico Veritas dovrebbe fornire almeno 100 mila tonnellate anno di FORSU e altre frazioni di scarti a matrice umida provenienti dalla raccolta differenziata dell’area metropolitana di Venezia e dal mercato di settore. Syndial, centro di competenza Eni per le tematiche ambientali e la gestione dei rifiuti, oltre a mettere a disposizione un’area di proprietà già bonificata, realizzerà e gestirà l’impianto industriale che applicherà la tecnologia proprietaria Eni “Waste to fuel”, frutto della ricerca messa a punto nel Centro Eni per le Energie Rinnovabili e l’Ambiente di Novara. Syndial ha avviato nel mese di dicembre il primo impianto pilota a Gela, in Sicilia, con l’applicazione della tecnologia “Waste to fuel” che consente di replicare in poche ore in un impianto industriale a basso impatto ambientale un processo che la natura compie in milioni di anni, cioè trasformare biomasse preistoriche in energia. Inoltre, il suo utilizzo genera come sottoprodotto una risorsa preziosa, l’acqua, che sarà utilizzata per usi industriali e irrigui. Il rifiuto umido viene infatti valorizzato non solo tramite la produzione di bio olio e bio metano ma anche con il recupero e il trattamento del suo contenuto di acqua, pari a circa il 70%, che verrà trattata negli impianti Veritas collegati all’area individuata per la realizzazione del nuovo impianto “Waste to fuel”. Il bio olio sarà impiegabile direttamente come combustibile, privo di zolfo, per i mezzi navali oppure inviato a un successivo stadio di raffinazione per la produzione di biocarburanti da impiegare nei trasporti. Per la realizzazione del progetto, che sarà comunque condizionato dall’ottenimento delle autorizzazioni, Syndial e Veritas stimano un investimento nell’ordine di circa 60 milioni di euro; l’impianto potrà trattare fino a 150 mila tonnellate anno di rifiuti organici, e potrebbe impiegare almeno 40 risorse, fra addetti diretti e indiretti a impianto in marcia, a cui si aggiungono le imprese terze per i lavori di costruzione. Con questo accordo Eni compie un ulteriore passo avanti nel proprio percorso strategico di applicazione dei principi dell’economia circolare al business. Proprio a Porto Marghera, la società ha realizzato la prima conversione al mondo da raffineria tradizionale in bioraffineria, in produzione dal 2014, e sottoscritto accordi con il Comune di Venezia e con Veritas per declinare ulteriori e innovativi progetti di economia circolare. Eni, inoltre, intende contribuire alla valorizzazione dell’eccellenza di Venezia, sia come Comune che come Città Metropolitana, nella classifica nazionale per la raccolta differenziata dei rifiuti, come confermato nell’ultimo “Rapporto rifiuti urbani” elaborato da Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale. «Venezia ha fatto dell’economia circolare uno dei suoi punti di forza e non è certamente un caso che alla Città e a tutti i suoi residenti sia stato riconosciuto il primato a livello nazionale per quantità di rifiuti differenziati raccolti in un anno - commenta Luigi Brugnaro, Sindaco del Comune e della Città Metropolitana di Venezia. Così dimostriamo di avere tutte le carte in regola per essere un virtuoso esempio di come si possano generare nuove fonti energetiche: non si butta nulla e dal rifiuto si produce ricchezza. Quello che oggi può sembrare un costo e un problema, domani si trasforma in un vantaggio, proprio come indicato nel Piano Strategico Metropolitano approvato all'unanimità lo scorso dicembre. Venezia vuole essere testimonial a livello mondiale di come si possa essere una grande città, con migliaia di abitanti e milioni di visitatori, ma al tempo stesso sviluppare un sistema innovativo dal punto di vista scientifico e tecnologico, con una mentalità sempre più green ed ecosostenibile, generando economia e, soprattutto, posti di lavoro. Il protocollo firmato oggi da Eni e Veritas, che ho fortemente voluto, va quindi in questa precisa direzione. Il fatto che tutto questo accada a Porto Marghera, non può che renderci orgogliosi: generiamo futuro convertendo un’area che ha fatto la storia dell’industria petrolchimica italiana e confermiamo la vocazione di Venezia nell'essere protagonista della sostenibilità ambientale e dell’economia circolare, favorendo il riutilizzo dei materiali, evitando che i rifiuti possano essere dispersi e quindi divenire un potenziale pericolo per la salute umana, animale e dell’ambiente. Grazie quindi a Eni e a Veritas per questo importante accordo: Venezia non può che sostenervi schierandosi al vostro fianco». Read the full article
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zuleimtequiere · 6 years ago
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