#terrainnamorata
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Betania /III
Mancavano pochi giorni alla Pasqua. Sei. Serviva una sosta prima di riprendere il viaggio, l’ultimo. Serviva lo slancio per compiere il passo definitivo, l’ultima spinta di un travaglio per manifestare il volto al mondo.
Gesù tornò a solcare strade note, a tracciare orme sulle strade polverose di Betania. Il villaggio lo accolse ancora una volta con le case ormai amiche e custodì il suo riposo con la pace della sera. Si diede una cena in suo onore, di nuovo, tra quelle mura così familiari. Si respirava sempre una gioia frizzante, eppure quella sera un latente senso di precarietà velava il cuore dei suoi ospiti, ma ciascuno si taceva quell’angoscia nella contentezza di averLo lì di nuovo.
Lazzaro viveva sospeso nel miracolo da giorni: lottava di continuo per cancellare i segni della morte da ciò che lo circondava, immensamente grato per la vita restituita, certo dell’amore dell’Amico, dal quale - era sicuro - sarebbero venute grandi cose. Tuttavia, a tratti lo spaventava la gratuità di ciò che aveva ricevuto; sentiva di essere indegno di un dono così grande, avvertiva la responsabilità di non sprecare nemmeno un istante di quella vita nuova. Sentiva di essere quasi atterrito da un Amore talmente grande da essere difficilmente pensabile da mente umana. Quella sera, alla mensa, occupava lo stesso posto di mesi prima, eppure, anche a guardarlo, non si sarebbe detto la stessa persona: il suo volto pendeva letteralmente dalle labbra di Gesù, si cibava più di ogni Sua parola che del pane sulla tavola.
Marta aveva scoperto il piacere dolce di lasciarsi andare, fermare le mani e alzare lo sguardo. Si era lentamente abbandonata, lasciandosi cullare dalla grazia che le fioriva attorno. E aveva scoperto che quanto meno si curava che qualcosa riuscisse alla perfezione, tanto più le veniva donato. Sembrava talmente straordinario da farle venire da ridere all’improvviso. Rideva, rideva, in una primavera infinita. "Sei più bella, quando sorridi". Ma quella sera non c’era solo la necessità di servire l’Ospite al meglio ad annebbiarle il sorriso; si sentiva come se gli stesse servendo il suo cibo per l’ultima volta. Temeva che da un momento all’altro Lui si alzasse, salutasse e se ne andasse per sempre, portando con sé la Luce che da mesi abitava quella casa e lei. Era un pensiero che faceva troppo male, e lo soffocava curandosi della mensa quasi con la stessa acribia di una volta.
Maria sedeva piccola piccola ai piedi di Gesù. Gli si era fatta ancora più vicina; le sue ginocchia toccavano i talloni polverosi di Lui. Aveva ormai annullato ogni distanza: raccoglieva ogni sua parola con gli occhi, le orecchie e la bocca, quasi fossero le cose che Lui andava dicendo l’unico nutrimento di cui aveva bisogno; non si curò affatto della cena. Il cuore di lei batteva all’unisono con quello di Gesù, ne percepiva la fatica del viaggio, la serenità di essere giunto in un luogo amico, il conforto della mensa al quale piano piano si abbandonava, il fervore nel poter condividere con i commensali il suo discorso. Fu forse per questo che solo Maria seppe interpretare il sentimento che pian piano la invadeva; anch’ella avvertiva, come i fratelli, una strana precarietà, la sensazione che quella vicinanza, quel colloquio intimo di anime fosse un dono concesso ancora per poco. Non se lo spiegava, inizialmente, aveva timore, ma poi, in un attimo in cui Lui fece silenzio, alzò lo sguardo sulla tavola: Lazzaro e gli altri ridevano, anche sua sorella Marta aveva allentato momentaneamente il ritmo, eppure Gesù taceva al suo posto; improvvisamente le parve molto solo. In quel frangente colse nel suo sguardo l’angoscia.
Maria sospese quel momento, lo prolungò fino a renderlo eterno, dilatò il suo respiro fino ad uno spazio senza tempo, un attimo senza fine in uno spazio perpetuo. Non poteva credere a ciò che leggeva negli occhi di Lui: una muta richiesta di aiuto, un silenzioso addio alle pareti di quella casa così familiare, tanta paura. Questo la sconvolse più di tutto: anche Lui aveva paura, e ciò che temeva era morire.
Ma come?! Lui, Lui che qualche settimana prima aveva dimostrato loro proprio l’opposto, che la morte si vince, e la prova vivente stava con lei tutti i giorni, in quel fratello perduto e poi ritrovato proprio quando il puzzo di cadavere già le invadeva le narici. Dio solo sapeva ciò che aveva provato nel momento in cui l’aveva visto uscire dal sepolcro… Dio lo sapeva, e anche Gesù, ne era certa. Guardando Lui, ascoltandolo, lasciandosi guidare dai suoi insegnamenti si era convinta che agli uomini fosse concesso un di più di vita che non trovava altro modo di definire se non ritenendolo divino. E ora nei suoi occhi trovava riflessi i suoi stessi timori di un tempo, ed ebbe la certezza che la paura della morte segnava un evento imminente, quasi una certezza inevitabile, alla quale Lui non voleva sottrarsi. Le mancò la terra sotto i piedi.
Tutto questo accadde in un istante; poi Gesù tornò a rivolgersi alla tavola, unendosi ai sorrisi dell’ospite e dei compagni. Ma per Maria fu impossibile lasciare che tutto tornasse come prima. Quell’Uomo le aveva dato troppa vita perché lei lo abbandonasse in quell’angoscia e non provasse anche solo a restituire una millesima parte dell’amore con cui la aveva avvolta. Seppe, nella precisa consapevolezza di un baleno, cosa doveva fare.
S’alzò, nell’impeto rovesciò una coppa colma di vino sulla tovaglia di lino bianco; la macchia si allargava rossa sulla stoffa, ma lei non se ne curò. Corse nella stanza accanto, il cuore che batteva forte come quello di chi sta per recuperare un tesoro. Lo trovò il suo tesoro: una libbra d’olio di puro nardo, procurato nei giorni della morte di Lazzaro, con l’intenzione di onorarne la sepoltura, ma poi mai impiegato perché non ce ne era stato il tempo. Sentì chiaramente che quell’olio non era destinato ad altri che a Lui, a Gesù.
Tornò nella stanza dove si cenava, gli occhi di tutti fissi su di lei, nessuno in grado di spiegarsi cosa le fosse preso, quale fosse il motivo di quella grande incomprensibile agitazione. Ma Maria non aveva attenzioni per nessuno, il suo sguardo era fermo su quei piedi che avevano catturato l’attenzione di sua sorella Marta per prima. Piedi sporchi di terra, segnati dai graffi delle pietre, consumati dalle miglia percorse. Piedi di viaggiatore.
Di nuovo, vi si inginocchiò davanti. Sentì alle spalle il peso di una curiosità crescente, quasi ostile, una sopportazione quasi al limite per il suo comportamento strano. Sguardi pesanti, tutti eccetto uno, colmo di una tenerezza smisurata, già consapevole di ciò che stava per fare, grato. Le donò il coraggio che mancava.
Versò l’olio su quei piedi stanchi, l’olio scendeva e si mischiava alle lacrime che non era stata capace di contenere, sopraffatta dalla grande emozione. L’olio scorreva già in abbondanza, ma lei seguitava a versare; versava e versava, senza misura.
Un rivolo toccò terra passando dai talloni, un altro percorrendo le fessure tra le dita. L’olio cadeva una goccia dopo l’altra, tintinnando sul pavimento duro, Maria non si fermò di fronte ai piedi del tutto ricoperti, ma continuò a versare fino a quando fu tutto consumato. Nella casa si sparse un profumo fortissimo, penetrante, che impregnò tutti e ogni cosa.
A quel punto Maria si chinò ancora di più sui piedi unti e con dedizione assoluta li asciugò con i suoi capelli, fino a che anche l’ultima goccia non fosse assorbita. Non era un rito di sepoltura, era un atto intriso di amore, un gesto di addio compiuto con la più grande tenerezza.
Maria aveva il volto rigato dalle lacrime, ma sorrideva. Lazzaro le guardava le mani e ne avvertiva le carezze che avevano provato a lenire anche la sua, di morte. Marta fissava la sorella, così piccola eppure in quel momento così grande, che con assoluta semplicità le spiegava ciò che in mesi non era stata in grado di comprendere. Gesù solo comprendeva del tutto ciò che era avvenuto.
Vi fu chi gridò allo scandalo, chi si indignò per lo spreco, chi protestò per il denaro sperperato. Ma neanche una goccia dell’olio versato andò perduta. Assurdo paradosso dell’Amore: abbondante fin quasi allo spreco, eppure mai sufficiente. L’amore non quantifica né il troppo né il troppo poco, l’amore punta all’esagerazione.
Maria raccolse i suoi capelli e si trasse in un angolo; nessuno si curava più di lei, ma il profumo le stava forte tutto intorno. Profumo forte, eppure inutile; olio prezioso, eppure, secondo i più, sprecato. Tremava, come quando si prova il brivido dell’andare oltre.
L’oltre è un ex-cesso, uno squilibrio dall’umano al divino, un dare a perdere. Amore gratuito, molto amore. Magis.
Da: "Betania"
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Betania /I
I piedi sporchi di viaggiatore. La prima immagine che Marta vide di lui fu questa: piedi sporchi di terra di chi ha alle spalle un lungo cammino. Erano piedi che si muovevano sicuri, con passo fermo e deciso, andavano a ritmo sostenuto verso una direzione a lui indubbiamente ben chiara; certo non doveva essere così per coloro che lo seguivano, i cui piedi incespicavano nella fretta di tenere dietro al suo passo, troppo audaci per l’entusiasmo o troppo timidi nell’incertezza. Eppure alle sue orme si mescolavano quelle di tanti altri, convinti - lei stessa non sapeva ancora bene da cosa - a lasciarsi condurre da lui per le strade polverose di quella terra.
Marta era molto curiosa; tanti parlavano di lui e anche tra lei e i suoi fratelli spesso si raccontavano notizie raccolte qua e là nel villaggio, desiderosi di conoscere qualcosa di più di quell’uomo che già pareva straordinario a tanti. Così, quando seppe che sarebbe passato per Betania, non ebbe dubbi: lo avrebbe ospitato in casa sua.
Nella casa aleggiava una strana euforia, la stessa che si respira nei giorni di festa, nei quali, si sa, ci si aspetta che accadano cose importanti, e nei quali preparare la mensa ha un altro valore: la cura osservata nel cucinare ogni vivanda e nell’allestire la tavola diventa segno tangibile di quanto l’ospite sia importante, di quanto valore si attribuisce a quella comunione. Tali pensieri riempivano il cuore di Marta, un cuore reso leggero dall’attesa dell’Invitato, al punto che quella mattina cantava, mentre lavorava, e si inebriava del profumo del pane che cuoceva, come se già stesse gustandone il sapore. E quando il sole stava a picco nel cielo azzurro e l’orizzonte tremolava nella canicola del mezzogiorno, giunse il fratello di corsa ad annunciarle che arrivavano, di venire a vedere; e lei, svelta, nel pulirsi le mani dalla farina, corse fuori a sua volta, quasi con il fiato sospeso: eccolo, finalmente, il volto un po’ accaldato ma con un sorriso talmente bello e raggiante da far pensare che anche lui non stesse aspettando altro che essere lì tra loro. E allora quei piedi così segnati dalla terra della strada rallentarono un poco il passo, mentre le braccia si spalancavano in un abbraccio, quasi che fosse lui ad accogliere loro e non il contrario.
Entrarono nella casa e solo allora, quando lui fu dentro, circondato dai suoi, le parve che la stanza fosse piena, come se prima fosse sempre mancato qualcosa, come se l’unico scopo per cui essa era stata creata fosse accogliere l’Ospite, e quell’ospite era lui. I viaggiatori sedettero in cerchio e tra loro stavano anche i fratelli di Marta. Gli altri chiacchieravano animatamente del cammino, lui invece taceva; volgeva intorno lo sguardo, come a volersi imprimere ogni cosa negli occhi, o forse, meglio, per lasciare un’impronta di sé in ogni luogo della cosa, un segno invisibile, ma concreto della sua presenza che restasse per sempre. E intanto cercava il volto di ciascuno, sostenendone lo sguardo senza timore, ma anzi andando attraverso gli occhi a carezzare ogni cuore, come se già sapesse di cosa ciascuno aveva bisogno.
Un paio di volte i suoi occhi si posarono su Marta, ma sempre la sorprese di spalle, intenta nelle faccende di servizio per il pasto. E lei, d’altra parte, avvertì una leggera insistenza sulla schiena, ma in cuor suo si era detta che ci sarebbe stato tempo, dopo, per fermarsi ad ascoltare, che in quel momento urgeva celebrare il suo ospite con quanto di meglio la sua casa poteva offrire.
Le sue mani agivano veloci, eppure non le sembrava di fare abbastanza; scattava, svelta, da una parte all’altra della stanza, si muoveva agile tra i commensali, nella mente scorreva rapido l’elenco delle cose da fare e insieme la somma delle attenzioni necessarie perché ogni cosa fosse perfetta. Percepì appena il silenzio che era calato nella casa e il suono della voce di lui, così calda, sicura, eppure così tenera, che si levava iniziando a parlare. Scoprì, invece, che l’euforia del mattino pareva scemata, e al suo posto era subentrato l’affanno. Toccava a lei provvedere a tutto e in quel momento si rese conto che la sorella, Maria, non era affatto corsa in suo aiuto.
Si voltò, indispettita: Maria sedeva là, in mezzo agli altri, ma non come gli uomini, disposti tutti intorno. Sedeva proprio nel mezzo, ai piedi di Gesù che parlava, e sembrava berne ogni parola, come se nient’altro contasse e il tempo intorno a lei fosse sospeso. Lo sguardo di Maria era fisso nel volto di lui, e pareva rifletterne la stessa luce.
Marta fu colta da un sentimento inaspettato, che si fece largo nel suo cuore sorprendendo lei stessa per prima: invidia. Perché a Maria era concesso sedere là senza fare niente? Che valore poteva avere per loro quel giorno, quel pranzo offerto, se ciò che si doveva fare non riusciva perfetto? Perché sua non veniva ad aiutarla?
Quasi inavvertitamente si era avvicinata ai suoi ospiti e senza volerlo davvero sbottò:
“Signore, non t’importa che mia sorella mi abbia lasciata da sola a servire?”
Lo disse, e, quando tutti si voltarono fissandola, subito si rese conto di aver interrotto Gesù che parlava. Arrossì violentemente e abbassò lo sguardo; nel cuore però non era del tutto pentita, sperava che Maria avrebbe capito quanto soffriva.
Stava quasi per tornare alle sue faccende, quando percepì di nuovo quell’insistenza, qualcosa che l’attraeva con forza e insieme con dolcezza, come un bene irresistibile. Lo sguardo di lui era fermo su di lei e, silenziosamente, la chiamava. Piano, Marta alzò il capo e trovò ad accoglierla il volto sorridente di Gesù:
“Marta, Marta, tu ti preoccupi e agiti per molte cose; una cosa sola è necessaria”
Fu, quasi, una rivelazione, come se solo in quel momento lei si fosse resa conto che l’Ospite era entrato in casa. Si rese conto che, fatta eccezione per il primo momento, il suo sguardo era stato rivolto verso il basso, concentrato sulle sue mani impegnate a fare. Neppure nel disporre le vivande sulla tavola aveva incrociato gli occhi di chi le stava intorno, porgendo insieme al cibo anche un sorriso. Si vergognò un poco: dacché voleva servire nel modo più perfetto, aveva poi scordato di offrire la pietanza migliore, la compagnia.
Ma se in altri momenti la reazione più istintiva sarebbe stata quella di scappare, il sorriso che lui le rivolgeva la spinse a restare; e anzi, smise di evitare il suo sguardo che le chiedeva di sostare. In quegli occhi lesse una carezza amorevole, un segno di tenerezza inaudita che la spingeva a ripartire da quel suo errore, a ricalibrare le sue prospettive, tanto da sentire la voglia, dal profondo del cuore e giù fino ai piedi, di incamminarsi con loro per le strade polverose, alla ricerca di quell’Oltre che quello sguardo offriva.
Maria le sorrise, indicandole lo spazio accanto a sé. Maria sedette – finalmente- anche lei ai piedi del Maestro.
“Una cosa sola è necessaria”.
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Betania /II
A quel pranzo ne seguirono molti altri: Gesù sapeva che Betania era ‘casa’, e i tre fratelli non mancavano ogni volta di coltivare il desiderio che Lui tornasse. Ad ogni incontro era come se insieme stessero compiendo un percorso incredibile: lui parlava ed essi sentivano un entusiasmo crescente, una gioia incontenibile che sprizzava da quel ‘di più’ di vita che lui pareva instillare in loro. Era come se pian piano li stesse trasformando, rivelando la loro parte migliore, risorse inimmaginabili che loro stessi non sapevano di avere, tanto che molti altri del villaggio e della regione, attirati da quel cambiamento, cominciarono a frequentare la loro casa.
Lazzaro un giorno si ammalò. La casa fu come sferzata da una raffica di vento violentissimo, eppure tutti coloro che vi si recavano in visita ne percepivano l’atmosfera profondamente impregnata di speranza, come se le sorelle non si rassegnassero al progressivo declino del malato – che a molti pareva invece evidentissimo – e avessero la certezza che gli eventi avrebbero mutato il loro corso. Fra le tante visite ricevute, una ancora mancava, ed erano certe che se Lui fosse arrivato per tempo, certamente il fratello avrebbe ritrovato quella vita che la malattia pian piano gli stava prosciugando.
Vi fu dunque chi venne da Gesù portando notizie da Betania: “Signore, colui che tu ami è ammalato”.
Non si capì, però, quanto e se ne restò turbato, perché si ritirò in solitudine e per i due giorni successivi decise di rimanere lì dove si trovava. Nessuno sapeva cosa avrebbe deciso di fare, nessuno sapeva perché non era ancora partito per Betania, per far fronte a quella che – secondo chi da Betania era passato – era una lotta contro il tempo.
Fino a che decise che era giunto il momento opportuno per mettersi in cammino. Con gravità disse: “Il nostro amico Lazzaro dorme, ma vado a svegliarlo”. I suoi non capirono cosa intendesse, e difatti gli risposero: “Signore, se dorme guarirà”.
A quel punto Gesù spiegò loro che Lazzaro era morto e disse di essere contento che non si fossero trovati a Betania, così che tutti loro potessero credere. Tutti erano stupiti che lui, che aveva amato a tal punto Lazzaro e le sue sorelle, comunicasse loro la sua morte con animo imperturbabile, che non avesse mostrato dolore o rimpianto per non aver accompagnato l’amico nell’ultima sua ora, che non avesse versato una lacrima. Ma vi era qualcosa nel suo sguardo che portava lontano da lì, come se già vedesse qualcosa che loro ancora non potevano capire. Per questo, forse perché intuivano che qualcosa di straordinario e insondabile guidava le azioni di Gesù, o forse perché semplicemente non erano in grado di sottrarsi al magnetismo che emanava dalla sua persona, dalle sue parole, ancora una volta lo seguirono, fiduciosi.
L’arrivo a Betania fu molto diverso dalle volte precedenti, l’atmosfera alquanto mutata: se prima il sole accompagnava la gioia dell’incontro, ora la calura opprimente del giorno pareva una cappa densa di silenzio e dolore. Seppero, ancora sulla strada, che il morto era nel sepolcro già da quattro giorni. Ancora una volta, mentre i discepoli, turbati, spiavano di sottecchi il volto di Gesù per scorgerne un segno di dolore, lui mantenne un volto serio, ma calmo, procedendo con il solito passo fermo e deciso.
Alla soglia del villaggio, già si intravedeva la casa di Marta e Maria, un viavai di persone che entravano e uscivano. Una figura si fece sempre più nitida: Marta.
Qualcuno di quelli che visitavano la sua casa in quei giorni di grande dolore si era accostato a lei e alla sorella dicendo semplicemente “Sta arrivando”; era bastato questo, ed entrambe avevano immediatamente capito. Il cuore, come sempre in subbuglio, entrambe avevano incrociato gli sguardi e si erano scambiate un sorriso timido. La gioia, ormai consueta, ma sempre nuova, per l’arrivo di colui che nei mesi precedenti più le aveva fatte sentire vive aveva però poi subito l’attacco prepotente del dolore per la morte del fratello amatissimo, un dolore violentissimo, come una pugnalata in pieno petto. Maria aveva chinato nuovamente la testa, tornando a meditare tra sé e cercando di fare ordine tra le emozioni del suo cuore; Marta, più irruente, era invece corsa fuori, certa che lui le avrebbe chiarito ogni cosa. Lo aveva visto – come la prima volta – arrivare per la stessa strada, ugualmente circondato dai discepoli, ugualmente segnato dal viaggio: lui identico, forse, lei profondamente cambiata.
Non poté, nella sua schiettezza, non dirgli: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto”; aveva attinto ad una fonte a tal punto inesauribile di vita da quando si era lasciata condurre dalla sua parola, da non poter non credere che la sua presenza avrebbe sconfitto qualunque cosa, anche una malattia così tremenda e mortifera come quella del fratello; Lui avrebbe potuto portare la vita anche là dove tutti avevano visto solamente morte. Ma era arrivato tardi, ormai. Eppure, al vederlo davanti a lei con il suo viso calmo, con le braccia spalancate per accogliere lei con tutto il suo dolore, non poteva rassegnarsi al fatto che tutto fosse finito. Intuiva che se Lui stava lì davanti a lei, in quel dolore così assurdo, qualcosa di straordinario sarebbe accaduto. La natura dei suoi pensieri era insondabile a lei stessa, eppure questa sensazione di fiducia sconfinata si radicò nel suo cuore come una speranza certa. Fu questo moto del cuore a farle aggiungere: “Ma so che anche ora, qualunque cosa chiederai a Dio, Dio te la concederà”; lo disse tutto in un fiato, accorgendosi solamente dopo di quanta fede era emersa dalle sue parole.
Ma quando Gesù le rispose, capì che ancora una volta la stava mettendo alla prova, tenendola per mano e condurla oltre: “Tuo fratello risorgerà”. Lei lo sapeva, sapeva che alla fine dei tempi sarebbe risorto anche lui, come tutti. Gesù invece le rivolse parole che, pur nella loro semplicità, restavano insondabili a mente umana: “Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se morto, vivrà. Chiunque vive e crede in me non morirà in eterno. Credi tu questo?”
Eccome, se ci credeva! Come poteva non crederlo dopo aver sperimentato lei stessa la potenza della vita che aveva cominciato a fluire da e in lei a partire dal momento in cui aveva concesso a Lui di trasformarla? Un’illuminazione, il lampo di un attimo, le attraversò la mente: quest’uomo è Dio, davanti a me ho Qualcuno davvero capace di vincere la morte. Un attimo di vividissima chiarezza; la speranza rifiorì rigogliosa nel cuore, e le fece muovere passi affrettati verso casa.
“Maria, destati, forza! Il Maestro è qui e ti chiama”. Bastarono poche parole della sorella a riscuotere Maria dal suo torpore, un misto di dolore e tenace volontà di non arrendersi ad esso. Stava rannicchiata sul pavimento, quasi nello stesso punto dove si trovava la prima volta che Lui aveva pranzato da loro, teneva la testa china sulle ginocchia, sembrava voler tenere tutto dentro di sé, non voleva lasciar straripare dal cuore stracolmo nulla del terremoto di emozioni che andava provando. Ma quando Marta le disse che la stava chiamando, improvvisamente si riannodò il filo: la parola di Lui pronta a sciogliere la matassa delle sue incertezze, a tessere con lei qualcosa di meraviglioso per la sua vita.
Si alzò e corse fuori. Una sola urgenza la guidava: tornare a gettarsi ai suoi piedi. Lo vide fermo alla soglia del villaggio; la attendeva. E là gli si prostrò davanti rinnovando, fra le lacrime, il rimprovero della sorella, lei pure convinta che la presenza di lui sarebbe servita a risparmiare la morte al fratello.
Solamente allora un fremito di turbamento – riflesso esteriore di un moto del cuore - attraversò anche il volto di Gesù. Chiese di essere condotto dove Lazzaro era deposto.
Lì cadde in ginocchio e pianse. Umanamente, divinamente, pianse.
Quel pianto, le lacrime di Lui che si era fino a quel momento mostrato così estraneo a quel dolore così tipicamente umano, e che pareva non riguardarlo, tanto che agli occhi di tutti sembrava rapito in una sorta di aura di alterità, fu come la rottura dell’argine di un fiume; fu il cedimento di una diga sotto il peso dell’acqua, libera di fluire e straripare. Straripò anche il dolore, dal cuore di Gesù, dai cuori di Marta, Maria e degli altri, sconvolti al veder piangere anche Colui al quale avevano attribuito una qualche inspiegabile superiorità alla morte, commossi dal profondo amore che quelle lacrime rivelavano.
Proprio per questo, però, la maldicenza di alcuni rincarò l’accusa: perché allora, se tanto l’amava, non era accorso, salvando Lazzaro così come aveva guarito il cieco?
Gesù avanzò verso il sepolcro, senza rispondere e senza fornire giustificazioni al suo agire. Alla vista della pietra, chiese che fosse rimossa. Il “togliete la pietra” – ordine fermo, ma non arrogante – risuonò nel silenzio; subito si levò un mormorio sconcertato, dal quale emerse la protesta di Marta, solerte nel ricordare che oramai, a quattro giorni dalla sepoltura, il cadavere emanava già cattivo odore. Parlò spingendosi in avanti, accanto a Gesù, seguita da Maria. Egli, però, la rimproverò, esortandola a credere.
E mentre la pietra rotolava via dalla bocca del sepolcro e Gesù volgeva lo sguardo al cielo, in preghiera, nel cuore delle due sorelle tornarono a risuonare le parole da poco pronunciate. Togliete la pietra. No, non si trattava di levare quella che ostruiva la tomba. Per Marta, quelle parole si legarono alle altre che le avevano impedito, ancora una volta, di riportare tutto sotto il suo controllo; di nuovo, un invito a non affannarsi a dare un senso al seguito degli eventi, ma semplicemente ad affidarsi. Un invito a non impedire, seppellendolo, il fluire della vita, inarrestabile, come il vento.
Affidamento. Gesù già ringraziava il Padre per avergli dato ascolto, certo di essere esaudito; “sapevo che tu mi ascolti sempre”.
Marta e Maria avvertirono che tutto tornava a riconnettersi: la vita tornava a crescere dal dentro. Si presero per mano, come se cercassero conferma l’una nell’altra di ciò che le stava scuotendo nel profondo. In quel momento, udirono Gesù che gridò: “Lazzaro, vieni fuori!”.
Tutto si sospese in un istante. Le orecchie di Marta e Maria ronzavano, la vista si fece acuta per cogliere ogni dettaglio della scena, la terra parve mancare sotto i piedi; costante restò solo quella rinnovata fiducia, fuoco ravvivato sotto la cenere.
Furono pochi secondi percepiti come infiniti, il nero del sepolcro restava immobile. Ma poi si colorò di bianco, e Lazzaro venne, vivo.
Da: Betania (terra innamorata)
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mezzogiorno
È mezzogiorno, l’ora del sole più alto. Prendo la brocca per andare al pozzo, profittando del caldo torrido per recarmici senza essere vista da nessuno. Apro la porta e il calore del sole che batte e quello che sale dalla terra mi investono: sarà faticoso, ma ho bisogno di quest’acqua.
M’incammino fra le strade deserte; la canicola del mezzogiorno fa tremare l’aria all’orizzonte e solo qualche cane osa – come me – sfidare il caldo alla ricerca di chissà quali avanzi di cibo.
Arrivo al limitare del villaggio, dove si trova il pozzo; sono così intenta a pensare alle cose della mia vita, ai mormorii su di me che ormai mi sembrano essere suscitati dalle stesse case del paese (sono gli stessi mormorii che ormai mi hanno costretta a nascondere la mia vergogna sotto una coltre di solitudine e durezza), che mi accorgo solo troppo tardi che proprio là dove devo andare siede un uomo. Mi fermo, esitante. Lui alza lo sguardo e lo posa su di me: è troppo tardi per tornare indietro. Lotto dentro di me con il desiderio di fuggire; eppure ho bisogno di quell’acqua, e tornare dopo sarebbe pure peggio, potrebbe esserci molta più gente, al pozzo. E non posso nemmeno fare a meno di notare che, stranamente, quegli occhi sembrano quasi attendermi.
Mi avvicino e riconosco di avere davanti un giudeo. I sandali e i piedi sporchi di terra polverosa mi suggeriscono che sia un viandante che per qualche motivo ha scelto di percorrere la strada che attraversa la terra disprezzata di noi impuri samaritani.
Che stesse cercando proprio me? Ma no, che dici, impossibile.
Eppure mi chiede: “Dammi da bere”. Non è una domanda, è una richiesta, un ordine quasi perentorio al quale però, anche volendo, non mi sentirei mai di non rispondere.
Ma come, lui, giudeo, chiede a me, misera samaritana di dargli da bere?
Mi accorgo di aver pensato ad alta voce. L’uomo mi risponde qualcosa che faccio davvero fatica a comprendere:
“Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che di dice “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva”.
Mi offre dell’acqua e non ha nulla con cui attingerla? E perché lui ha chiesto prima a me di dargli da bere? Forse perché sapeva che, misera come sono, l’unica cosa che posso ancora dare è solo un poco di acqua? È come se lo sapesse, che la mia vita ormai è soltanto questo: attingere acqua ad un pozzo deserto…
Ma che differenza c’è tra l’acqua del pozzo – che lui mi ha chiesto – e quella che lui sta offrendo a me? Che io stia parlando con qualcuno di grande?
“Chiunque beva di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”.
Dammene di quest’acqua! Sento scattare qualcosa dentro di me, qualcosa che m’intriga e che mi fa sentire come se ci fosse una nuova possibilità anche per me, che ho fatto della continua ricerca di novità il senso della mia vita fino a perdere completamente la voglia di cercare qualcosa di più di un semplice appagamento passeggero.
“Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui”.
Tentenno; ecco perché non volevo incontrare nessuno al pozzo, per evitare di sottopormi per l’ennesima volta alla tortura di sentir giudicare la mia vita. Eppure, a differenza di tutte le innumerevoli altre occasioni, l’assenza di giudizio nei suoi occhi e un’inspiegabile sensazione di trovarmi di fronte a qualcuno profondamente radicato nella verità mi fanno cacciare indietro la voglia di scappare e mi spingono ad ammettere con estrema sincerità: “Io non ho marito”.
Ed è così che, sempre più disarmata e messa a nudo da questo incontro inaspettato, mi trovo a farmi raccontare la mia vita da uno sconosciuto. Dev’essere un profeta, altrimenti non potrebbe dirmi tutte queste cose!
Cominciamo a dialogare e mi pone domande e provocazioni sulla mia fede sul Dio dei nostri padri. Ma perché ne sta parlando con me che non sono nessuno, se non una semplice donna di Samaria? Che valore ha la mia vita perché lui mi dica tutte queste cose? Di fronte alle sue parole sul Padre e su un Dio che è Spirito, io non sono capace di dire altro se non
“So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa”.
La sua risposta è sconvolgente: “Sono io, che parlo con te”.
Per poco non mi cade l’anfora dalle mani che, per assecondare il mio stupore, smettono di stare chiuse come una difesa di fronte al petto, e si lasciano andare, aperte, ormai pronte ad accogliere questa nuova, grande novità.
Il sole del mezzogiorno comincia a risplendere su di me con una luce diversa. E adesso capisco, in un modo che io stessa fatico a spiegarmi, che l’uomo che ho di fronte è il Dio che ho sempre atteso. Quel Dio che per un tratto della mia vita ho cercato si è messo in viaggio per venire lui a cercare me, ed era già qui, che mi aspettava, proprio nel luogo dove pensavo di non potermi più nascondere. Lui cercava me; questa è la cosa che mi stupisce più di tutte, come se, dopo una vita passata a sbagliare e ad accettare di identificarmi progressivamente con i miei errori, improvvisamente fosse arrivato qualcuno a dirmi che anche i desideri che avevo sopito nel mio cuore possono tornare a sgorgare dal pozzo non più inaridito che c’è dentro di me. Lui cercava me per chiedermi di dargli da bere: allora valgo ancora qualcosa, anche con la mia storia di fallimenti! E lui, sapendolo, mi ha chiesto di dargli l’unica cosa che potevo, della semplice acqua.
Ma so che l’acqua di questo pozzo non placherò più nessuna sete ora che so che lui – che grande meraviglia – ne ha accesa una nuova dentro di me: sete che si potrà soddisfare solo di quell’acqua che lui mi ha promesso, un’acqua per la vita eterna.
La sento questa sorgente che ritorna a zampillare dentro di me, è una meraviglia profonda, una gioia prorompente, la sensazione di aver ricevuto una grazia salvifica per la mia vita disordinata. È così che accetto di farmi rivelare in verità da quest’uomo che mai ha provato pena per la mia vita, ma che da subito mi ha fatto sentire degna di qualcosa di bello, di qualcosa di grande, nonostante tutto. Non è forse vero che mai nessuna terra, in fondo, è troppo arida perché possa mai fiorirvi qualcosa?
Ora non m’importa più che arrivi altra gente a questo pozzo a mezzogiorno: che mi guardino pure, che mi giudichino pure, non ha più valore per me; da oggi la mia vita è cosa nuova.
Guardo quest’uomo ancora una volta: fisso i suoi occhi che mi dicono “Vai”. Abbandono l’anfora ai piedi del pozzo e sento le gambe mosse dal nuovo desiderio del mio cuore spingermi verso le case. Io, la donna che prima fuggiva tutto e tutti, sto chiamando la gente della mia città perché venga a vedere chi mi ha donato qualcosa di troppo bello e troppo grande per non essere raccontato. Ancora non mi sembra del tutto vero, e forse nessuno mi crederà, ma non mi accontento più.
Gv 4, 1-30
Foto: la Via di Francesco, tra La Verna e Pieve Santo Stefano
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la scelta
Giornate sempre uguali si susseguono da che ricordi in questa mia terra calda e arida, in questo mio insignificante villaggio di Galilea; non succede mai nulla qui a Nazareth e nella monotonia dei nostri giorni risuona forte l’eco delle parole della Scrittura, che cosa di buono potrà mai uscirne? A volte cedo alla tentazione di chiederlo anche io… ma cosa voglio saperne, cosa pretendo di capire io, che non sono nessuno? Io che ho quattordici anni e sono solamente la figlia tanto desiderata ed infinitamente amata di due anziani genitori. Maryàm è il mio nome. Tutto ciò che sono si racchiude in queste semplici cose, nelle quattro mura della mia casa e nel fidanzamento che da qualche settimana mi lega allo sposo che è stato scelto per me.
Oggi è un giorno come tutti gli altri, il tempo scandito da quelle faccende che ormai fanno parte della mia vita come un rituale. Sono uscita per andare al pozzo, questa mattina, per attingere acqua e salutare qualche amica, ed ora sono di nuovo sola nel silenzio della mia casa. Lascio che l’acqua mi bagni le mani mentre le immergo in un piccolo mucchio di farina che ho preparato davanti a me. Mescolo gli ingredienti fino a sentire che tra le mani l’impasto prende la forma e la consistenza delle pagnotte che poi dovrò infornare, come una promessa di vita che si invera pian piano. Mi pulisco e passo a ravvivare il focolare.
È un attimo, mentre sono chinata a prendere dei rami secchi: mi coglie una sensazione strana, come se i rumori del villaggio si fossero improvvisamente annullati, come se nel mondo esistessimo solamente io e questa stanza. La luce dell’unica finestra mi sembra diventare più forte e non so se sia la mia testa o se qualcuno parli davvero, e sento:
“Chaìre, Maryàm, Piena di Grazia, il Signore è con te!”.
Un sussulto mi sorprende, come se tutto il corpo fosse preso da un tremito, e non è perché ancora non capisco da dove venga quella voce. Ciò che mi turba è quello che la voce mi sta dicendo. Perché si rivolge a me con queste parole? Che cosa significa questo saluto che ho sentito solo nelle Scritture? A che debbo che mi si saluti come i profeti parlano alla figlia di Sion?
La voce del misterioso messaggero continua:
“Ecco, tu sarai incinta e darai alla luce un figlio e gli metterai nome Gesù. Egli sarà grande e sarà proclamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Iddio gli affiderà il regno di Davide, suo antenato, e regnerà per sempre sui discendenti di Giacobbe e il suo regno non avrà mai fine”.
Di nuovo, mi sento scuotere. Ciò di cui mi si sta parlando è un annuncio sensazionale, quello che aspettiamo da generazioni e generazioni. Nascerà un bambino e sarà grande, sarà il messia da tempo atteso… sarà Dio! Ma io, io madre? Che c’entro io con tutto ciò? Perché il Signore dovrebbe aver pensato a me, che sono niente? Possibile che ai Suoi occhi la mia piccolezza abbia un altro valore? Possibile che Egli abbia un progetto perfino con me? Ma come posso essere madre io che non conosco uomo?
Forse do voce ai miei dubbi, perché sento rispondermi:
“Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo sarà presente in te; e per questo colui che nascerà da te sarà santo, Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, anch’essa è incinta e attende un figlio nella sua età avanzata; ed è già al sesto mese lei che era considerata sterile, perché nulla è impossibile a Dio”.
Una serenità immensa, dolcissima, mi sovviene a questa risposta, come una grande consolazione. In pochi istanti dentro di me risuonano le parole che mi sono state rivolte. Ho ricevuto un annuncio di Gioia, la promessa di Dio che vuole ricolmare la mia vita con questa Gioia. Quanta Grazia ha acceso in me questa dichiarazione! Tanti segni della Sua presenza nella mia breve vita si sono illuminati, vividissimi di fronte a questa Sua scommessa su di me, per me, con me! Il Signore mi sta offrendo qualcosa di straordinario, ha scelto me con il desiderio di cambiare la mia vita e quella dei tanti che sapranno accogliere questo mio, questo Suo bambino! E chi sono io, di fronte alla grandiosità di questa proposta? Perché non accogliere il piano di Colui per il quale nulla è impossibile, che già molte volte ha cambiato la vita di noi uomini, che oggi è venuto qui, da me, in questo villaggio insignificante, per stringere con noi un’alleanza nuova? Ad Abraham ha chiesto di prendere e andare, ha reso feconda Sarah, che quasi non credeva più di poter sentire la vita dentro di lei… ha perfino aperto il grembo alla mia cara Elisheba, già così avanti negli anni! Perché non dovrei fidarmi?
Il Signore mi sta chiedendo tanto, eppure mi sento circondata dalla più grande libertà di compiere una scelta che sia pienamente mia. Penso ai miei genitori, penso a Ioseph… sono certa che capiranno, che ci sarà uno spazio anche per loro in questo progetto così grande.
Mi sento cadere in ginocchio, quasi sopraffatta dalla decisione che sto prendendo: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola”. Avvenga per me: per la mia vita e attraverso di me per molti, una Gioia così grande non può essere solo mia.
Una sensazione di pienezza mi coglie fin nelle viscere, va a sconvolgere la mia carne che si prepara a fare spazio a Te, mio Dio! Io come il pane, pronta a lievitare per te per dare la vita. Io come il grano, che cresce e diventa rigoglioso nell’abbraccio caldo del sole. Io come la vite, che matura e porta frutto. Una carezza tenerissima mi sorprende sulla guancia a ricordarmi che mai sarò sola in tutto questo.
Poi, tutto ritorna come prima, e la vita torna a scorrere come sempre, come se non fosse successo niente e nulla fosse cambiato
Ma io sono cambiata.
Carica di una vita nuova, ho sentito il bisogno di venire da chi già può conoscere la Gioia che sento io. Ho attraversato il paese e sono giunta alla casa di Zechariah, marito di Elisheba. La riconosco da lontano, intenta a lavare i panni. Al mio saluto alza immediatamente il volto, sorride perfino negli occhi e con le mani si tocca il ventre già ben visibile nei suoi sei mesi. Mi saluta con parole che mai avrei creduto di sentire associate al mio nome e ho la certezza che, prima ancora che glielo dica, lei sa già cosa mi è capitato.
“Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che le è stato detto dal Signore!”
La guardo, e in tutta la sua persona posso scorgere i segni di quella benedizione che ci unisce. Mi viene una voglia irrefrenabile di cantare, di gridare la Gioia che sento nel cuore: la mia anima esalta il Signore, perché ha guardato a me, che sono solo una sua umile serva. E lui per me ha fatto cose grandissime! E di nuovo ci ha dato un segno del suo Amore per noi, come allora ad Abraham, così ora a me… farà così per sempre, per ogni uomo!
Dal giorno che il Signore mi ha visitata a Nazareth non sono mai stata ferma. Dopo i giorni passati con Elisheba, ho fatto ritorno a casa e con stupore ho visto Ioseph scegliere di essere mio sposo e compagno. Siamo andati fino a Betlemme per il censimento e là, Figlio mio, ti ho partorito in una notte fredda, ma piena di luce. Siamo fuggiti in Egitto e poi tornati. Ogni anno ci siamo recati a Gerusalemme per celebrare la Pasqua. E poi, quando anche tu hai cominciato ad andare, ti ho seguito senza più Ioseph ma con compagni e compagne differenti, ogni giorno sempre più numerosi. Ti ho visto compiere cose straordinarie, tante volte non sono riuscita fino in fondo a capire, ma sempre dentro di me sono tornate a risuonare le parole di quel giorno e sempre ho saputo che si stava compiendo ciò che mi era stato preannunciato. Ho custodito ogni cosa nel mio cuore.
E ora sono qui, ti sto accompagnando in questo viaggio che sembra l’ultimo. Sono qui sotto una croce e ti vedo soffrire in silenzio senza che io né nessun altro possa fare niente. Un dolore uguale se non maggiore alla gioia del giorno in cui da me sei nato - che ora mi sembra così lontano - mi attraversa tutto il corpo, come se fossi inchiodata lì con te. È un dolore che torna a scuotermi fin nelle viscere, come se ti stessi dando al mondo un’altra volta… ma il mondo sembra non aver capito niente di te.
Nell’agonia, a un certo punto pieghi la testa verso di me. I miei occhi si incrociano con i tuoi e di nuovo, come allora, mi sembra che il tempo smetta di scorrere. Siamo solo io e te, una madre e suo figlio, sospesi in uno sguardo infinito eppure solo di qualche secondo. I tuoi occhi gridano il dolore dei chiodi, ma anche tanto Amore, un Amore immenso che non subito riesco a capire. Ma poi colgo in quello sguardo la stessa tenerezza che aveva circondato anche me e comprendo che su quella croce ti sei fatto issare per scelta, ma è una scelta - come la mia - che hai fatto per Amore. Il dolore non si lenisce, ma cresce fino a fare spazio alla paradossale sensazione di una benedizione. Oggi, ora, capisco che la scelta di quel giorno era de-finitiva: Dio mi ha offerto la possibilità di diventare il meglio di ciò che potevo essere, di lasciare che l’Amore si compisse per me, in me e attraverso di me. Lo stesso hai fatto tu.
E mentre ti guardo morire io sento che un oltre deve esistere, che quel “Chaìre!” valeva la promessa di una Gioia, viva, piena, forte, forse anche più della morte.
Da: terra innamorata
Foto: Fraternità di Romena
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avevo paura di perdere il mio amore
A un certo punto solo il silenzio, il vuoto. Giorni di grande clamore, di urla di giubilo, di odio e di dolore, strazio per le orecchie e per il cuore, poi il silenzio. La terra taceva, noi tacevamo, io tacevo. La mia bocca, muta; il mio cuore, in silenzio. Vuoto.
È una sensazione devastante: tutto ciò che ti dà la vita, a un certo punto crolla, miseramente. E tu rimani sola, tremendamente debole ed impotente, perché tutto ciò che ti ha dato forza ora non c’è più. Non c’è più.
Sono rimasta in silenzio per un giorno intero. Non una parola. Il terzo giorno mi sono svegliata all’alba, con un sussulto, madida di sudore. Mi ero addormentata per sfinimento, tra le lacrime, e poi un timore improvviso e sempre più grande mi ha destato da quel sonno senza sogni. Nell’abbandono, senso di perdita ancora più grande. Ero sicura che ti volessero portare via.
Avevo paura di perdere il mio amore. Paura, tremendamente paura.
Una volta ero niente, una di quelle che non si guardano neanche, costretta a camminare a bordo della strada, per non intercettare il passo di chi è degno di essere ammirato, perfetto nella sua condotta. Forze maligne si annidavano dentro di me, sentimenti comuni ad ogni uomo, ma amplificati all’ennesima potenza, sperimentati e sentiti su ogni centimetro di pelle, ardevano il mio cuore e il mio animo come un incendio, mi rendevano difficile il pensare, l’essere. Ero uno scarto.
Poi ti ho incontrato e mi hai cambiato la vita. Non lo credevo possibile: quel male che mi possedeva stava lentamente consumando la mia vita. Mi prendeva, sconvolgendomi mente e corpo, mi agitavo, urlavo, i lunghi capelli scompigliati a coprirmi la faccia. Era un possedimento che lasciava dietro di sé solo il vuoto.
La prima volta che i tuoi occhi si sono fermati a guardarmi ero in preda ad uno di questi momenti: continuavo a cadere nel tentativo di reggermi in piedi, i capelli, completamente annodati, mi avvolgevano il viso, come serpenti vivi, i miei occhi sporgevano dalle orbite e la mia bocca si spalancava come a cercare aria, ma da essa uscivano solo grida.
Poi il tuo sguardo ha incrociato il mio e non si è allontanato, disgustato. Ha continuato, insistente, a cercare un contatto con il briciolo di umanità che restava dentro di me. Uno sguardo di vita, principio di un amore. È bastato quello per riportarmi alla vita.
Con quello sguardo avevi acceso in me un fuoco di amore, un filo incandescente che univa il mio cuore al tuo, che mi spingeva a seguirti ovunque andassi.
Io ti ho visto, ho visto tutto quello che hai fatto, ho sentito ogni parola che hai detto, ogni gesto, ogni miracolo si è impresso nel mio cuore, lì dove custodivo ogni cosa, come tua madre. Racchiudevo tutto nella parte più profonda di me, nella parte più nascosta, come un’innamorata.
Non so di preciso quando è successo, quando ho capito di essere innamorata di te. Forse è stato ogni giorno, sotto il sole, per le strade di questa nostra terra, vedendoti riflesso negli occhi dei tanti che hai incrociato, che hai salvato. Ho capito che il vuoto che c’era ogni volta che i demoni mi prendevano e poi mi lasciavano si stava pian piano riempiendo, fino a straripare: ero colma di un amore vero. Era, è, un amore che riempie, che dà un senso ad ogni cosa, ma che lascia anche una sete tremenda, sete di vita di verità di qualcosa di immensamente grande ed eterno. Dio.
Sono stati mesi di primavera infinita, perenne semina e raccolto.
Poi la morsa del gelo ha preso ogni cosa. Una pugnalata in pieno petto. Questo è stato vederti lì, sulla croce. Nelle tue grida c’era tutto il dolore della terra.
A un certo punto solo il silenzio, il vuoto.
“Voglio alzarmi,
andrò per la città,
a cercare nelle piazze e per le strade;
l’amore della vita mia voglio trovare.
Lo cercavo, e non lo incontravo.”
Cantico dei Cantici 3, 2
Mi sono alzata all’alba per correre là dove ti avevano posto. Provavo una sensazione nuova e terribile: paura di perderti. Mai eri stato mio. Ti avevo sempre condiviso con tutti quelli ti seguivano, ti cercavano, ti toccavano, ti stavano attorno solo per cercare una piccola attenzione, ma sapevo che ci saresti sempre stato, per loro e per me, sapevo che il filo che ci univa ci avrebbe uniti per sempre. Ma ora…ora quel filo era stato spezzato ed io volevo tenerti con me per sempre.
Il mondo mi è crollato addosso quando ho visto il sepolcro vuoto. Vuoto, come me.
È diventato tutto buio, tutto inutile, vano, nero. Solo io e un sepolcro vuoto scavato nella pietra fredda. Non mi sono neanche accorta dei due uomini che mi hanno interrogata. Ho risposto loro tra i singhiozzi, incurante di tutto, meno che della tua assenza.
“Il mio Signore”
“Sento il mio amato,
eccolo che viene”
Cantico dei Cantici 2, 8
Mi sono voltata. Un uomo, il custode.
Ma poi, “Maria!”. Il cuore è sobbalzato nel petto vuoto, pietra lanciata del buio degli abissi. Un tonfo, rumore assordante e potente, è rimbombato dal mio profondo fino a stordirmi: una voce, quella voce, la tua voce. Tutte le primavere del mondo mi sono sbocciate dentro, un sole nuovo si è acceso in me.
“Rabbunì”
Mi è sembrato di gridare, ma so che quello che è uscito dalla mia bocca è stato quasi un sussurro. Rab, grande, molto. Grande, molto amore, mio Maestro. Volevo toccarti, carezzarti, accertarmi che fossi davvero lì, davanti a me, con me, a restituirmi il sorriso più luminoso del mondo. Eri tutta una luce, sfolgorante nel mattino. Un passo verso di te.
“Non mi trattenere”
Tu non eri mio, e io che volevo legarti a me. Ma lo sentivo, sentivo che si riannodava quel filo, e che tornava a bruciare. E ho sentito anche il vuoto che scompariva, si riempiva ed io non bastavo a contenere tutto questo amore, tutta questa gioia, i miei occhi non potevano vedere tutta questa luce, le mie gambe non potevano stare ferme qui, la mia voce non poteva rimanere ancora in silenzio.
Io ho dovuto gridare al mondo che eri vivo, ho dovuto gridare al mondo che ti amavo. Tutto il mondo doveva sapere, tutto il mondo doveva partecipare di questa gioia. Dopo il vuoto del dolore, questa la più grande consolazione: l’amarti lasciandoti andare, fiore bellissimo, ma non reciso. Eppure lo sentivo, il tuo amore: sussurrava nel vento, splendeva nel sole, cresceva nella terra.
E sono corsa a dare l’annuncio.
Da: terra innamorata
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eremitismo /I
L’eremitismo si sceglie. Io, invece, quella solitudine non la scelsi mai. Mai mi era stato chiesto di stare da solo, mai lo avevo considerato. Sentii fin da subito che la mia vita sarebbe stata per Dio, ma sempre con qualcun altro; per questo scelsi un ceno-bio, vita comune. Io, Dio e coloro che sarebbero divenuti fratelli.
Eppure ora sono solo; solo, dopo anni di pacata fratellanza tra le mura del nostro con-vento. Ora non è rimasto più nessuno. Ci sono solamente io. C’è, forse, ancora Dio?
L’eremitismo si sceglie. Che posso fare ora se non accogliere questa mia nuova condizione? Accetto su di me questa veste nuova: mi abituo – piano – al silenzio, a non sentire i passi di nessuno per i corridoi, a non essere fratello più per nessuno. La mia definizione era relativa: ora che sono tutti andati, cosa resto?
Solo, monaco. Eremita.
Da: quaranta giorni (continua)
Foto: Eremo del Cerbaiolo
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la direzione
Quale direzione devo prendere?
È una domanda ossessiva, troppe volte ritorna, in troppe situazioni. Te lo chiedi mentre avanzi verso la vetta del monte, con gli occhi cerchi fra i sassi un segno bianco e rosso del sentiero che ti porti alla cima: che direzione devo prendere? Il vento è forte, hai fretta di arrivare a destinazione.
Arrivi a un bivio, scegli il sentiero che va verso l’alto.
Continui a camminare in salita ma sai che non è quello appena passato il bivio oggetto delle tue preoccupazioni. Che direzione devi dare alla tua vita? Quale strada devi scegliere?
Ti senti come un fuggitivo, solo su quelle montagne, a tratti hai la sensazione di essere qualcuno che nella vita ha fatto troppo, a tratti come qualcuno che ha fatto troppo poco. Non sai qual è il senso del tuo camminare, per questo preferisci assaporare la fatica di ogni passo; il ritmo del tuo fiato e del tuo cuore scandiscono i tuoi pensieri. È l’affanno che dà senso, insieme al peso dello zaino, al dolore dei polpacci, alla sensazione degli scarponi che fasciano i piedi.
Perché sei partito?
Ciò che ti guida è una sete. Sai che ciò che facevi non ti bastava. Non erano sufficienti il tuo lavoro, il tuo stipendio assicurato, la casa e tutto ciò che ti sembrava di aver conquistato. Serviva di più, dovevi fare, dare di più. Così sei partito per quel paese così povero, così bisognoso delle tue mani di operaio, perché si sporcassero di terra e offrissero del cibo e carezzassero dei bambini. Quella terra ti chiamava come in un urlo silenzioso. Non sei mai riuscito a trovare le parole per raccontare di laggiù: era stato tutto troppo forte, come se finalmente fossi riuscito a sentire la vita con tutte le sensazioni così piene e vere, ora che l’effetto dell’anestetico del posto in cui eri cresciuto era svanito. In realtà non avevi avuto bisogno delle parole, erano bastate le immagini che a migliaia ti riempivano gli occhi, la mente e il cuore: i volti così luminosi, i sorrisi così veri, la gioia così contagiosa. Ma non solo. Non si poteva dimenticare il volto di quel padre che con una terribile rassegnazione ti aveva detto che sperava che i suoi figli lasciassero quel paese che – dimenticato da tutti – non poteva offrire loro alcun futuro. Non potevi cancellare la consapevolezza di sentirti in qualche modo colpevole di fronte a quelle persone che di diverso da te avevano soltanto la sfortuna di essere nati nella parte sbagliata del mondo. Non era svanita la sensazione che fosse sbagliato vivere sapendo di fare del male ad un fratello.
Questi pensieri ti hanno portato in alto, hanno accompagnato i tuoi passi fino al momento di passare il valico. Il vento pare essersi placato, ti volti per vedere il sole avviarsi lentamente dietro le montagne. Ti concedi un momento per seguire il suo corso e riempirti gli occhi di arancione. Il tramonto – come l’alba – ti piace perché è un passaggio: chiude la giornata, ma apre la porta alla notte, a tutte le sue possibilità, ai sogni e ai desideri, ai segreti sussurrati nel buio e custoditi in silenzio. La sera ti sorprende con i primi brividi di umidità e prima di montare la tenda indossi abiti più pesanti. Ceni con calma davanti al piccolo fuoco che hai preparato e, prima di lasciarlo morire, lo ravvivi per permetterti di guardare le stelle. Contempli la notte come uno spettatore solo nella sala di un cinema: le stelle compaiono di fronte a te come su un grande schermo, intorno solo sassi e il poco prato pianeggiante dove hai posto la tenda. Dove poserai la tua tenda? Sono anni che cerchi un luogo dove sentirti a casa.
Ti era parso di trovarlo tra le mura di quel monastero. Ricordi come fosse ieri il giorno in cui sei tornato dalla missione, quando hai disfato la valigia piena di tante cose e ti sei reso conto che quelle più importanti erano rimasta là, tra quella gente così povera, eppure così felice. La sensazione di non aver capito nulla della tua vita ti aveva fatto piangere disperato, come un bambino. Ed era così, avevi bisogno di imparare di nuovo a stare al mondo, nel tuo mondo. Improvvisamente ti eri ricordato di quell’altro, di quello che – pazzo – pur avendo tutto, lo aveva restituito per vivere con un saio, un pezzo di pane, sorrisi e tanta gioiosa follia. Perfetta letizia, l’aveva chiamata. Spogliati, lascia andare, diceva una voce nella tua testa. Forse non ci hai pensato nemmeno troppo eppure hai deciso, come se qualcosa di grande te lo avesse suggerito, di diventare un monaco. Una vita di preghiera e lavoro, lavoro e preghiera, ti sembrava ciò che ti serviva per tornare all’essenziale. Ora et labora, le giornate scandite dalla liturgia delle ore, il ritmo martellante a volte quasi infantile dei salmi accompagnava il lavoro nell’orto, il profumo delle erbe officinali ti seguiva nelle letture dei testi di meditazione, il silenzio era diventato ormai un buon compagno.
Eppure mancava qualcosa. Tutto ciò che apparentemente ti dava pace aveva sopito la scintilla di luce nei tuoi occhi; ti mancava quello che più veramente amavi, tutto ciò che era profondamente umano. Ne avevi parlato con il tuo padre spirituale e lui, come se fosse la cosa più semplice di questo mondo, ti aveva serenamente detto: “E allora va’, figliolo”. Di nuovo avevi fatto lo zaino, di nuovo eri partito, pellegrino senza meta né casa a cui tornare. Nella testa risuonavano le parole del salmo:
“Poiché tu hai detto: «O Signore, tu sei il mio rifugio»,
e hai fatto dell’Altissimo il tuo riparo,
nessun male potrà colpirti,
né piaga alcuna s’accosterà alla tua tenda”
Dove avresti posato la tenda? Anche questa domanda ti era rimasta nel cuore, te lo chiedi anche ora, mentre spegni il fuoco nel silenzio della montagna. Dove poserai la tua tenda?
Il giorno ti sorprende nel bel mezzo di un sogno; i fischi delle marmotte ti invitano a lasciare il tepore e a rimetterti in viaggio. Hai bisogno di incontrare qualcuno, di abbandonare le vesti dell’eremita e di tornare fratello.
Cammini a passo svelto, spinto da un’urgenza che non ti spieghi, come se qualcuno sostenesse i tuoi passi. Procedi così per giorni e giorni: ti senti come se le tue domande stessero per avere risposta. Il paesaggio cambia attorno a te: le rocce brulle della montagna pian piano sono sostituite dai pascoli sempre più verdi, poi dalle foreste e infine cominci ad intravedere qualche piccolo paese all’orizzonte. A valle s’incontrano miriadi di sentieri e tutti sembrano convergere verso un’antica strada di pellegrinaggio: nell’imboccarla hai la sensazione di essere accompagnato dagli spiriti dei migliaia di viandanti del passato, ciascuno con la sua storia, il suo bagaglio, le sue domande. Sono compagni di viaggio singolari perché invece di farsi conoscere, ti accompagnano nella conoscenza di te stesso. Ti senti sempre più padrone della tua identità, una sottospecie di faldone che raccoglie tutte le pagine della tua vita. Ti sembra quasi di sapere chi sei, o per chi sei.
Non sapresti dire per quanti giorni hai camminato, quanti chilometri hai percorso, quanti paesi attraversato. Ma finalmente ti sei fermato. Non sei stato tu a decidere, è il quel posto che ti ha chiamato, lei ti ha chiamato. È maestosamente semplice, bella come solo una pieve romanica può esserlo, imperfetta eppure così meravigliosa, l’Infinito nascosto in ogni pietra. Entri, e la nudità di quell’interno ti sorprende: non c’è nulla se non colonne grezze e capitelli adornati con figure che qualcuno molto tempo fa aveva addirittura definito mostri. Sono grotteschi, ma belli. Pensi a quanto potessero colpire tutti quei viandanti che, come te, capitavano in quella chiesa alla ricerca di ristoro, per il corpo e per l’anima. Veniva chiunque, santi e malfattori, pellegrini e fuggitivi, eppure ciascuno aveva diritto a godere di quella bellezza, a trovare tra quelle pietre un posto. Capisci che è lì che pianterai la tua tenda.
Pianti la tenda e pianti radici, non solo le tue, ma anche quelle delle molte piante che giorno dopo giorno aggiungi al pezzo di terra che hai cominciato a coltivare. Cercavi l’essenziale e l’hai trovato; riparti dalla terra, riparti da una madre, dal principio di tutte le storie, e ti sporchi di nuovo le mani, pronto a rinascere anche tu come le erbe nuove a primavera.
Una stagione dopo l’altra, il raccolto è sempre più abbondante. Imbandisci le tavole non solo con i frutti del tuo orto, ma anche con i frutti che la tua nuova vita comincia a dare: il seme lanciato nel cuore di qualcuno ti ha fatto guadagnare qualche amico, le mani ruvide che condividono il cibo alla mensa ti fanno nuovamente provare l’ebbrezza del contatto umano.
Qualcuno ogni tanto ti chiede che senso ha, perché lasciare tutto per passare le giornate con in mano una vanga per cercare cipolle o un’ascia per far la legna. Le parole ancora una volta non sono sufficienti, forse serve una preghiera…
Laudato si', mi' Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba…
Nell’orto tocchi con mano la bellezza custodita in ogni cosa che è viva. Siamo nati dalla terra e ad essa ritorneremo, senti che prendertene cura è l’unico modo che ci resta per ristabilire un contatto, ricreare un’armonia con il senso profondo del nostro essere umani. Se tra un momento e l’altro del tuo lavoro ti fermi e ti metti ad ascoltare, lo senti di nuovo il mormorio delle parole dei salmi, lo scalpiccio dei passi sul terreno: è la danza degli spiriti degli uomini del passato che celebrano il cerchio della vita che finalmente si compie di nuovo. E tu, finalmente, ad ogni alba sai chi sei, sai perché lo fai: coltivi la terra perché ami l’uomo.
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