#tetro terminals
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tetrostaffsidereposts · 3 days ago
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Tetro Staffside Terminal List
Recently, people on the Tetro Discord discovered the terminals. These links go into more detail about the inner-workings of the staff, having internal memos and files on some staff. This page is going to be updated as more terminals are found. Thanks to them for finding this!
Pet.zip
Forgalahad
Privatememo.txt
Tsutsujio_tamemichi.txt
Kitamuro_Shinsuke.txt
Diary.txt
Errorlog332.txt
Crisprlog.txt (Current)
Crisprlog.txt (Previous)
*(Note: Crisprlog.txt changes often. As far as we know, this terminal is being pulled directly from Doctor Genki Nemoto's mind. This blog isn't up to date, but understand that Genki underwent a CRISPR experiment that resulted in his mind degenerating. What you're seeing is a reflection of that.)
Report0032.txt *(Note: Mentions of SA)
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gregor-samsung · 11 months ago
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“ Immaginatevi un vasto cortile, di un duecento passi di lunghezza e centocinquanta circa di larghezza, tutto recinto all'intorno, in forma di esagono irregolare, da un'alta palizzata, cioè da uno steccato di alti pali, profondamente piantati ritti nel suolo, saldamente appoggiati l'uno all'altro coi fianchi, rafforzati da sbarre trasverse e aguzzati in cima: ecco la cinta esterna del reclusorio. In uno dei lati della cinta è incastrato un robusto portone, sempre chiuso, sempre sorvegliato giorno e notte dalle sentinelle; lo si apriva a richiesta, per mandarci fuori al lavoro. Di là da questo portone c'era un luminoso, libero mondo e vivevano degli uomini come tutti. Ma da questa parte del recinto ci si immaginava quel mondo come una qualche impossibile fiaba. Qui c'era un particolare mondo a sé, che non rassomigliava a nessun altro; qui c'erano delle leggi particolari, a sé, fogge di vestire a sé, usi e costumi a sé, e una casa morta, pur essendo viva, una vita come in nessun altro luogo, e uomini speciali. Ed ecco, è appunto questo speciale cantuccio che io mi accingo a descrivere.
Appena entrate nel recinto, vedete lì dentro alcune costruzioni. Dai due lati del largo cortile interno si stendono due lunghi baraccamenti di legno a un piano. Sono le camerate. Qui vivono i detenuti, distribuiti per categorie. Poi, in fondo al recinto, un'altra baracca consimile: è la cucina, divisa in due corpi; più oltre ancora una costruzione dove, sotto un sol tetto, sono allogate le cantine, i magazzini, le rimesse. Il mezzo del cortile è vuoto e costituisce uno spiazzo piano, abbastanza vasto. Qui si schierano i reclusi, si fanno la verifica e l'appello al mattino, a mezzogiorno e a sera, e talora anche più volte durante il giorno, secondo la diffidenza delle guardie e la loro capacità di contare rapidamente. All'interno, tra le costruzioni e lo steccato, rimane ancora uno spazio abbastanza grande. Qui, dietro le costruzioni, taluni dei reclusi, più insocievoli e di carattere più tetro, amano camminare nelle ore libere dal lavoro, sottratti a tutti gli sguardi, e pensare a loro agio. Incontrandomi con essi durante queste passeggiate, mi piaceva osservare le loro facce arcigne, marchiate, e indovinare a che cosa pensassero. C'era un deportato la cui occupazione preferita, nelle ore libere, era contare i pali. Ce n'erano millecinquecento e per lui erano tutti contati e numerati. Ogni palo rappresentava per lui un giorno; ogni giorno egli conteggiava un palo di più e in tal modo, dal numero dei pali che gli rimanevano da contare, poteva vedere intuitivamente quanti giorni ancora gli restasse da passare nel reclusorio fino al termine dei lavori forzati. Era sinceramente lieto, quando arrivava alla fine di un lato dell'esagono. Gli toccava attendere ancora molti anni; ma nel reclusorio c'era il tempo di imparare la pazienza. Io vidi una volta come si congedò dai compagni un detenuto che aveva trascorso in galera venti anni e finalmente usciva in libertà. C'erano di quelli che ricordavano come egli fosse entrato nel reclusorio la prima volta, giovane, spensierato, senza pensare né al suo delitto, né alla sua punizione. Usciva vecchio canuto, con un viso arcigno e triste. In silenzio fece il giro di tutte le nostre sei camerate. Entrando in ciascuna di esse, pregava dinanzi all'immagine e poi si inchinava ai compagni profondamente, fino a terra, chiedendo che lo si ricordasse senza malanimo. Rammento pure come un giorno, verso sera, un detenuto, prima agiato contadino siberiano, fu chiamato al portone. Sei mesi avanti aveva ricevuto notizia che la sua ex-moglie aveva ripreso marito, e se ne era fortemente rattristato. Ora lei stessa era venuta in vettura al reclusorio, lo aveva fatto chiamare e gli aveva messo in mano un obolo. Essi parlarono un paio di minuti, piansero un poco tutti e due e si salutarono per sempre. Io vidi il suo volto, mentre tornava nella camerata... Sì, in questo luogo si poteva imparare la pazienza. “
Fëdor Dostoevskij, Memorie dalla casa dei morti [Testo completo]
 NOTA:  Questo romanzo, pubblicato negli anni 1861-62 a puntate sulla rivista Vremja, pur non essendo un resoconto è fedelmente autobiografico. Nel 1849 l'autore era stato condannato a morte per motivi politici e, dopo un'orribile messa in scena che tra l'altro peggiorò la sua epilessia, la sentenza di morte fu commutata in condanna ai lavori forzati a tempo indefinito; ottenne la liberazione per buona condotta nel 1854 ma le sue condizioni di salute erano ormai irrimediabilmente compromesse.
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magicnightfall · 1 year ago
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THANK YOU AND GOODNIGHT
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A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri finali. 
Perché inevitabilmente, quando una serie finisce, ripensi all’inizio e ti rendi conto degli anni trascorsi (tanti o pochi a seconda della benevolenza del network), delle cose che hai fatto e di quelle che sono accadute nel frattempo. E mentre la serie andava per la sua strada, con tutte le tappe della propria vita ben scandite come tacchette su un righello — episodio pilota, prima stagione, notizia del rinnovo, produzione della stagione successiva e via dicendo fino all’epilogo, morte naturale o violenta che sia — tu pure andavi per la tua, ma altro che linea retta, altro che righello: per citare Ennio Flaiano, per te la linea più breve tra due punti è stata l’arabesco.
Così, nei sei anni che separano la Midge Maisel che invade ubriaca il palco del Gaslight e la Midge Maisel che — ‘sto giro sobria — si appropria degli ultimi quattro minuti del Gordon Ford Show, io ho iniziato la pratica forense, sono diventata avvocato, mi sono iscritta e poi cancellata dall’albo, nonna se ne è andata, ho cambiato tanti lavori (certo, uno era uno stage di nove ore al giorno per cinque giorni a settimana a cinquecento euro lordi che la Regione chiamava “tirocinio” perché “servitù della gleba” pareva brutto), sono stata trascinata a battesimi e cerimonie religiose contro la mia volontà, stranamente non ho preso il coronavirus, ho pubblicato due romanzi, ho avuto crisi esistenziali, ho detto addio al mio adorato micio, Floppy, mi sono devastata l’anima coi concorsi pubblici, ho fatto tanti passi avanti e altrettanti indietro, molto più spesso ho girato in tondo.
Ecco, forse non sono mai solo serie: piuttosto, capsule del tempo che racchiudono, nel periodo che delimitano, parte dell’esistenza di una persona.
E il fatto che The Marvelous Mrs. Maisel sia la storia di una ragazza che, dopo una batosta improvvisa, cerca di trovare la sua strada, rende forse la connessione tra spettatore e personaggio ancora più evidente, e più solida.
Che in effetti, se non la serie in sé — che a parte i rallentamenti dovuti al Covid è andata dritta per dritta — quanto meno è stato il personaggio di Midge ad avere i suoi begli arabeschi, il cui bandolo solo in apparenza è stato districato nel series finale (ma gli arabeschi hanno i bandoli? Probabilmente no, ma poi mi salterebbe tutta la metafora e allora famo finta che ce l’hanno). 
Perché se finalmente la vediamo sfondare come comica, il meritato coronamento di anni di sforzi, la sua vita privata è più ingarbugliata che mai. Anzi, più che ingarbugliata: tragica. Durante tutta la stagione i numerosi flashforward ci hanno dato un assaggio del tetro futuro che l’aspetta: un rapporto inesistente con i figli nel migliore dei casi, conflittuale nel peggiore; una collezione di matrimoni falliti; un ex marito (a cui è sempre rimasta affezionata) in galera, i genitori ormai trapassati e remoti — ma vabbè, erano anziani, ci sta — e Lenny Bruce pure (ma lui per un’overdose, e ci sta un tantino meno). E quel che è peggio, perché alla fine sticazzi di figli e mariti, è stato vedere le condizioni in cui versava l’amicizia con Susie e scoprirla — l’amicizia, eh, non Susie — più estinta di un dodo.
Diciamo che la netta virata sul tragico della quinta e ultima stagione della serie mi ha lasciata un po’ F4 basita. Non che nelle stagioni precedenti non ci siano mai state situazioni — se non proprio tragiche — quantomeno drammatiche (sopratutto nell’accezione narrativa del termine): dall’incidente scatenante (il tradimento di Joel e il conseguente divorzio) alla difficile relazione con i genitori, che né approvavano né comprendevano la sua carriera di comica e ancor meno le istanze di indipendenza (morale ed economica) che essa implicava, passando per tutte le difficoltà e gli ostacoli che Midge ha dovuto affrontare e superare in quanto novellina e in quanto donna, e tutte le varie ed eventuali che stanno nel mezzo. Semplicemente, tutte le situazioni infauste e le difficoltà delle precedenti stagioni erano nel presente, e pertanto non destavano particolari preoccupazioni perché chiunque si sarebbe aspettato che per la fine della serie — io la scena finale me l’ero immaginata con tremila persone ad applaudire Midge al Carnagie Hall, ovviamente con Abe e Rose in prima fila — sarebbero rimaste nel passato. La quinta stagione, invece, ci ha tenuto a dirci che il futuro sarebbe stato meno idilliaco di così. Certo, i problemi di un tempo si sono risolti e al loro posto ne sono arrivati di nuovi, d’altronde così è la vita, ma era necessario farcelo sapere? Era davvero necessario mostrarci Midge a settant’anni suonati vacillare all’idea di avere un martedì libero in un calendario di impegni di lavoro altrimenti fittissimo, perché oltre alla carriera — e a Susie, con la quale per fortuna si è riappacificata ma che però adesso vive in un diverso continente — non ha nient’altro?
Lei stessa — nel suo monologo finale in quegli ultimi gloriosi quattro minuti del Gordon Ford Show — con una certa lucidità arriva a intuire una possibilità di futuro che noi, in effetti, sappiamo essersi avverata: dubita, per esempio, che una relazione stabile sia scritta nel suo destino, e crede che sia inevitabile che i figli la odieranno da grande (e se per le relazioni, vabbè, amen, la questione dei figli è già più delicata anche solo perché saranno loro a scegliere la casa di riposo).
Badate, la mia in realtà non è proprio una lamentela, perché in effetti queste note agrodolci — più agre che dolci — del finale (e di tutta la quinta stagione) mi sono piaciute, è più una riflessione del tenore: già che la vita è miseria e poi si muore, è chiedere troppo che mi venga concessa l’illusione che a Midge Maisel sia andato tutto bene, che sia riuscita ad avere tutto senza dover rinunciare a niente? No? E vabbè.
Ciononostante, l’episodio è finale è stato tutto quello che speravo che fosse, cioè un degno tributo. Il monologo stesso, sia nel ripercorrere gli eventi salienti della carriera ancora in fieri di Midge, sia nello spronare le donne a credere in quello che fanno e a prendersi quello che gli spetta, invitandole a lavorare per far accadere le cose anziché attendere passivamente che accadano da sole, è un po’ il testamento morale del personaggio.
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E a proposito di questo, già solo la scena in cui Midge vede il microfono, la telecamera inizia e girare e tutto si fa silenzioso, con lei che avverte Susie che sta per fare un ultimo folle gesto e Susie che è pronta ad affondare con tutta la nave, ecco, già solo questa scena ha fatto passare in secondo piano qualsiasi remora o perplessità io possa avere mai avuto.
E poi c’è stata la consacrazione, con la menzione esplicita del titolo della serie. Non sempre accade, e quando accade è qualcosa di grosso, un vero e proprio cambio di paradigma: tipo Rick Grimes che nella quinta stagione (sarà una cosa delle quinte stagioni, dunno) dice finalmente “We tell ourselves that we are the walking dead”. Così, quando Gordon se ne esce con “May I present the magnificent, the magical… the marvelous Mrs. Maisel” è la chiusura del cerchio. E anche del sipario.
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Adesso mi sento un po’ come quegli studenti che — a detta del preside di In viaggio con Pippo, ma lui era evidentemente un mitomane — non hanno idea di cosa fare per non sprecare l’estate ora che la scuola è finita. Solo che il mio problema non è con l’estate mai coi venerdì, perché dopo una settimana di lavoro tornare a casa e dare il via al weekend con The Marvelous Mrs. Maisel era bello. Più che bello: era giusto. Per carità, di roba da vedere ne ho a carriolate, quindi ai miei venerdì uno scopo glielo ritrovo uguale, però, a prescindere, di signora Maisel ce n’era una.
E allora niente: thank you, Midge, and goodnight.
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zyngaitalia · 7 days ago
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Parco degli scherzetti di Halloween
Ti diamo il benvenuto alla festa di Halloween, caro fattore. Gli amici della fattoria stanno organizzando una festa spettrale e hanno deciso di divertire tutti i partecipanti con trucchi di magia spaventosi! Unisciti a loro e rendi la festa memorabile!
Quest'attività si sblocca al livello 12. Sullo schermo apparirà un invito pop-up all'evento "Parco degli scherzetti di Halloween". Se non vedi l'evento, potrebbe essere necessario forzare la chiusura del gioco o riavviare il dispositivo per rendere disponibile l'aggiornamento.
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Andiamo al Giardino spaventoso! Quest'area temporanea migliorerà in ogni fase mentre avanzi nell'evento.
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L'evento Parco degli scherzetti di Halloween si terrà dal 23 ottobre 2024 al 6 novembre 2024. L'evento è composto da 5 fasi, ciascuna con le sue ricompense. Hai a disposizione 14 giorni per completare l'evento e vincere l'aiutante temporanea, Hazel stregatta, per 28 giorni.
Completa ogni fase raccogliendo oggetti evento rari e producendo le ricette a tempo limitato. Completa ogni fase per vincere ricompense.
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Scatola misteriosa: borsa Dolcetto o Scherzetto
Riceverai una borsa Dolcetto o Scherzetto quando avrai terminato di produrre gli oggetti. Tocca la borsa Dolcetto o Scherzetto per aprirla e riscuotere le ricompense.
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Luogo di interesse temporaneo: Nascondiglio del mago
Il Nascondiglio del mago è un'area temporanea dove puoi ottenere gli oggetti evento rari necessari per ogni ricetta.
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Aiutanti temporanei: Dom e Sia
Puoi assumere Dom e/o Sia come aiutanti per darti una mano durante l'evento. Avrai maggiori probabilità di trovare oggetti rari dell'evento e molto altro ancora accettando il loro aiuto.
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Nota: Dom e Sia sono aiutanti temporanei e, in quanto tali, lasceranno la fattoria al termine dell'evento.
Nuovi oggetti e dove trovarli
Fase 1
Intruglio della strega - Al Nascondiglio del mago, alla radura, al laghetto, alla miniera, al molo, al mulino e presso gli animali da premio.
Fase 2
Pasta di ragnatela - Alla radura, al laghetto, alla miniera, al molo, al mulino e presso gli animali da premio.
Occhi indiscreti - Al Nascondiglio del mago.
Fase 3
Erbe rituali - Alla radura, al laghetto, alla miniera, al molo, al mulino e presso gli animali da premio.
Zucca sinistra - Al Nascondiglio del mago.
Fase 4
Sciroppo tetro - Alla radura, al laghetto, alla miniera, al molo, al mulino e presso gli animali da premio.
Snack mostruoso - Al Nascondiglio del mago.
Fase 5
Distintivo da vampiro - Alla radura, il laghetto, la miniera, il molo, il mulino e gli animali da premio.
Legna maledetta - Al Nascondiglio del mago.
Ricompense
Fase 1: 1 chiodo del granaio, 2 guanti dorati e 2 semi lampo.
Fase 2: 1 spilla golosone, 2 lucchetti del granaio e 3 semi lampo.
Fase 3: 2 bollini d'oro, 2 bollini d'argento, 2 chiodi del granaio e 3 guanti dorati.
Fase 4: 5 chiavi, 2 bollini d'oro e 5 guanti dorati.
Fase 5: Aiutante ricompensa Hazel stregatto per 28 giorni.
Pass stagionale: Pass spettracolare
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Goditi queste ricompense esclusive quando acquisti il Pass spettracolare:
Tema Felice Halloween, che resterà attivo per tutta la durata dell'evento.
Ricompense del livello doppie.
Aiutante temporaneo potenziato: Hazel malefica
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gazemoil · 5 years ago
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RECENSIONE: Macintosh Plus - Floral Shoppe (Beer On The Rug, 2011)
Abbiamo fatto tutto. Questa è l’impressione quando si parla di storia dell’uomo. Così tanto che non è rimasto più nulla di nuovo da fare e tutto sembra un ciclico ripetersi di ciò che è già avvenuto in passato, soltanto che a volte si ripropone secondo diverse combinazioni e cambiamenti minimi. Per molti questa situazione non corrisponde ad un’occasione per celebrare i traguardi raggiunti dall’uomo, evidentemente talmente avanguardisti da aver riscritto un modello duraturo e funzionante nel tempo, piuttosto vedono con scoraggiata delusione la loro specie che non sembra più in grado di progredire come una volta. Anche in musica tutti i generi sembrano stati inventati e ormai la novità si basa su una combinazione di ciò che è esistito. Lo shoegaze, il dream pop, il trip-hop e tutti i “post” ad iniziare dal post-punk fino al post-club non sono altro che piccole correnti difficilmente riconoscibili, variazioni minime dei generi musicali principali a cui appartengono che invece hanno delle forme meglio definite. Pare che la vaporwave, un microgenere musicale nato - ed alcuni sostengono sia anche morto - proprio in questi tempi di crisi del progresso, manifesti il disagio del vivere nel presente volendosi cullare nella gloria del passato con perpetua nostalgia. Allo stesso tempo, idealizzando gli anni che furono, ne critica gli aspetti più superficiali ed effimeri che forse non sono altro che le cause stesse per cui l’adesso sembra così invivibile. Neanche la musica che verte sulla ripresa di atmosfere passate è certo una novità, ma la vaporwave ha una genesi molto particolare che la rende manifesto di un fenomeno molto diffuso, ovvero, il limite dell’uomo che pur sfruttando invenzioni tecnologiche che prima non esistevano continua a pensare allo stesso modo. Per capire meglio questo strano genere musicale bisogna fare un passo indietro e scoprire dove e come è nato e perché non potrebbe esistere in nessun altro tempo se non questo. 
Nel 2010 il mondo si sente già nell’era post-internet, vale a dire, secondo qualcuno la società ha metabolizzato e si sta sviluppando secondo il profondo impatto della nascita di internet, avviandosi verso un nuovo periodo storico. Paradossalmente, gli stravolgimenti più radicali nel nostro modo di vivere sono appena iniziati e da lì a poco ci saremo ritrovati con cellulari dallo schermo sensibile al tocco delle dita, in grado di riconoscere la nostra faccia e sui quali avremo potuto connetterci con tutto il mondo in tempo reale tramite social network sempre più aggiornati. In quegli anni viviamo l’ultimo grande nuovo cambiamento dell’umanità. Contemporaneamente, anche la musica si sposta sui computer e sui siti web. In quegli anni, Claire Boucher ha usato proprio lo stesso termine “post-internet” per descrivere il suo nuovo progetto musicale sotto lo pseudonimo Grimes, come se avesse previsto ciò che sarebbe diventata l’esperienza della creazione musicale nell’era digitale. Con uno sguardo similmente acuto al futuro, qualcuno seduto dietro uno schermo da qualche parte del mondo ha intuito ciò che sta succedendo, volendo testimoniare il momento in cui ci avviamo verso un futuro e salutiamo un passato, ma rendendosi conto che probabilmente sarebbe stato un addio solo alle modalità di creazione, adesso più veloci ed esaustive, e un arrivederci ad assuefazioni ed illusioni che si prospettano più invasive e convincenti. 
Dalle costole di artisti come Ariel Pink e James Ferraro che manifestano il loro attaccamento alla cultura popolare anni 90′ tramite sonorità per le quali si è dovuto inventare dei termini specifici, la chillwave ed il pop ipnagogico, si dirama una tendenza sperimentale ed ironica basata su internet chiamata proprio vaporwave. Per gli storici musicali questo è coinciso al momento in cui viene pubblicato Floral Shoppe, l’album accreditato al misterioso Macintosh Plush destinato a definire il genere, nel 2011. Le undici tracce attingono esclusivamente da risorse musicali e culturali degli anni 80′ e 90′ e le riutilizzano tramite l’uso compulsivo del campionamento fino a formare un agglomerato smooth jazz, rnb e lounge. Poi è tutta una manipolazione, un rallentare ed accelerare le canzoni di quegli anni, aggiungere effetti surreali e soporiferi per proporre musica da camera rimodellata e sintetizzata con un gusto onirico, spesso esportata in chiave lo-fi proprio per aumentare la dimensione del sogno. Molti la definiscono come una naturale progressione delle melodie impressionistiche e nebulose del pop ipnagogico, ma qui le trasformazioni sono ambigue, la nostalgia per quei tempi è quasi inquietante e non si capisce se si tratti di una presa in giro ironica o di un’infatuazione malsana. A primo ascolto sembra quasi i file siano corrotti o il computer sia invaso da un virus. Tutto ad un tratto, l’idea dell’era post-internet non è più così eccitante, al contrario, si è inacidita. Oltre il cielo di uno sgargiante rosa, i colori pastello ed il lucido paesaggio urbano si prospetta uno scenario quasi distopico, un posto asetticamente digitale e rigido, una matematica illusione ottica nauseante in cui nulla è attinente e tutto è incollato senza contesto. Michelle Lhooq di Vice a riguardo dice: “Immagina di prendere pezzi di musica da ascensore, da supermercato o dalle televendite anni 80′ o quella canzoncina metallica che mettono nella segreteria telefonica, poi fai qualche taglio, abbassala di qualche tono e rimescola il tutto finché non ottieni un sassofono melmoso che sgocciola da una valvola di plastica scadente. Quella è la vaporwave”.
Per molti la vaporwave è solo una stupidaggine, un’altra tendenza da archiviare, un meme su internet nato per fare ridere qualcuno. E’ vero, in contemporanea della musica prodotta dalla stessa Vektroid o dal visionario Blank Banshee veniva caricata su internet una grandissima quantità di altra roba meno seria e soprattutto negli anni a venire, quando qualcuno si accorge di questa bizzarria musicale, la trasforma in un’estetica facile da prendere in giro. Ma la vaporwave nasce con un suo scopo, un messaggio di critica verso il capitalismo consumistico, secondo lo stravolgimento della spettacolarizzazione mediatica di alcuni fenomeni popolari dell’occidente con toni psichedelici e, a volte, dichiaratamente non-sense, proprio per evidenziarne l’assurdità, una parodia dell'ipercontestualizzazione americana dell'Asia a seguito dell’appropriazione della cultura di manga ed anime. E’ un’estetica fortemente ironica, satirica ed accelerazionista che si è autodeterminata in una serie sconfinata di rappresentazioni grafiche e materiale sonoro. Nel suo libro Babbling Corpse: Vaporwave and the Commodification of Ghosts lo scrittore Grafton Tanner ha definito la vaporwave come la musica del non-tempo e del non-luogo, perché secondo lui questo genere musicale ricorda di come la cultura del consumismo sfrenato non abbia lasciato alcuna impronta significativa nel tempo e nello spazio. 
Secondo nessuna logica convenzionale un disco che allora sembra totalmente incomprensibile avrebbe dovuto sopravvivere oltre i regni del profondo internet nei quali è nato, eppure, più o meno consapevolmente, la giovane Ramona Xavier, poi conosciuta con lo pseudonimo Vektroid, l’elusiva autrice del disco ha saputo rappresentare l’ansia esistenziale e la terrificante distorsione della realtà odierna. Nel 2019, l’ottimismo nei confronti dell’era digitale è assente come lo era in Floral Shoppe quasi dieci anni prima.
L’album inizia con Booting - tradotto dal giapponese  ブート Būto - un ritaglio di Tar Baby di Sade che, esattamente come dice il titolo, è un continuo re-bot e si ripete come una gif che si trasforma in una spirale di attacchi d’ansia. Se il pop ipnagogico o la chillwave utilizzano i loop come finestre su una beata eternità, Xavier disorienta tagliando i suoi sample cortissimi, trasformandoli in muri che gradualmente ti si chiudono addosso. Nei momenti finali la traccia si annulla con maggiore violenza, rallentando ancora di più mentre contemporaneamente le versioni accelerate dello stesso loop riecheggiano nello sfondo. E’ l’equivalente musicale dell’iperventilazione, nonché il momento più tetro del disco, rotto bruscamente dall’entrata della più estatica e celeberrima Lisa Frank 420 / Modern Computing  - tradotto dal giapponese リサフランク420 / 現代のコンピュー Risafuranku 420 / gendai no konpyū - il quale cinguettante ed euforico groove è diventato il biglietto da visita della vaporwave. La traccia ripropone la versione di Diana Ross di It’s Your Move, ma Xavier abbassa la tonalità vocale dell’icona pop fino a ridurla ad una macchia scura, prosciugandone il fascino ed amplificandone la disperazione. Appropriatamente, la canzone è inebriante, un vertiginoso volo in picchiata verso un’euforia dolorosa. Richiama inavvertitamente il dub, dove il missaggio diventa lo strumento principale, costruendo echi mentre il suono balza da un canale ad un altro. E’ un curioso caso in cui la vaporwave infetta il mondo reale delle corporative, infatti, la traccia diventa persino una hit che appare nelle catene di e-mail e la colonna sonora di un video virale su Youtube che mostra riprese ipnotiche da catene di montaggio nelle fabbriche, semplicemente intitolato The Most Satisfying Video In The World.  
youtube
La potenza trasformista del disco accresce mano a mano che le canzoni campionate diventano più oscure, come un paio della band Pages nelle due tracce successive, rispettivamente You Need A Hero in Library - tradotto dal giapponese ライブラリ Raiburari - e If I Saw You Again, una traccia che puntava al successo in classifica ma ha fallito nel suo intento, nella title-track Floral Shoppe - tradotto dal giapponese 花の専門店 Hana no Senmon-ten. Tuttavia, in quest’ultima Xavier è interessata soltanto al breve intro, un rimbalzo fluttuante di synth e batteria che viene totalmente stravolto e ripiegato su se stesso fino a quando diventa labirintico. Nelle canzoni successive vengono campionate tre canzoni della band Dancing Fantasy degli anni 90′, unificando la seconda parte del disco in una specie di suite. Ad esempio, la tentacolare Chill Divin' with ECCO - tradotto dal giapponese ECCOと悪寒ダイビング ECCO to Okan Daibingu - ripete all’infinito lavaggi di synth come fossero onde dentro una lavatrice che sbattono sulle stesse metalliche pareti e riff di chitarra senza volto, ma il risultato è sorprendentemente elegante e gradevole, raggiungendo il picco d’equilibrio tra banalità e trascendenza del disco. Te - tradotto dal giapponese て - è l’unica traccia senza alcun campionamento, una boccata d’aria dopo aver fissato lo schermo di un computer per troppo tempo. La melodia non mostra segni di rallentamento prolungato o editing confuso come in precedenza e quando gli uccelli cinguettano in lontananza comunica un senso di pace ed equilibrio che il resto dell'album scompone così sapientemente.
TRACCE MIGLIORI: Lisa Frank 420 / Modern Computer; Flower Shoppe; Chill Divin' with ECCO
TRACCE PEGGIORI: Foreign Banks Aviation
CLICCA QUI PER LA VALUTAZIONE FINALE
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papesatan · 6 years ago
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un sogno: come aiutare i ragni a casa loro
Un ragno gigante infesta la città. Il sogno ha l’ambientazione d’una serie tv anni ’90, in cui gente ingioiellata scappa schifata per le strade inveendo contro l’orrenda minaccia al decoro della città. Ma nessuno sa far niente, tanto meno il sindaco, omino fulvo che, per quanto quel coso se ne vaghi zitto e buono senza far del male a una mosca, non ha neanche il coraggio d’uscire. D’un tratto il belpaese inizia a manifestar rabbioso sotto il castello del conte, un tetro personaggio che vive recluso ai margini della città col suo maggiordomo, e su cui girano storie non proprio edificanti, come quella d’essere ad esempio un vampiro fantasma. La gente pretende che il conte si prenda quel ragno, togliendolo dalle strade e offrendo, per una volta, un servizio alla comunità. Tener reclusi due reietti in un colpo solo, questo vorrebbero, ma il conte si limita ad apparir fugace dietro le tende della torre più alta, studiando il volgo, prima di svanir nel nulla. E qui arriva il protagonista: un giovane parroco che, invitato ad un Consiglio d’Emergenza, ascolta le varie proposte (farlo sparire, bruciarlo, avvelenarlo, ammazzarlo) ahimè senza soluzione, per poi proporsi come rappresentante della comunità dinanzi al conte, per un’ultima accorata supplica. Tutti accettano e così il parroco viene scortato al castello per l’ardua trattativa. Sono soli nella sala, il giovane parroco a gesticolar con foga spiegando il mondo, stretto in piedi contro un’enorme libreria rischiarata dalle ultime luci filtrate dalle smerigliature della finestra, e il conte, teso ad ascoltar, si spera, lungo e stravaccato in penombra. Giunto al termine del suo monologo, il parroco resta lì ad aspettar risposta ma, richiamato vanamente il conte, sente provenir dalla poltrona un ronfar profondo. Mortificato nell’anima va a cercare il maggiordomo che, esortatolo a non svegliar mai il padrone per nessunissima ragione, gli spiega come il conte abbia le sue remore, quando si parla d’animali domestici, avendo perso il cobra a 5 anni. Svelato il trauma, il parroco torna in paese, fra la delusione dei fedeli. Così, con l’inizio delle fiaccolate, la situazione sembra poter volgere al peggio, là dove i più furbi provano a lanciare addosso al ragno le loro stupide torce, ma ecco giungere all’improvviso la carrozza del signor conte. Ne scende il maggiordomo che, a colloquio col parroco, annuncia la novella: il padrone ha cambiato idea. Era bastato fargli immaginar la bellezza d’una passeggiata per boschi con un bel ragno al guinzaglio e via, s’era convinto. Tutti contenti, allora, scortano il ragno al castello, attendendo plaudenti che il parroco dia la sua benedizione, quando, muovendo in retromarcia, la carrozza finisce inavvertitamente sul ragnone e lo schiaccia. Gli applausi si seccano in schifo e silenzio, mentre la processione riparte muta per il paese, con un intrascurabile sorriso.
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padfootay · 6 years ago
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“The meeting”— Nikolaij Volkov, POV.
Non aveva fatto altro che fissare quel pezzo di pergamena prima di stendersi sul letto. Sapeva perfettamente chi fosse stato l’artefice di essa e, nonostante non ci fosse stata simpatia tra di loro, Nikolaij provò un senso di gratitudine per quel gesto. Il mago non gli avevo chiesto nulla, nessuna informazione eppure il non mago — nonostante la sua ironia tagliente — si era premurato di recuperare un pezzo di pergamena e dare a Nikolaij una leggera speranza. I suoi occhi, stavano fissando ancora il soffitto quando si rese conto d’essere troppo speranzoso. Non doveva esserlo. Perché quell’indirizzo non significava ancora nulla: non sapeva chi o cosa ci fosse lì, non sapeva nemmeno se fidarsi completamente del mago no e tutte quelle paranoie iniziarono a renderlo ancora più inquieto. Lasciò il letto perché non si era preparato affatto per dormire una lunga notte, anzi, non si era nemmeno preoccupato di spogliarsi e di lasciarsi andare ad un sonno rigenerate prima di dirigersi a Grimmould Place. Dopo aver letto l’indirizzo si era solo steso e aveva portato la sua attenzione al soffitto e così era stato per una buona mezz’ora o forse più. Sii apprestò a sistemare le sue poche cose in una valigia con l’aiuto della sua bacchetta magica: legno di biancospino, nucleo di crine di Thestral, 12/3 pollici, poco flessibile.Nikolaij sapeva ben poco delle bacchette è quella era apparsa a lui in uno dei negozi di bacchette prima della sua partenza a Durmstrang, lì non l’avrebbe usata così tanto. Qualcuno gli avrebbe raccontato la particolarità di essa e lui, senz’altro, sarebbe rimasto esterrefatto da quanto quel piccolo aggeggiò magico potesse rispecchiarlo o addirittura comprenderlo. Una bacchetta insolita e contraddittoria, ricca di paradossi esattamente come l'albero che l'ha generata, il biancospino: i fiori e le foglie hanno poteri curativi, mentre i rami tagliati odorano di morte'. Sulle bacchette di biancospino si considera la loro natura complessa e intrigante, esattamente come quella di chi è più adatto a possederle. Le bacchette di biancospino saranno sì particolarmente efficaci nella magia curativa, ma sono anche versate nelle maledizioni, e in generale si sentono più affini a un carattere ricco di contrasti, o con un mago che attraversa un periodo turbolento della sua vita. In ogni caso il biancospino non si domina facilmente.Una volta liberata quella stanza buia e per niente silenziosa, fatta di scricchioli e soffii di vento da ogni fessura, Nikolaij si apprestò ad indossare il suo cappotto nero, infilare la sua bacchetta nella tasca interna ad esso, prende la sua valigia e uscire da lì con velocità della luce. Scese le scale a due a due per raggiungere il bar prima dell’uscita e incrociare lo sguardo del mago no intento, ovviamente, a lucidare i soliti quattro bicchieri: “Vento grigio del nord già ci lasci?” disse il mago no ridacchiando tra se e se impugnando bene il bicchiere tra le mani rivolgendo uno sguardo un po’ tetro a Nikolaij che, non ebbe il tempo di controbattere o chiedergli quello che tanto stava fremendo nella sua mente. “Sai che non sto mentendo. Lo sai. Non dovresti perdere altro tempo con un vecchio senza mangia come me. Libera la tua mente dalla rabbia che hai verso il mondo. E ora delle risposte.” Nikolaj non rispose. Serrò la mascella e con un cenno di capo salutò il mago no senza aprire bocca, si allontanò dal bancone e si avviò verso l’uscita del Paiolo Magico. Aveva l’indirizzo, sapeva più o meno cosa fare: doveva smaterializzarsi e andare incontro al suo destino. Strinse forte la mano che accoglieva la sua valigia tra il palmo di essa leggermente sudata forse dall’ansia, dalla paura, dal terrore d’averci sperato fin troppo in tutto quello, dell’ennesimo buco nell’acqua. Avvicinò la mano libera alla tasca dell’interno del suo cappotto giusto quel poco per non farsi notare tra le strade babbane e impugnarla per eseguire il leggero movimento e, si smaterializzò in un battito di ciglia.
Davanti ai suoi occhi non vi era più la strada umida e oscura che dava sul Paiolo Magico, ma una sorta di stradina privata dove sorgevano palazzi, enormi palazzi, uno accanto all’altro con finestre che non passavano di certo inosservate. Nikolaij poté intravedere da esse la vita di varie persone che si stava volgendo al termine dell’ennesima serata, alcune erano già oscurate dalla luce spenta che aveva portato gli inquilini ad addentrarsi nel mondo dei sogni. Il mago deglutì e scrutò velocemente i numeri che vi erano segnati sulle pareti di ogni porta: 8..9..10..11..13..
Non ci voleva di certo un occhio attento per notare che mancava un numero o forse semplicemente i Babbani che abitavano quella strada non potevano rendersene conto. Il mago si guardò attorno prima di estrarre la bacchetta. Esattamente non sapeva cosa fare, come poteva far uscire dal nulla un palazzo, un appartamento, quello che doveva essere senza invito?
“Dannazione”. Esclamò tra se e se ma prima di poter fare altro, di continuare con le sue imprecazioni e di decidere di abbattere ogni singolo mattone di quei palazzi, una voce sottile e armoniosa arrivò dalle sue spalle.
Nikolaij sapeva che quella non doveva essere una semplice Babbana che passava per caso di lì; il suo respiro si fece sempre più pesante, lo si poteva notare da come il suo petto ondeggiava freneticamente come un mare in tempesta.
“Stai cercando qualcuno?” Continuò la ragazza dai capelli corvino, dal viso bianco come la neve e dallo sguardo curioso e profondo quasi simile al suo. Poi si avvicinò a Nikolaij attraversando la strada senza staccare per un momento lo sguardo dal mago, studiandolo per bene ad ogni passo.
L’agitazione di Nikolaij iniziò a farsi largo nelle sue movenze: ad ogni passo della ragazza, egli tentennava in un passo indietro come ad non essere più sicuro di quello che stava facendo, come ad essere certo che quella non era una passante qualunque e non si era trovata lì per caso.
“Qualcuno ti ha mozzato la lingua?” Aggiunse la giovane ragazza iniziando a scrutare Nikolaij da più vicino, quest’ultimo iniziò a sentire per davvero il peso degli occhi color marroni su di se tanto da non permettergli di aprire bocca. Osservandola da più vicino il suo cuore malsano e stranamente sempre freddo, iniziò a battere con più velocità senza una reale spiegazione. O forse, la ragione la conosceva perfettamente, perché non si può mentire al proprio cuore seppur non si sia mai stati in ascolto di esso.
“Cerco Grimmould Place 12”. Esclamò il mago con voce sicura di se. Deglutì ancora, sentendo quel poco di saliva che gli era rimasta abbandonarlo definitivamente.
“Forse è te che stavo cercando” disse senza troppi giri di parole, quello che aveva imparato da sua madre — adottiva — era che certe cose, non andavano sempre spiegate. Alcune cose, sensazioni, avvenimenti, succedevano e basta. E in quel preciso istante qualcosa stava succedendo e.. basta.
Avrebbe ascoltato il suo cuore senza prenderlo a pugni e imprigionarlo in una cassa toracica facendo finta di non averlo mai sentito, facendo finta di non averlo per niente.
“Il mio nome è Nikolaij Volkov” — aggiunse per poi allungare una mano verso la ragazza. Non doveva ostinarsi a restare nel suo mood di eterna rabbia, malcontento di tutto quello che lo circondava. Se voleva delle risposte doveva iniziare ad agire diversamente, anche in modo differente dal suo essere per davvero. Cercò di mostrarsi gentile, senza nessun doppio fine. Essenzialmente, non sapeva cosa gli avrebbe portato a scoprire quel luogo, non sapeva un bel niente ormai da una vita intera ma forse, quella ragazza dagli occhi pregni di diffidenza — che gli ricordavano i suoi, ingenuamente — avrebbe potuto aiutarlo.
La ragazza dopo qualche istante allungo anch’ella la mano per presentarsi e con voce sempre sottile accennò a dire il suo nome: “Noora Crow” e poi aggiunse “Non sei di qui, il tuo accento è molto del nord” assottigliando lo sguardo e sospirando arresa, come se avesse capito chi e cosa volesse Nikolaj: “Se sei qui da parte del ministero per qualche richiesta su qualche Drago, sappi che non farò più un bel niente per loro.”
Il mago si ritrovò a guardarla in modo confuso perché non sapeva di cosa stesse parlando, Noora aveva senz’altro frainteso ogni cosa: “Non sono qui per nessun Drago e da parte di nessun Ministero. “ sussurrò con voce fredda e sicura di se, immergendosi in una serietà da brividi.
“Sono qui perché sto cercando i miei genitori biologici.
E, mi hanno dato il tuo indirizzo. Spero tu possa aiutarmi, Noora.”
Gli occhi della strega si illuminarono, le labbra carnose che prima avevano parlato con tanta enfasi si serrarono bruscamente portando ad assumere un espressione più seria e altrettanto confusa. “Grimmould Place 12. E’ casa tua, vero?” Aggiunse Nikolaij, ricordandosi che lei non aveva per niente confermato che quella fosse casa sua e che lei fosse la persona che stesse cercando. Ma poi la giovane strega rispose a quella domanda con un si di capo, sospirando e portandosi una mano sul volto.
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tetrostaffsidereposts · 3 days ago
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CRISPR Logs
Here's the current CRISPR log
This terminal is thought to be connected to Genki Nemoto's mind following a CRISPR experiment that resulted in his mind degrading at an accerlated rate. Since that page often updates, have the previous messages on there (thanks to the people on the Tetreo Discord). If I fucked up the order or something, my bad, throw me in front of a firing squad.
Date: Week 1 – Initial Changes Begin
 Observer: Dr. Toranosuke Kan 
Subject: Dr. Genki Genki Genki Dayoooooooo
 Experiment: Cellular Rejuvenation and Senescence Clearing through CRISPR-Based Genetic Editing 
INiTIal Observ…?? CAN’T!!! No Day????? wAS there A Day??? KAN THERE… smILinG, teeth TEETH TEETH SMILE! "FaTiGue?" NO??? I was—HEAVY?? OR? LIGHT? my sKIN Crawling wAS that ME??? Did I SAY IT??? I THINK i FELT SICK BUT NO WORDS COME! Kan SAYS PROGRESS... BUT THE PROGRESS HURTS!!! IT HURTS. DAY---!!! day… CAN’T FIND THE DAY. TIRED! NO SLEEP MAYBE?? OR TOO MUCH SLEEP?! DID I DREAM????? 
KAN SPEAKS "LOOK AT YOURSELF GENKI" WHY SHOULD I? i CAN’T... SEE MYSELF but EVERYWHERE IS WRONG! Skin... NO SKIN!!! SHINY??? veINs. WHY SO MANY VEINS??! STOP TOUCHING ME!!! IT HURTS!!! He SAYS SCIENCE BUT SCIENCE SHOULDN’T BLEED!!! !!!!WHAT TIME---??? wHAT PLACE---???? CAN'T STAND LEGS SLIPPERY NO BONES WHERE R THE BONES IS THIS THE DAY I DROPPED... SOMETHING?????? IT WAS GLASS, I THINK. MAYBE NOT. KAN LAUGHED. 
HE ALWAYS LAUGHS. HE ALWAYS SAYS “FAILURE.” WHY DOES HE SAY FAILUR--!!!!!! AM I MELTING???? I CAN’T FEEL ME I FEEL ME!!! TOO MUCH ME EVERYWHERE TOO MUCH!!! NO FIX??? SKIN IS PAPER BUT WET AND HOT BUT NO BLOOD!!! KAN SAYS TO FIX ME BUT HE WON’T FIX ME BUT I’M NOT ME AND DANNKE SHE CRIED OR I CRIED I HIT HER???? NO!!!! THE SHAKES THE SHAKES I DIDN’T MEAN---!!! NO DAY NO NIGHT NO KAN NO KAN WAIT HE’S HERE HE’S NOT HE’S ALWAYS HERE.
 KAN SAYS “FAILURE” AGAIN. HE SAYS "YOU'RE A WASTE" HE SAYS “YOU DIE” HE SAYS “TERMINATE” BUT I DON’T—NO—I CAN’T— ROT ROT ROT ROT ROT ROT ROT ROT ROT ROT ROT!!!!!!! TEETH. SMILE. KAN. WORDS WORDS WORDS. ALWAYS WORDS. STOP SMILING STOP STOP STOP STOP--!!! IT ENDS. DOES IT END??? IS THIS THE END??? NO END. NOT AN END. KAN LAUGHS!!! HE’S NOT HERE BUT HE’S LAUGHING!!!! WHAT WAS THE DAY???? WHERE IS THE DAY???? I AM NOTHING NOW NO THOUGHTS NO BODY ONLY TEETH AND SMILES AND BLOOD AND BROKEN AND KAN.
Date: Week 1 – Initial Changes Begin
Observer: Dr. Toranosuke Kan
Subject: Dr. GENKI AND SUGA AND GENKI AND SUGA TOGETHER AND THEYRE FRIENDS!!!!!!!!!!!!!!!!
Experiment: Cellular Rejuvenation and Senescence Clearing through CRISPR-Based Genetic Editing
InItIaL ObsErVaTiOn (dAy 1): Oooohh Suga is HErE!!! I cAn’t BElieVe it!! Suga is HeRe! I’ll be wOrkIng wiTh hIm agn! He’s so amAZing and smARt. I knOw we’re goinG tO geT So much dONe tOdAy!!! He’s bEEn away for so LOnG, but it’s okAy bEcAUse He’s baCk and everything wILL bE fIne!!!!!!! SO much to do!. I’m So ExcIteD!! He’s Back. I’m NoT gOnna mess it uP!!!...
dAy 3: It’s Suga agAIN. He’s sO Good to me!! He does thE thing wiTh thE paPer, i sIt therE! He gIves mE thE stuff to wRite iT... I dOn't kNow, bUt suga! SUGA!!! I wOULD dO ANyTHIng fOr hIm. hE’s sO SMART! He nEVer tellS me I mIss somEthIng... I wanna be rEallY gOOd!!! hE gives mE adviCe like nO one else AND DOESNT YELLA T ME EVER!!! like hE’s THE bEsT... pls pls pls keep talking to mE!!! I LoVe hIm.
dAy 7: Suga iS AlWnays Suga it’s fUn.... why iS it SO much mOre ... cAn’t StOp! hE’s so clever I’ve gOt too much TO shAre wItH hiM evEN tho. nO nO no NO!! why does he sAy it ThAt wAY ah he gEts it rigHt everytime, wHeRe does he fINd IT! bEForE you know it!!! I’ll be hERE wiTh Suga evEn when iT’s ALL gone haha you’re ALWAYS therE to me. he’s the ONly one thaT UNderstands~ hE dOEsn’T mInd IF I FOrget thIngs bUt I WANNA BE PERFECT fOr him!
dAy 10: I’m sO GLAD suGA is wIth mE!! sO glad we’re hERE, toGeTheR!~ Feels like noOnE elSe wILL, he’s mY faVoRiTe. Suga wAs ReAlly nIce. wiTH eVerYthing I DOn’T get he GETS... kEEp sPEAkIng!!! Why doEsh he dO thAt tho?! hE makEs me feel alWAYs LIKE IT MATtERs. IM gONnA wOrK so hard!! WOrk hAha so hard fOr hIm.
dAy 14: SUGA IS DOING IT AGAIN!! why sO mAny! bUt! bUt!!!! SUGA!! I cAn TAlk all i Want buT sUga nEedS the PaPeR! HiS PaPeR gIVEs mE HOPE i want to bE wITh hIM wHen i get baCk no WAI! sOme daYs just FEELS like It’s all fUZZY and out bUt oH thAt smile, so SOON. sUga PlS.
dAy 21: SOOOO mUch eXcitement! LOOOve love lOve tO knOw suGa’S aRounD!! So haPPy no one is tHis GR8! yEs thaT whAt hE said - hE mAde mE LAUGH so hArD he sO SO quIck and sMart. suGA alwAYS GETS IT riGht, he’s so...perFecT?? I don’t knoW, hE’s AlW! SO GREaT... SoCiaL too - bUt I’m nOT hErE TO ComPlain.. jusT! the JOY !!! WItH sUGA!!!!
dAy 28: suGA iS sOOOOO much!! nO wAnT to stOp hERe!!! He Knows everythInG!! I caN’t Stop yO! let mE talk!!! suGA! suGA ooo suGA SUGA! I’m HAppY wheRe IS He coMInG to Now?! WArms my hearT~ suGA suGA!!!! PleAsE wRite Me MORE!!!! He IS so CLeAr when he’s nEAr!! I’m gOoD wItH hiM. Don’t leT it end ok.
dAy 35: I’m going to Be heRe!! PLEASSSse! suGA always keePS telling ME to keEp GOiNg right!? Suga!! You Gotta tEll mE more!!! What else? whERE iS it?? ThAt’s right... that’s rIghtttttttt. I CAn fiX iT!!! suGA iS so FOrgIvIng. What Is happEnING.... ?!??? .... WhAAt if He lEaves? i neEed suGA baCK!! I wAnNA bE wIth hIm. I mIss.... so..... Much...when i get better we’ll work together again okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? okay? 
Date: Week 1 – Initial Changes Begin 
Observer: Dr. Toranosuke Kan 
Subject: Dr. Suga and the carnivore 
Experiment: Cellular Rejuvenation and Senescence Clearing through CRISPR-Based Genetic Editing 
dAy 1:
 Suga’s hErE...He’s HERE!! He’s so smArt. We’re working agAin!! He’s alwAys so sharp, but what happened to...what happened? whAt was he sayINg, he said it’s bEEn a while. hE’s nOt thE same. i didn’t thInk it, i dIdn’t knOw, i was juST so GLad!! He’s bACK, bUT...but...i...I wOnT aSk. WhAt waS...somEthing felt off, i CAN feel it. Was it Kan? Kan DID something...That thing wiTH me. bUt it’s...He’s bEEN so QUIET. suGa...whAt diD he...what did hE say? nO. dAy 3: Suga...why did he...change? what’s hAppening? He dOesN’T say anytHING anymore...but i can’t say it. He’s bEen...bEEn so quiet after thAt tIme. Kan! Kan’s the one who what what what genki genki genki genki dayoooo, why did he do it?? I’m NOt sure, but Suga’s eyes, hE has...thEY look like they knOw...or maybe they don’t. I CAN’T ask. I CAN'T. but...hE can’t...hE can’t be alone wIth Kan again!! whAt if Kan diD sOMeTHiNg TO HIM...to...suGA, NO NO NO. but no!! Suga’s sTrong...he’s fINe...but. but. I don’t kNOw...maybe it’s Kan, mayBE. dAy 7: It’s like hE’s...like HE’s difFErent. whAt’s goINg on? He’s NOt askIng like he usEd to. It’s like he’s...changEd, all of a suDden. His voice is so tiRed. NO, NO! NO, it’s just...is it? ...I see the smiLE, bUt is it for REAL? Is it?? WhAt if it’s Kan? Kan...Kan did that thiNg to ME. I...I was alONE wiTH hIm, and Kan made it. made it go wRonG. I...whAt happened TO suGA!?! He’s nOt the sAme. NO. NO NO NO. I’M sOrry...I dIdn’t mean it...
[
3:30 PM
]
dAy 10: Kan...it’s...no. i was therE and thE thINg, the waY he was wiTh ME...the waY hE tOUched. hE toUCHED, and sUga, wHAT IF Kan did it tO hIM?! whY is suGA qUiet?? He’s nOt sayING aNytHING. wHeRE doEs it hURT, suGA? suGA, can’t yOU tELL ME, pLEASE? what dO yOu MEAn by that?? why didn’t you tell ME. I knOw...I knOw...Kan cAn’t...you can’t trUst him!! hE wAs wIth ME!! dAy 14: WhAt iS...whAt’s going on? The qUieT IS too muCh. waS it Kan? i shouldn’t bE thinKing it, buT i kNowsomeThIng’s wRonG. Suga wouldn’t sAy anytHing. He dOEsn’t kNow. whY is he so...why so still, suGA? PLEaSE dON’T...dON’T let him, dOn’t let KAN, He...he made me sOtiRed and I Can’t even reMeMber....but...but suGa’s diFFerent now. wHAT happened to hIm???? Suga...please please teLL me, wHAt hapPenEEd?????? CAN'T YOU???? dAy 21: Suga’s sO difFerent nOw. WhAt does he meaN bY sO much bLank sPace. sO much sIleNce. I’M askinG, ask me. i want to knOw what dID KAN dO??? He sAId...said someThinG bUt I wASn’t reADY...no!! i didn’t...I dIDn’t mean it. I need tO be here wIth suGA. I CAN’T let him foRget. it wAs kan. He diD...He...tOld me to. suGA...whAt happened?! I...I...whERE aRe you, whERE arE YOU...???? dAy 28: I cAn’t cOmPLain!! BuT suGA, whY DO iT FEEL LiKe soMething’s SO...No. nO NO. NO it’s JUST THE WOrk, jUST THOSE PApers, RIGHT?! I tHOUGHT, I tHOUGHT...he is nOt thE sAME...WHY iS he qUite, WHY I CAN’T ASK?! WHY CAN’T I AsK??? What’s in the cOrnER oF his EYEs when he’s stiLL?? It’s Kan!!...Kan dID thaT to hIm. He...HEs tHAT kind of persOn. YOU KNOw!! I...whAts...I’m so sORRY Suga. PLEAsE tell me I cAn FIX It!!!
[
3:30 PM
]
dAy 35: suGA...no, whAt hAPpEnEd...?? WhAt HappenED??? i...whO iS sUga nOW?? was i a loNE wiTH KAN agAIN. He cOULDn’t...He DID, He hAD...made me made me made me i am me he made me he made me GENKI GENKI GENKI GENKI To take from another is an art of disintegration. It is not a matter of hunger, but of erasure - of slipping inside, beneath, around the layers of skin and bone, until nothing is left but the trace of what was. You don’t devour the flesh. No, it is the soul you steal, piece by piece, in slow, agonizing pulls, like the delicate unraveling of a thread. There’s a sweetness in it, at first. A quiet pleasure in the giving and the taking, the surrender of control, the warmth that slips away like water through fingers. But then the bitterness settles, when you realize what you’ve done to the body that once stood tall, what you’ve buried beneath your teeth and fingertips - what you’ve torn and left to wither. You think you know them - perhaps you think they’ve given themselves to you. But in the end, it is only you who remains, full, bloated, hollowed out by the absence of their being, and you wonder, with a cold, gnawing dread, if you were ever really the one who did the taking at all. wIth mE too...wHAT? waS it WAs IT? HMMM???? i.....i don’t cAre!!! YOU CAn Tell ME pLEAsE I knOw yOu...pleAse dOn’t hURt. is iT foR me? Suga pls...pls....tell me what hAppEnED...
Date: Week 1 – Initial Changes Begin
Observer: Dr. Toranosuke Kan
 Subject: DR. GENKI NEMOTO 
Experiment: Cellular Rejuvenation and Senescence Clearing through CRISPR-Based Genetic Editing 
WHERE wHeRE. wheRe IS SHE. shE was HERe. i sWear SHE wAS heRe. MY SHEEP. mY sHEEp!!! i puT HER Down, i dID. RIGHT HERE!!! i cAnt fIND HER. She wAs rIGHt here, wASn’T She?? SOMeonE tOoK her. SOMEONE DID!!! Kan. KAN????? Did yOu sEE HIM?!?! hE’S alWAyS TOUCHING THIngs HE SHOULDN’T!!! dID YOU SEE HIM TAKE HER??!?!?! WHERE KAN. KAN KAN KAN KAN. i kNOW iT wAs HIM. HE LOOKED AT HER, HE DID. WITH HIS. HIS GROSS HANDS!!! HE DOES THINGS!!! HE DOES THINGS TO THINGS!!! hE. HE TOOk her, I KNOW HE DID. WHERE IS SHE?!?! wHERE IS SHE?!?!?! DID HE - NO!!! no. he WOULDN’T - wOULDN’T HE?!?!??!?!? OH GOD!!!!!!!
[
7:05 PM
]
WHERE SHES COLD!!! SHE’S COLD AND I CAN’T FIND HER!!!!!!! HE HAS HER I KNOW IT!!! I KNoW IT. HE TOUCHES EVERYTHING AND HE RUINS EVERYTHING AND NOW SHE’S GONE. hER FuR. HER fur...soft, soFT, and NOW SHE’S GONE!!!!! SHE’S GONE!!! HE TOOK HER. WHY. WHY. WHY?!?! WHY?!?!?!?!?!! WHERE HES HURTING HER. I KNOW HE IS. hES - hE'S DOING THINGS TO HER!!! THINGS. HE DOES THINGS AND SHE’S GONE AND I CAN’T STOP IT!!!!!!! hIS HANDS. hIS FILTHY HANDS. ON HER!!! ON HER!!! I CAN HEAR HER CRYING. sHE’S CRYING. SHE’S CRYING AND I CAN’T STOP IT!!! OH GOD I CAN’T STOP IT!!! WHERE wHy. why hE DO THIS. Why HE. tOUCH eVERYTHING THATS MINE!!! hE ALWAYS TAKES MY THINGS, ALWAYS ALWAYS ALWAYS!!!! hIS EYES. HIS EYES WERE LOOKING. ALWAYS LOOKING!!! I CANT. i CAN’T DO THIS. WHERE IS SHE. WHERE IS SHE. WHERE It’s darK. sHE’S nEVER QuiEt. ShE’S never THIS QUIET. He MUFFLED HER, I KNOW HE DID. he DOESNT WANT ME TO HEAR HER CRYING!!!!!!! BUT I CAN. I CAN HEAR HER ANYWAY!!! hE THINKS I CAN’T. BUT I CAN!!!!!!! HE DOESNT WANT HER TO BE MINE!!! BUT SHE’S MINE. MINE!!!!!!! WHERE wHEre IS shE. IS sHE SAFE?!?! IS SHE STILL SAFE???!?!?!? DID I LEAVE HER HERE?!?! WAS IT ME??? DID I DO THIS?!?! no. No. IT WASN’T ME. IT WAS KAN. IT’S ALWAYS KAN. IT’S ALWAYS HIM AND HIS HANDS AND HIS EYES AND HIS SMILE!!! HE TOOK HER. HE TOOK HER AND HE’S RUINING HER!!!!
[
7:05 PM
]
WHERE i CAN FEEL IT. in THE WALLS. iT’S IN THE WALLS. HE TOOK HER AND SHE’S GONE AND I CAN’T BRING HER BACK!!!!!!! WHAT IS HE DOING TO HER??? WHAT IS HE DOING TO HER?!?!??! WHY WON’T HE GIVE HER BACK?!?!?!?!?!?! WHERE pLeasE. PLEASE. GIVE HER BACK. PLEASE. I CAN’T. I CAN’T BE WITHOUT HER. I CAN’T LIVE WITHOUT HER. SHE WAS MINE. SHE WAS WARM. SHE WAS MINE!!!! WHY. WHY DID HE HAVE TO TAKE HER?!?!??! WHY HER?!?!??! WHY DOES HE DO THIS?!?!??!??!! WHY DOES HE DO THIS TO ME?!?!?!?!?!?!?!
Date: Week 1 – Initial Changes Begin
Observer: Dr. Toranosuke Kan
Subject: Dr. Nemoto Genki, PhD
Experiment: Cellular Rejuvenation and Senescence Clearing through CRISPR-Based Genetic Editing
You didn’t just stop at the science, Genki. You were always thinking about the bigger picture - how to make this work for real people. You said it wasn’t enough to fix the problem in a dish or a lab model; it had to be practical, accessible, and safe. I remember you spent weeks agonizing over the cost of production for your treatments.
“What’s the point of a cure,” you’d say, “if no one can afford it?” You were already designing systems to make it scalable, finding ways to use cheaper, more sustainable materials for those delivery nanoparticles, or sourcing enzymes from modified bacteria instead of expensive synthetic methods. You had this vision of a future where people wouldn’t have to watch their loved ones fade away - not from Alzheimer’s, not from cancer, not from anything that your work could stop. You told me once that your mother had arthritis so bad she couldn’t even hold your hand by the time she was forty. That was part of why you were so driven - to make sure no one else had to feel that kind of helplessness. And you were meticulous, Genki. You didn’t cut corners. You’d test and re-test, stay up all night if you had to, just to make sure every variable was accounted for. I can still hear you muttering to yourself while running simulations, double-checking every figure. “Better to be thorough now than regret it later,” you’d always say. That’s what made you different - you weren’t just smart, you were careful. Thoughtful.
[7:24 PM]You even thought about how this technology could go wrong. You used to lecture me about bioethics, about how powerful tools like senolytics or reprogramming factors could be misused. You were so careful about containment, about safeguards. You wrote protocols for how to reverse the process if something went wrong. I remember you saying, “Science without ethics isn’t progress, it’s a disaster waiting to happen.” But it wasn’t all work, either. Do you remember that night we stayed late in the lab, and you showed me that playlist you and Dr. Deng had made? You said it helped you focus, but honestly, I think you just liked sharing things you loved. I never told you, but I’ve been listening to it lately. It reminds me of you. Of how passionate you were, how alive you seemed when you were deep in your research. How much you believed in what you were doing. I know this feels far away now, Genki. I know you’re scared, and it’s hard to remember who you are, but I remember. I remember everything you stood for, everything you were trying to do. I see it in you even now, in the way you try to make sense of the world around you, even when it’s confusing and overwhelming. You’re still here, and I’m not giving up on you. I’ll tell you these stories every day if I have to. About your work, your brilliance, your kindness. About how you lit up every room you walked into, how you made people feel like they were part of something bigger. You’re still part of something bigger, Genki. And I’ll be here with you, no matter how long it takes, until you find your way back to yourself.
Date: Week 1 – Initial Changes Begin
Observer: Dr. Toranosuke Kan
Subject: Dr. Den Jianyu
Experiment: Cellular Rejuvenation and Senescence Clearing through CRISPR-Based Genetic Editing
You had someone, Genki. Someone who loved you more than anything in the world. His name was Dr. Den Jianyu. You two met on the project, remember? It was one of those meet-cutes you’d expect to read about in a novel. You accidentally spilled tea on his research notes while you were both waiting for the same meeting to start. I remember you telling me how mortified you were, and how he just laughed and said, “Well, now they’re infused with some extra wisdom.” That’s what started it all. He was a molecular biologist - sharp as a scalpel but soft around the edges. He had this way of grounding you when you’d spiral into your endless ideas. You’d come back from your late-night walks with him, eyes brighter, voice steadier, like he gave you a little more air to breathe. You two were so different, but it worked. He could pull you out of your head when you got lost in theories, and you’d light up his world with your curiosity and energy. It was the kind of love that felt inevitable.
[9:12 PM]You proposed to him out under the zelkova clearing, didn’t you? You planned it for weeks, fussing over the details like it was a lab experiment. He said yes before you even finished asking. I’ve never seen you as happy as you were that day. You couldn’t stop talking about your future together - traveling the world, collaborating on research, getting a dog someday. You used to joke that your work was going to make people live forever, but you’d settle for just a few more decades with him. You said it’d be fine even if it only lasted a few days. You said it’d be fine even if you didn’t live to see it become legal. Even after everything happened, Genki, I know he never stopped loving you. When the experiment went wrong, when you started…changing, he stayed. He visited you every day, holding your hand, talking to you like nothing was wrong. But after a while, you stopped responding. I think it broke his heart. It broke all of us, really. He didn’t leave because he stopped caring - he left because he thought it was what you would’ve wanted. He’s doing well now. He’s a really accomplished biologist, even if he’s stuck rotting in here for now. He still sends updates sometimes, about your research. Things to add to your notes. I tell him you’re still there, still working hard. Because you are, Genki. I see it. Dr. Den always said you had this unshakable belief in people’s ability to heal. It’s why he loved you, I think. You never gave up on anyone, even when the odds were stacked against them. That’s why I’m not giving up on you now, even if you don’t remember him. Even if you don’t remember me.
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den??
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NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO NO
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dorianpavlov-blog · 7 years ago
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                      ┊𝖨’𝗆 𝖧𝖾𝗋𝖾;                          ➘                    — 𝒮𝑒𝑜𝓊𝓁, 𝒮𝑜𝓊𝓉𝒽 𝒦𝑜𝓇𝑒𝒶                   ( 𝟣𝟪.𝟢𝟩.𝟤𝟢𝟣𝟩 — 𝑜𝓇𝑒 : 𝟢𝟣:𝟥𝟩 )                                   Aleksandr gli aveva posto dinnanzi un grattacapo che, sin da subito, si presentò essere totalmente privo di senso. Seppur, poi, un senso lo avesse eccome. Semplicemente, era stato così meticoloso da non lasciare alcuna traccia se non quelle desiderate. Strade sorvegliate alternate poi da altre totalmente prive di telecamere, fu l'enigma che Dorian dovette risolvere. Quel bastardo era stato così geniale da imboccare ogni possibile percorso secondario, affinché i filmati manipolati si potessero contare sulle dita d'un paio di mani — eppure, si trattava di un piano così ben escogitato che Dorian non poté fare a meno di esserne affascinato. Fu come rimettere insieme piccoli tasselli di quello che si rivelò essere un puzzle vasto quanto la città di Seoul. Ricorrere a tutta la logica di cui era munito, con una buona dose di perseveranza, fu quel che gli permise di venire a capo dell'intera vicenda.
   Gli pneumatici della Maserati divorarono a gran velocità l'asfalto di quelle strade che, già in precedenza, la mente di Dorian aveva dovuto ripercorrere con il solo ausilio di quei filmati ceduti, inconsapevolmente, della sicurezza di cui era dotata Seoul. Distretto dopo distretto, ChangHyun era stato in grado di hackerare il sistema di ogni stazione di polizia, affinché ogni singola telecamera fosse a loro servizio. Fu un impresa ardua e Dorian, comprese ben presto, che fu esattamente ciò che Aleksandr aveva architettato nei lunghi giorni di totale silenzio. Decisamente all'opposto dei giorni in cui il russo era stato costretto ad evitare qualsiasi bisogno primario, affinché un solo secondo non venisse sprecato; veloci pasti e minuti rubati dal corpo affinché potesse recuperare un po' di quelle energie esaurite, fu tutto ciò che si concesse.
   Jonah aveva ceduto il posto d'autista ad un ChangHyun smanioso di entrare in azione; le sue condizioni erano ben diverse da quelle di Dorian che, invece, se ne stava seduto sui sedili posteriori con lo sguardo rivolto verso l'area circostante. Con la mente invasa da pensieri che la rabbia si dilettava a tramutare in immaginarie opere d'arte in cui il rosso cremisi primeggiava, osservava gli edifici urbani venir sostituiti da file confuse di imponenti alberi a costeggiare quelle strade appena fuori Seoul. L'oscurità della notte a rendere quell'ambiente quasi tetro, gli trasmetteva un senso di morte che non faceva altro se non accrescere il già di per sé notevole desiderio di vendetta. Ma avrebbe salvato YoungHae e, soltanto dopo essersi accertato che lui stesse bene, si sarebbe premurato di creare l'inferno personale di Aleksandr.
   Quel pensiero divenne molto più vivido, nell'esatto momento in cui la corsa della Maserati si arrestò dinnanzi ad una fabbrica abbandonata. Dorian osservò il perimetro da dietro il vetro scuro del finestrino, prima che i primi passi venissero mossi sul terriccio affatto curato a circondare quell'inquietante e decadente struttura. ChangHyun gli era alle spalle, a qualche metro di distanza. Era stato chiaro, Dorian, che aveva permesso al coreano soltanto di accompagnarlo. Quella storia era iniziata a causa sua e sarebbe stato solo e soltanto lui a porne fine.
   La rabbia cieca a montargli nel petto gli rese possibile assassinare i due uomini a far da guardia all'entrata con una freddezza tale da far raggelare il sangue nelle vene a chiunque. Dalla volata della sua GSh18 rigorosamente russa vennero fuori circa una decina di proiettili, quasi non bastasse soltanto strappar la vita, quasi volesse portar via qualcosa di molto più importante a quei bastardi che, a loro volta, gli avevano strappato l'unico barlume di luce presente nella sua vita. Avevano macchiato con del sangue la purezza di YoungHae e ne avrebbero pagate le conseguenze, uno dopo l'altro. Varcò la soglia di quella fabbrica il cui unico arredamento non erano altro se non inquietanti bambole di porcellana mai portate a termine e dei grandi tavoli accantonati contro le pareti. Sembravano osservarlo con quegli occhi vuoti, privi di vita, ma Dorian era troppo occupato a dar voce all'arma che reggeva, per potersene interessare. Un corpo dopo l'altro, ogni singolo russo a presiedere nelle stanze principali dell'edificio cadeva quasi non fossero altro che carte di domino il cui unico intento era di indicargli la strada giusta da imboccare. I passi erano precisi, lo sguardo simile a quello di una bestia preda di una logorante furia omicida; nemmeno si degnò di scrutare le chiazze di sangue che ormai costellavano la camicia bianca, un tempo, immacolata. Il perfetto accostamento alla sua anima che, soltanto qualche anno prima, non avrebbe mai creduto si potesse macchiare con del denso rosso cremisi.
   Non appena fece capolino in un lungo corridoio del secondo piano, Dorian, comprese che fosse vicino. Fu una sensazione a livello viscerale quella che lo colse quando si palesò dinnanzi a lui un ennesimo uomo dai lineamenti palesemente occidentali. Le labbra di Dorian si piegarono in un sorriso quasi maniacale, diabolico, nell'esatto momento in cui puntò la GSh18 direttamente al petto altrui. Un altro proiettile partì senza il minimo indugio, ponendo fine all'ennesima vita. Spalancò le porte a cui egli faceva da custode con l'ausilio del piede destro, senza mai riporre l'arma ancora ben alta e retta con ambe le mani. Era pronto a qualunque cosa, Dorian, ma non di certo a quello che i suoi occhi catturarono in quella stanza buia le cui pareti erano impregnate dal dolore.
   Le ferite da taglio non erano troppe, Alek era stato tanto crudele da riaprire sempre le stesse non appena davano anche solo l'idea di essere troppo asciutte dal sangue vivo, per assicurarsi che, oltre che nella mente, i ricordi potessero restare su quel corpo come promemoria di quanto era accaduto, non certo per il coreano quanto per Dorian, se mai fosse riuscito a sopravvivere ancora una volta. Topo di fogna, scarafaggio immortale, l'odio nei suoi confronti era stato riversato su YoungHae nella forma più cruda e spietata che il coreano avesse mai avuto modo di conoscere. Forse fu a causa dell'eco di quelle pareti che giocavano ad ingigantire i suoni per renderli piacevoli alle orecchie del suo aguzzino, che un suono molto simile ad un boato squarciò il silenzio del riposo a cui il coreano, piano, stava per lasciarsi andare. Per lo spavento, il petto cominciò a tremare come non aveva ancora fatto neanche per l'umidità infiltratasi nelle ossa dolenti; la figura di Alek si spostò con noncuranza per lasciargli la visuale sfocata ed indefinita delle porte che si aprivano per permettere a Dorian di entrare, ed andò a posizionarsi proprio dietro di lui.
‹‹ Credevo arrivassi un po' più in fretta, ma devo ammettere che ammazzare il tempo è stato più divertente del previsto, Dorian. ››
   Sulla pronuncia di quel nome, la mano di Alek si attorcigliò fra i capelli del coreano sostituendo il sospiro di sollievo che gl'era sfuggito con l'ennesimo gemito di dolore. Egli si ergeva alle spalle della sua maestosa quanto diabolica opera d'arte e istigava senz'altro Dorian a dare il peggio di sé, in quella stanza la cui unica luce proveniva da una finestra situata sul soffitto. L'assenza di sonno lo portava ad essere privo di alcuna lucidità, l'attesa lo aveva reso impaziente e scorgere la figura di Hae in quelle condizioni accresceva la rabbia già di per sé notevole.
‹‹ Ti conviene allontanarti rapidamente da lui, se non vuoi perdere l'uso delle mani. ››
   Le parole colarono via dalle labbra del russo affilate quanto una lama, velenose quanto il peggiore dei veleni. I denti vennero digrignate ed esse, non poterono fare altro se non venir fuori con tono rauco, del tutto rabbioso. Non smise mai di puntare la pistola su quella figura che aveva portato YoungHae ad abbandonarsi totalmente sulla sedia. Avanzò cauto, lasciando che la suola delle scarpe finisse, inevitabilmente, per sporcarsi del sangue di YoungHae riversato sul pavimento in quantità drastiche. Tentava di non soffermarsi su quella figura sofferente, Dorian. Tentava di rimanere concentrato su Aleksandr per non dover fare i conti con l'emicrania che premeva pur di venir considerata, segno che dei ricordi stessero grattando la superficie; volevano essere ascoltati, volevano rivelare a Dorian qualche altra amara verità sul suo passato. Ma in quel momento, se soltanto si fosse lasciato andare ad essi, tutto sarebbe andato perduto, YoungHae incluso. Non poteva permettere che accadesse, non poteva permettere che il suo aguzzino la passasse liscia.
‹‹ Come ti senti? A sapere che questo ragazzo farà la stessa fine del nostro caro Edvard. E tutto per colpa tua. L'ho ridotto così male che sarà maledettamente felice di morire— non è forse così, sladkiy? ››
   Dorian non sapeva, o meglio, non ricordava. Non ricordava il motivo per cui Aleksandr provasse tanto astio nei suoi confronti. Non comprendeva l'odio malcelato in quegli occhi profondi quanto un burrone. Non comprendeva perché quelle mani si divertissero a torturare un ragazzo innocente come YoungHae. Non comprendeva perché provasse piacere nel fargli assistere a quella morte. Desiderava così tanto venire a capo di quella storia, Dorian e sapeva che la soluzione si trovava nell'oceano di ricordi perduti.
‹‹ Credi che Edvard sia morto per caso, Dorian? Credi che quel sicario fosse lì per ammazzarti? La verità è che sapevo perfettamente sarebbe venuto da te. Gli ho semplicemente messo la pulce nell'orecchio; sapere che qualcuno volesse ucciderti lo ha reso irrequieto e, senza il minimo sforzo, è caduto nella mia trappola. Due piccioni con una fava: eliminare un traditore della nostra famiglia e recarti sofferenza. Avrei voluto assistere soltanto per vedere la tua espressione, in quel momento. ››
   Un sorriso beffardo quanto compiaciuto apparve sulle labbra di Aleksandr che senza alcuna pietà, continuava a tormentare l'animo di Dorian che intanto avanzava rapidamente verso di loro, verso YoungHae. Non distoglieva mai lo sguardo da quell'aguzzino, quasi temesse potesse ribellarsi da un momento all'altro.
‹‹ Ho sempre pensato che in fin di morte, le persone tentassero disperatamente di espiare i loro peccati. E' ciò che stai tentando di fare anche tu, Aleksandr? Perché se è così, non mi interessa. Finirai all'inferno, mi assicurerò personalmente che ciò accada. ››
   Ne approfittò nel momento stesso in cui Aleksandr fece per allontanare i capelli di YoungHae dalla sua ferrea morsa. Un solo passo verso destra dell'uomo e l'ennesimo proiettile abbandonò la volata dell'arma nelle mani di Dorian. Aveva fatto male i conti, Aleksandr, s'era convinto che il suo nemico non avesse desiderio di farlo morire istantaneamente. Fu così meticoloso nel piantargli un colpo nella coscia destra che egli, inevitabilmente, si accasciò sul pavimento l'istante successivo. Segno che fosse abituato, esattamente come Dorian, al dolore, non fuoiuriscì un solo suono da quelle labbra che bramavano, tremolanti, di riversare sul connazionale ogni tipo di veleno e insulto. Peccato che egli stesso avesse con sé una pistola e Dorian scansò quel proiettile davvero per un soffio; non appena si rese conto delle intenzioni altrui, rotolò sul pavimento, facendosi scudo di quelle maledette bambole a costeggiare il perimetro delle pareti.
   Con una velocità disarmante, e ponendo la minima attenzione a non ferire ulteriormente YoungHae, tra quelle pareti avvenne uno scontro d'armi da fuoco in cui soltanto uno, ne sarebbe uscito vincitore. Aleksandr nonostante fosse chiaramente ferito, continuava a dar voce alla sua pistola, almeno, fino a quando alle spalle di Dorian le porte non si spalancarono una seconda volta. Fu inevitabile per quest'ultimo volgere lo sguardo in quella direzione. Per un momento temette che potesse trattarsi di qualche russo scampato alla sua GSh18, eppure, si rese conto ben presto che non fosse altro se non un ChangHyun preoccupato per quell'attesa — al suo seguito almeno cinque uomini pronti a sparare. Stavolta furono le labbra di Dorian a curvarsi in un sorriso totalmente compiaciuto.
‹‹ Mi avevi detto di restare in auto.. ma ci stavi impiegando troppo, Dorian. Mi dispiace, ma non ho potuto resistere. ››
   Tornò in piedi, Dorian; si premurò persino di sistemare la camicia ormai sgualcita, oltre al recuperare stille di sangue sulla spalla destra con l'ausilio del pollice destro — evidentemente uno dei tanti proiettili a danzare in quella stanza, lo aveva mancato davvero per poco. Poi, con una calma impeccabile, puntò lo sguardo su un Aleksandr in evidente difficoltà. L'espressione altrui denotava quanto fosse spaventato dai suoi unici calcoli inesatti e dall'errata supposizione che Dorian si sarebbe recato in quella fabbrica totalmente solo. In preda al panico, tentò disperatamente di terminare il lavoro iniziato; eppure non appena l'arma di Alek venne puntata al capo del coreano ch'era stato privato delle sue forze e non solo, Dorian agì d'impulso. L'ennesimo colpo, un ultimo proiettile a sferzare l'aria, e la mano altrui venne colpita sul dorso affinché la vita di YoungHae fosse salva. Ringhiò, Alek, vide sul suo volto una rabbia simile a quella che covava lui stesso. Come ogni topo che si rispetti, egli non vi impiegò poi molto per abbandonare la stanza mediante una porta adiacente a quella da cui era entrata Dorian. Bastò un solo cenno del capo prima che ChangHyun e i suoi uomini lo seguissero.
   A quel punto, finalmente soli, Dorian si poté occupare di YoungHae. Gli si avvicinò in gran fretta, lasciando che l'arma, colpevole di aver strappato fin troppe vite in un giorno solo, con un tonfo, cadesse sul pavimento. Oltre ogni previsione, il giovane era ancora cosciente, tanto che un sospiro gli sfuggì dalle labbra martorizzate. Per chissà quale astruso motivo, Hae si sentì in dovere di tranquillizzare l'altro e con un piccolo sforzo costrinse la sua bocca in quello che desiderava fosse un sorrisetto compiaciuto, ma che si rivelò essere più simile ad una smorfia. Il respiro difficile e pesante ed il sapore del sangue sulla lingua erano davvero insopportabili, al punto che il più grande avrebbe realmente fatto di tutto per cancellare entrambe le cose, ma un po' di forza di volontà gli permise di mandare giù un doloroso groppo di saliva, prima di masticare parole.
‹‹ Te lo avevo detto, mh? Io...ero già dentro. ››
   Ben consapevole che quelle parole non erano state pronunciate con astio, con odio, quanto in realtà con un tono che voleva sembrare totalmente soddisfatto, Dorian non poté fare a meno di piegare le labbra in sorriso che sapeva d'amarezza. Tutto ciò che aveva desiderato non potesse mai accadere, aveva preso forma, s'era plasmato ed adesso era proprio dinnanzi ai suoi occhi. Libero il ragazzo dalle corde che lo tenevano bloccato su quella sedia; lo fece con una delicatezza tale da non recargli ulteriore dolore, seppur sapesse quanto difficile fosse.
‹‹ Eri già dentro, ma sono stato soltanto troppo ottuso per ammetterlo. ››
   YoungHae era ormai privo di sensi, Ciò nonostante percepì l'impellente desiderio di proferire tali parole. Probabilmente fu un vano tentativo di placare i sensi di colpa che gli attanagliavano le viscere. O, semplicemente, un ‘mi dispiace’ mancato. Uno di quelli che mai avrebbe proferito, nemmeno in quel caso, ma le cui parole venivano plasmate affinché assumessero lo stesso significato agli occhi degli altri.    
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musicadifficileitaliana · 4 years ago
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Nematoda - Symphony Of Horror
Buon pomeriggio. Cogliamo un momento di relax per segnalare un progetto solista e ben strutturato che risponde al nome di Nematoda. Dietro lo pseudonimo si cela Francesco Macchi, musicista di Gallarate, nota località della provincia di Varese.
Nonostante il progetto abbia solo circa due anni di vita, la discografia autoprodotta del nostro compositore è abbastanza nutrita. In questo senso ho scelto l’ultimo insieme di pezzi, presenti sulla pagina bandcamp del progetto. Sapete, infatti, che il noto sito è il preferito dal qui presente per condividere le opere.
Detto questo, andiamo al sodo. “Symphony Of Horror” è un’operetta di quattro tracce, di cui due sostanzialmente uguali. L’immagine di copertina è in linea con la musica proposta e il titolo del lavoro. Musicalmente siamo nel noise sperimetale più tetro e black, nel senso più ambientale del termine. Interessante l’utilizzo di voci o, comunque, di suoni che ricordano voci lontane e spettrali in “The Forest”. Sono, inoltre, formidabilemente fisici i rumori di “Iced Breath”.
L’opera è, dunque, un interessante esempio di dark noise contemporaneo, ben pensato e ben suonato. Altra bella sorpresa del nostro difficilissimo ambiente musicale sotterraneo.
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Symphony Of Horror by Nematoda
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pangeanews · 6 years ago
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“Viviamo in un tetro inferno, dovunque è arrivato il cosiddetto miracolo”: Gadda, la “fottuta villa di campagna” e le staffilate di Guardini
“In un abbandono tra avvelenato e grottesco il gran Carlo Emilio ha profuso i suoi estri, le sue brigliate, filologiche scalmane sulla topografia della più tipica delle villeggiature milanesi; ma altresì ha ‘sfogato’ il suo amore-disgusto per una terra a lui familiare. Resta in queste pagine la formula che Gadda adotta per rappresentare (e ‘punire’) quella Brianza che il progresso e i suoi orridi malgusti hanno stravolta. Resta la vendicativa rivalsa verso un luogo che del resto gremisce di riferimenti tanti altri suoi libri; e che, sollevando una volta la maschera di quel suo risentimento, svela un gemito nostalgico verso la terra che altrove chiamerà ‘la nostra perduta Brianza’. Quella […] mirabilmente celebrata alcune stagioni prima con altri registri nella raccolta Le meraviglie d’Italia”. Così scrive Luigi Santucci nel suo Letteratura e musica in Brianza…
Ai toni encomiastici di questo volume si sostituisce, ne La cognizione del dolore, il romanzo più brianzolo di tutta l’opera gaddiana, seppure ambientato in un Sud America assolutamente surreale, il disgusto per la casa paterna, la quale fu paradossalmente il luogo in cui concepì e scrisse molte delle sue opere, come ricorda un altro lombardo, Alberto Arbasino nel capitolo che in Genius Loci ha dedicato allo scrittore: “L’opus dell’Ingegnere nascerà allora dagli interdetti agonici e dai tabù tetanici delle famiglie appiccicate e recluse che borbottano meccanicamente rosari, al buio per economia e considerano ogni spesa una calamità, ogni scampanellata un annuncio di sventura, ogni viaggio uno sperpero inammissibile, ogni divertimento una vergogna insensata”.
Il quadro delineato da Arbasino è ancora tristemente vero… Ragion per cui il romanziere si sentì sempre alieno a questa terra, infastidito dagli autoctoni e ignorato da tutti, in morte come in vita, e ancora non c’è nessuna iniziativa per ricordarlo, ma soltanto una via a lui intitolata in quel di Rogeno, e ai numeri 7 e 9 una delle ville più antiche della regione, edificata dai marchesi Ripamonti nel XVI secolo, attualmente sotto la tutela istituzionale. Vi trascorreva le vacanze Giuseppe Gadda, politico del XIX secolo che partecipò delle Cinque Giornate di Milano, e fu poi membro del Senato, ministro e prefetto di Roma, nonché zio paterno dello scrittore.
*
Col treno in direzione Asso si fa fermata a Erba, e da qui col bus si giunge a Longone al Segrino, comune in cui si trova la casa dove visse e soffrì Carlo Emilio, oggi ridotta a niente più di un caseggiato dalle forme tipiche degli idioti architetti del Dopoguerra, e dunque spartane, squadrate, spoglie, ineleganti, decisamente brianzole.
Niente a che vedere con la fulgida tradizione locale del Seicento e del Settecento testimoniata tra gli altri dal barocchetto di Villa Lurani Cernuschi, a Cernusco Lombardone, smussato nel XIX secolo ma con giardini in stile italiano, tra gli ultimi rimasti in Brianza, e un viale prospettico con doppio filare di lombardissimi pioppi.
Altro fu il destino di casa Gadda e quindi degli umori dello scrittore, visto che il padre, come recita il frammento Villa in Brianza, “costruì la fottuta casa di campagna di Longone nel 1899-1900 e quella strampalata casa gli rimase appiccicata fino al 1937”, e “fottuta” anche perché dal 1909 ipotecata per rendere la dote alla sorella di primo letto e causa delle solite “stucchevoli tasse da pagare”, finché non se ne disferà subito dopo la morte della madre…
E oggi la villa è due volte “fottuta” perché lottizzata, il tetto rifatto, le grondaie in rame e i campanelli borghesi, del tutto irriconoscibile, distrutta, anonimizzata dall’alto muro di recinzione, il portico e la terrazza murati, cancellate le decorazioni e gli affreschi, tolte persino le travi dai soffitti, le persiane sostituite dalle tipiche tapparelle marroni sempre basse come la vita in Brianza, il parco in parte spianato per farci ovviamente dei posti per le automobili.
*
Già ai tempi di Gadda era ovvio che la vita vi s’insterilisse, anche se l’anno sabbatico che tra il 1928 e il 1929 vi prese per problemi di salute fu quello in cui concepì molti libri, ma non per questo alleviò il suo risentimento, pure contro i servitori della casa, “contadiname”, lo stesso orrido termine che usava Antonio Gramsci, “a cui manteniamo una casa, mentre io devo lavorare come un cane e vivere al quarto piano in una camera fredda”, e contro quel paesaggio suppostamente bucolico pariniano e manzoniano che l’autore de La cognizione del dolore descriveva pieno di rancore “con Resegone sullo sfondo e odor di Lucia Mondella nelle vicinanze”.
La Brianza lo privava della sua vita e fu per lui sempre e soltanto: “Dolore e dolore, dolore sopra dolore”.
Ad amareggiarlo non è semplicemente il luogo della sua infanzia e giovinezza e delle sepolture dei cari che così gli appare, ma anche le dinamiche già in atto.
“Il cemento e la plastica e lo scatolame hanno coperto anche la terra di Lombardia, la verde Lombardia non è più. Viviamo in un tetro inferno, dovunque è arrivato il cosiddetto miracolo”, scrive Gadda.
*
Ed è precisamente ciò che vide Guardini, testimone in altre forme d’egual sentire, interprete delle forme urbanistiche, domestiche, paesaggistiche ed esistenziali, a partire da quel centro di tutto che era il focolare domestico, nel passaggio dal fuoco del camino alla stufa, fino ai moderni riscaldamenti centralizzati, con l’elettricità che ruppe definitivamente il legame tra l’uomo e la natura, decisivo, con la cui scomparsa si passò a una sfera del tutto artificiale.
Scrive nella nona delle sue Lettere che: “La gente qui si compiace del progresso. In verità, esso arreca lavoro e pane e molti che altrimenti sarebbero stati costretti a migrare possono restare in patria.”
Guardini non è cieco, ovviamente riconosce le ragioni di chi non vuol rimanere povero o in alternativa migrare, anche perché sa bene che “la scienza, la tecnica e tutto ciò che da esse deriva sono state rese possibili soltanto per mezzo del Cristianesimo”, che ha prodotto la grande cultura europea.
Ma da fine umanista di cultura cattolica riconosce quella che lo scrittore brianzolo Andrea Sciffo chiama “l’ultima stagione del mondo radicato”, e la mentalità che di fatto muove tale evoluzione non ha più nulla a che vedere col vero Cristianesimo e da umano che era, il paradigma è ora disumano.
“Mi si veniva svelando ciò che è l’Europa, ciò che significa l’appartenenza a un popolo, quella del sangue, ma anche il legame stabilito tra gli uomini dalla fedeltà e dallo spirito […]. Tutto questo però era grande e possente: non era ciò che rendeva triste. La causa della tristezza era questa: io sentivo come tutt’intorno a me fosse cominciato un grande morire […]. Vidi la macchina penetrare in un paese che finora aveva posseduto una cultura. Vidi piombare la morte su una vita di infinita bellezza […]. Quando passai attraverso le valli della Brianza, […] rigogliose, opulente, coltivate con cura diligente, contornate da monti aspri, in forme vigorose e ampie, non volevo credere ai miei occhi. Dappertutto una terra abitata.”
Era una cultura tutta urbana, con una forma d’esistenza nobile per tutti quanti, anche per il popolo, vita spirituale e a un tempo legata alla natura, della quale Guardini vide che l’uomo, e il brianzolo tra i primi nella penisola, sarebbe stato presto privato, che non avrebbe più potuto vivere secondo quello stile, e che si sarebbe estinto.
“La bellezza di queste località è indescrivibile, ma non me ne deriva gioia alcuna. Non comprendo, anzi, come un uomo avveduto possa essere felice, qui”, scrive, avendo visto lo stesso in Germania…
“Tutta quanta la natura lavorata e modellata dall’uomo. Ciò che si chiama cultura nel senso più raffinato, mi si presentava nella forma più armoniosa. […] Una cultura nobilissima e nello stesso tempo così semplice […]. Eredità di formazione millenaria, gli era passata nel sangue e nelle fibre del suo organismo. Una cultura divenuta tale naturalmente, diventata quasi una seconda natura”.
La causa è il cambiamento in atto. E l’impressione non lo abbandona.
La impressioni di Gadda, Corti, Sciffo, le anticipa nella sesta lettera: “Non dall’oggi al domani è sorta la monumentale produzione architettonica […]. Perché un ordine sia accettato e perché non riesca gravoso a colui che riceve, bisogna essere capaci di comandare. Per poter abitare un palazzo è necessario avere nel sangue la signorilità. Come è disgustante il vedere, in una delle nobili ville di questi luoghi […] un qualsiasi Signor X arricchito da poco.”
Ciò di cui Gadda quanto Guardini in fondo aveva nostalgia, era l’ormai antica Herrenhaus, la dimora gentilizia, padronale, signorile, la “Casa del Signore”…
Ma gli toccò d’espiare l’ateismo paterno.
La “fottuta” villa dei figli del Progresso.
Una villa sulla quale l’unica targa adeguata sarebbe questo epitaffio vergato da Gadda: “I discendenti de’ vecchi signori intristirono nelle democratiche giostre”.
Marco Settimini
(fine)
*La prima parte di questo percorso nella Brianza di Gadda la leggete qui.
L'articolo “Viviamo in un tetro inferno, dovunque è arrivato il cosiddetto miracolo”: Gadda, la “fottuta villa di campagna” e le staffilate di Guardini proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2X1w3C2
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dathomiriansoul · 6 years ago
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          ▬▬ ( ❖ ) ▬▬               It was never about what 𝐡𝐞 𝐝𝐢𝐝 to me.       It was about what 𝒉𝒆 𝒕𝒐𝒐𝒌 from me.                 ( . . . ) Scagliò un fendente scarlatto ancora una volta, un ciclo vizioso che si ripeteva fino al suo sfinimento, senza mancare d'un grugnito ricolmo di frustrazione, al termine. Egli non riusciva in alcun modo a definire il tempo, quando era adirato in tale maniera ; non voleva dire per certo che gli stava piacendo —— il suo allenamento diveniva sempre più estenuante, sempre più crudele nei di lui confronti.     "Non ho mai conosciuto pace" ed aveva incanalato tutta la forza fisica nel successivo colpo, roteando lievemente il polso affinché la spada laser potesse colpire dove desiderato, in modo celere. Come lui.     Di Rathtar n'era rimasto solo uno, eppure l'agilità dello Zabrak l'aveva tradito, inghiottito dall'oscurità di quella caverna: ad illuminarlo era solo il bagliore rosso della spada & allo stesso tempo, lo indicava pericolosamente come bersaglio. V'era solo lui, indistinguibile predatore rosso —— abbandonato in una cava pullulante di Rathars ; non era affatto l'allenamento peggiore assegnatogli dal suo maestro. Perfettamente a conoscenza di quale calibro fosse la sua preparazione, quello n'era, ahimè, solo il riscaldamento.
    La sua ira ardeva incessante per molteplici motivi, e non percepiva alcuna necessità nel spegnerla —— perché mai, poi? Feriva in modo esatto & voluto, era attento nelle misure così come rapido. Ce l'aveva col suo maestro perché lo voleva celare in un angolo, usando il preteso di grandi piani per lui ; non poteva usare la Forza, poiché ridotto ad un allenamento da Assassino, non da Sith. Errore di Plagueis, che aveva scoperto della sua esistenza —— l'apprendista segreto che non doveva essere / affatto / destinato ad essere qualcosa di più di un'arma. Un prepotente strumento ai loro fini.     Ritirò una delle lame, avvolgendo in maniera ancor più tenace le dita attorno all'elsa argentea, da cui scaturiva un unico fulgore rosso. Designata per essere bilaterale, la sua spada laser rispondeva alle sue malevole esigenze anche così. Era pronto per farla roteare in aria, usando la Forza.
    Per non inoltrarsi sulle emozioni ; per il maestro erano necessarie solo l'odio, la rabbia, la paura —— non poteva usufruire d'altre, non poteva compiangere l'infanzia mai avuta, ad esempio. Aiutavano a crogiolarsi nel dolore, certo, ma era pur sempre un limite. Ed egli / odiava / avere dei limiti ; precisamente come i suoi movimenti, era svincolato e rapido, sguazzante nella sua libertà di moto. Ancora con il pugno stretto sull'elsa, barava usufruendo della Forza —— alla puntigliosa ricerca della sua preda, solitamente chiassosa. L'echeggiare della caverna non lo aiutava sul fronte uditivo.
    Era un bambino quand'era stato accolto dalle grinfie di Sidous ; ancora grato al maestro per avergli dato una battaglia, un promettente ruolo nei suoi progetti, non si sentiva allo stesso modo verso il suo addestramento. Appenderlo da marmocchio a testa in giù con una tanca di acido a fior di pelle era stato crudele così come molte altre delle sue azioni. Maturando, aveva compreso il suo voler un intrepido & a lui fedele guerriero —— senza che ricevesse aiuto alcuno, affinché eccellesse nella sua indipendenza. Eppure, ciò restava inopportuno & lo faceva ancora adirare. Intanto, aveva trovato il Rathar nella caverna: anch'esso stava cercando la sua preda, che capitava per essere Maul.
    « Trovato. » un flebile sussurro ricolmo di soddisfazione lasciò le sue labbra vermiglie, mentre s'apprestava a scagliare la spada in un movimento rotatorio. La risata del suo maestro non tardò a giungere alle sue orecchie, agghiacciante così come acuta. Si, aveva barato —— ma per la propria sopravvivenza. No, non se ne pentiva affatto & s'aspettava una punizione da un momento all'altro.
Neanche quella tardò ad arrivare, satura d'elettricità.
    Ostinato, aveva cercato di resistere a quel bruciante dolore —— determinato a scagliare l'elsa verso il Rathar, che s'avvicinava pericolosamente. Tra un gemito di sofferenza e l'altro, aveva poi visto la lama cremisi lacerare le fauci dentate della creatura, che cadde innanzi a lui. L'elsa non ritrovò la stretta dello Zabrak e ruzzolò sul suolo, causando suoni metallici.
    Ultimo punto. Desiderava la vendetta per i Sith caduti per mano degli Jedi e neanche quella, / neanche quella / poteva ottenere. Aveva il tetro presentimento d'esser tenuto al guinzaglio come un cane, per poi dover essere liberato dalle sue catene quando una volta accumulate tutte le emozioni negative e portate a livelli ambiziosi. Sarebbe riuscito a divenire Sith, con annesso titolo di Darth —— e la chiave per aprire quella porta era il suo maestro.               ╱ ╱ questo scritto / non / è incentrato su un qualche momento canonico di Maul ; ho mischiato dei dettagli di Legends + è nato da un mio sfogo personale, per cui ci potrebbero essere degli errori. Tuttavia, mi piace pensare che Maul possa essere una mia valvola di sfogo, ogni tanto.
[ pic ▹ Darth Maul: Son of Dathomir comics ]
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catherinea38-blog · 7 years ago
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How To Burn Fat With White Tea
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emme-malcolm · 7 years ago
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Little Woods
19/01/18
Emmeline: In fondo a Little Woods la strada che costeggia la ferrovia e la costa del lago prosegue lasciandosi alle spalle i caseggiati ed addentrandosi in un lato destro che si apre in un insieme a macchie di prato ed alberi, piccoli boschetti sparsi dall’aspetto quasi tetro di notte. La strada bianca lascia lo spazio per poter accostare da un lato e lasciare l’auto per guardare giù verso la ferrovia e al di là di questo paio di binari, il lieve lucore delle lucette gialle che adornano lo scarnissimo Beckers Cottage, un minuscolo campeggio sulla spiaggia con due pontili, uno più defilato davanti al capanno che custodisce probabilmente attrezzature. Qualcuno si è sicuramente lasciato convincere, o più probabilmente ha seguito le indicazioni di una giovane Bowen tutto sommato entusiasta per quella che sembra essere l’ultima scoperta, uno dei luoghi ameni di una città sorprendente, a metà tra il chiasso caratteristico del sud e la tranquillità desolata di altri scenari. Guarda insistentemente fuori dai finestrini mentre infila la mano nella tasca del grosso cardigan cui sembra particolarmente affezionata, ne tira fuori il cellulare attivando la torcia e poi disattivandola, solo una prova. Capelli sparsi sulla lana beige, un paio di jeans, gli stivali verdi, bassi, e qualche altro strato di tessuto sopra al corpo «Guarda!» il braccio destro si allunga e l’indice gli si piazza quasi davanti al viso ad indicare la zona del secondo pontile illuminata fiocamente da quelle lucine a festa, i classici lumini gialli e nulla di più «Sono un paio di settimane che voglio andare lì» nell’abitacolo ha infilato semplicemente l’odore di pulito, forse un vago sentore naturale di vaniglia nei capelli ma nulla di più, nulla di particolarmente marcato, nemmeno sulle labbra o sul viso c’è la minima traccia di trucco, nemmeno il lucidalabbra alla frutta. Pulita. Uno stato reale, fisico, o uno stato ideale. La mano va alla maniglia dello sportello per aprirlo e scivolare fuori «Vieni» e sembrerebbe quasi una di quelle pulsioni da giovane se non fosse che in fin dei conti sanno bene entrambi che la sua mente non vaga a caso tra quelle cose che la circondano, non ne prendono in considerazione una che non sia decisamente fondamentale. Non ha la voce sottile e squillante, non ha i fremiti di un corpo guizzante né gli eccessi d’entusiasmo di una ragazzina ma solo una necessità che preme e la comprime contro pareti che non vuole toccare. Si abbassa comparendo di nuovo nella cornice dei bordi dello sportello, lo guarda mentre i capelli ciondolano scivolando ai lati del viso bianco, non un sorriso è seria ma con lo sguardo diretto e vivido «Cosa voglio?... sembrava così difficile… desidero avvicinarmi alla felicità» e solo ora le narici che si allargano appena accompagnano un piccolo sorriso che tende la bocca e fa sporgere in fuori le punte delle labbra.
Malcolm: Quindi con calma hanno proseguito in macchina fino a Beckers Cottage, spinti oltre i confini di New Orleans. La casa di Malcolm non è più neanche la frontiera. Per il giornalista, dopo una giornata impegnativa che approfondisce segni di stanchezza sul volto e lo rende silenzioso come al solito, c’è una serata differente da trascorrere. Emmeline ha voluto la sua compagnia e lui non si è negato, non si è fatto fiaccare dalla stanchezza, non ha menzionato neanche col linguaggio corporeo la voglia di rilassarsi in casa. L’uomo indossa un cappotto grigio, su un prevedibilissimo completo che oggi conta anche il panciotto, camicia bianca e cravatta amaranto; immancabile la fede al dito e così la borsa da lavoro nera che non lascerà incustodita. Mentre guida e poi parcheggia, gli cade lo sguardo sulla torcia che Emmeline accende dal telefono. <Ne ho una come si deve nel cruscotto, se serve.> commenta, telegrafico ma in maniera pacata. È semplicemente la sua natura schiva e taciturna ad essere in gioco qui; ora è solo e semplicemente questo, un buon uomo burbero. Con un cenno del capo e del mento le indica pure lo sportellino del cruscotto, dove Emmeline potrebbe eventualmente trovare, insieme ad un binocolo e ai pochi documenti riguardanti la macchina, anche una torcia a led, non di grandi dimensioni ma più funzionale di quella di un telefono. Segue il braccio della giovane che indica il campeggio col suo pontile illuminato, la ascolta. Distende appena il volto ed annuisce, godendosi per lo più quel modo di essere della ragazza e come lei, nella sua naturale spontaneità, gli susciti sensazioni positive. Speranza forse, neanche lo sa. Spegne il motore e lei sgattaiola fuori, mentre Malcolm agisce più lentamente, quasi che volesse prendersi dei momenti solo per sé prima di seguirla. <Sì, ora arrivo.> la rassicura comunque, da dentro la macchina. Invece per qualche momento resta a guardare oltre il vetro, nel silenzio dell’abitacolo e di quel luogo, la notte, la sera, quella presenza che riempie ed è davvero. Davvero. Inspira a fondo, con le mani ancora sul volante e solo la cintura slacciata. Non la vede comparire di nuovo al finestrino, solo la voce lo attira quasi di scatto, come se si fosse perso da qualche parte. La guarda, si incontra con lo sguardo serio ma vivo. La ascolta quella frase importante e si trova a ricambiare lievemente un sorriso. Diventa spontaneo ritrovare qualcosa di bello in lei, come fosse una lente che permette ad un cieco di vedere qualcosa del mondo, ad un daltonico un nuovo colore. Piega appena il capo di lato e mormora: <E’ qualcosa Emma.> non è detto che lei riesca a sentirlo però. Pochissimi secondi dopo è fuori dalla macchina, sta chiudendo lo sportello, quindi va rapidamente a prendere la sua borsa da lavoro che non lascerebbe incustodita. Cercherebbe allora di affiancarla, pronto a seguirla.
Emmeline: “E’ qualcosa Emma”… l’orecchio teso verso qualsiasi accenno possa volerle rivolgere non le fa perdere quel breve commento mormorato che finisce col proprio nome, la sua abbreviazione, quello che lei preferisce di gran lunga, o almeno così sembra. «Ho hooooo… sei un ladro Malcolm» non se lo è fatto dire due volte e con l’ironia a tirarle su la punta del naso dritto ha aperto lo sportellino del vano portaoggetti e ci ha rovistato dentro rimanendo sorpresa di quanto la presenza di un binocolo avvalori la sua tesi; si è perfino fatta un risolino adocchiando la vecchia volpe quasi a voler immaginare qualcosa, uno sguardo insolente che sa di supposizione e sospetto. Presa la torcia è perciò sgattaiolata fuori e, sarà l’aria fresca della sera, la sua fretta si fa ancora più pressante, presente. Guizza davanti al muso dell’auto ed attraversa la strada bianca fermandosi qualche istante sul ciglio ad osservare la discesa che porta ai binari e poi all’erba che si tuffa nella sabbia della spiaggia «Perché non l’ho scoperto prima questo posto?» una smorfia mentre si gira una sola volta a controllare cosa stia facendo quel bradipo di Barnes, certo non infastidita dalla sua calma, il loro essere opposti lascia l’idea di una completezza, un tondo che comprende ogni aspetto dell’esistenza, l’insieme di ogni piccolo cambiamento. Gliela osserva nel viso quella differenza e gli sorride più apertamente rispetto all’accenno dalla sfumatura furba che aveva avuto; qualcosa negli occhi balugina perfino alla poca luce che lambisce gli ultimi confini di civiltà verso la campagna. Il sorriso si stringe mentre gli occhi si socchiudono in un’espressione benevola e malinconica. Non aspetta oltre, un paio di passi per lui e lei accende la torcia gettandosi in qualche balzello a scendere «Uuuuh, stavo per scivol…» ha perso l’equilibrio, una volta, si è ripresa ed in quel momento è scivolato anche l’altro piede facendola finire sedere a terra, piantata come una carota, sguardo dritto davanti e viso contratto dalla delusione «Ahio. Siscivola da queste parti, attento» si volta di nuovo e gli punta la luce della torcia dalle parti dei piedi. Ora sarà certo che lo aspetterà, calmando gli spiriti della fretta.
Malcolm: Si trova a sorridere, anche se di poco, alla sua ironia, sollevando un poco la fronte che si evidenzia le rughe e inclinando il capo in un cenno aggraziato. <Sono un giornalista attrezzato.> commenta, sintetico ma pacato, mentre la guarda rovistare dentro il vano portaoggetti dove, manco a dirlo, tutto è comunque ordinato. <Lascia in ordine.> le rammenta, con una fugace punta d’ansia, il tempo di quel piccolo avviso. E resta quindi impassibile allo sguardo più furbesco di Emmeline, ma in maniera cortese, quasi scherzosa a modo suo. Mentre la domanda della giovane rimane senza risposta, Barnes sta facendo quel che deve per raggiungerla, incluso chiudere a chiave l’auto. Nota quello sguardo diverso su quella sua austerità differente rispetto a ciò che mostra al resto del mondo. Nulla lo abbandona mai, non potrebbe, ma a sua volta l’uomo si sente osservato più a fondo. E soprattutto senza pretese. Il tutto in uno scambio di sguardi del tutto silenzioso, timido da parte sua; però sorride un poco pure lui o, per essere più corretti, ha un’espressione più serena sul volto. Di rado la si vede, la tranquillità: è comunque qualcosa che è il caso di vivere senza invaderla di parole, lasciarla essere spontanea così com’è. Con questo barlume di serenità l’uomo si guarda intorno e ovviamente guarda pure Emmeline. Procedono, lei scivola e finisce col sedere per terra. Si affretta l’uomo: <Ehi…> la raggiunge, cerca di afferrarla per un braccio così da aiutarla a tirarsi su. <Già, il terreno è umido e piuttosto argilloso qui.> la informa, prendendo momentaneamente la torcia così da renderle più facile issarsi in piedi. Poi gliela restituirà però, la vede divertirsi con quell’oggetto, quasi come una bambina come un giocattolo. Poco dopo, al termine di un certo silenzio, si ritrova a dire: <Quelle foto di tramonti e le altre più … naturalistiche, le ho scattate qui.> e si intende in questa zona, non qui nel punto specifico. E si intendono, ovviamente, le foto presenti in quella cassetta di legno, miste alle altre. Non gli pare neanche il caso di specificarlo, anche perché è un argomento che fa sparire subito dopo, con una novità, il tutto mentre si suppone procedano verso il pontile con la loro torcia: <Miss McCallister mi ha assunto come giornalista esperto, ieri.> dice tranquillo, in una conversazione sul più e sul meno.
Emmeline: «Aaaauuuuhhh, mi sono rotta il coccige» un’espressione dolente, gli occhi strizzati e la bocca con gli angoli all’ingiù come una maschera del teatro mentre allunga il braccio più per riflesso che per reale presa di coscienza di quel gesto frettoloso in aiuto… uno stupore autentico, una sorpresa stampata nell’azzurro degli occhi illuminato in minuscola parte dalle luci lontane, uno sguardo che è scivolato verso quello di Barnes, con le labbra che si abbandonano l’un l’altra in una muta “o” che sa di quella nuova sensazione talmente forte da togliere il respiro, farla smettere di lagnarsi più per la pessima figura che per il dolore. Le dita gli lasciano la torcia ammorbidendosi contro le sue, forse un indice o un medio si muove appena come a cercare istintivamente il contatto con la mano di Malcolm, forse nemmeno volendolo realmente prendere per sé, la presa sul braccio è sufficiente a farla alzare «Sei un giornalista apprezzato» cambia versione soffiando via un sorrisetto nuovamente furbo, pieno di quell’apprezzamento che ha citato, impossibile da tenersi dentro la bocca che continua a starsene socchiuse, gli occhi fissi sul viso di Barnes, sulle linee che ripassa velocemente ma non per fretta quanto per perfetta conoscenza «E’… è l’erba bagnata mh… grazie, è la prima volta che non mi rialzo da sola» il sorriso congiunge le labbra, un respiro entra forte a riempirle i polmoni e gli occhi si fanno lucidi, vividi ed acquosi, scaldati da quella sensazione che affiora senza filtri… essere se stessa, sentire cose mai sentite, comprendere la gentilezza tinta della dichiarazione d’intenti ascoltata appena il giorno prima. E poi le ciglia calano a nascondere il resto mentre volta solo lo sguardo ad osservare il lembo di sabbia ed acqua «Ci piacciono le stesse cose» sussurra piano prima di abbandonare il ricordo delle fotografie ed il senso delle proprie parole. Riprende la torcia e fa bene attenzione a puntarla dove serve, il braccio che non vuole abbandonare quello di Malcolm continuando a scendere, perfino quando salta sui binari per attraversarli tirandolo appena in quel ritorno di fretta «Oh… e ti ha riempito di soddisfazione la cosa? E’ quello che vuoi?» torna a guardarlo, ora l’erba fa lentamente spazio alla sabbia, i passi affondano e lei si ferma voltando il viso de il corpo verso di lui, le dita che si aprono e si richiudono lentamente sulla manica di cappotto di Barnes acchiappandone il bordo.
Malcolm: <Sì… sicuramente> appunta con vaga ironia alla volta di Emmeline. La rottura del coccige  è la diagnosi più veritiera. È stato abbastanza istintivo nell’affrettarsi ad aiutarla, a risollevarla; insomma è pur sempre un gentiluomo di base. Lo ha fatto quasi senza pensare, ma a fronte della reazione stupita di Emmeline, anche Malcolm viene toccato da quel gesto. Così abbassa lo sguardo, quasi come chi si accorge di aver osato troppo. Sta ancora lì a sorreggerla, intendiamoci, ma lo fa in una maniera più timorosa, serio in volto. La fa rialzare e assorbe in sé quei contatti fisici, con la torcia nell’altra mano. Non vuole dare a vedere quella dose di disagio, l’eco delle sue ossessioni per ora lontane. Oggi pare essere una giornata persino positiva da questo punto di vista. <L’attrezzatura vale di più dell’apprezzamento spesso.> sentenzia laconico ma leggero, non perché voglia sminuire ciò che sente nella voce di Emmeline. Torna a guardarla con quella seria tranquillità in volto, di nuovo recuperata. Annuisce soltanto, taciturno, a quel particolare ringraziamento. In tutto ciò è comunque sempre lui, con la medesima gentilezza nei suoi confronti e volontà di prendersene cura, coi suoi segreti nelle stanze chiuse a chiave, di cui Emmeline ha visitato più che quasi tutte le altre persone nella vita di Malcolm. La ascolta in silenzio, le restituisce la torcia; cammina con cautela e accompagna dal braccio la giovane giornalista. Si gode molto a lungo quei momenti, quella vicinanza che non pretende. L’accettazione, forse, dopo così tanto, è riuscito a trovarla, non in sé stesso ma in qualcun altro per lo meno. E allora pensa e pensa, mentre attraversa i binari e viene tirato un poco, pensa senza manie e paure per una buona volta. Poi di punto in bianco le dice che è stato preso come giornalista. Anche lui torna a guardarla a quelle domande, ma è solo questione di qualche attimo. <Riempirmi di soddisfazione…> ripete lui, pensieroso, poco prima che Emmeline lo fermi quando ormai sono sulla sabbia, prossimi all’attacco del molo. Lo ripete come fosse un concetto piuttosto lontano o comunque estraneo a questo contesto. La osserva prima e un attimo dopo abbassa lo sguardo al contatto di lei sul bordo della manica. Sorride appena, in quel suo modo peculiare, più o meno malinconico. <Sì, è quello che voglio. È quello che sono.> un giornalista, fino alla morte: lo afferma con voce seria e ferma. <Non ti fai vedere in redazione tu> annota, ma in maniera del tutto lieve, tornando a parlare di lei.
Emmeline: Riprendersi la torcia è stata la seconda scusa, ora è chiaro che quel paio di dita siano piuttosto invadenti nel loro scivolare dove non ci sarebbe stato bisogno in un gesto più lento del dovuto, sottolineando la soddisfazione per il possesso di quel giocattolino per la serata la cui luce ciondola tra i loro piedi, zigzagando qui e là senza sosta alla ricerca forse di qualche particolare, qualche dettaglio su cui poter fare supposizioni «L’attrezzatura è di quelle che si troverebbero in qualsiasi negozio di bricolage… gli apprezzamenti non si trovano in vendita e assai spesso nemmeno gratis, certi giornalisti farebbero meglio ad accoglierli a braccia aperte invece di minimizzare come loro solito» una piccola protesta, una correzione che non si fa certo alcun problema a proporre, redarguendo un Barnes più maturo e con più esperienza di lei… ma è già cosa abbastanza rara quell’effetto che le fa, quella limitazione alle parole in favore di una riflessione più attenta e profonda, quella meditazione, quell’attenzione che si sposta totalmente per incontrare le linee del tempo sul suo viso, l’espressione austera che si scioglie in un accenno di tranquillità, un respiro che vale la pena di fare, che vale la pena di spendere, insieme. E’ rimasta in silenzio per un po’, atterrita sulle prime per quella presa di coscienza che gli ha visto in fondo agli occhi, chiari come i suoi, timorosa e poi decisa a prendersi quel che vuole, prendersi quel braccio finendo per infilare le dita dentro al bordo della manica. I respiri sono tornati regolari, il sorriso si china da un lato per sondare la profondità di quella soddisfazione «Riempirti si…» l’attesa è quasi snervante, la curiosità e l’apprensione per quel pensiero e quella sensazione «Oh si… dovrei risorgere da quelle parti?» s’informa alzando il naso «Si sente la mia mancanza o mi stai richiamando all’ordine Malcolm?» un risolino, gli lascia la manica per fare una manciata di passi corricchiando prima di voltarsi con una mezza giravolta «Forza» ricalcando la sua classica incitazione, quella che le ha rivolto da sempre «Corriamo giù per il pontile» si riavvicina per acchiapparne la mano e tirarlo a corricchiare, spargendo nell’aria densa e silenziosa il rumore dei passi sul legno del pontile.
Malcolm: Segretamente, oltre quel suo modo così compassato, misurato, serio, è divertito da come Emmeline si diverta con la torcia, quasi che nella sua mente fosse l’elemento che rende la loro “passeggiata” una vera e propria avventura ricca di mistero. Silenzio da parte sua, riflessione, l’elemento che lo caratterizza; glielo si può vedere addosso, immaginarselo da sempre così, immaginare lui come controparte di qualcosa che lo completava, proprio come ora Emmeline risulta il suo polo opposto ma ben integrato alla persona del giornalista. Sono impressioni, indefinibili per lo più, visioni che si possono cogliere in quel vecchio granito scolpito grezzamente in tratti affilati e spigolosi. Anche lui oracolo che si pronuncia di rado. La ascolta, occhieggia verso di lei, assorbendo ancora ed ancora, con pazienza, quella necessità di contatto fisico manifestata da Emmeline. Talvolta sospira in modo quasi impercettibile. Accoglie anche quella blanda protesta, per una minimizzazione che è perfettamente coerente alla persona del giornalista. È sempre quella natura molto schiva che si manifesta, distanze nei confronti del mondo. Si limita ad abbassare lo sguardo, ripreso dalle parole di Emmeline, e non dice nulla; solo forse un vaghissimo, austero annuire. In corrispondenza di questo, ci sono ondate di quelle sensazioni che la giovane suscita in lui. Talvolta lo spaventano, nel fondo dell’anima, perché le ossessioni, il male, non sono mai davvero assenti, mai. Ma tace tutto questo, forse tace un po’ troppo a lungo ai fini della conversazione, finché non decide di passare ad altro, la questione del giornalismo. Riempirlo di soddisfazione. Nonostante l’attesa, la curiosità e l’apprensione di Emmeline, quell’idea trova solo un blando dondolio del capo, un cenno oltremodo tiepido. A guardare bene è più come se quel riempirsi di soddisfazione fosse, considerato tutto, un sentimento che Malcolm non è in grado di provare o che quanto meno non prova da molto tempo, tanto da dubitare di esserne capace. Per un attimo nei suoi occhi si scatena un grande vuoto, apatico, un’anestesia generale, celata, sfuggente come non mai. È solo un attimo, scompare presto, ma è di quelle strane epifanie così potenti che non è affatto saggio andare ad indagarle senza cautela. Nessuna risposta. Al resto invece ritorna della sua austera gentilezza: <Entrambe le cose.> le risponde placidamente. Si sente la sua mancanza e la sta richiamando all’ordine, per quanto il suo non sia certo un rimprovero o una critica, ma solo un invito da parte di una figura che si propone di guidarla e consigliarla per il suo bene. La vede correre un poco verso il pontile e poi prendergli la mano, tirandoselo dietro, lo invita a condividere quel momento. Sono come luci che covano dentro un cuore oscuro, la sua spontaneità, la sua naturalezza, quella voglia netta di abbracciare la felicità, l’innocenza che in qualche modo si può ancora custodire a quell’età pure nei cambiamenti e negli stravolgimenti. O almeno lei la custodisce. Per un momento la vede così ed è un pensiero che lo trafigge, bene e dolore nello stesso momento, nella stessa misura: è come una figlia, e non così per dire.
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allmadamevrath-blog · 7 years ago
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L'anima. Le rappresentazioni dell'anima. Rendere l'anima a Dio
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L'anima
Le rappresentazioni dell'anima
Rendere l'anima a Dio
Nel meccanismo che è alla base della volontà di rappresentare l'invisibile, accanto ai riferimenti simbolici strutturati in modo tale da assegnare all'anima una configurazione sostanzialmente visibile, troviamo anche la rappresentazione antropomorfa dell'anima.
<<Oltre alle radici etno-culturali e che persiste e si consolida nel tempo, pur in forme figurative dieverse, sono da ricercarsi, con tutta probabilità, in un ordine simboolico allacciato a fantasie archetipiche, sedimentato nel tempo e derivante dalla consapevolezza delle caratteristiche della fisiologia umana e naturale legate alla materializzazione miniaturizzata che caratterizza gli esseri nella loro forma pre e neonatale>>.
Nelle raffigurazioni antropomorfe, l'elemento basilare è determinato dalla miniaturizzazione dell'anima, che, può entrare nel corpo e uscirne; segnala una chiara atemporalità dell'anima, infatti è spesso raffigurata con caratteristiche tali da renderla costantemente <<giovane>>, quasi adolescente. Possiamo ipotizzare che il desiderio di rappresentare l'anima con tratti antropomorfi sia il risultato della nostra necessità di esseri viventi di non farle perdere la connessione con la fisicità e quindi dare un senso di continuità estrinsecandolo attraverso il corpo: il segno dell'umanità. Il ricorso a un fisico giovanile, di fatto era l'espediente più idoneo per contrapporre l'anima e la sua immortalità alla fisicità e ai cambiamenti a cui è invece sottoposto il corpo. Ebbe una notevole influenza l'affermazione di modelli iconografici come la Danza macabra: tema che poneva direttamente in evidenza il paradosso determinato dalla caducità delle cose terrene e dalla deperibilità di un corpo che, senza spirito. non ha alcun valore. La Danza macabra è dominata da una sorta di eterogenea processione di morti, nella quale si pone in rilievo la fisicità del corpo e soprattutto la mortalità, con raffigurazioni che rimandano brutalmente al disfacimento, alla putrefazione, alla distruzione. Uno tra i riferimenti più significativi è costituito dall'affresco dell'Oratorio dei Disciplini a Clusone (Bergamo), dove si trova il Centro Internazionale di Studi sulla Danza Macabra. L'affresco risale al XV secolo ed è una delle poche testimonianze del genere presenti in Italia; altre opere analoghe si trovano a Pinzolo (Trento), nel camposanto di Pisa, in quello di Subiaco e di Palermo. L'esempio più antico che potrebbe essere messo in relazione alla danza macabra, è reperibile nelle decorazioni di alcuni bicchieri in argento ritrovati nella villa di Boscoreale a Pompei; in questi oggetti sono raffigurati alcuni scheletri che suonano strumenti musicali e contrassegnati da un'impostazione tale da ricordare appunto il passo di danza. Il grosso corpus di queste raffigurazioni iniziò comunque ad affermarsi dalla fine del XIV  fino alla fine del XVI secolo; dal Cinquecento la tipologia della danza macabra perse consistenza, sparendo rapidamente dal panorama figurativo occidentale. L'origine del soggetto sarebbe da ricercare nella cultura orientale, in seno alla tradizione buddhista, in cui la rappresentazione dei morti che dialogano con i vivi, si richiama all'episodio di Siddharta che rinuncia ai piaceri della vita dopo aver incontrato un cadavere. Non solo nelle tematiche come la danza macabra, ma il ballo con le sue valenze mistiche ed ermetiche, ben si prestava ad offrire un solido supporto allegorico alla tradizione iconografica medievale, sempre alla ricerca di un apparato simbolico per descrivere il supposto rapporto tra la vita e la morte, tra il presente e il futuro. L'intento di associare
<<all'ammonimento sulla transitorietà e la vanità delle cose terrene la lezione dell'uguuaglianza dinnanzi alla morte, doveva far mettere in prima linea gli uomini come quelli che esercitavano le professioni e godevano delle dignità sociali. La danza macabra non era soltanto una pia esortazione, bensì una satira sociale, e nei versi che l'accompagnano spunta una certa ironia>>.
Per J. Baltrusaits, questo soggetto iconografico appartiene tipologicamente alla cultura tardo-medievale <<accompagnata da visioni di carni decomposte e di scheletri; i ghigni dei teschi e il battere delle ossa lo riempiono di rumore>>. Mentre si registra una certa uniformità tematica relativamente alla danza macabra, è opportuno chiarire che le opinioni degli studiosi che se ne sono occupati sono discordi per quanto riguarda l'etimologia. Mentre gli spagnoli parlano di preferenza di <<danza della morte>>, italiani e francesi utilizzano la terminologia <<danza macabra>>. Alcuni ipotizzano una connessione dell'aggettivo con il nome di San Macario eremita: la cui immagine compare ad esempio nell'affresco pisano del Trionfo della Morte, altri vedono un collegamento con il Secondo Libro dei Maccabei. Un ulteriore ipotesi si riferisce al termine <<maqbara>>, utilizzato dai Mori di Spagna per indicare i cimiteri in cui riposavano i loro morti. Il tema della danza macabra entrò dunque solidamente a far parte della cultura figurativa popolare medievale e tardo-medievale: scheletri e uomini delle più disparate condizioni sociali, che in genere erano caratterizzate con abbigliamento riflettente la condizione sociale, risultano accomunati in un'unica struttura narrativa colma di rimandi simbolici, ma sempre destinata a sottolineare la fragilità dell'uomo e le sue paure davanti all'Eternità. Quello della danza macabra è un messaggio sostanzialmente escatologico, dominato da un forte senso di utopiam alimentata dalla consapevolezza che, la fine sia uguale per tutti.  Si evince quindi; nelle singole rappresentazioni, la presenza di una forte istanza che alla base ha un profondo desiderio di trovare un'etica della morte a cui riferirsi per evitare di cadere nelle spire del pessimismo più devastante. Vivi e morti in una marcia velata di insidie, davano forza a un'oggettiva dimensione della morte, alla sua costante vicinanza ai progetti umani, Ai piedi degli scheletri, ricchi e poveri, papi e imperatori: espressione oggettiva della caducità dei valori terreni e della distruttibilità del potere degli uomini.
Il potere della figurazione sta:
<<fra il ritmo tenuto dai morti e la paralisi dei vivi. La finalità morale sta nel ricordare a un tempo l'incertezza dell'ora della morte e l'uguaglianza degli uomini davanti a lei. Tutte le età e tutte le condizioni sfilano in un ordine che è quello della gerarchia sociale com'era concepita allora. Questo simbolismo della gerarchia oggi, diventa fonte di informazione per lo storico e il sociologo>>.
La beatitudine e la dannazione rintracciabili in tanti cicli medievali, non hanno neppure il diritto della citazione, in quanto lo svolgimento si sviluppa su un altro piano, in cui non è necessaria la rappresentazione del dopo, perché, tempo e spazio sfumano dalla coscienza dell'uomo. Il modello tipologiico della danza macabra può anche essere considerato una variante dei cosìddetti <<trionfi della morte>> dei secoli precedenti: una variante pauperistica della leggende medievale dei tre cavalieri che incontrano tre cadaveri. I morti si rivolgono ai vivi affermando: <<Noi fummo ciò che voi siete, voi siete ciò che noi siamo>>, ponendo così in evidenza la caducità delle cose terrene. Nella leggenda dei tre vivi e dei tre morti, si narra il terrificante incontro di tre spavaldi cavaalieri con tre scheletri che si affacciano alle loro tombe; i cadaveri si rivelano essere quelli dei tre giovani stessi, in una figurazione oltre le barriere del tempo che non può suscitare che angoscia e inquietudine. La Danza macabra dei Santi Innocenti di Parigi è scomparsa nella suaa parte figurativaa nel XVII secolo, ma ci è stata tramandata la parte testuale, pubblicata per la prima volta in un'edizione di Guyot Marchant nel 1485. Nei commenti dei vari personaggi rappresentati, traspaiono elementi piuttosto consueti dell'iconografia dell'oltretomba. Ad esempio un monaco che vorrebbe essere ancora nel chiostro per attendere ai suoi servizi divini, ma soprattutto vorrebbe ancora avere del tempo per poter espiare la sua colpa delle incomplete penitenze. Nella globalità appare chiaro che tutti i personaggi raffigurati si lamentano per l'angoscia provata nel dover seguire la morte che guida le danze e, nel tetro passo che del ballo ha solo il nome, abbandonava l'esistenza terrena. Il papa ha l'onore di iniziare per primo, ma subito si lagna per l'obbligatorietà delle danze; anche il re dichiara la sua inesperienza nei confronti di tale ballo e il menestrello non può fare a meno di confrontare la sua attuale, tragica situazione con le allegre danze in cui in vita era coinvolto. La morte ricorda ad ognuno le sue colpe, gli obblighi non osservati e lo spreco di tempo, ma soprattutto, con clessidra e falce, riafferma il proprio indiscusso potere. Per quanto riguarda invece le danze macabre messe direttamente in scena nello spazio teatrale, si ricorda lo spettacolo popolare fatto allestire a Bruges dal duca di Borgogna nel 1449; in alcuni musei europei si conservano vari costumi utilizzati per le rappresentazioni. A diffondere il tema e la sua visualizzazionde dovettero contribuire soprattutto gli ordini mendicanti, i Francescani e i Domenicani, la cui predicazione raggiungeva ii diversi livelli della stratificazione sociale, ricordando alla gente il ruolo della morte e soprattutto il dramam della dannazione eterna. La morte che in qualsiasi momento poteva presentarsi a ogni uomo, potente o di umile consizione, per accusarlo implacabilmente e trascinarlo con sé, fu quindi il motivo dominante della danza macabra, che nell'arte e decorazione popolare si estese e modificò nelle numerose rappresentazioni pratiche dell'inferno, colme di peccatori di tutte le classi sociali uniti  nel gorgo seza fine del dolore.
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klimt7 · 7 years ago
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Wabi sabi
Estetica 侘 寂 Wabi Sabi
Imparare a vedere l'invisibile
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Wabi-sabi, 侘寂, definisce una percezione estetica, tipicamente giapponese, basata sulla transitorietà delle cose. Tale visione, talvolta descritta come "bellezza imperfetta, impermanente e incompleta" deriva dalla dottrina buddhista dell'anitya.
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Che cosa è wabi sabi? Se ponete questa domanda a un giapponese probabilmente risponderà con un lungo silenzio.
Se invece ponete la stessa domanda a un americano, la risposta spesso sarà rapida e sicura: "Si tratta della bellezza delle cose imperfette!"
Allora perché un giapponese è in dubbio nello spiegarvi cosa sia il "wabi sabi" mentre la stessa risposta sembra facile per un occidentale?
Potrebbe essere la ricerca di una risposta complessivamente diversa?
«Una traduzione», ha scritto Kakuzo Okakura, autore del classico "Il libro del tè", al massimo può essere solo il rovescio di un tessuto di broccato: c'è tutta la trama, ma non la sottigliezza o l'incisivitá del colore o del disegno."
Alcuni esempi illustrano meglio questo concetto giapponese di wabi sabi. Gli occidentali tendono ad associarlo con caratteristiche fisiche come imperfezione, precarietà, rozzezza, età o alterazione ecc. Sebbene possano essere presenti questi contenuti non sono né sufficienti né adeguati per trasmettere l'essenza del concetto.
Wabi sabi non è rigidamente collegato a un elenco di caratteristiche fisiche.
Piuttosto, è una profonda coscienza estetica che trascende l'aspetto materiale .
Può essere sentito, ma raramente verbalizzato e ancor meno definito rigidamente .
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Un tradizionale giardino zen, tipica espressione di wabi sabi
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La definizione di wabi sabi in termini fisici è come spiegare il gusto di un pezzo di cioccolato, a qualcuno che non l'ha mai assaggiato, attraverso la sua forma e il suo colore.
Focalizzandosi sulla fisica, uno è destinato a vedere solo il lato posteriore del broccato, mentre la sua vera bellezza rimane nascosta. Per vedere la sua vera essenza, uno deve guardare al di là dell'apparente, deve guardare all'interno.
"I luoghi del wabi-sabi sono ambienti piccoli, appartati e privati che migliorano la capacità di riflessione metafisica"[ Leonard Koren]
Il termine wabi sabi è derivato
da due caratteri condivisi sia dai giapponesi che dai cinesi.
Originariamente, wabi 侘 significa 'dipendenza' e 寂 sabi significa 'solitudine' o 'distacco'.
Queste sono parole per i sentimenti, non per l'aspetto fisico degli oggetti.
Il termine incarna una raffinata sensibilità estetica che era molto evidente nell'antica arte e letteratura cinese ancor prima che il concetto fosse diventato popolare in Giappone, tramite il Buddhismo Zen e la cerimonia del tè.
Gli asiatici non sono nati con questa sensibilità estetica che si è sviluppata attraverso una lunga esposizione alla letteratura classica, alla calligrafia, alla pittura e soprattutto alla poesia.
Considerate questo famoso poema del VIII secolo, del cinese Cheung Chi (張繼):
"Tramonta la luna, un corvo gracchia, il cielo è pieno di gelo
Aceri dal fiume, luci di pescatori, il viaggiatore deve affrontare un triste sonno. Fuori dalla città di Xuzhou, dal tempio della montagna gelida
Il suono della campana di mezzanotte raggiunge la barca del viaggiatore."
Le immagini di questo tetro paesaggio malinconico visto dal viaggiatore che trascorre una notte solitaria lungo il fiume sono calme e tranquille. Un'atmosfera simile viene descritta nel seguente haiku del poeta giapponese del settecento Yosano Bushon
"Da un tempio di montagna il suono di una campana suonata a mano svanisce nella nebbia"
Poesie come queste evocano una coscienza estetica profondamente personale, un mix agrodolce di solitudine e di serenità, un senso di malinconia, incoraggiato dalla liberazione dall'ostacolo materiale.
Questo è il sentimento del wabi sabi.
Si può sperimentare solo ruotando l'attenzione dall'aspetto esteriore verso l'interno.
Cerca di rappresentare come ci si sente, non solo l'apparenza dell'oggetto.
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Naturalmente, questa coscienza estetica non è riservata agli asiatici.
Basta guardare le fotografie di Walker Evans all'interno di una casa colonica in Alabama, o le immagini di Andre Kertesz con ombre proiettate da sedie vuote, o il cortile centrale della casa di Georgia O'Keeffe ad Abiquiu per riconoscere una consapevolezza estetica simile.
Questi artisti parlano al pubblico attraverso la comprensione reciproca delle loro emozioni private.
Tale collegamento non può essere falso. Un errore comune è credere che un artista possa creare artificialmente una risonanza con il pubblico mediante alcuni segnali visivi. A meno che il lavoro sia un'espressione genuina del sentimento dell'artista, l'effetto visualizzato sarà solamente quello di un'immagine priva di sentimento.
Wabi sabi non è uno stile definito dall'aspetto superficiale. È un ideale estetico, uno stato tranquillo e sensibile della mente, raggiungibile imparando a vedere l'invisibile, eliminando tutto ciò che non è necessario.
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