#ti scrivo una storia
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Sabato 28 ottobre alle 10.00 presso la Biblioteca Civica “G. Battaini” a Castiglione Olona si terrà l’iniziativa “Ti scrivo una storia” #tiscrivounastoria #castiglioneolona #cultura #bambini #laboratoriodiscrittura #eventi #primopiano #inevidenza #fabriziosbardella
#ti scrivo una storia#castiglione olona#cultura#bambini#laboratorio di scrittura#eventi#primo piano#in evidenza#fabrizio sbardella
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jesoo santo, quei libri (rari, magnifici) che ti fanno venire voglia di scrivere. quelli che dipanano le storie che hai dentro e finalmente trovi il bandolo della matassa, il punto da cui iniziare. leggi e sei in realtà dentro la TUA storia, il TUO ritmo.
e quella voglia che avresti di accorciare le distanze, prendere un telefono, mandare un messaggio vocale e dire "ascolta, senti questo ritmo, senti il movimento acerbo di queste parole, non apprezzi anche tu la fatica che si scorge? il sudore delle scalpellate? per questa frase che scorre via in otto secondi, lui ci avrà messo mezza giornata. minimo! e so che anche tu te ne accorgi. lo senti?" e come risposta sentirei una battutaccia sulle scaLpellate, con la L
non prendo il telefono e lo scrivo qui
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Se non ti piace ciò che leggi senza offendere cambia blog. Io so ciò che scrivo... Ciò che tu interpreti è un problema tuo...Ciò, non ti permette di giudicare, ne di condannare, ne di criticare... GRAZIE! 💜
Dietro ogni profilo, una PERSONA
Dietro ogni persona, una STORIA
Dietro ogni vita, un CUORE
Dietro ogni storia, una VITA
Porta rispetto…👍
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Sono una ragazza, ti scrivo per dirti che ho vissuto una storia simile a quella che hai vissuto con il tuo “dom”. Leggerti mi fa profondamente piacere non per una questione di eccitazione, ma perché mi fa sentire compresa e in realtà anche un po’ triste. Un po’ come ascoltare canzoni malinconiche per ricordare qualcuno. Voglio dirti che secondo me ci hanno perso loro.. non credo ritroveranno donne disposte ad amare così tanto, facilmente
Quando ci doniamo regaliamo una parte di noi
Una parte che è persa per sempre e che resta alla persona che l'ha ricevuta
È una parte che ci rappresenta, anzi che rappresenta tutto ciò che eravamo in quel definito periodo della nostra vita .
Quella essenza lì non la riceveranno più perché nessuna, incontrata dopo, sarà noi. Non avrà camminato con le nostre scarpe, non avrà la nostra consapevolezza né la nostra ingenuità o la nostra voglia di condividere e accudire.
Regaleremo ad altri qualcosa, ma sarà diverso, non peggiore o migliore ma soltanto diverso.
Forse noi non incontreremo più nessuno per il quale sentiremo l'esigenza di chinare il capo, ma è indubbio che saremo venute in contatto con la parte più vera di noi.
Quando finiscono queste storie, è incredibile, ma ci perdono tutti. Indistintamente.
Un abbraccio. Lungo.
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Mia nonna mi asciugava il sudore. Passava un fazzoletto tra la maglietta e la schiena, a volte ce lo lasciava per assorbire il bagnato. I bambini, per star bene, dovevano tenere occhi e schiene all’asciutto.
Io vengo da lì.
Da dove vengo si dice “ho voglia di piangere” ad alta voce per non piangere davvero.
Da dove vengo si urla “vattene via”, sperando che l’altro resti.
Da dove vengo la cosa peggiore da sentire è “ti devi vergognare”. E in effetti ancora oggi vergognarmi mi fa fisicamente male.
Da dove vengo ti mandavano in collegio, svizzero. Ma per finta. (In pratica da dove vengo i genitori per far star bravi i figli minacciavano di offrir loro un’ottima istruzione, internazionale, in un paradiso fiscale.)A pensarci è un buffo posto quello da dove vengo.
Da dove vengo c’è silenzio. Il silenzio è un valore non è un caso che si debba rispettare.
Da dove vengo ho comunque imparato che di troppe o di troppe poche parole ci si muore.
Da dove vengo quando dicevi qualcosa di brutto, volgare, sbagliato, maleducato, ti intimavano di lavarti la bocca col sapone.
Da dove vengo eri tu che ti facevi delle fantasie e non erano mai gli altri ad illuderti.
Da dove vengo i genitori chiudevano le contrattazioni con “fai un po’ quel che vuoi”, non bluffavano, ma tu sapevi che poi i cocci erano tuoi.
Da dove vengo i miei nonni sono stati insieme una infinità di anni. Come scemi ci siamo domandati come avessero resistito tutto quel tempo quando il vero mistero resta come abbia resistito lei alla morte di lui. (Probabilmente grazie all Alzheimer.)
Da dove vengo io “se sei felice e tu lo sai” era una canzone per bambini, ma nessuno ci chiedeva se davvero lo fossimo. Ho ricevuto un’educazione pseudo cattolica (in cosa creda o non creda io adesso è tutta un’altra storia), ma non ricordo che i Vangeli parlassero di felicità, di beatitudine certo sì, ma Gesù non era felice o almeno così mi pare, era un tipo ok, con un sacco di preoccupazioni e le idee chiare, ma felice non direi.
Vengo da luoghi in cui la tristezza era culturalmente più approfondita, quindi sono anche più preparata. So per esempio che l’infelicità è diversa dalla tristezza, la tristezza crea anticorpi per ricondurti alla guarigione, l’infelicità è appiccicosa, endemica, a volte posturale.
Il posto da dove vengo non lo abito più. Sono andata via, ma a pensarci a volte e quando sto per tornarci mi ammazzo di nostalgia, mi viene da piangere e lo scrivo e lo dico ad alta voce, per non piangere davvero.
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Il bambino guardava la nonna scrivere una lettera. A un certo punto, le domandò: "Stai scrivendo una storia che è capitata a noi? E che magari parla di me." La nonna interruppe la scrittura, sorrise e disse al nipote: "È vero, sto scrivendo qualcosa di te. Tuttavia, più importante delle parole, è la matita con la quale scrivo. Vorrei che la usassi tu, quando sarai cresciuto." Incuriosito, il bimbo guardò la matita, senza trovarvi alcunché di speciale. "Ma è uguale a tutte le altre matite che ho visto nella mia vita!" "Dipende tutto dal modo in cui guardi le cose. Questa matita possiede cinque qualità: se riuscirai a trasporle nell'esistenza, sarai sempre una persona in pace con il mondo.
"Prima qualità: puoi fare grandi cose, ma non devi mai dimenticare che esiste una Mano che guida i tuoi passi. 'Dio': ecco come chiamiamo questa mano! Egli deve condurti sempre verso la Sua volontà.
"Seconda qualità: di tanto in tanto, devo interrompere la scrittura ed usare il temperino. È un'operazione che provoca una certa sofferenza alla matita ma, alla fine, essa risulta più appuntita. Ecco perché devi imparare a sopportare alcuni dolori: ti faranno diventare un uomo migliore.
"Terza qualità: il tratto della matita ci permette di usare una gomma per cancellare ciò che è sbagliato. Correggere un'azione o un comportamento non è necessariamente qualcosa di negativo: anzi, è importante per riuscire a mantenere la retta via della giustizia.
"Quarta qualità: ciò che è realmente importante nella matita non è il legno o la sua forma esteriore, bensì la grafite della mina racchiusa in essa. Dunque presta sempre attenzione a quello che accade dentro di te.
"Quinta qualità: essa lascia sempre un segno. Allo stesso modo, tutto ciò che farai nella vita lascerà una traccia: di conseguenza, impegnati per avere piena coscienza di ogni tua azione."”
Paulo Coelho, Sono come il fiume che scorre
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La saggezza del pene.
Mi prendo la responsabilità di aprire la bocca su un tabù di quelli con la T maiuscola.
Scrivo dopo una seduta profondamente toccante con un uomo.
Scrivo perché so che quello che sto per dire non è una cosa rara che capita a pochi, è invece una storia collettiva di dolore che tocca il maschile e lo piega a metà.
Pene grosso o pene piccolo?
Potenza o Impotenza?
Sarai amato o sarai rifiutato?
Così come tantissima dell’insicurezza delle donne vive nel disagio e nell’imbarazzo legato al loro corpo, anche per gli uomini la “sicurezza interiore” spesso passa da un’esame di virilità che spesso avviene da ragazzini.
Ed è proprio da ragazzini che si passa questa specie di spartiacque tra i fighi che ce l’hanno grosso e gli sfigati che ce l’hanno piccolo.
Perché ai ragazzini non glielo insegna nessuno che il valore di un uomo non sta alla pari con la misura del suo pisello.
I ragazzini crescono negli spogliatoi da calcio e tra una doccia e un’altra se ne raccontano di stronzate.
.. e tra una doccia e un’altra tutti ci provano a guardare in sordina verso il pisello dell’altro e a farsi due conti.
Poi se sei fortunato incontri la prima fidanzatina/o innocente e un po’ naive come te che ti farà sentire il suo grande eroe nonostante la misura che porti in mezzo alla gambe.
Ma soprattutto nonostante la tua “prestazione”.
Se sei meno fortunato le prime esperienze sessuali e di confronto con il tuo pene possono essere un disastro.
Per l’uomo con cui ho lavorato l’esperienza che ha segnato la sua storia è stata l’incontro con una ragazza che lo ha in leggerezza umiliato commentando alla misura del suo pene.
L’umiliazione a 13/14/15 anni non è qualcosa che si può risolvere capendo con la testa che cosa è avvenuto.
L’umiliazione verso i genitali è un colpo al centro dello stomaco dove si proverà vergogna per il resto della vita.
Se la sessualità per le donne è spesso un gran bel panorama di vergogna, giudizio, condizionamenti, paure generazionali, colpa del prete e traumi della madre.
Anche la vita sessuale degli uomini è tappezzata di ferite individuali e collettive profondissime.
Il pene è qualcosa di cui vergognarsi, e c’è sempre un motivo buono.
Te ne vergogni perché è sempre pronto per fare sesso.
Te ne vergogni perché non è mai pronto.
Te ne vergogni perché si eccita quando non dovrebbe e te ne vergogni perché si eccita quando dovrebbe.
Te ne vergogni quando ”dura a lungo “.
Te ne vergogni quando “dura poco”.
La comunicazione tra la mente e il pene di un uomo è spesso pari a zero.
Tra il cuore e il pene forse arriviamo a due su una scala di dieci.
Il pene è abbandonato.
Segregato dietro la cerniera dei pantaloni.
Colpevolizzato e demonizzato per tutto il male che ha fatto nei secoli.
Giudicato perché serve solo a quello.
Il pene porta pena, mi disse una volta un uomo.
Si porta appresso pressione.
Ansia da prestazione.
Paura di fallire.
E poi sì certo, è possibile che FUNZIONI il minimo indispensabile per vivere una vita sessuale mediocre “abbastanza”.
Ma il pene non è una funzione.
Così come non lo è la vagina.
Sono organi di senso, altamente intelligenti che SENTONO e sono connessi alla vita intera dell’organismo.
Pensare con il pene non vuol dire pensare solo al “sesso”.
Il centro energetico del sesso, come quello della mente, del cuore, del plesso solare è un centro di potere.
È un centro di conoscenza.
Ciò che rende il pene una pena è la tua disconnessione, il NON ascolto, l’abuso, le credenze limitanti.
Ma soprattutto i traumi, le memorie e le ferite che porta il tuo pene.
Solo attraverso la riconessione con questa parte sacra del corpo un uomo può riconquistare la sua autentica virilità.
Virilità.
Non significa ce l’ho più grosso di te e posso prendere ciò che voglio, distruggendo e senza voltarmi.
Questa è la piaga del patriarcato: gli anni di abuso del potere di un maschile immaturo e sofferente.
Virilità è la bellezza potente del Fallo come simbolo di forza, di presenza, di sicurezza, di energia.
Il Fallo che penetra il cuore della terra per portare Vita.
Il Fallo che porta il SEME della VITA.
Il Fallo che feconda la terra perché sia abbondante di frutti.
La guarigione del “pene” è una guarigione collettiva.
Non è solo degli uomini.
È anche delle donne.
È di tutti coloro che hanno realizzato che qualcosa nella nostra società è andato perso ed è nostro diritto e dovere ricordare.
È di chi parlerà ai ragazzi maschi del potere e della sensibilità che portano in mezzo alle gambe e di come rispettarsi e rispettare con amore e consapevolezza.
È di chi saprà fermarsi ogni volta che l’atto sessuale diventa una gara carica di pressione e potrà piangere invece che continuare a tenere.
Il pene ha bisogno di piangere e di gridare.
A volte eiaculare è pianto e grido trattenuto per troppo a lungo.
🖤
Federica Clemente
#Tantrasciamanico
#maschilematuro
#sessualitasacra
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LA CANZONE DI REBECCA
"Questa di Rebecca è la storia vera che scivolò fuori dal cuore in una fredda sera ma un padre che la vide così bella da quel cuore la portò sopra a una stella"
Così figlio 2 e Rebecca si sono lasciati. Sono cicli della vita, che sinceramente ti aspetti quando a intrecciarsi sono due cuori così giovani e, sotto alcuni punti di vista, acerbi.
Però da padre sono dispiaciuto. Molto, non nascondo il fatto di essere commosso mentre scrivo questo capitolo di vita da padre.
Credo che l'esperienza della vita di una persona sia costituita da tanti mattoncini, ognuno portato da chiunque sia passato per quella vita.
Chi avrà portato tanti mattoncini, chi meno. Ma anche solo uno contribuirà alla costruzione dell'esperienza di vita in quella persona.
Spero che Gabriele (mio figlio) e Rebecca si siano donati tanti mattoncini, su cui posare le basi delle loro future vite sentimentali.
Una separazione decisa insieme, questa è già una prova di maturità, dove entrambi sembrano aver affrontato questa decisione con serenità. Anche se sono convinto che alcuni ricordi rimarranno per sempre, perché i momenti vissuti amando non si dimenticano mai. Almeno così dovrebbe essere. Io me le ricordo i miei. Tutti, ancora oggi.
Devo dire che a me mancherà tanto, era la figlia che non ho e avrei tanto desiderato. Così simile ai miei colori di carnagione e di capelli.
Sto pensando a questa separazione, mi rendo conto di quanto nella vita, a volte, le separazioni siano necessarie; necessarie per ricominciare e non stare immobili.
Che il dolore, quando è condiviso, insegni molto quanto e come le gioie condivise.
Restare uniti in abbracci freddi e senza più sentimento, non permette di vivere la propria esistenza. Diventa come una prigione dell'anima. Diventa necessario separarsi.
Esiste chi non l'ha fatto e se n'è pentito, chi lo ha fatto e ha capito che doveva farlo prima. Ma esiste anche chi, per questa scelta, ne sta pagando le conseguenze.
Ma Gabriele e Rebecca sono così giovani, così estremamente impetuosi e immaturi da vivere il tutto come un'esperienza. Probabilmente senza tragedie.
Mentre io così dannatamente invecchiato e attempato, vivo con malinconia questa vicenda.
Era, anzi è, anche nel mio cuore Rebecca, sempre grata nel salutarmi per essere stata accolta e protetta, coccolata, ogni volta in casa nostra.
Quel tuo saluto, accompagnato dal gesto della mano, mentre ti dicevo ti "aspetto presto", probabilmente, è stato l'ultimo come padre di colui che amavi. Non ti vedrò mai più così.
"Dicono poi che mentre sulla porta mi salutavi dal suo cuore già fuori scivolavi e io che non ti voglio vedere come un'ombra ti ricorderò mentre mi saluti sull'uscio della mia porta"
Buona vita ragazzi, buone cose ai vostri cuori pulsanti e pieni di energia.
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XO (only if you say yes!)
mondo si gentile con me questa è la prima storia che scrivo e decido di pubblicare.
“Se non apri questa porta ti uccido” la voce ovattata ed annoiata di Ethan risuonava al di là del portone, Lea rise di gusto “Va bene, va bene, arrivo” disse prima di aprire la porta facendo entrare il ragazzo zuppo dalla testa ai piedi che la guardò con uno sguardo bellamente arrabbiato ed infastidito.
“Grazie eh” mormorò Ethan entrando in casa, sfilandosi prima le scarpe per poi togliersi il giacchetto, rimanendo solo in abiti comodi, fradici, l'aria calda gli accarezzò il volto, dandogli delle sfumature rosee sulle guance.
“Quando vuoi” scherzò Lea, correndo a prendere una felpa dall’armadio di suo fratello Jasper che appena la vide piombare nella sua stanza le urlò contro di bussare. “Tieni metti questa e dammi pure la giacca e la tua felpa, la metto ad asciugare in bagno sul termosifone riscaldato, almeno non devi uscire zuppo”
“Ma che gentile che sei” scherzò Ethan sfilandosi la felpa che assieme si portò su anche la maglia nera che indossava sotto facendolo rimanere a petto nudo, Lea arrossì osservando il fisico del capitano di basketball della sua scuola ed il suo fisico marmoreo, aveva tutti i muscoli al posto giusto e non troppo marcati, il giusto per renderlo disgustosamente attraente.
Lea sentì il cuore accelerare mentre lo osservava. Il vapore che si alzava dalla sua pelle umida creava un'aura quasi mistica attorno a lui. Non aveva mai notato quanto fosse definito il suo addome, quanto fossero forti le sue braccia.
“Non…non posso lasciare che il capitano si ammali” disse balbettando Lea, abbassando lo sguardo, cercando di nascondere il rossore che le ardeva sulle guance.
Ethan sorrise, divertito dalla reazione di Lea. "Non preoccuparti, non mi ammalerò. Sono fatto di ferro, io." Si avvicinò a lei, prendendo la felpa dalle sue mani prima di infilarla.
scosse la testa passandosi una mano tra i capelli rossastri ancora un po’ bagnati.
Ethan fece un passo avanti, stringendola in un abbraccio umido che la avvolse come una coperta calda. Lea si irrigidì, sentendo il suo corpo caldo contro il suo. Il profumo di Ethan, un mix di shampoo e colonia, la inebriava, il suo cuore batteva come un tamburo. Gli strinse le mani in vita, reciprocando l'abbraccio, "Mi sei mancato," mormorò, la voce tremante. Strofinò il viso nell'incavo del suo collo, assaporando il calore della sua pelle.
"Sono stato fuori solo cinque giorni per una partita, non sono mica andato in guerra," esclamò ridendo, ma il suo tono era più dolce del solito.
La sua risata, profonda e melodiosa, riempì il soggiorno, creando un'atmosfera intima e intensa.
Ma la magia fu interrotta dai passi pesanti di Jasper che risuonarono lungo il corridoio. Lea si staccò da Ethan, il suo viso arrossato. I suoi occhi cercarono quelli di Ethan, ma lui aveva già girato lo sguardo sorridendo non appena Jasper entrò nel suo campo visivo.
“Ethan! Amico, che partitona Domenica! quel canestro proprio sul finire del tempo!” esclamò scansando Lea che indietreggiò prese i vestiti bagnati di Ethan e si diresse verso il bagno, sentendosi come se le avessero strappato il cuore. Appoggiò gli abiti sul termosifone, guardando il vuoto per qualche secondo. Il cuore le batteva ancora all'impazzata.
Lea appoggiò la schiena al muro freddo, il respiro corto. Il rumore della pioggia che batteva contro la finestra la travolse, come i suoi pensieri confusi. Si strinse nel suo maglione, cercando un po' di calore. Ricordava la loro prima grande litigata, quando erano ancora alle superiori. Ethan si era rotto il crociato durante una partita di basket e si era presentato alla sua festa di compleanno la sera stessa con le stampelle. Lei lo aveva apprezzato moltissimo, ma si era sentita in colpa, quasi soffocata dal suo altruismo.
Ora, anni dopo, si ritrovava di nuovo a provare le stesse emozioni. Ethan la faceva impazzire, con la sua gentilezza, il suo sorriso contagioso. Ma era così lontano, così irraggiungibile. Si sentiva come una bambina che ammirava un supereroe, in grado solo di guardarlo da lontano.
Lea si voltò verso la porta, esitando un attimo. Sentiva la voce di Ethan mescolarsi a quella di suo fratello, creando una melodia familiare che la faceva sorridere e piangere allo stesso tempo. Con un profondo sospiro, si allontanò dalla porta, dirigendosi verso la sua camera.
Accese la lampada da scrivania, illuminando un piccolo angolo della stanza. Si mise a sfogliare i suoi appunti, cercando di concentrarsi sui concetti che aveva difficoltà a capire. Ma i suoi pensieri continuavano a vagare verso la presenza di Ethan nel soggiorno.
Infilò le cuffie e avviò la playlist condivisa, era un’accozzaglia di generi e di canzoni sconclusionate che però avevano un significato ben preciso. Le note familiari riempirono la stanza, riportandola indietro nel tempo. Ricordava quando avevano creato quella playlist, trascorrendo ore a cercare nuove canzoni, a condividerle e a commentare. Era stata una delle loro prime uscite da soli, dopo essersi conosciuti meglio.
Senza rendersi conto, si era addormentata sulla scrivania, la testa appoggiata ai libri. Al suo risveglio, vide Ethan disteso addormentato sul suo letto, il telefono in mano con un video sul basket ormai dimenticato. I raggi del sole non filtravano più dalla finestra. l’unica fonte di illuminazione era rimasta la sua lampada.
Lea si alzò stirandosi arrivando vicino la finestra vedendo le gocce di pioggia battere incessantemente contro il vetro, il vento che spostava i rami del vecchio pino che era nel giardinetto condominiale, il meteo era peggiorato rispetto a quando era arrivato Ethan qualche ora fa.
Lea guardò il suo letto occupato dalla figura familiare di Ethan, la luce soffusa illuminava il suo viso rilassato. Lea sorrise, ammirandolo. Sentiva il suo cuore batterle forte nel petto. Si mosse lentamente, cercando di non fare rumore. Uscì dalla stanza attenta a non disturbarlo, camminò verso il salotto dove Jasper era impegnato a guardare una qualche serie tv.
Percependo la sua presenza, suo fratello si mise seduto sul divano guardandola con un sopracciglio alzato.
“Perchè sembri un'anima in pena? Che è successo? Non vi ho sentiti parlare, non puoi dirmi che non prova la stessa cosa che provi tu”, disse Jasper, la voce tremante di un'emozione trattenuta a fatica.
Lea lo guardò storto come ogni volta che Jasper tirava fuori l'argomento Ethan Lee. Respirò profondamente e raggiunse il fratello sedendosi accanto a lui con il broncio sul volto.
“Ehy, parlaci, vedi che non te ne pentirai, parola di fratello ma sopratutto parola di scout!”, esclamò alzando il mignolo della sua mano, la sua voce più alta del solito, quasi strillata.
Lea sorrise lievemente 'non sei nemmeno mai stato uno scout', disse continuando a guardarlo male.
“Ascolta, conosci Ethan meglio di me, Dio, me lo hai presentato tu come il tuo migliore amico e già avevo i miei dubbi, lo vedevi a scuola come si comportava? I compiti li passava solo a te, le cheerleaders le ignorava tutte, al massimo ci parlava solo quando era costretto, suvvia Lea, non puoi dirmi che quel ragazzo non è innamorato di te! Stai soffrendo, Lea, e lui pure! Metti fine a tutto ciò e parlaci!” esclamò Jasper, schizzando in piedi, il volto contorto dalla frustrazione. Le mani le strinse a pugno, le nocche bianche.
"Jasper, non credo sia la scelta giusta, con quale coraggio posso dire ad Ethan che..."
"Dirmi cosa?" La interruppe proprio Ethan con ancora gli occhi lucidi e stiracchiando le braccia fino a sopra la sua testa, facendo alzare la felpa di Jasper e mostrando la parte inferiore dell'addome.
Lea arrossì violentemente, sentendo il calore salire alle guance fino alle radici dei capelli. I suoi occhi cercarono disperatamente un punto su cui fissarsi, ma ogni oggetto nella stanza sembrava brillare di una luce più intensa, sottolineando il suo imbarazzo.
Ethan rimase fermo, a metà del suo stiramento, lo sguardo fisso su Lea. La sua espressione era un misto di curiosità e di un'amichevole attesa. Sembrava quasi divertito dalla reazione della ragazza, ma allo stesso tempo ansioso di sapere cosa stesse cercando di dirgli.
Lea avrebbe voluto sprofondare nel pavimento. Ogni secondo che passava sembrava un'eternità, e la sua mente correva a mille all'ora cercando una via d'uscita da quella situazione imbarazzante. Il suo cuore batteva forte nel petto, quasi soffocandola.
"Ehm... niente, dimenticavo," balbettò infine, cercando di riprendere il controllo della situazione. Ma la sua voce tremante la tradì, e la sua faccia era ancora più rossa di prima.
Ethan la osservò per un attimo, un sorriso appena accennato sulle labbra. "Sicura? Sembravi sul punto di dirmi qualcosa di importante."
Lea abbassò lo sguardo, cercando di nascondere il suo imbarazzo. "No, davvero, niente di importante."
Ethan annuì, ma il suo sguardo indagatore la fece sentire a disagio. Aveva la netta sensazione che lui avesse capito che stava nascondendo qualcosa, e l'idea la terrorizzava.
"Eh no, non ci sto, ora basta, Ethan, Lea ti deve parlare, perciò parlate e Lea piantala di scappare!" Esclamò con la disperazione chiara nella sua voce Jasper, camminando dritto verso lo stesso corridoio da cui il primo era arrivato e chiudendosi la porta alle spalle, lasciando Ethan e Lea da soli in salotto con sottofondo solo la scadente serie che Jasper stava guardando.
"Ok, che diavolo sta succedendo?" Chiese Ethan avvicinandosi a Lea, peggiorando l'imbarazzo della ragazza. Lea sentì il calore salire alle guance e il cuore batterle come un tamburo.
"O la va o la spacca," mormorò, "Ethan io..." Cominciò, bloccandosi. Le parole sembravano intrappolate in una bolla di ovatta, impossibili da pronunciare. Rimase incantata dagli occhioni dolci di Ethan, che la fissavano con un'intensità che la faceva tremare. "Tu?" La incalzò dolcemente il ragazzo, sedendosi di fianco a lei.
"Ethan tu mi piaci," sbottò, la voce tremante. "Tanto," aggiunse prima di coprirsi il viso con le mani. Sentì Ethan muoversi di fianco a lei, pronta a vederlo alzarsi ed andare via. Lea strinse gli occhi, cercando di trattenere le lacrime che minacciavano di scendere.
Ethan le prese i polsi delicatamente, scoprendole la faccia. Lea lo lasciò fare ed incrociò il suo sguardo. Ethan aveva sul volto uno dei sorrisi più belli del globo, un sorriso che le scaldò il cuore. "Sono felice che i miei sentimenti siano reciprocati," spiegò, sorpreso ma anche sollevato. "Anche se pensavo fosse ovvio dalle superiori che provassi qualcosa per te."
Lea sorrise timidamente, cercando di abituarsi all'idea che tutto quello che aveva sempre sognato stava finalmente accadendo. In quel momento, il mondo intorno a loro svanì, ridotto a un vago rumore di fondo. C'era solo lei, lui e il battito accelerato dei loro cuori, un ritmo sincopato che sembrava pulsare in ogni vena. Con un gesto lento, Ethan si avvicinò a lei, gli occhi scintillanti di un'emozione che lei non aveva mai visto prima. "Posso baciarti?" domandò il ragazzo, la voce rauca e tremante, accarezzandole uno zigomo con la punta delle dita. Il tocco leggero lo fece rabbrividire piacevolmente e un brivido le percorse la schiena. "Sì," sussurrò lei, la voce appena udibile.
I loro respiri si mescolarono, caldi e umidi, creando una nuvola tra le loro labbra. Ethan si avvicinò ancora, fino a sentire il calore del suo respiro sul viso di Lea. I loro occhi si incontrarono, pieni di un'intensità che la lasciò senza fiato. Poi, le loro labbra si sfiorarono in un bacio leggero, come una carezza, un'esplorazione timida e dolce. Era un bacio che prometteva mondi, un bacio che diceva ‘ci sono io, e ci sarò sempre’.
AUTHOR NOTE
Buon compleanno Heeseung, from an Italian Engene!
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Come passa in fretta il tempo...Guardando questa foto ci chiederete sicuramente cosa ci sia di osceno: nulla. Questa foto però calza a pennello: è il segno di inizio della nostra storia, due ginocchia sbucciate, ufficialmente per una caduta, in realtà per tutto il tempo che, esattamente un anno fa, ho trascorso prostrata ai piedi del mio Padrone. Iniziato tutto come un gioco, è trascorso un anno, a tratti faticoso data la mia indole brat, ma intenso e emozionante. Dopo un anno scopiamo ancora come ricci, come lui ironicamente ogni tanto mi dice, dopo un anno arriviamo ad ogni incontro settimanale affamati e pronti a sbranarci, dopo un anno il gioco è diventato un sentimento molto forte da entrambe le parti e sentirgli dire oggi "ti amo" mi emoziona, dopo un anno "Troia", su sua specifica richiesta, è un appellativo che usa solo a letto perché poi sono sempre la sua amata C. , dopo un anno siamo di nuovo nello studio con la moquette assassina con dei pasticcini e la voglia di sempre. Anche oggi è stato un incontro "forte": tanti baci, sì, ma la sua Troia vuole soddisfarlo in tutto e lui fare di tutto per alimentarla. A proposito di alimentazione, la mia bocca è duramente occupata: le dimensioni del suo cazzo e la veemenza con cui la scopa quasi mi soffocano. Mentre cerco di prendere fiato e vomito saliva a più non posso, penso a tutte le volte in cui, parlando di lui con la mia sister, le dico che "mi toglie il fiato". Sentirlo gemere di piacere mentre mi scopa la fica mi manda in estasi e vedere il suo cazzo appena sfilato pieno del mio miele ne è la prova ...come non poterlo leccare avidamente? Lindo e pinto entra nel culo mentre io lo provoco sgrillettandomi a gambe spalancate. Non mi basta, adoro sfidarlo e allora, notando che è sudatissimo, lo invito a riposare, certa del contrario. Sì illumina il mio Porco e inizia uno spietato martellamento: urlo per il dolore e il piacere al tempo stesso. Sicuramente gli operai che al piano di sopra lavorano si possono allarmare, quindi mi premuro a descrivere a voce alta quanto sta accadendo eccitando ancora di più il mio Padrone. Era stata perentoria la sua richiesta: tutto il palazzo deve sapere cosa lui fa alla sua Troia e io, data la mia indole esibizionista, non mi faccio pregare. Un anniversario merita un trattamento speciale e, stavolta, i colpi di cinghia sono veramente forti. Sei fiammate mi fanno piangere ma il suo abbraccio e le coccole dopo, unitamente al cazzo che mentre mi incula ravviva il bruciore mi danno il meritato premio. Mentre scrivo il mio culo vorrebbe sputare la sborra ma io provo a tenerla ancora dentro, per quanto possibile dato il mio ano meravigliosamente trasformato in un open space. Sono devastata ma soddisfatta, come sempre. Ce lo scriviamo nei nostri messaggi mentre ci scambiamo nuovamente gli auguri: "Buon anniversario, amore".
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Cara ragazza,
mentre ti scrivo ho di nuovo 19 anni, sono seduto sulle scale della cucina a far asciugare i capelli al sole, poi passerò a prenderti con l’Ypsilon 10 di mio padre. È la fine dell’estate della maturità, ho la patente da un mese, tu sei l’amore che voglio. A novembre andrò a studiare a Venezia e mi lascerai. Ti chiamerò ogni sera nell’autunno più piovoso della storia, dalla cabina telefonica di Rialto, tua sorella ogni volta mi dirà: «Non c’è, è fuori con Luca». Io riappenderò, poi urlerò, poi il mio amico Carlo mi dirà: «Andiamo a bere».
Ci rimetteremo insieme dopo 4 mesi interminabili, il giorno in cui scoprirò che Luca non esiste, ma è solo il nome che dai alla tua paura. La maniera che hai per dirmi: «Fammi vedere quanto ci tieni. Torna a prendermi». Quando lo farò, saremo due pesci che finalmente riguadagnano l’acqua. Sarà un anno di mani che si sfiorano, baci con le labbra screpolate, film al cinema di cui non ricordo niente, poi l’estate di nuovo addosso.
Ci lasceremo in inverno, per mia scelta e per la convinzione che mi spetti, stavolta, il tuo dolore per il mio abbandono. La realtà è che sentire di averti già trovata è una consapevolezza che a 21 anni mi sconvolge. È più gestibile la presunzione di poterti tornare a prendere, di nuovo, un giorno.
Quel giorno non ci sarà. Ci sarà invece chi dopo l’incidente mi dirà: «Se fosse rimasta con te magari sarebbe ancora viva». Ci saranno il senso di colpa che mi accompagnerà a lungo come un secondo battito, l’inutilità delle lacrime, la prima scoperta del “mai più”. Passerà del tempo e arriveranno altre ragazze, in ciascuna di loro avrò la sensazione di cercare qualcosa di te. Finirà ogni volta, perché non ti troverò mai. Né in loro, né da nessuna parte.
L’amore non passa nella vita una sola volta, per nostra fortuna. Quel che non torna è la prima opportunità di avere coraggio, l’occasione decisiva di restare, quella di dirsi per la prima volta: due. Può accadere che arrivi troppo presto, oppure troppo tardi, ma se la riconosci devi decidere subito cosa farne, perché la vita non aspetta i tuoi ritorni.
Oggi sono passati più di vent’anni, ho una compagna che amo, tre figlie che sono la luce dei miei giorni, per vivere racconto storie. Ogni volta che mi capita di scrivere dell’amore sono per un attimo di nuovo là, sotto quella pioggia, dentro a quella cabina del telefono. Immagino di poterti chiamare dall’adesso, solo per ringraziarti. Per dirti che quando mi è passata davanti la mia seconda occasione di restare me ne sono accorto subito, perché per la prima volta non ti stavo più cercando. Ma soprattutto perché, di nuovo, ho avuto la tentazione di andare via, a causa della mia paura alla quale un giorno ho dato un nome di ragazza.
Sono rimasto anche pensando a ciò che la mia stupidità ci ha fatto perdere per sempre. Sono rimasto sentendo che l’amore che resta può fondarsi anche su quello che non torna, ma solo se permetti all’amore che non torna di essere la strada che ti porta verso l’amore che resta.
(Matteo Bussola)
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POST (purtroppo) PIÙ SERIO DI QUELLO CHE INIZIALMENTE SEMBRI
Io sono un otaku di seconda generazione cioè ho coltivato una passione per manga e anime giapponesi negli anni 70-80 e sono stato poi aiutato da Figlia Grande&Moroso a rinnovarla coi prodotti che, a differenza di allora, oggi sono disponibili a valanga.
Sarò coinciso, seguitemi.
Esiste un manga, poi trasposto in anime, che adoro sopra ogni altro per la sua originalità della storia e per la caratterizzazione dei personaggi.
Jojo’s Bizarre Adventure.
Può darsi abbiate visto qualcosa dell’anime sotto forma di gif o in immagine (appunto) bizzarra ma, in sintesi, è la storia dei membri di una famiglia il cui nome e cognome hanno le sillabe Jo+Jo e che attraverso gli anni scoprono e usano un potere chiamato STAND, una sorta di proiezione della loro personalità che agisce e combatte in modo (ribadisco) bizzarro.
(Star Platinum, lo Stand di JOtaro kuJO)
Questo anime mi piace così tanto che per diletto io e figlia grande giochiamo a immaginare quale possa essere lo stand di ogni persona che conosciamo, delineandone le caratteristiche e i poteri, e poi ci fermiamo lì perché io faccio schifo a disegnare (il mangaka è il suo moroso ma ha sempre troppi altri progetti per buttarmi giù almeno una bozza).
Naturalmente quelli riusciti meglio sono gli stand della nostra famiglia: il mio si chiama Heart On John e il suo attacco speciale Rocket Man (l’autore del manga usa spesso nomi di gruppi musicali, cantanti o composizioni), quello della mia compagna La regina della Notte e il suo attacco Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen, quello di figlia grande, invece, Judge Dread col suo Judgement Day...
Sembra un’idea sciocca ma posso assicurarvi che per come sono stati costruiti ne verrebbe fuori una storia molto godibile.
Se mi conoscete un po’, però, sapete che tutto quello che scrivo e mostro di me è sempre permeato da un aura divertente e ironica perché non c’è mai stata una sola volta in cui i miei problemi si siano risolti dopo un attacco di autocommiserazione... i problemi rimanevano e io avevo in più la voce rauca per i lamenti.
Nella cinematografia horror classica esiste una definizione per la figura della protagonista che sopravvive fino alla conclusione del film, che pur soffrendo terribili sciagure e torture riesce a sconfiggere lo psicopatico di turno.
Ed è questo il nome dello stand di mia figlia piccola
FINAL GIRL
Più la colpisci e la ferisci, più lei diventa cazzuta e quando il tizio con la maschera da hockey o la faccia di pelle sembra avere la meglio, lei si tira su e gli pianta nel culo una motosega.
Non amo la narrazione della guerriera che sconfigge il male che la affligge perché è molto facile che più spesso ci si debba convivere, soprattutto se non si tratta di un problema fisico, ma in questo caso la motosega le è stata data e prima dei titoli di coda state sicuri che la pianterà dove deve.
Dopo 20 giorni di antibiotici sempre più potenti, antidolorifici e cortisone per febbre troppo alta e una gola che si chiudeva sempre di più, l’abbiamo portata semi-incosciente e febbricitante in pronto soccorso, da dove poi è stata trasferita d’urgenza al reparto infettivi.
Potrei divertirvi raccontandovi quello che ha fatto al triage del PS quando le ho suggerito di non minimizzare i sintomi ma anzi di esagerarli un po’ (c’erano decine di persone con taglietti del cazzo e mal di testa vari) ma quello credo meriti un post a parte... corredato del suo audio whatsapp in cui mi urla con voce roca COL CAZZO CHE FACCIO IL TEST DELL’HIV MICA SONO UNA TOSSICA EROINOMANE! e io che le spiego, cercando di non ridere, che lo somministrano di default a chi entra in quel reparto... oppure di quando non voleva consegnare la provetta col campione di feci per la coprocultura all’infermiere figo perché poi magari lo incontrava fuori.
È ancora ricoverata, sta un po’ meglio e molto probabilmente si tratta di cytomegalovirus o mononucleosi con manifestazione severa, però se quello che non ti uccide ti rende più forte, magari adesso anche basta.
Comunque questa è lei, la mia Final Girl
E a casa stiamo aspettando tutti di vederla ritornare mentre ripulisce la sua motosega dal sangue dello stronzo che ha avuto la pessima idea di intralciarle il cammino.
P.S.
Perdonate la melodrammaticità e il colpo di scena acchiappalike ma in realtà volevo solo sfogarmi e sdrammatizzare un po’... e oramai ben sapete che io ci riesco solo in questo modo :)
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Cosa vuoi che ti dica, di cosa vuoi che ti parli. Non è così facile come sembra. Vorrei spiegarti cosa mi passa per la testa, ma non so nemmeno io cosa mi passa nella testa. Certi pensieri sono così bui, che mi fa paura provare ad entrarci. Ne resto fuori e lascio che mi fluttuino intorno. Quindi no, non è così facile raccontare, raccontare una storia che scrivo e cancello a ripetizione. Sono fatta di pensieri bui da cui mi tengo sempre alla larga e non so se senza luce tu riesca ad orientarti.
zoe
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C'è una questione
che viene prima dell'amore.
Forse scrivo a te
perché tu lo hai capito.
Forse per questo
mi dici
non cercare le mie mani
la mia bocca,
forse c'è un'altra storia
che serve a riconoscerci.
Dimmela appena puoi.
Non serve dire
il punto che mi nega,
l'errore che si ripete.
Dimmi tu il tuo errore
il punto in cui ti neghi.
Possiamo solo partire da te
se vogliamo andare da qualche parte.
Quello che scriviamo
non può essere chiaro,
può essere semplice,
introvabile come una tegola, un lampione.
Non so perché ora penso
alle tue labbra premute sulle mie.
Labbra chiuse, mute.
Ora mi sento meglio.
Avevo bisogno di parlare alla vita
parlando a te.
La poesia parla sempre a qualcuno
sapendo che non c’è nessuno.
Franco Arminio
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Un tentativo fallito
Søren rimpianse Regine per tutta la vita, la osservava da lontano per cercare di capire se Regine provava ancora qualcosa per lui. Arrivò persino a scrivere al marito di lei una lettera chiedendo di poter parlare a Regine. Si ritiene che Johan, timoroso, la bruciò e non ne parlò con la donna. Di seguito la Lettera del 1849 a Regine, da Kierkegaard spedita, ma alla quale non ricevette mai risposta.
Allo stimatissimo signor X: la lettera acclusa è mia per la Vs. compagna di vita. Decidete Voi se consegnargliela o meno. Io non cerco, in modo alcuno, di potarVela via: intendo solo narrarle ciò che fummo, perché lei si senta libera di ricordare il bene, e il male, di quello che fu la nostra storia. Ho l’onore di professarmi Vostro devotissimo S.A.K
Mia Regine, il cuore, è come una casa subacquea ove vi sono molte stanze: giù nel fondo, poi, vi sono camere piccole, ma accoglienti, dove si può stare tranquillamente seduti, mentre fuori il mare tempestoso; in alcune di esse possiamo udire in lontananza il rumore del mondo (non angosciosamente assordante, ma sempre più fievole e quieto… sai perché? Perché gli abitanti di queste stanze sono coloro che s’amano). Ma da lungo tempo oramai, cara amica, non abiti più queste segrete magioni: io e te siamo separati, lontani nello spazio infinito del tempo, nella piccola circoscrizione dello spazio: non è poi così immensa Copenaghen! Ti scrivo ora, perché finalmente voglio che ti sia chiaro perché la nostra storia è finita. Da quando ti conobbi, ho sempre cercato di vivere artisticamente: volli farmi simile a te, cercando di ritrovare una sensibilità prontissima a cogliere ogni cosa fosse interessante nella tua vita: avevi il dono, cara amica, di saper presentare come arte (non la chiamerò poesia, perché tu con le parole non eri brava come con i suoni e con le immagini: eri erotica in ogni tuo gesto, come solo una ragazza della tua età può essere) qualsiasi cosa tu vivessi: era questo che mi aveva fatto innamorare di te, era questo che mi allontanava terribilmente da te. La tua arte, amica mia era il ‘di più’ che solo tu potevi donarmi, perché tutta la tua esistenza (bisogna dirlo!) era impostata sul godimento artistico: e un po’ di quel piacere eri riuscita a passarlo a me… il punto è che io non potevo vivere così in eterno, perché io non sono così, e pur di piacere a te, violentavo me stesso. Dolce tortura, ma pur sempre tortura! Da quando ti ho conosciuta, ho cercato per settimane, ovunque, la tua figura: sapevo che, attorno a te, girava un uomo di grande valore, e io di lui avevo paura perché egli ti era vicino, come uno spettro in una città morta: cosa avesse lui più di me, l’arguzia, l’aspetto… io non l’ho mai capito. Eppure, piccola Regine, ho avuto la fortuna di conquistarti, perché l’amore che io potevo offrirti (e lo sai) era perfetto e totale; il suo, era solo desiderio (anche tu lo desideravi? Immagino di sì, perché è difficile convivere col desiderio!) mentre la mia, era devozione. Forse tu non eri pronta a cotanto sentimento? La storia parlerà per noi. Regine… non ti chiamo ‘mia’ perché non lo sei mai stata (e io ho pagato duramente la felicità che l’idea di possederti mi dava un tempo)… e tuttavia, come posso non dire ‘mia’, dato che tu fosti per me ‘mia’ seduttrice, ‘mia’ assassina, origine della ‘mia’ sventura, ‘mia’ tomba… già. Ti chiamo ‘mia’, e parlando di me, mi chiamo ‘tuo’; tuo tormento vorrei essere, ricordarti con la mia oscura presenza, quello che fummo assieme come in un eterno incubo di morte… ma perché perseguitarti, quando – se mai in vita fui felice, fu quando tu m’ingannavi? Ma davvero poi il tuo corpo poteva così manifestamente mentire? E la tua mente, il luccichio dei tuoi occhi, erano davvero falsi come io ora credo? Regine mia, non c’è proprio nessuna speranza, davvero nessuna? Il tuo amore non si ridesterà mai più? Io lo so che, nonostante tutto e tutti, tu mi hai amato, benché non sappia dire donde mi venga questa certezza. Sono pronto ad aspettare a lungo; aspetterò, aspetterò fino a che non sarai sazia degli altri uomini, e quando il tuo amore per me risorgerà dalla tomba: allora, e solo allora, riuscirò ad amarti come sempre, e ti renderò grazie come un tempo, Regine, quando, poggiato al tuo seno, ascoltavo il dolce e regolare moto del tuo respiro, e ti ringraziavo per esser con me. Non potrai essere così crudele e spietata verso di me in eterno, mia Regine: giungerà il giorno del tuo perdono o del tuo ravvedimento… non ricordo neppure chi dei due distrusse la nostra storia. No Regine, chi abbia lasciato chi ora non conta.
Sei stata crudele con me, al pari di come io lo fu con te, è vero. In realtà, tu non lo sai, io ho taciuto il mio dolore e le poche cattiverie dette su di te non hanno che la consistenza dell’aria: solo Dio sa cosa ho sofferto (e voglia il Signore che nemmeno ora io te le racconti)! Mia Regine io ti devo molto… e ora che non sei più mia, ti offro una seconda volta ciò che posso e oso e conviene che ti offra: me stesso Sì, ti dono questo cuore che già in passato fu tuo, e lo faccio per iscritto, per non stupirti e non sconvolgerti. Forse la mia personalità ha fatto su di te un’impressione troppo forte, in passato: ciò non deve accadere una seconda volta, e se tu dovessi accettare la mia mano tesa, dovrebbe essere per vero amore, non per impressione. Mia Regine, prima di dirmi di no!, ti prego, rifletti seriamente (per amore di Dio nei cieli) se puoi, o meno, parlarne con me con serenità, e in tal caso se preferisci farlo per lettera o direttamente a voce. Se invece tu, dopo accurata riflessione, decidessi comunque di non darmi più alcuna risposta, se la tua risposta al mio amore fosse ‘no’, ricorda almeno – per amor del cielo – che per te, e solo per te, ho fatto, e rifarei mill’altre volte, questo passo.
In ogni caso resto, quale sono stato dall’inizio fino a questo momento, sinceramente il tuo devotissimo S.A.K.
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Falsi ortopedici
Capita a tutti di citare erroneamente. capita anche di credere vera una citazione o un aforisma legati a qualche personaggio che si ammira. Io che ne scrivo tante, ne sono certo, avrò fatto qualche errore di valutazione. Qualche volta però mi capita di incuriosirmi e verificare: per esempio una molta bella e famosa dice
Volevo scriverti, non per sapere come stai tu, ma per sapere come si sta senza di me. Io non sono mai stato senza di me, e quindi non lo so. Vorrei sapere cosa si prova a non avere me che mi preoccupo di sapere se va tutto bene, a non sentirmi ridere, a non sentirmi canticchiare canzoni stupide, a non sentirmi parlare, a non sentirmi sbraitare quando mi arrabbio, a non avere me con cui sfogarsi per le cose che non vanno, a non avermi pronto lì a fare qualsiasi cosa per farti stare bene. Forse si sta meglio. Forse no. Però mi e venuto il dubbio, e vorrei anche sapere se, ogni tanto, questo dubbio è venuto anche a te. Perché sai, io a volte me lo chiedo come si sta senza di te, poi però preferisco non rispondere che tanto va bene così. Ho addirittura dimenticato me stesso, per poter ricordare te.
Attribuita nientemeno a Kierkegaard nel suo Diario di un seduttore. Ebbene, grazie anche ad una mia splendida amica lettrice, ho constatato che nel libro non esiste niente di tutto ciò, e la citazione è costruita prendendo parti diverse da altri libri.
In questi giorni, mi è capitato di rileggere un post che sostiene questo:
Anni fa, uno studente chiese all'antropologa Margaret Mead quale riteneva che fosse il primo segno di civiltà in una cultura. Lo studente si aspettava che Mead parlasse di armi, pentole di terracotta o macine di pietra. Ma non fu così. Mead disse che il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito. Spiegò che nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori. Non puoi scappare dal pericolo, andare al fiume a bere qualcosa o cercare cibo. Sei carne per bestie predatrici che si aggirano intorno a te. Nessun animale sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo perché l'osso guarisca. Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi. Mead disse che aiutare qualcun altro nelle difficoltà è il punto preciso in cui la civiltà inizia. Noi siamo al nostro meglio quando serviamo gli altri. Essere civili è questo.
L'autore è qualche volta sconosciuto, altre volte Ira Byock, un medico scrittore americano. Dato che sono in vacanza, mi sono messo a cercare un po' di notizie, poichè secondo me questa affermazione è altamente improbabile che l'abbia detta l'antropologa Margaret Mead.
La prima evidenza della frase appare in un libro del 1980, Fearfully and Wonderfully Made, del chirurgo Paul Brand e di Philip Yancey, in cui dice "reminded of a lecture given by the anthropologist Margaret Mead, who spent much of her life studying primitive cultures".
La storia però cambia quando un articolo di Forbes durante la pandemia (del Marzo 2020) cita lo stesso episodio: How A 15,000-Year-Old Human Bone Could Help You Through The Coronacrisis di Remy Blumenfeld:
Years ago, the anthropologist Margaret Mead was asked by a student what she considered to be the first sign of civilization in a culture. The student expected Mead to talk about clay pots, tools for hunting, grinding-stones, or religious artifacts. But no. Mead said that the first evidence of civilization was a 15,000 years old fractured femur found in an archaeological site. A femur is the longest bone in the body, linking hip to knee. In societies without the benefits of modern medicine, it takes about six weeks of rest for a fractured femur to heal. This particular bone had been broken and had healed.
L'aggiunta è questa datazione del reperto osseo, e l'articolo continua suggerendo pratiche di condivisione di aspetti gioiosi e comunitari nei periodi di segregazione sociale imposto dal Covid19. L'articolo diviene virale e diffonde sul web lo stesso misterioso passo.
Tuttavia, pur ammettendo che in una determinata occasione non documentata Margaret Mead abbia detto come sopra, ad una domanda specifica "When does a culture become a civilization?", l'antropologa rispose così:
Well, this is a matter of definition. Looking at the past we have called societies civilizations when they have had great cities, elaborate division of labor, some form of keeping records. These are the things that have made civilization. Some form of script, not necessarily our kind of script, but some form of script or record keeping; ability to build great, densely populated cities and to divide up labor so that they could be maintained. Civilization, in other words, is not simply a word of approval, as one would say “he is uncivilized,” but it is technical description of a particular kind of social system that makes a particular kind of culture possible. (Bene, questa è una questione di definizione. Guardando al passato abbiamo definito civiltà le società quando hanno avuto grandi città, elaborata divisione del lavoro, qualche forma di conservazione dei documenti. Questi sono i fattori che hanno fatto la civiltà. Una qualche forma di organizzazione ( il senso di script è questo N.d.t.), non necessariamente il nostro tipo di organizzazione, ma una qualche forma di organizzazione e di conservazione dei documenti; capacità di costruire grandi città densamente popolate e di dividere il lavoro in modo che potessero essere mantenute. La civiltà, in altre parole, non è semplicemente una parola di approvazione, come si direbbe ad un altro “è un incivile”, ma è la descrizione tecnica di un particolare tipo di sistema sociale che rende possibile un particolare tipo di cultura. - fonte Talks with Social Scientists, a cura di Charles F. Madden, Southern Illinois University Press, 1968).
Che non è affatto la stessa cosa. Ci sono poi altre questioni, ancora più profonde: tra tutte, è "la cura medica" il fulcro della umanità? Non è che quella esigenza, in quel contesto storico preciso, era necessariamente più sentita e ben accolta?
Probabilmente non saprò mai se davvero Margaret Mead ha raccontato la storia del femore. Ma sono certo che ha scritto questo:
La natura umana è incredibilmente malleabile, tale da adattarsi accuratamente, con aspetti contrastanti, a condizioni culturali in contrasto (Sesso e temperamento in tre società primitive, Il Saggiatore, 1967, pag 184)
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