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Storia della fotografia documentaria – Seconda parte
di Guillaume Blanc da https://www.blind-magazine.com (trad. G.M.)
--- La sfida sociale: documentare per riformare
--- Accanto agli sviluppi di cui la fotografia ha beneficiato, ed a quelli che ha sostenuto nel campo del sapere scientifico e archivistico, l'Ottocento è stato anche un campo di sperimentazione per la fotografia dal punto di vista sociologico. Mentre le grandi città occidentali si stanno modernizzando cercando di migliorare la loro logica urbana, la loro sicurezza e la loro igiene, cresce l'attenzione rivolta alle fasce sociali più svantaggiate. Si presume che, perché una città sia sana, sia necessario in particolare porre rimedio alla misera situazione delle classi lavoratrici che spesso vivono in quartieri fatiscenti, sporchi e pericolosi. La fotografia giocherà un ruolo importante nella conoscenza di questi ambienti sociali, mostrandone le reali condizioni di vita attraverso immagini,
Empire State Building, New York, 1931 © Lewis Hine
Lewis Hine (1874-1940), formatosi in pedagogia e sociologia, cercò di utilizzare la fotografia come documento a supporto dei suoi sforzi investigativi. Sviluppa così un rapporto completamente diverso con i suoi soggetti, che nasce molto meno da un atteggiamento predatorio come Riis che da una genuina benevolenza nei loro confronti. La sua prima serie importante, Climbing into America ("Sbarcare in America"), iniziata nel 1904, lo testimonia: Hine ritrae i migranti confinati a Ellis Island, l'isola dove venivano messi in quarantena gli immigrati che arrivavano a New York. Mentre gli abitanti li fantasticano e li immaginano nella loro luce peggiore, sviluppando un crescente movimento di xenofobia con i crescenti arrivi di migranti, Hine cerca, attraverso le sue fotografie, di ispirare benevolenza e rispetto piuttosto che paura. Con ritratti delicati, talvolta ricorrendo a forme classiche della storia dell'arte, come nel caso di questa Madonna col Bambino, sviluppa una fotografia documentaria sensibile, facendo appello alle emozioni dello spettatore.
È la stessa strategia che lo guiderà dal 1906, quando inizia una collaborazione con il Comitato Nazionale sul Lavoro Minorile, che lo occuperà per dodici anni. Negli Stati Uniti in questo momento si stima che due milioni di bambini siano costretti a lavorare: occorre quindi far reagire l'opinione pubblica per avviare azioni politiche e portare al divieto totale del lavoro minorile ed alla condanna dei loro “datori di lavoro”. Qui la fotografia si riallaccia al suo valore probatorio: ogni volta che Hine ritrae un bambino che lavora illegalmente, aggiunge aggiunge un elemento di prova alla causa del lavoro minorile. Allo stesso tempo, le sue immagini contengono anche una carica emotiva capace di sensibilizzare l'opinione pubblica sulle condizioni di vita di questi bambini. Hine vi aggiunge, come aveva fatto per i migranti, osservazioni scritte che operano anche sul doppio registro prova/emozione.
Madonna col Bambino, Ellis Island, 1908 © Lewis Hine
Hine si occupa anche della presentazione delle sue immagini e utilizza diversi mezzi: dalle conferenze con proiezione, attraverso manifesti, pubblicazioni, persino mostre, Hine non esita a utilizzare metodi pubblicitari per dare sempre più forza alle sue immagini attraverso la loro diffusione. In particolare, ha sviluppato il concetto di fotoracconto, una sorta di discorso visivo scandito dal testo, che è venuto a costituire per lui, sociologo, il cuore della pratica documentaristica.
L'associazione dell'immagine e del testo è ampiamente imposta nei decenni tra le due guerre, in quanto la fotografia documentaria, è diffusa principalmente dalla stampa, in particolare attraverso il modello del reportage illustrato da fotografie, che riunisce giornalisti, specialisti o scrittori e fotografi. Tuttavia, negli anni Trenta, i contorni della fotografia documentaria si fanno più netti e sono sempre più oggetto di dibattito, che si concentra in particolare sulla questione dello stile. Inizia così a prendere piede una pratica diffusa, che si era sviluppata in ambienti molto diversi. Gli anni tra le due guerre furono segnati da due fenomeni che guidarono questo sviluppo: da un lato, il risveglio di una fibra sociale e politica di fronte alla Grande Depressione che imperversava negli Stati Uniti; dall'altro, il sempre più affermato riconoscimento della fotografia come arte con il suo utilizzo da parte delle avanguardie europee come il Surrealismo. La fotografia documentaria, come nota lo storico Olivier Lugon, aveva dunque in quel momento la possibilità di una duplice riforma, sociale e artistica, intesa come “capacità di risorsa”.
Messenger Boy per la Mackay Telegraph Company, Waco, Texas, 1913 © Lewis Hine
Il termine stesso "documentario", usato nel cinema per designare la rappresentazione nuda e cruda della realtà e in contrasto con i film degli studi di Hollywood, apparve nel 1928. Fu ripreso molto rapidamente nella fotografia, sia in francese che in tedesco e inglese. È da questo momento che il documentario si costruisce attorno all'idea che è necessario testimoniare i fatti senza scadere in una rappresentazione superficiale e mobilitando un trattamento creativo.
L'incarnazione più famosa di questo approccio rinnovato è la campagna fotografica della Farm Security Administration (FSA) , che ha fatto emergere il documentario come un genere a sé stante. La FSA è stata creata nel 1935 come parte del New Deal, la risposta politica alla crisi economica. Deve venire in aiuto dei piccoli contadini americani. Diretto dall'economista Roy Stryker, questo programma fotografico ha grandi ambizioni e riunisce due grandi tendenze nel progetto documentaristico, offrendo sia una testimonianza sociale che un'indagine sul patrimonio, per agire sul presente e per preparare il futuro. Tra i quindici fotografi reclutati, quattro si distinguono e testimoniano le sfide della FSA:Arthur Rothstein, Ben Shahn, Walker Evans e Dorothea Lange .
Arthur Rothstein (1915-1985) propone una fotografia molto narrativa, gioca sull'emozione: moltiplica gli effetti, con angoli di visuale come luci drammatiche e si affida anche a sinossi prestabilite, a monte dei reportage. Presuppone quindi che si possa camuffare, se non organizzare la realtà per meglio restituirla. Questa flessibilità che si concede non è però priva di pericoli: non solo viene denunciata un'estetizzazione della povertà, ma viene anche accusato di produrre falsa documentazione, ad esempio quando utilizza un teschio di bue – simbolo della siccità e della miseria contadina – che sposta per averlo su diversi sfondi. Ma Stryker lo sostiene con forza: lui stesso prepara dei shooting scripts, quasi degli scenari fotografici, che poi consegna ai fotografi.
Ben Shahn (1898-1969) , nel frattempo, è particolarmente guidato nella sua pratica dalla sua attività principale, la pittura. Nel filone del realismo sociale, in voga negli ambienti artistici di sinistra dell'epoca, ricerca soggetti che gli permettano di trovare un equilibrio tra dimensione simbolica e rappresentazione oggettiva della realtà.
Madre migrante, 1936 © Dorothea Lange
Dorothea Lange (1895-1965) è stata una delle fotografe più influenti della FSA. Dapprima fotografa di studio, si interessa alla strada negli anni '30, vittima indiretta della crisi. Iniziò nel 1935 a collaborare con Paul S. Taylor, professore di economia politica che divenne suo marito. Insieme hanno messo a punto una strategia che unisce testo e immagini, permettendo di associare la fotografia a dichiarazioni di informazioni importanti, che ne guidano la lettura. Prende la stessa idea durante il suo lavoro per la FSA, durante il quale produce alcune delle immagini più forti della missione. Scopriamo un approccio sensibile, veramente attento ai problemi che affronta. Vi associa molte note. I suoi rapporti con Stryker, che ha deciso da solo lo sfruttamento delle foto, sono stati delicati, ma Lange ha colto l'occasione per portare avanti il suo progetto e ha dato alla luce il libro An American Exodus A record of human erosion, scritto insieme al marito. Costituisce un equivalente di ciò che il cinema può fornire in termini di documentari: una voce fuori campo con commenti teorici, una voce fuori campo con testimonianze riportate e l'immagine attraverso la fotografia. Il fatto di citare direttamente le persone rappresentate permette di rimanere il più vicino possibile alla realtà della loro situazione.
Accanto a Lange, anche Walker Evans (1903-1975) costruisce una singolare posizione che sarà decisiva per la storia del documentario. Prendendosi grandi libertà con le istruzioni di Stryker, estende il programma a una più ampia documentazione della cultura vernacolare americana. Le sue fotografie adottano uno stile dalle caratteristiche marcate : uso di una fotocamera di grande formato, descrizione meticolosa nei dettagli con perfetta nitidezza, una composizione chiara e frontale, per dare un'immagine che assume una forma di neutralità. Così, Evans costruisce un approccio che può sembrare contraddittorio: la cancellazione di qualsiasi presenza o intervento dell'autore costituisce in ultima analisi una firma. Porta così l'idea che il documento fotografico non ha solo una funzione (testimoniare) ma anche una forma. Propone così quello che chiama uno “stile documentaristico” in un atteggiamento decisamente modernista. Spinge ulteriormente questa logica con una mostra al MoMA , American Photographs , presentata nel 1938. Il catalogo alla stessa dedicato presenta le fotografie liberate da qualsiasi testo, le didascalie vengono restituite alla fine del libro. Le immagini devono quindi produrre significato da sole, in un approccio opposto a quello di Lange. La varietà delle immagini (ritratti, scene di strada, vedute architettoniche, pubblicità, ecc.) offre quindi meno un resoconto su un argomento che uno stato della cultura americana negli anni '30. Lo stesso principio di potenziamento delle immagini governa il libro Let Us Now Praise Famous Men co-pubblicato con lo scrittore James Agee, prodotto nel 1936 e pubblicato nel 1941: le immagini di Evans sono presentate all'inizio del libro, prive di testo, e forniscono un'ambientazione immaginaria che orienterà la lettura del romanzo successivo . Con le sue strategie, Evans fa del documentario un'arte a sé stante.
Stand lungo la strada vicino a Birmingham, Alabama, 1936 © Walker Evans
Se la FSA ha segnato così tanto la storia della fotografia documentaria, è ovviamente per le sue dimensioni e grazie ai fotografi che l'hanno nutrita con le loro immagini. Ma è stato anche un lavoro collettivo, che è un aspetto importante del documentario sociale. In linea con le idee riformiste della sinistra, il primato del collettivo sulla singolarità dell'autore permette di evidenziare una forma di ritiro, dove l'artista si nasconde dietro il suo impegno per una causa che lo supera.
Dagli anni '20, possiamo osservare un movimento internazionale di fotografia della classe operaia promosso dal Partito Comunista. Così si pensava in Germania l' Arbeiter Illustrierte Zeitung (AIZ, Giornale illustrato dell'operaio ), pubblicato dal 1926 al 1933: proletari e lavoratori sono chiamati a produrre una propria documentazione per descrivere le proprie condizioni di vita più vicine alla realtà.
L'idea si fece strada negli Stati Uniti dove nel 1930 fu creata una Workers Film and Photo League, guidata principalmente da Paul Strand e Berenice Abbott, basata su due particolarità: la messa al lavoro del proletariato stesso per garantire la propria documentazione, ma anche l'associazione del cinema e dei documentari fotografici. Cinque anni dopo la sua creazione, però, all'interno della Lega si verificò una scissione che diede vita a due distinte organizzazioni, una legata al cinema e l'altra alla fotografia, allora semplicemente chiamata The Photo League. Diventa una specie di scuola, i cui programmi si basano su progetti di documentazione collettiva. Il più famoso di questi è diretto da Aaron Siskind (1903-2001) e intitolato Harlem Document. Le immagini risultanti sono venate di sentimentalismo, a differenza dell'approccio di Evans: giochiamo su una drammatizzazione della luce, e la presenza del fotografo è più palpabile. La carriera di Aaron Siskind, che dalla fine degli anni Quaranta ha abbandonato ogni desiderio di testimonianza per dedicarsi alla ricerca formale astratta, indica chiaramente il cambiamento avvenuto nel campo del documentario con la seconda guerra mondiale e dopo di essa.
Il documentario, infatti, si rinnova radicalmente dagli anni 40. La sua forma tradizionale, incentrata su temi difficili, è associata agli anni bui della crisi, al punto da rifiutare addirittura l'uso del termine documentario. Ci rivolgiamo a una fotografia molto più lirica, meno programmatica, che costituisce un'indagine su alcuni aspetti della vita quotidiana del dopoguerra, molto più di qualsiasi forma di attivismo fotografico come avveniva prima. La fotografia documentaria si concentra quindi meno su una questione sociale circoscritta che su un'archiviazione della vita quotidiana, sviluppando però un interesse mirato per alcuni suoi aspetti da parte di ciascun fotografo. È soprattutto in Francia che si esprime questo movimento di rinnovamento, attraverso quella che verrà poi chiamata fotografia umanista.
Robert Doisneau (1914-1992) ne è uno dei più eminenti rappresentanti. Originario della periferia di Parigi, non ha mai smesso, nel corso della sua carriera, di produrre immagini venate di umorismo sulle piccole cose e le piccole persone della vita quotidiana. Spesso costruendo le sue immagini su un modello di valori morali opposti, Doisneau cerca di rappresentare ciò che la Francia del dopoguerra, in via di modernizzazione, conserva come pittoresco. È il caso, ad esempio, di una serie prodotta dalla vetrina di un negozio , dove Doisneau registra le reazioni dei passanti davanti a un quadro osceno, cercando d mettere in luce le divergenze morali tra il borghese e il proletario.
Lo stesso vale per Willy Ronis (1910-2009), che amava particolarmente la Parigi delle piccole strade acciottolate, in particolare attraverso un progetto a lungo termine nei quartieri popolari di Belleville e Ménilmontant, dove ha fatto emergere figure iconiche, come il bambino con la baguette.
È comunque attraverso una scrittura fotografica spontanea che si sviluppa questo nuovo documentario, e questo, per effetto di ritorno, circola negli Stati Uniti e altrove. I fotografi che sviluppano questo nuovo tono decisamente libero prendono in parte a modello la letteratura – a volte lavorano direttamente con gli scrittori – ed è spesso sotto forma di libro che il loro lavoro viene distribuito, al di là dell'uso delle loro fotografie per illustrare reportage scritto sulla stampa.
È il caso del libro Life is Good & Good For You in New York di William Klein (1928-2022), pubblicato nel 1956. Con questo libro, egli revoca completamente le raccomandazioni di un Evans in fatto di stile: Klein interviene direttamente su le stampe, pratica la sovrastampa e cerca di evidenziare elementi grafici che fanno scivolare la fotografia documentaristica verso un'espressione del tutto soggettiva. È uno status di autore che William Klein rivendica cercando di dare un'interpretazione del suo soggetto che sia unica per lui.
Trolley – New Orleans, 1955 © Robert Frank
In uno stile completamente diverso, Robert Frank (1924-2019), fotografo svizzero, pubblicò il suo famoso libro The Americans nel 1958. Realizzato con 83 fotografie e poi regolarmente ristampato con lievi variazioni, costituisce una deriva nella società americana del dopoguerra che Frank ha trascritto con occhio personale. Gli angoli di vista o il soggetto spesso indicano l'esperienza della presenza nella scena. Frank cerca così di ripristinare la propria esperienza dell'America con un interesse centrale per la figura umana, indipendentemente dal luogo o dalla classe sociale documentata.
Anche il fotografo e regista olandese Johan van der Keuken (1938-2001) cerca di dare uno sguardo a una società straniera. Con sede a Parigi, nel 1963 pubblica Paris Mortal , un libro che raccoglie le impressioni del fotografo sui suoi vagabondaggi nella Parigi operaia, giorno e notte. Emerge la sensazione di un approccio molto personale, dove è l'incontro spontaneo con l'altro a prevalere, molto più della ricerca di soggetti che possano corrispondere a un progetto prestabilito.
Lo stesso vale per Ed van der Elsken (1925-1990), anche lui olandese. Con Une histoire d'amour à Saint-Germain-des-Prés pubblicato nel 1956, abbandona completamente l'imperativo documentaristico di rappresentare la realtà così com'era: basandosi sulle fotografie di una banda di giovani bohémien parigini, finisce per creare una finzione. In particolare, gioca sull'organizzazione delle sue sequenze di immagini per sviluppare una sorta di scenario, e lavora sul layout per stabilire un ritmo, Elsken è molto ispirato dal jazz e dal cinema. Anche in questo caso la nozione di documentario è dunque associata a un'espressione soggettiva molto marcata.
Negli anni '60 negli Stati Uniti viene dato nuovo respiro al progetto documentaristico con la riscoperta dell'opera di Evans ma anche e soprattutto con l'elezione, da parte del MoMA, di nuovi rappresentanti. Il curatore incaricato della fotografia, John Szarkowski, propose infatti nel 1967 una mostra intitolata New Documents che riuniva tre giovani fotografi: Diane Arbus, Lee Friedlander e Garry Winogrand. Questi tre differirebbero dai loro predecessori in quanto cercherebbero di non lavorare per lo scopo della riforma sociale, ma per ripristinare la loro esperienza della società e mostrare la loro empatia, senza giudizio morale.
Diane Arbus (1923-1971) produce immagini riconoscibili per il paradosso su cui si basano: sono entrambe distanziate ma molto intrise di delicatezza. Interessata ai margini della società, vi trova soggetti eccezionali e accattivanti: travestiti, freaks, nani o i suoi famosi gemelli . In un certo senso, riprende da sola il progetto di Sander, ma se ne appropria e lo distingue per la sua concentrazione sugli emarginati. Così, come direbbe Walker Evans, “lo stile di Arbus è tutto incentrato sul suo soggetto.“
Gemelli identici, Roselle, New Jersey, 1967 © Diane Arbus
Lee Friedlander (1934-) sviluppa uno stile inaspettato nella sua documentazione della città americana. Piuttosto che cercare di rappresentarne l'organizzazione regolare e ortonormale, rintraccia tutto ciò che appartiene al caos della vita moderna nel tentativo di trovarvi un ordine visivo. Fotografando finestre e i loro riflessi, gli attraversamenti irregolari dei passanti o grazie a inquadrature insolite , sviluppa una sorta di virtuosismo che porta il suo progetto verso forme d'arte come il collage o la pittura astratta. Con la sua pratica documentaristica, Friedlander adotta un atteggiamento modernista, giocando sulle specificità del mezzo fotografico.
Garry Winogrand viene dal fotogiornalismo. Nella sua pratica documentaristica, prende la strada come suo terreno e lavora principalmente con grandangoli, con inquadrature spesso inclinate. Winogrand dà effetto per rafforzare le linee della sua composizione , e permette di percepire le cose da una nuova angolazione che solo la fotografia può permettere. Lui stesso dirà del proprio lavoro: “Fotografo per vedere come appaiono le cose una volta fotografate”.
Se la fotografia documentaria, che ha vissuto il suo massimo splendore nel periodo tra le due guerre, si è progressivamente distaccata dai suoi impegni politici riformatori, è anche perché questa funzione di denuncia poteva circolare meglio attraverso la stampa.
New York, 1966 © Gary Winogrand
Fotogiornalismo: documentare per informare
La storia del fotogiornalismo è simile a quella della fotografia documentaria in quanto anch'essa è incentrata sulla fotografia intesa come mezzo di informazione. Queste due storie però non si sovrappongono: nel contesto del fotogiornalismo, è soprattutto l'evento che deve essere documentato, ed è quindi il ritmo della storia mondiale che detta il contenuto del fotogiornalismo. I fotoreporter, indipendenti o che lavorano in agenzia, hanno l'obbligo di essere presenti agli eventi che richiedono di essere illustrati per immagini. Va inoltre aggiunto che nell'ambito del fotogiornalismo, lo scopo principale della fotografia è quello di essere riprodotto sulla stampa, in relazione a un testo relativo agli eventi trattati.
È con l'immagine di un conflitto che inizia la storia del fotogiornalismo. Durante la Rivoluzione francese del 1848, un fotografo di nome Thibault, di cui si sa poco, fotografò le barricate dei rivoluzionari in rue Saint-Maur, a Parigi. Questa sarà la prima fotografia utilizzata in un giornale illustrato. Tuttavia, le tecniche di riproduzione disponibili non consentono la riproduzione diretta della fotografia, che deve quindi essere tradotta in incisione per poterla diffondere.
Fu durante la guerra di Crimea (1853-1856) che allestimmo davvero, per la prima volta, un reportage fotografico. The Illustrated London News utilizza le fotografie di Roger Fenton (1819-1869), il primo fotografo di guerra ufficiale, commissionato dal governo inglese. Fenton produce un reportage completo, documentando tutti gli aspetti di questa guerra: i suoi effetti sulle truppe, i campi di battaglia, i momenti di riposo... Una famosa fotografia inaugura anche un problema che sarà dibattuto lungo tutta la storia del fotogiornalismo: Fenton avrebbe forse dato nella messa in scena, contro ogni imperativo di obiettività. Il resto delle sue immagini mostra infatti che era in grado di spostare le palle di cannone per posizionarle sulla strada, per renderle più visibili e rendere così più drammatica la scena.
Valle dell'ombra della morte, 1855 © Roger Fenton
Anche Matthew Brady (1822-1896), che si era già fatto un nome realizzando ritratti di personalità americane, diede impulso allo sviluppo del fotogiornalismo. Con una ventina di compagni di squadra - l'attrezzatura era molto ingombrante all'epoca - ha percorso la Guerra Civile (1861-1865), riportando quasi 10.000 lastre fotografiche che testimoniano tutti gli aspetti di questa guerra, alcune fotografie che offrono già una forma classica, evocando i codici della pittura storica.
Fu soprattutto negli anni 1880-1910 che furono compiuti i progressi più convincenti, portando il fotogiornalismo sulla strada della sua forma moderna. Ciò è in parte dovuto alle innovazioni tecniche. Innanzitutto, ora è possibile riprodurre direttamente le fotografie grazie al processo mezzitoni: The Daily Graphic, quotidiano di New York, pubblica la prima fotografia riprodotta sulla stampa senza essere tradotta in un'incisione il 4 marzo 1880. Progressi compiuti in questa direzione ha permesso, alla fine del secolo, di stampare fotografie contemporaneamente al testo, il che ha ridotto notevolmente i tempi necessari per produrre un giornale illustrato. Poi, nel 1887, fu inventato il flash, che permetteva di documentare i soggetti al chiuso o al buio. Infine il francese Édouard Belin (1876-1963) inventò nel 1913 una macchina, il belinografo, che permetteva la trasmissione di fotografie via cavo. Il fotogiornalismo aveva quindi, a quel tempo, tutti gli ingredienti tecnici che permettevano di pubblicare un'immagine rispettando il ritmo della notizia, cioè con quasi immediatezza.
Dal 1900 vi è stato anche un rinnovamento dell'organizzazione che ha modernizzato il fotogiornalismo. Stiamo infatti assistendo alla nascita delle agenzie fotografiche, che permettono ai fotografi di essere sindacalizzati. Quindi consegnano le loro fotografie direttamente all'agenzia, che le ridistribuisce ai giornali. L'agenzia francese Rol (1904-1937) ad esempio, prima si specializzò nel reportage fotografico sportivo, poi allargò i suoi argomenti a tutta l'attualità come dimostra il suo fondo, è uno dei pionieri in questo campo. Grazie a queste nuove strutture, la stampa ha sempre un serbatoio di immagini per illustrare i propri articoli. È questo che determina una vera e propria professionalizzazione dell'ambiente, ormai sedimentato come carta da musica, pronto a dare un'immagine di ogni evento significativo del mondo.
Poi arriva un periodo che è considerato l'età d'oro del fotogiornalismo. Negli anni '30-'50, la comparsa di macchine fotografiche di ottima qualità ma di dimensioni ridotte, come la famosa Leica utilizzata in particolare da Henri Cartier-Bresson (1908-2004), offre una flessibilità completamente nuova. Nascono così nuovi tipi di giornali, che offrono uno spazio più importante alla fotografia che al testo, e talvolta hanno i propri fotografi incaricati. Tra queste riviste, alcune hanno stravolto radicalmente i codici del fotogiornalismo. Non solo offrono una qualità di riproduzione rispetto ai titoli della stampa quotidiana che conferisce alla fotografia giornalistica le sue lettere di nobiltà, ma la loro impaginazione è anche particolarmente elaborata, per mettere l'immagine al centro del soggetto.
Copertina della rivista LIFE del 23 novembre 1936 © TIME Inc
È il caso, ad esempio, del celebre settimanale LIFE (1936-1972), che fin dal suo primo numero propone una nuova formula: si occuperà di attualità lasciando un buon posto ai volti noti, partecipando così alla costruzione del sistema stellare. LIFE assume alcuni dei fotografi più famosi e coprirà tutti gli eventi più importanti del suo periodo. Margaret Bourke-White (1904-1971) ha abbellito la copertina del suo primo numero, permettendo a LIFE di lasciare il segno con la sua formula visiva unica e l'impronta modernista. Ci sono anche le foto di Robert Capa (1913-1954) pubblicate il 19 giugno 1944, le uniche immagini dello sbarco a Omaha Beach durante la seconda guerra mondiale. LIFE generalmente predilige le immagini che sono sensazionali per quello che mostrano o che colpiscono per la loro forma.
La rivista francese VU (1928-1940) propone un altro modello. Per VU, in parte ispirato al Berliner Illustrierte Zeitung , si tratta meno di affidarsi allo scontro di immagini che di organizzarle nel miglior modo possibile per produrre una narrazione. Lo testimoniano i tanti fotomontaggi che adornano le sue pagine e che offrono una visione singolare del fotogiornalismo: non si tratta tanto di fornire una prova informativa con un'immagine non ritoccata o ritagliata, ma di usare le immagini come si usano le parole, per creare sequenze di senso visivo. La rivista cerca il ritmo piuttosto che lo shock, per incitare alla riflessione.
Copertina della rivista VU, 1934
Questo modello economico non è però l'unico, come dimostra l'esempio già citato dall'Arbeiter Illustrierte Zeitung, che coinvolge gli amatori affinché possano testimoniare loro stessi le proprie condizioni di vita, piuttosto che attraverso il filtro di un fotografo professionista che necessariamente mantiene una certa distanza dal soggetto.
In ogni caso, queste riviste hanno lasciato un segno indelebile nella storia del fotogiornalismo. La formula di LIFE, cessata all'inizio degli anni '70, è stata ripresa da altre riviste a larga diffusione che facevano largo uso di immagini, come Paris Match o L'Express in Francia. È attraverso di loro che scopriamo i grandi eventi contemporanei, con immagini che segnano con la loro forza la cultura visiva contemporanea.
Accanto a questi titoli, c'è anche una riorganizzazione da parte dei fotografi stessi. Il modello di agenzia Magnum è il più eloquente: fondata nel 1947 da Robert Capa e Henri Cartier-Bresson tra gli altri, offre una logica cooperativa, poiché è gestita dagli stessi fotografi, che consente loro di gestire al meglio i propri diritti e le proprie immagini. In Francia si sente l'eco di Magnum: l'agenzia Rapho, creata nel 1933, viene riattivata nel 1946 e riunisce soprattutto fotografi umanisti, come Robert Doisneau, Janine Niépce o Willy Ronis, che producono, come abbiamo deja vu, reportage gratuiti e poco focalizzati sulla copertura di un dato evento. L' Agenzia Gamma, fondata nel 1966, ha riunito una nuova generazione di fotografi come Raymond Depardon e Gilles Caron. Quest'ultimo, scomparso in Cambogia nel 1970, ha avuto una folgorante carriera durante la quale ha prodotto alcune delle immagini più suggestive dell'epoca. Caron è su tutti i fronti e documenta sia il conflitto sociale del maggio 68 a Parigi, la guerra in Biafra , Vietnam o del Ciad.
Robert Capa, Omaha Beach nel numero di LIFE del 19 giugno 1944 © TIME Inc.
Caron è uno dei fautori del fotogiornalismo eroico, incentrato principalmente su immagini sensazionali e presenza sul fronte dei conflitti. Al suo fianco, anche Don McCullin (1935-) fu uno dei fotoreporter che videro la loro pratica come un sacerdozio e non esitarono a trovarsi nel centro dei conflitti. In generale, gli anni Sessanta e Settanta sono stati teatro di conflitti particolarmente efferati, che hanno lasciato il segno nella mente delle persone con immagini sconvolgenti, divenute simboli dell'orrore della guerra contemporanea, come quella di Nick Ut (1951-) scattata in Vietnam . Questa tendenza del fotogiornalismo verso la denuncia per choc domina ancora oggi: si pensi al recente esempio dell'immagine del corpo del piccolo Aylan arenato su una spiaggia, che fa parte di tante altre immagini di dolore e violenza nel mondo moderno. Queste immagini vengono spesso premiate, attraverso premi come il World Press Photo che premia la migliore fotografia giornalistica dell'anno. In generale, si ritiene che le immagini del fotogiornalismo influenzino realmente le sorti del mondo, come testimoniano le numerose liste che identificano le fotografie più influenti o importanti.
La richiesta di questo tipo di immagini da parte delle redazioni è tanto più soddisfatta in quanto le immagini digitali consentono ormai una diffusione quasi istantanea, a cui si aggiungono i contributi del cosiddetto giornalismo “cittadino”, quali gli smartphone. Le uniche immagini dall'interno della metropolitana durante gli attentati londinesi del 2005 sono state infatti trasmesse dai cellulari delle stesse vittime, che le hanno fatte circolare su reti come Flickr, prima che venissero riprese - a volte su uno - dei maggiori quotidiani.
Contro questa tendenza, a partire dagli anni Sessanta e Settanta, c'è stato un fotogiornalismo molto più misurato, capace di trattare in profondità temi sociali piuttosto che eventi drammatici che richiedono una reazione immediata. L'agenzia Viva è costruita su questo modello e si ricollega a una tradizione di fotografia documentaristica incentrata su un argomento trattato a lungo termine e in un approccio di completezza. I suoi fotografi producono fotografie che si riversano nell'intimo, a diretto contatto con i loro soggetti con i quali stringono legami, opponendosi così a un modo a volte considerato aggressivo.
Opposto al loro approccio è quello dei paparazzi, che spingono oltre ogni limite di correttezza per ottenere scatti negoziati a prezzi esorbitanti, consegnando immagini che non solo piacciono molto al grande pubblico ma contengono in sé l'indicazione dell'aggressività da cui sono procedere, ad esempio con una mano cercando di proteggere un volto.
Infine, va notato che oggi il fotogiornalismo è tollerato, se non accettato, come forma d'arte a sé stante. Alcuni fotografi, come Gilles Peress (1946-) con il suo Persian Telex, hanno prodotto libri dal loro lavoro; altri prediligono stampe di grande formato, per proporre veri e propri dipinti che si possono trovare sulle pareti dei musei, come è il caso delle fotografie di Luc Delahaye (1962-).
Vediamo, attraverso questa breve storia della fotografia documentaria, che essa è stata punteggiata da contributi tecnici, formali, etici e anche culturali che non hanno mai smesso di plasmare o ridefinire il suo progetto. Comunque sia, siamo sempre d'accordo sulla natura informativa della fotografia per giustificare un progetto documentaristico o fotogiornalistico: è soprattutto una verità – tra l’altro – che cerchiamo di attestare con la forza evocativa della fotografia. Ed è perché ci sono tanti punti di vista sul mondo quanti sono i fotografi che gli approcci alla fotografia documentaristica sono stati così ricchi e vari. Se la maggior parte delle possibilità di raccontare il mondo attraverso la fotografia sono già state esplorate ed è sempre più difficile innovare, tuttavia, ognuno di noi può contribuire alla sua conoscenza prendendo posizione e traducendo il proprio punto di vista in immagini.
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Inaugurata la mostra fotografica “L’estate che verrà”, diario visivo degli ultimi mesi delle Manazzon
Inaugurata la mostra fotografica “L’estate che verrà”, diario visivo degli ultimi mesi delle Manazzon. A Trento, l’esposizione fotografica che ritrae la vitalità estiva della piscina, rimarrà allestita negli spazi esterni del lido fino al 10 settembre, quando è prevista la chiusura per ristrutturazione. In seguito le immagini verranno trasferite sulla recinzione del cantiere. Domenica grande festa insieme alle società sportive. Dall’11 settembre nei giorni feriali l’impianto di Trento Nord apre dalle 6 alle 23, quello di Madonna Bianca dalle 6 alle 20 con le ore pomeridiane (14-18.30) riservate a corsi e allenamenti. L’estate che sta per finire, l’ultima prima della lunga chiusura della piscina Manazzon, è diventata un’esposizione fotografica che già guarda al futuro: è “L’estate che verrà”, inaugurata oggi negli spazi esterni del lido. Rimarrà aperta fino al 10 settembre, giorno di chiusura del centro sportivo di via Fogazzaro, che da settembre sarà sottoposto a una radicale ristrutturazione finanziata grazie ai fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Poi le immagini andranno a tappezzare la recinzione del cantiere, per fare in modo che attraverso la fotografia i nuotatori continuino a rimanere “vicini” alla piscina anche durante i lavori. L’allestimento del cantiere sarà dedicato a Piero Cavagna, il fotografo scomparso lo scorso autunno che, con il progetto “Gli ultimi delle Crispi”, aveva avuto l’idea di far vivere le vecchie scuole in ristrutturazione con le immagini degli ultimi bambini che le avevano frequentate prima della chiusura per lavori. Tre donne, un progetto: Elisa Vettori, Vera Boni e Alice Lotti l’hanno indagato durante l’estate appena trascorsa, con lo sguardo curioso di chi osserva per la prima volta un campo d’azione inesplorato, al fine di lasciare una traccia e valorizzare una realtà complessa e articolata come quella delle piscine della città. L’esposizione è visibile a partire da oggi negli spazi esterni del lido cittadino: il reportage si compone di 18 tavole in ecoplak alte 1,83 metri che ricoprono una superficie di 35 metri sul retro degli spalti. Inoltre, un pannello di 6 metri per 3 raccoglie 30 ritratti di coloro che lavorano nella struttura, mostrando il complesso meccanismo umano che sta dietro al funzionamento delle piscine e del centro sportivo. “L’estate che verrà” vuole essere un lavoro sospeso nel tempo: memoria di quanto è stato e, nel contempo, attesa di uno spazio rinnovato e nuovamente fruibile. Non a caso il progetto del reportage non chiude insieme alle Manazzon: infatti rimarrà esposto e visibile sul cantiere che dall’autunno interesserà le piscine per mantenere vivo nel tempo il ricordo di un luogo necessario per la comunità. Elisa Vettori, fotografa, è di casa a Trento da cinque anni, da quando ha aperto una piccola libreria indipendente. Si occupa di reportage e fotografia documentaria. Ha frequentato il lido Manazzon durante l’estate e osservato le persone che lo animano. Ogni foto in esposizione racconta una piccola storia, soffermandosi sull’ironia di alcune situazioni, sullo stupore, il gioco. Vera Boni, di Trento, che ha curato i testi del progetto, è laureata in Conservazione e gestione dei beni culturali e in Arte. Si occupa di eventi attraverso Pulk, uno spazio creativo e multiforme. Ha ascoltato l’intreccio di storie che animano il centro, per dare voce alla moltitudine di realtà che convivono e si intersecano. Il suo lavoro di scrittura va di pari passo con la costruzione di immagini prodotte da Elisa, con la quale collabora da più di due anni. Ha posto l’accento sulle persone che lavorano alle piscine e su quelle che frequentano attivamente l’impianto. Molte di loro si sono rese disponibili a lasciare una riflessione, un pensiero o un aneddoto legato al lido Manazzon. I loro racconti hanno fatto emergere la bellezza di uno spazio dedicato sia allo sport che al tempo libero e hanno permesso a Vera di delineare bisogni, desideri e aspettative che l’imminente chiusura porta con sé. Alice Lotti, graphic designer e illustratrice con base a Torino, lavora nel campo dell’editoria, dell’illustrazione e del wall painting con forme sintetiche e composizioni chiare che vivono al confine tra la figurazione e l’astrazione. Collabora con Elisa dal 2018. Per il progetto “L’estate che verrà” ha lavorato su titolo e pannelli con un gioco di alternanza dei colori che rimanda all’estetica della piscina. La palette cromatica è ispirata all’acqua e utilizza toni neutri che dialogano al meglio con le fotografie in bianco e nero. I segni grafici ricordano i movimenti dell’acqua, la dinamicità dell’ambiente delle piscine, gli scivoli, il divertimento. La Festa del nuoto trentino: Domenica 10 settembre sarà organizzata una festa per salutare il lido con il coinvolgimento delle società professionistiche della città e dei loro atleti. La “Festa del nuoto trentino” prevede dalle 14.30 alle 17.30 “Nuoto senza frontiere”, sfida a squadre dedicata agli atleti del Comitato provinciale di Trento della Fin. Quindi dalle 18 alle 19 le premiazioni dei migliori atleti del Comitato per la stagione 2022-2023. Infine dalle 19.30 alle 23 Dj set e un buffet. Sarà un pomeriggio di festa dedicato agli atleti del nuoto, ma anche l'occasione per salutare l'impianto di via Fogazzaro prima dell'inizio dei lavori. Alla festa verranno invitati anche i giocatori professionisti del basket e della pallavolo. I nuovi orari delle piscine di Trento Nord e Madonna Bianca: Vista la chiusura di Manazzon, con le società del nuoto è stato trovato un accordo per l’utilizzo delle due piscine di Trento Nord e Madonna Bianca che consenta di mantenere tutte le attività seppur con qualche sacrificio. A questo va aggiunto l’impegno profuso da Asis che ha garantito l’apertura degli impianti dalle 6 alle 23 nei giorni feriali. Dall’11 settembre gli orari al pubblico delle piscine di Trento Nord e di Madonna Bianca sono i seguenti: Trento Nord: dal lunedì al venerdì dalle 6 alle 14 e dalle 18.30 alle 23, sabato dalle 8 alle 20, domenica dalle 9 alle 19. Chiuso dal 23 dicembre al 7 gennaio e il 31 marzo. Ito Del Favero: dal 4 settembre, dal lunedì al venerdì, dalle 6 alle 14 e dalle 18.30 alle 20, sabato dalle 8 alle 20, domenica dalle 9 alle 19. Chiuso il 25 dicembre, il primo gennaio e il 31 marzo. Le ore pomeridiane dei giorni feriali, dalle 14 e fino alle 18.30, saranno dunque riservate a corsi e allenamenti delle società sportive.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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A Camera Torino Dorothea Lange e la sua Migrant Mother
Dal 19 luglio 200 opere sulla crisi climatica e le migrazioni (ANSA) – TORINO, 19 GIU – È Dorothea Lange la nuova protagonista dell’estate di Camera. Dopo Eve Arnold continua il viaggio nella storia della fotografia con un’altra maestra dell’immagine documentaria, autrice di una delle icone più celebri del Novecento: la toccante Migrant Mother scattata nel 1936. Curata dal direttore artistico…
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In Biblioteca puoi scoprire autori e opere che non conoscevi o di cui avevi sentito parlare ma che ancora non avevi avuto modo di leggere. Ed è per questo che abbiamo deciso di dedicare un angolo alla scoperta di questi "tesori nascosti". Oggi l'opera e l'autore prescelto sono: "L’approdo" di Shaun Tan. L’opera in questione è un silent book (libro senza parole che lascia “parlare” l’immagine), a metà tra un albo illustrato per bambini e una graphic novel per adulti, che tratta il tema “struggente” della migrazione. “L’approdo” racconta di un uomo costretto a lasciare la propria famiglia e il paese d’origine, un luogo ormai distrutto dal fuoco dei draghi, che ne ha cancellando ogni speranza, una città oscurata da immense ombre che costringono gli abitanti a rimanere nascosti nelle proprie case. E allora, foto con moglie e figlia alla mano, egli si imbarca da solo alla volta di un mondo lontano, che non comprende, completamente diverso dal suo, ma che promette una rinascita: l’occasione di una nuova vita. Così, l’autore illustra con abilità e senza retorica una realtà straripante di simboli alieni e al tempo stesso perfettamente interpretabili, ambigui e universali, bizzarri ma comunque decifrabili dal lettore; ciò attraverso la presenza di strani alfabeti, creature anomale e oggetti assurdi che ricordano nella forma e nella funzione quelli che tutti conosciamo. La solitudine che si prova ritrovandosi in un paese di cui si conosce poco o niente, le difficoltà nell’ambientarsi, nel creare nuovi legami e nel reinventare la propria vita sono solo alcuni degli aspetti trattati. Lo stile e il gran numero di dettagli costringono il lettore a soffermarsi su ogni vignetta, persino su ogni ruga d’espressione che adombra il volto dei personaggi, su ogni bislacco animaletto o strambo oggetto raffigurato. Da sottolineare anche la scelta delle illustrazioni “anticate”, mediante una scala cromatica che varia dal bianco e nero al seppia e che ricorda, appunto, le foto d’epoca (quelle di fine ‘800-inizi ‘900); se non fosse per l’ambientazione surreale e per le creature esotiche che popolano l’albo, questa intuizione cromatica potrebbe quasi convincerci di avere davanti agli occhi una storia realmente accaduta, la vera storia di qualcuno che ci ha preceduto, magari di un lontano parente o, più semplicemente, la storia “universale” di ognuno di noi. Anche la copertina segue questo effetto “datato”, riproducendo persino una certa usura negli angoli dall’effetto molto realistico e riproponendo le rilegature dei libri antichi. L'autore ha realizzato quest'opera dopo lunga ricerca documentaria e attraverso le testimonianze dirette dei migranti di origine australiana, al fine di raccontarne l'esperienza di vita. Shaun Tan, nato a Perth, è figlio di malesi emigrati in Australia negli anni Sessanta del ‘900. Pittore, illustratore, fotografo, scrittore, ha ricevuto molti premi tra cui il World Fantasy Award per l’intero corpus della sua opera. È stato definito uno dei più eclettici e talentuosi illustratori degli ultimi vent'anni, nonché un artista capace di rappresentare la varietà delle caratteristiche che l'illustrazione può assumere nei racconti contemporanei per bambini. Uno dei tratti distintivi del suo stile è la sperimentazione di differenti tecniche espressive, impiegate con l’utilizzo dei più svariati supporti. Per realizzare le sue illustrazioni, infatti, Tan si serve della matita di grafite, di tempere, oli, colori acrilici e pastelli, della tecnica del collage, della china, dell'argilla dipinta a mano e anche della fotografia (come ne “L’Approdo”). La scelta di avvalersi di tecniche espressive tanto diverse deriva da precise intenzioni comunicative, sia di carattere estetico che comunicativo, a seconda della natura dei racconti.
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“Io stesso non comprendo che senso abbia questa mia situazione così terribile e complessa”. Mishima, la formula micidiale: Proust+Dostoevskij+D’Annunzio
Atto V – Il prologo come epilogo
Questo quinto atto consiste essenzialmente in un’appendice documentaria e nel suo commento, che produce la proposta finale di una definizione riassuntiva e sintetica, una sorta di formula chimica o, meglio, alchemica.
Il documento d’appendice si avvale dell’epistolario che un ventenne aspirante scrittore, che ha già esordito a sedici anni con un delicatissimo e struggente racconto, tiene con un già celebrato scrittore connazionale. Il 18 luglio del 1945, colui che non è ancora definitivamente Yukio Mishima e continua a firmarsi Kimitake Hiraoka, scrive una lettera «come in delirio, per il desiderio di confidarmi e di essere ascoltato da Lei», e questo Lei è Yasunari Kawabata. In questa lettera, assieme alla busta con cui la invierà al maestro, il futuro Mishima già sigilla il proprio destino. Merita riportarne alcuni passaggi fondamentali e fatali:
“…ed io trascorro i giorni contemplando le nuvole bianche in cielo, nell’impaziente attesa di un’estate che non giunge. La temperatura di quest’anno è troppo rigida per chi, come me, ama lavorare lottando con un caldo feroce: ogni entusiasmo minaccia di spegnersi sul nascere, e questo m’inquieta. La guerra imperversa con sempre maggior violenza, e il tavolo su cui scrivo mi sembra sempre più angusto, giorno dopo giorno: ho soltanto lo spazio per posarvi un foglio. E poiché non posso neppure appoggiarvi i gomiti, fatico persino a muovere la penna. Lavorare pazzamente, in circostanze simili, significa esser fedele allo spirito della letteratura? Lo ignoro. Vado avanti solo nella convinzione quasi disperata di esser fedele a qualcosa. […]
Io stesso non comprendo che senso abbia questa mia situazione così terribile e complessa, e tutto quello che sono in grado di dire è che mi agito con l’arrendevolezza di un burattino manovrato dagli dèi, accarezzando un desiderio del tutto banale e comune, ossia di comporre un racconto magnifico, come nessuno è più in grado di scriverne, un racconto per cui chiunque, leggendolo, debba esclamare: “Com’è bello!”, e questo stolto desiderio mi domina con la stessa ineluttabilità di un male incurabile. […]
A cosa sono fedele nella folle, egoistica convinzione di “esser fedele a qualcosa”? […] Non immaginavo che la letteratura esigesse una vita di fede fanatica e di dubbio, simile a quella di un Martin Lutero. Ho a lungo pensato che fosse fatale per la letteratura seppellire la vita quotidiana. Credevo che creare una letteratura significasse avere il tempo di vivere le esigenze secondarie per poter pensare a ciò che è essenziale. Ma ho forse il diritto di pontificare sulla “vita”?
Penso all’epoca in cui i grandi, magnifici sauri della preistoria andarono improvvisamente incontro all’estinzione a causa del rigore delle condizioni ambientali: cosa sarebbe accaduto se molti di loro fossero riusciti a sfuggire al pericolo e a riprodursi in qualche luogo? Suppongo che nelle loro abitudini e nei loro comportamenti si sarebbero ostinatamente conservate le tracce di una specie “in via d’estinzione”: E per aver vissuto quell’estinzione, ossia una condizione antitetica alla vita, sarebbero a poco a poco degenerati. E alla fine avrebbero conosciuto l’annientamento senza alcun bisogno dell’intervento umano. Non è forse possibile riconoscere anche in letteratura l’esistenza di limiti alla vita e all’esperienza, limiti invalicabili e che sfuggono all’ambito dell’esperienza letteraria (nel senso in cui l’intendeva Rilke)? Non verrà forse il momento in cui sarò costretto alla dolorosa scelta di realizzare, al di fuori dell’ambito della letteratura, le mie fantastiche, letterarie visioni?”.
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Nel momento in cui sta nascendo lo scrittore e artista Yukio Mishima se ne sta anche determinando la missione, il fine ultimo a cui deve tendere un’intera esistenza che sarà esattamente di un quarto di secolo, spegnendosi infatti venticinque anni dopo la sua nascita letteraria, il 25 novembre 1970. La lunga citazione si giustifica per questa sua natura di testamento scritto in punta di nascita, almeno artistica, come un neonato che già dica ora e data precise della propria morte. E, soprattutto, causa e fine di questa dipartita volontaria: “L’orgoglio dei fiori non si manifesta forse nel “momento stesso della fioritura” più che nella possibilità di fiorire in futuro o nella consapevolezza di esser fioriti in passato? Un tale pensiero mi offre un certo conforto. Perché permette, al di là delle esperienze vissute, di considerare la vita come un modo di prepararsi, e anche come un modo di essere, pienamente. E poi perché forse quel momento doloroso potrebbe non presentarsi mai. In un certo senso sono diventato ottimista. Non temo più l’imitazione. E neppure il tempo!”.
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Fossi costretto ad introdurre Mishima a lettori europei colti ma ignari della sua opera, dovessi dunque riassumerlo in una nostra formula continentale, con tutta la brutale nettezza propria di ogni formula, direi: Mishima = Proust + Dostoevskij + D’Annunzio.
Mishima e Proust. L’arte come apprendistato alla vita, o meglio: l’arte come armatura con cui gloriarsi di una vita sognata come avventura infinita e sospensione da un tempo il cui trascorrere è subìto come condanna, ma è redento se proiettato sugli schermi della nostalgia. Vivere più nel ricordo che nel momento presente, affidandosi al potere negromante della scrittura coltivata con l’ossessione di chi ritiene che per ogni emozione e pensiero, gioia o dolore, il vocabolario sagacemente compulsato, la lingua elegantemente corteggiata e infine signorilmente padroneggiata ti possa offrire la parola esatta, l’artiglio che tutto afferra e senza scampo. Proust entra nel 1910 in una stanza dalle pareti imbottite di sughero per raggiungere la concentrazione massima così da poter consegnare la sua opera all’immortalità; Mishima esce definitivamente dalla sua letteraria stanza chiusa a chiave (titolo di un suo romanzo breve del 1954) al culmine fisico e artistico della sua vita per consegnarsi tutto intero, anima e corpo, ad un atto finale che non smetterà mai di andare in scena.
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Mishima e Dostoevskij. La cronaca nera e la cronaca politica, i bassifondi e i salotti, le bettole e i monasteri sono gli scenari più adeguati per l’incontro con quell’anfibia creatura che ha nome uomo. Lo sa il russo, lo sa il giapponese. Dostoevskij è un radar infallibile della psicologia umana, di cui capta anche i segnali più sordi, i rantoli più sotterranei, i latrati e i mugolii che appaiano l’uomo all’animale. Mishima allarga il raggio e sa sondare anche l’animo femminile, spingersi là dove le antenne del russo stentano ad intercettare frequenze che restano solitamente criptate ai più. La pagina del giapponese Mishima contiene, cosciente o meno, una sinica sapienza taoista e così si mostra capace di abbracciare lo yin e lo yang, sa restituirceli nei loro equilibri temporanei, nei loro squilibri prolungati e sovente addolorati dalla logorante ricerca di una balsamica ricomposizione. Quanto al divino, tema presente in entrambi, ciò che nel russo è uno nel giapponese si moltiplica, così che ai demoni si affiancano gli dèi e il campo si dispiega ora per una battaglia ora per un’orgia.
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Mishima e D’Annunzio. L’estetismo ai tempi dell’estetica della politica, ovvero il poeta come condottiero e un dandy che fa della propria vita un’opera d’arte se quest’arte imita le gesta di un ideale guerriero romantico, mosso da un’etica cavalleresca. Un decadente che avverte l’ultima chiamata al riscatto rispetto al molle compiacimento di cui cantavano Paul Verlaine e i suoi poeti maledetti. Uno scatto di orgoglio simile a quello di Rimbaud, ma non fuori dal perimetro dell’arte, vestendo magari i panni del trafficante d’armi in Africa, semmai tutto al suo interno, laddove fosse possibile far confluire il fiume dell’azione in quello della bellezza come arte, come frutto di un gesto o una sequenza di atti solenni, inquadrati in una cerimonia e in un codice che rispettino un registro antico e immutato nel tempo. La tradizione samurai rispondeva perfettamente alla bisogna. L’inalterato dalla tradizione quale antidoto che uccide il virus moderno dell’alterazione continua, incessante. Fermare l’attimo con un affondo di pugnale ed un taglio di katana. E qui Mishima soddisfa l’esigenza più intima di Proust, al quale strappa la penna e consegna una spada, conducendo fino all’estremo lugubre dell’auto-immolazione il vitalistico amore dannunziano del pericolo.
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Ecco il senso della formula Mishima = Proust + Dostoevskij + D’Annunzio. Un’addizione il cui risultato, la somma, è qualcosa di diverso dalla sovrapposizione ed accumulazione dei tre addendi. Qualcosa di inevitabilmente differente perché l’amalgama fra i tre addendi, quel segno + è fornito dalla cultura autoctona che il giapponese, sin dalla prima infanzia, assorbe tramite le voracissime letture dell’intera tradizione narrativa e drammaturgica della propria madre patria, dal primo medioevo ai suoi coevi. Sbagliato soprattutto dire se una tale somma sia superiore o inferiore all’accumulazione delle virtù letterarie dei suoi tre addendi; impossibile dirlo, come del resto sempre accade quando si tratta di vette assolute dell’arte mondiale, ma soprattutto perché con Mishima voi avrete molte qualità proprie del primo, del secondo e del terzo addendo, con il risultato di una miscela artistica che rende la sua opera unica, indiscutibilmente originale e a tutt’oggi inimitabile. E scusate se è poco. (Fine Atto V)
Danilo Breschi
*Il lavoro di Danilo Breschi, sotto il titolo complessivo “Yukio Mishima: uomo vinto dalla Storia o enigma letterario invincibile?”, è pubblico, in più “atti”, qui: Atto I; Atto II; Atto III; Atto IV
**In copertina: Mishima Yukio (1925-1970) in una fotografia di Elliott Erwitt
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Strepitoso successo per i fotografi italiani: Federico Borella vince l’ambito titolo di “Photographer of the Year” ai Sony World Photography Awards 2019
La World Photography Organisation ha reso noto oggi il nome del vincitore del titolo più ambito dei Sony World Photography Awards: Federico Borella è Photographer of the Year 2019 con la serie Five Degrees. L'apprezzatissima serie, premiata con il primo posto nella categoria Documentario, ha sbaragliato le altre nove opere vincitrici delle diverse categorie nella sezione Professional, conquistando il titolo assoluto e aggiudicandosi la somma di 25.000 dollari. Nel novero dei vincitori figurano anche altri italiani: il duo artistico composto da Jean-Marc Caimi & Valentina Piccinni, vincitore del 1° premio nella categoria Documentario, Alessandro Grassani, vincitore del 1° premio nella categoria Sport e Massimo Giovannini, vincitore del 2° premio nella categoria Ritratto della sezione Professional.
Giudicata da esperti internazionali di fotografia provenienti dal mondo dei media, dei musei, dell’editoria e accademico, la competizione Professional premia serie da cinque a dieci immagini eccezionali che dimostrano particolari doti artistiche in dieci diverse categorie. Questo prestigioso riconoscimento rende fruibile a un vasto pubblico il meglio della fotografia contemporanea dell’ultimo anno e offre agli artisti di questo settore un’esposizione mediatica e opportunità ineguagliabili.
Photographer of the Year - Federico Borella, categoria Documentaria per la serie Five Degrees
Borella, 35 anni, originario di Bologna, è stato scelto tra i dieci vincitori di categoria come detentore del titolo Photographer of the Year per la serie Five Degrees. La serie ha trionfato nella categoria Documentario per la potenza delle immagini che raccontano la piaga dei suicidi maschili nella comunità agricola di Tamil Nadu, nel sud dell’India, colpita dalla più grave siccità degli ultimi 140 anni.
Ispirato da uno studio dell’Università californiana di Berkeley, che ha riscontrato una correlazione positiva tra il cambiamento del clima e l’aumento nel numero dei suicidi tra i contadini indiani, Borella ha esplorato l’impatto dei cambiamenti climatici su questa regione agricola e la sua comunità attraverso immagini vivide e toccanti del paesaggio, dei ricordi dei defunti e dei loro cari ancora in vita, con l’obiettivo di dare risalto a questo problema e sensibilizzare l’opinione pubblica: “Senza un intervento mirato delle istituzioni, il surriscaldamento globale farà aumentare il numero di suicidi in tutta l’India”, ha dichiarato. “L’impatto dei cambiamenti climatici si ripercuote sul benessere a livello globale, oltrepassando i confini dell’India e rappresentando una minaccia per tutta l’umanità”.
Borella è un fotoreporter con oltre 10 anni di esperienza alle spalle e collaborazioni attive con numerose agenzie in tutto il mondo. Dopo gli studi in letteratura classica e archeologia mesoamericana presso l’Università Alma Mater Studiorum di Bologna nel 2008, ha conseguito un master in fotogiornalismo presso l’Accademia Jhon Kaverdash di Milano.
Il giurato Brendan Embser (Curatore editoriale, Aperture, USA) illustra le qualità che hanno portato Borella alla vittoria nella categoria Documentario: “Il cambiamento climatico è una tematica molto pervasiva e tuttavia così difficile da rappresentare, in parte per la sua natura così travolgente. L'aspetto che ci ha maggiormente colpito è stato l’approccio molto intelligente di Borella nel raccontare una storia sul cambiamento climatico che ha messo in primo piano con delicatezza le persone colpite - il piccolo gruppo di persone ritratto da Borella rappresenta un gruppo più vasto di persone che si sono tolte la vita o le cui vite sono state distrutte dai cambiamenti climatici. A colpirci particolarmente sono state le diverse tecniche utilizzate per raccontare questa storia: ritratti, nature morte, vedute aeree e paesaggi: un approccio a 360° che dà movimento al racconto.”
Il premio per il fotografo vincitore comprende la somma di 25.000 dollari, viaggio in areo e soggiorno a Londra per la cerimonia di premiazione, oltre ad attrezzature fotografiche di ultima generazione di Sony e alla pubblicazione delle immagini nel volume dedicato ai vincitori. L’opera potrà essere ammirata alla mostra dei Sony World Photography Awards presso la Somerset House di Londra e, in un secondo momento, in un tour globale.
● Jean-Marc Caimi e Valentina Piccinni, 1° posto nella categoria Scoperta per la serie Güle Güle
Güle Güle (“arrivederci” in turco) esplora la città di Istanbul da una prospettiva documentaristica e di scoperta con un’attenzione particolare ai cambiamenti della società turca. Il duo artistico originario di Roma, che ha pubblicato quattro libri di successo e partecipato a numerose mostre internazionali, ha osservato da vicino la città, cogliendone aspetti caratteristici come la gentrificazione, la discriminazione e l’immigrazione dei rifugiati siriani.
Questo il commento del giurato Brendan Embser (Curatore editoriale, Aperture, USA) a riguardo: “Si tratta di un’opera eccezionale realizzata con grandissima precisione e uno humor intrigante. Passa da scene molto intense a immagini più composte con una qualità quasi cinematografica. Interessante l’uso del colore e del flash che concorrono alla creazione di un’opera delicata e arguta”.
● Alessandro Grassani, 1° posto nella categoria Sport per la serie Boxing Against Violence: The Female Boxers Of Goma
La serie vincente di Grassani Boxing Against Violence: The Female Boxers of Goma offre al pubblico un’istantanea sul ruolo della box come gruppo di sostegno e luogo sicuro per molte donne a Goma nella Provincia di Kivu Nord. A proposito di questa serie, l’autore ha dichiarato: “Qui le donne non imparano solo ad assestare colpi, ma riacquistano forza e voglia di combattere contro le ingiustizie, oltre ad allenarsi e sognare di diventare le future campionesse mondiali”.
Il fotografo ha al proprio attivo numerose collaborazioni con pubblicazioni internazionali come il National Geographic e il New York Times e sta attualmente creando nuovi progetti sul cambiamento climatico e la guerra.
Nelle parole della giurata Emma Lewis (Assistente curatrice, Tate, Regno Unito) le motivazioni della vittoria della serie di Grassani: “Siamo stati davvero entusiasti di vedere questo progetto nella categoria Sport perché ci ha raccontato una storia che non conoscevamo attraverso dei ritratti, anziché con le tipiche immagini di attività e azione dello sport. Oltre a essere molto ben eseguita dal punto di vista tecnico, la serie offre un punto di vista differente su questa particolare regione del mondo rispetto a ciò che siamo forse abituati a vedere attraverso i media occidentali”.
● Massimo Giovannini, 2° posto nella categoria Ritratto per la serie Henkō
Giovannini viene da Trento e la sua serie Henkō (parola giapponese che significa “cambiamento” e “luce variabile o insolita”) esplora il concetto secondo il quale la luce può alterare la nostra prospettiva degli oggetti. La serie fa leva sulle variazioni di luce e sul trucco per sfidare i pregiudizi di genere dell’osservatore. Parlando della sua serie, Giovannini afferma: “Se bastano l’illuminazione e un trucco superficiale per mettere in discussione l’idea di genere, forse allora il confine tra maschile e femminile è più labile di quanto siamo portati a credere?”.
Questo il commento del giurato Liu Heung Shing (Fondatore del Shanghai Center of Photography): “Questa serie di immagini porta gli osservatori a guardare senza ambiguità e questa è la caratteristica più affascinante delle fotografie: attirare all’interno chi le osserva”.
Premi Professional
Tutti i vincitori della sezione Professional riceveranno attrezzature fotografiche di ultima generazione di Sony e parteciperanno alla cerimonia di premiazione a Londra. Le opere dei vincitori delle diverse categorie e dei finalisti potranno essere ammirate alla mostra dei Sony World Photography Awards 2019 presso la Somerset House di Londra e, in un secondo momento, in un tour globale. Sony World Photography Awards 2019
Istituiti dalla World Photography Organisation, i Sony World Photography Awards sono uno dei concorsi fotografici più rinomati e poliedrici al mondo, quest’anno alla 12° edizione. L’edizione 2019 ha registrato un totale di 326.997 candidature provenienti da 195 Paesi diversi, una cifra record.
I successi degli artisti italiani vengono annunciati oggi assieme ai vincitori delle categorie della sezione Professionisti e ai vincitori assoluti delle sezioni Open, Giovani e Studenti.
La proclamazione segue la pubblicazione di marzo dei finalisti della sezione Professionisti, nei quali figurava anche l’italiano Filippo Gobbato per la categoria Sport. La notizia va a completare il quadro dei riconoscimenti assegnati nel 2019, che ha iniziato a delinearsi lo scorso febbraio con l’annuncio dei 10 vincitori delle categorie Open e dei 62 vincitori dei National Awards. Per maggiori dettagli, visitare il sito https://www.worldphoto.org/galleries
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Tendenze 2019 Photo Shooting
Hai pensato a come immortalare il momento più bello della tua vita? è per sempre!!!
Condividiamo con Voi le tendenze e lo stile 2019 che puoi trovare nel mondo della fotografia del matrimonio e le proposte dei fotografi specializzati in matrimoni
…non lasciare nulla al caso …
Matrimoni più rilassati
I giorni di un matrimonio formale e tradizionale si sono alleviati con cerimonie nuziali sempre più rilassate e informali, in location originali ed uniche di cui il territorio Langhe e Roero è ricco.
Le coppie sembrano festeggiare in un modo più socievole, con l'attenzione rivolta alle persone e agli ospiti delegando i dettagli a professionisti.
Anche se non è una tendenza specifica per la fotografia, essa introduce un cambiamento nell'industria del matrimonio e nello stile dei matrimoni che le coppie sembrano scegliere. Le coppie sono più consapevoli dei costi e cercano di trascorrere e far trascorrere una bella e piacevole giornata che resti nel cuore di tutti indimenticabile valorizzando il budget disponibile. Questo cambiamento di stile e un'atmosfera più rilassata ci portano al nostro primo punto di descrizione dei principali trend in fotografia con la crescita della fotografia documentaria.
Reportage / Documentario
Passati i giorni della tradizionale fotografia di matrimonio con tante foto posate, ogni combinazione di foto di famiglia possibile, si gioca tutto con la capacità di immortalare momenti naturali di felicità con scatti sinceri degli sposi e delle persone che si godono la giornata insieme.
Reportage noto anche come fotografia di matrimonio documentaria, uno stile rilassato e informale, realizzato catturando quei piccoli dettagli, le emozioni sui volti, i momenti belli e le reazioni impagabili.
Secondo fotografo
Sempre più coppie ricercano un secondo fotografo al loro matrimonio per garantirsi che tutti i momenti importanti o meno non sfuggano. Le coppie sono più consapevoli dell'importanza della fotografia e quindi cercano di assicurarsi che ogni momento sia immortalato in tutta la sua bellezza o emozione.
Foto primo sguardo
Questo must-have del matrimonio è in voga da un bel po 'di tempo e continua ad andare forte. Alcune spose chiedono di fotografare il primo sguardo del padre su di loro in bianco e la reazione della mamma o delle damigelle reagiscono quando appaiono ai loro occhi increduli. Dai un'occhiata a queste splendide foto del primo sguardo di nozze per vibrare con le emozioni che trasferiscono.
Cerimonie Unplugged
Sempre più coppie stanno optando per la loro cerimonia di nozze, anche se non con poco disaccordo, per l’opzione niente fotocamere, niente telefoni, niente iPad, solo ospiti che sono lì e si godono il momento con te.
Il nostro post di 23 foto che ti faranno avere un matrimonio scollegato ti mostrerà il motivo per cui vorrai andare scollegato, abbiamo anche una guida su come dire ai tuoi ospiti di tenere i loro telefoni in tasca e godersi la cerimonia con te.
Social Media
No grazie - Dato che è usato ogni giorno ed è così popolare, può essere frustrante per alcune coppie avere foto pubblicate su tutti i social media della sposa e del suo vestito, la coppia felice e autoscatti divertenti pubblicati prima ancora che il giorno magico sia finito. Una tendenza popolare è la richiesta di non pubblicare nulla sui social media coerente all'andare scollegato, vuoi che i tuoi ospiti si divertano e festeggino la giornata con te, hai già un fotografo lì, ricorda loro questo.
Oh sì, per favore - Il rovescio della medaglia, alcune coppie vogliono vedere le foto che gli ospiti stanno prendendo ed esserne felici. Usando i social media basta creare un hashtag di nozze per gli ospiti per caricare le foto su Twitter,
Instagram e altre piattaforme di social media. Può essere un modo per promuovere l'evento e vivere il matrimonio attraverso i loro occhi. Le app, come Artifact Uprising, consentono inoltre agli utenti di smartphone di caricare quelle foto dai social media e creare poi album, calendari, cartoline, album di ritagli…così come piace a loro.
Selfies
Ammettiamolo: i selfie sono una parte importante della società vernacolare e di Internet di oggi. Come tali, le coppie social-media-esperte stanno organizzando "stazioni selfie" per i loro amici e parenti, insieme a uno sfondo incantevole, per riprendersi divertendosi al matrimonio. Questo è la traduzione attuale delle camere usa e getta offerte come un modo per documentare le nozze.
Scatti della proposta di matrimonio
Non la fotografia del giorno del matrimonio, ma sempre più futuri sposi si rivolgono a fotografi per documentare il momento della proposta in modo che tale momento possa essere catturato e rivissuto molte volte dalla coppia, così come condiviso con familiari e amici.
Foto da Drone
Con l'aumento dei fotografi in grado di utlizzare droni e le telecamere di qualità superiore a bordo, sta diventando un must del pacchetto offerto per situare l’evento ed arricchire con immagini suggestive soprattutto per matrimoni che si svolgono in location tipo Langhe e Roero molto spettacolari.
Albums
I tempi di CD e USB sono finiti, ma gli album di nozze sono tornati e sono sicuramente più popolari, un ottimo modo per far sì che il tuo fotografo crei un bellissimo album del tuo giorno selezionando le foto per raccontare una storia. Quale modo migliore per vedere le tue foto e rivivere la giornata con un album fisico?
Photos del Giorno Dopo
I giorni del matrimonio sono caotici e stressanti. Molte volte, possono sorgere cose che vanno al di là del controllo di un fotografo di matrimoni tipo temporali, illuminazione…e altri fatti che possono limitare gli scatti e la loro qualità.Di conseguenza, scatti del giorno dopo stanno guadagnando popolarità con molti sposi. Inoltre, le foto diurne consentono anche ai fotografi di fotografare la coppia felice in una posizione alternativa a parte la location del matrimonio dando al fotografo più tempo per trovare gli scatti più desiderati.
Queste sono solo tendenze e mostrano come l'industria della fotografia di matrimonio sta cambiando e le priorità per le coppie siano diverse ed ancor più da personalizzare quando si tratta di catturare ed immortalare il loro giorno magico da rivivere nel tempo.
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ANCONA – Fino al 1° luglio al Ridotto del Teatro delle Muse INTEATRO FESTIVAL va in scena Nassim ultimo testo dell’iraniano Nassim Soleimanpour. Lo spettacolo scritto e interpretato dall’artista di Teheran, vedrà sul palco un diverso interprete per ogni rappresentazione utilizzando un meccanismo teatrale originale e perfetto che vedrà coinvolto anche il pubblico. Sul palco si alterneranno nelle diverse serate: 30 giugno Lella Costa e l’1 luglio Lucia Mascino.
La regia dello spettacolo è di Omar Elerian, disegno Rhys Jarman, sound designer James Swadlo, light designer Rajiv Pattani, produttore Michael Ager, script editor Carolina Ortega e Stewart Pringle, la produzione è di BUSH THEATRE e la produzione italiana è di MARCHE TEATRO.
Ogni sera un attore diverso interpreta il nuovo e audace lavoro dell’artista Nassim Soleimanpour, esplorando il concetto di libertà, esilio e le limitazioni del linguaggio.Biglietti in vendita biglietteria del teatro 071 52525 [email protected] – biglietti on line www.geticket.it www.inteatro.it www.marcheteatro.it
Prosegue fino al 21 luglio, la quinta edizione della manifestazione E–State al Dorico “Ancona Olimpica” ideata per far rivivere il vecchio e caro Stadio Dorico nel periodo meno utilizzato, quello estivo. Saranno coinvolte tutte le discipline sportive anconetane, che la struttura dello storico Stadio Dorico può ospitare, a partire dalle ore 17 fino alla mezzanotte.
Sabato 30 giugno, ore 17:00 “Archeologo per un giorno” Museo della città. Vivi l’emozione dell’archeologia! Al Museo della città, dopo un’emozionantevisita guidata alla scoperta della sezione antica greco-romana e una divertente lezione sui rudimenti dell’archeologia, sarà possibile sperimentare una vera e propria simulazione di scavo archeologico! Con tanto di strumenti e ritrovamenti eccezionali, i bambini vestiranno i panni del direttore di scavo, del restauratore, dello scavatore e dell’esaminatore.
Proprio come in un vero team! Si consiglia abbigliamento comodo. Evento per famiglie con bambini dai 7 ai 10 anni. Ingresso Piazza del Plebiscito QUOTA DI ADESIONE: € 10,00 a bambino; € 2,00 per gli adulti Prenotazione obbligatoria telefonando al numero 0712225047 (negli orari di apertura) o scrivendo a [email protected]
Prosegue la rassegna di Sport in Piazza Pertini in programma nei mesi di giugno e luglio.Un programma particolarmente articolato quest’anno con tornei, gare ed esibizioni di calcio a 5, basket, ginnastica, bridge, danza, watervolley, wheelchair hockey….. e molto altro. Calcio A5 1 Luglio ore 21.00 – XXIII° CITTA’ DI ANCONA Trofeo Estra Prometeo 1 Luglio ore 21.45 (Finalissima) Asd Ankon Dorica
Per Lazzabaretto Cinema 2018, Sabato 30 Giugno 2018 DOPO LA GUERRA 21.30 – Mole Vanvitelliana, Banchina Giovanni da Chio, 28 Regia di Annarita Zambrano. Con Giuseppe Battiston, Barbora Bobulova. Genere Drammatico – Francia, 2017, durata 100 minuti.
Festival del Mosciolo. Sabato 30 giugno “A spasso con Desy” Partenza della motonave Desy per minicrociere della durata di 2 ore.(Costo 20€ adulti,6-12 anni 15€). Orari da definire. Ore 18,30:Apertura stands gastronomici. Truccabimbi e Lotteria di beneficenza a cura della Croce Rossa Italiana Comitato di Ancona. Dimostrazione di Old Subbuteo a cura del Club I.N.S.O.M.M.ADalle 18,30 alle 22,30 Caccia ai Tesori del Porto Antico, a cura dell’ Associazione “i Sedici Forti di Ancona”. In premio tre cene da consumare allo stand del Festival del Mosciolo. Ore 22,30 Patrik Pambianco Voce-Davide Di Luca chitarra ACoU2stic Tribute.
DOMENICA 1° LUGLIO
Marina Dorica, il 1°luglio esibizione della Associazione Corale Orlandini con lo spettacolo “Cantando Oltre” dalle ore 21.30.
Domenica 1 luglio, ore 17:00 Visita “Arte d’estate – Scultori del Novecento ad Ancona” Pinacoteca Civica. Ancona ha avuto nel XX secolo artisti importanti che ci hanno lasciato opere significative: nel caso della scultura, queste sono diventate parte della nostra memoria urbana e collettiva. Maltoni, Morelli e Trubbiani, tre grandi nomi dell’arte della nostra città, con i loro interventi hanno definito l’immagine di Ancona moderna. Alla scultura anconitana del Novecento è dedicato questo giro, dove scopriremo le opere d’arte che questi scultori hanno lasciato in Pinacoteca ed in città.
In tal senso concluderemo il percorso all’esterno, focalizzandoci su un edificio abbandonato da tempo ma molto importante per la storia anconitana, attualmente in fase di riscoperta e valorizzazione: la Casa del Mutilato in Corso Stamira. Ingresso biglietteria vicolo Foschi, 4. QUOTA DI ADESIONE: € 8,00 a partecipante. Prenotazione obbligatoria telefonando al numero 0712225047 (negli orari di apertura) o scrivendo a [email protected]
Fino al 1° luglio al Ridotto del Teatro delle Muse INTEATRO FESTIVAL va in scena Nassim ultimo testo dell’iraniano Nassim Soleimanpour. Lo spettacolo scritto e interpretato dall’artista di Teheran, vedrà sul palco un diverso interprete per ogni rappresentazione utilizzando un meccanismo teatrale originale e perfetto che vedrà coinvolto anche il pubblico. Sul palco si alterneranno nelle diverse serate: 30 giugno Lella Costa e l’1 luglio Lucia Mascino.
La regia dello spettacolo è di Omar Elerian, disegno Rhys Jarman, sound designer James Swadlo, light designer Rajiv Pattani, produttore Michael Ager, script editor Carolina Ortega e Stewart Pringle, la produzione è di BUSH THEATRE e la produzione italiana è di MARCHE TEATRO.
Ogni sera un attore diverso interpreta il nuovo e audace lavoro dell’artista Nassim Soleimanpour, esplorando il concetto di libertà, esilio e le limitazioni del linguaggio.Biglietti in vendita biglietteria del teatro 071 52525 [email protected] – biglietti on line www.geticket.it
www.inteatro.it www.marcheteatro.it
Marina Dorica, dal 28 giugno al 1° luglio XXVIII Middle Adriatic offshore Cup.
Per Lazzabaretto Cinema 2018 L’INSULTO 21.30 – Mole Vanvitelliana, Banchina Giovanni da Chio, 28 Regia di Ziad Doueiri. Con Adel Karam, Rita Hayek. Genere Drammatico – Libano, 2017, durata 113 minuti. Il film che tocca i nervi scoperti del Libano. Presentato in concorso all’ultimo Festival di Venezia ha ottenuto la Coppa Volpi alla miglior interpretazione maschile. Ore: 21.15: Introduzione a cura dell’Associaizone Ankonistan, interviene il giornalista e documentarista Ruben Lagattolla Ingresso intero 5€, ridotto 4€
All’Arena Cinema Italia per la rassegna Tropicittà alle ore 21.30 si proietta LAST CHRISTMAS regia: Christiano Pahler
Festival del Mosciolo: Domenica 1 luglio “A spasso con Desy” Partenza della motonave Desy per minicrociere della durata di 2 ore.(Costo 20€ adulti,6-12 anni 15€). Orari da definire Ore 13,00 42° Motoincontro di Ancona, 15° Memorial Franco Nocelli a cura del Moto Club Ancona G.Lattanzi-La Casetta. Ore 18,30:Apertura stands gastronomici. Truccabimbi e Lotteria di beneficenza a cura della Croce Rossa Italiana Comitato di Ancona. Ore 21,30 “Rana Show”. Ore 22,30 Concerto con i “SEAN CONERO”, in collaborazione con la Universal Events
Per gli eventi promossi dall’Assessorato alla Partecipazione Democratica, domenica 1° luglio la BANDA DI TORRETTE IN CONCERTO alle ore 21,30 sarà in concerto al Parco Belvedere – Posatora
LUNEDI’ 2 LUGLIO
Per Lazzabaretto Cinema 2018, Lunedi 2 Luglio 2018 SACCO E VANZETTI 21.30 – Mole Vanvitelliana, Banchina Giovanni da Chio, 28 Regia di Giuliano Montaldo. Con Gian Maria Volonté, Riccardo Cucciolla. Genere Drammatico – Italia, Francia, 1971, durata 111 minuti. La condanna a morte che cambiò la storia. Torna in sala il film di Giuliano Montaldo con le musiche di Ennio Morricone e Joan Baez. **Ore 21.15: Introduzione a cura dell’Istituto Gramsci Marche, interviene Carlo Latini (Presidente Istituto Gramsci) Rassegna “Cinque pezzi facili: il cinema di Ennio Morricone” Ingresso unico 4€
All’Arena Cinema Italia per la rassegna Tropicittà alle ore 21.30 si proietta DOGMAN regia: Matteo Garrone
MOSTRE
Fino a domenica primo luglio Ancona Foto 2018 festival Genti e Gente alla Polveriera Castelfidardo del Parco del Cardeto che ospita la mostra fotografica di Danilo Antolini, Pia Bacchielli, Chiara Gambardella. Apertura dalle 17:00 alle 19:30 fino al primo luglio continua la mostra di Monika Bulaj
Fino al 24 ottobre è possibile visitare presso la Biblioteca Benincasa una nuova mostra libraria e documentaria. Si tratta della mostra “Tra editoria e letteratura: A. Gustavo Morelli editore e tipografo ad Ancona tra Otto e Novecento”, incentrata su una figura notevole nel panorama culturale cittadino tra Otto e Novecento: il tipografo editore A. Gustavo Morelli (1852-1909). La mostra è visitabile presso lo Spazio d’Ingresso della Benincasa, in Via Bernabei 30, dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 19.
Durante il periodo estivo (luglio e agosto), sarà visitabile il mattino, dalle 9 alle 13.30 e di pomeriggio anche il martedì e il giovedì dalle 14.30 alle 17.La mostra espone anche tra l’altro una lettera del pittore Francesco Podesti, di cui Morelli pubblicò due opere.Della mostra è disponibile un catalogo presso la Sala di lettura e a richiesta si effettuano visite guidate
Mostra fotografica Women – fino all’ 8 luglio 2018, dal martedì alla domenica Orario: 17,30-19,30. Con le opere di Pia Bacchielli, Silvia Breschi, Sergio Cavallerin, Rosella Centanni, Corrado Maggi, Aldo Moglie, Edoardo Pisani, Tiziana Torcoletti. Galleria Puccini Via Bernabei 39 – Ancona www.galleriapuccini.it
La mostra “Women”, attraverso la fotografia, ha cercato di cogliere alcuni aspetti delle donne nella loro quotidianità e nelle diverse latitudini. Il linguaggio che ha usato è quello delle differenze nelle infinite varietà dei soggetti ritratti diventando la foto parte integrante della narrazione. Ogni artista espone una, due, tre foto/storie che dialogano fra loro, raccontando con sguardi diversi le donne, le molte realtà, facendosi testimoni anche di quello che spesso viene nascosto, singoli sguardi che nel loro insieme vogliono contribuire a rendere una visione più ampia della condizione femminile.
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Mentre la fondazione a lui intitolata pianifica un 2018 pieno di eventi, Martin Parr ci regala alcuni dei suoi migliori consigli.
Martin Parr GB. England. ‘I don’t think it’s anything particularly forced on Deborah. We’ve just always enjoyed the same sort of things.’ From ‘Signs of the Times’. 1991. © Martin Parr | Magnum Photos
Sono stati mesi impegnativi per Martin Parr. Fotografo, curatore, creatore di libri fotografici e collezionista, sta avviando la sua fondazione a Bristol. Da quando ha aperto le sue porte, la mission principale della Fondazione è stata quella di aiutare i fotografi documentaristi a concentrare il lavoro sulle isole britanniche.
“Sono sempre alla ricerca di ciò che considero veramente un buon lavoro… E’ un mix di scoperte e di rinnovata attenzione verso persone che per qualche motivo sono state trascurate, incomprese e non apprezzate nel passato”, ci dice Parr, noto anche per le sue abitudini da collezionista. Infatti la sua collezionepersonale di fotolibri è stata acquistata dalla Tate.
Martin Parr GB. England. Weymouth. From ‘Common Sense’. 1998. © Martin Parr | Magnum Photos
Di conseguenza, la Fondazione Martin Parr espone corpi di lavoro di eccezionale qualità come, ad esempio, la prossima mostra di Niall McDiarmid, e il libro che l’accompagna, Town to Town, che è stata inaugurata a Gennaio. Parr ci spiega che, tramite la fondazione acquisterà anche parti chiave della mostra: “parte del processo consiste nell’acquisto di alcune stampe per la Fondazione cosicchè il guadagno per l’autore arrivi sotto forma di acquisto”.
Supportare i documentaristi acquistando, custodendo e mostrando il loro lavoro per arie volte durante l’anno è solo una parte degli scopi della Fondazione. Essa ha inoltre una collezione di fotolibri che parlano di Gran Bretagna e Irlanda che saranno eventualmente consultabili come aiuto alla ricerca per i suoi membri, e come sede di eventi fotografici e workshops.
“Stiamo ottenendo ottimi riscontri di pubblico”, dice Parr, “Non solo in termini di flussi numerici, ma in termini di gradimento del pubblico. Ed è veramente rincuorante. Se sono presente mi piace uscire a salutare i visitatori, incontrare la gente”.
Tutta questa attività ha ovviamente rallentato la sua attività come fotografo. “Una delle cose che non ho fatto i mesi scorsi è stato fotografare”. Per fortuna tornerà dietro la macchina fotografica agli inizi del 2018 per lavorare a un nuovo progetto fotografico. Nel frattempo abbiamo parlato con lui in merito a ciò che guarda in un progetto e gli abbiamo chiesto di fornirci alcuni consigli per i fotografi documentaristi.
Bieke Depoorter OU MENYA © Bieke Depoorter | Magnum Photos
Bieke Depoorter OU MENYA © Bieke Depoorter | Magnum Photos
RACCONTATE UNA STORIA PERSONALE PER ATTRARRE PUBBLICO
“La cosa più importante è raccontare una storia personale. L’aspetto più importante per ogni lavoro fotografico è la sua connessione con il soggetto. Se questa connessione è positiva, genuina, allora il lavoro inevitabilmente parlerà al pubblico. Quindi, questo è quello che offre la fotografia documentaria: un’incredibile opportunità di connettersi con il pubblico, di connettersi con il soggetto. E con il giusto impegno e dedizione di brillare come fotografo.”
TROVARE UNA CONNESSIONE
“La qualità della connessione che stabilite con il soggetto è assolutamente fondamentale. E deve sempre esserci una storia dietro, una sorta di collegamento emotivo o di vulnerabilità Questo è quanto fa emergere un buon lavoro. E voi dovete essere coinvolti in questo processo. Se lo sarete, si noterà nel lavoro che ne trarrà beneficio in termini di qualità. Inoltre il vostro coinvolgimento verrà recepito dal pubblico”.
Fotografi come Bieke Deeporter è un ottimo esempio di questo concetto. Lei ha sempre le idee chiare su ciò che sta facendo. Quando penso al suo lavoro e al modo in cui riesce ad entrare in connessione con degli sconosciuti non posso che togliermi tanto di cappello. E’ straordinaria. Riuscire ad essere così motivati e a realizzare lavori come i suoi è un risultato notevole. Guardando il suo lavoro potete percepirne la difficoltà, il dolore, il piacere e la soddisfazione che si prova quando si pubblica il lavoro.
Un altro esempio è l’ultimo libro di Jonas Bendiksen, Last Testament. Ha trovato sette persone, ciascuna delle quali è convinta (e ha convinto i suoi conoscenti) di essere la seconda incarnazione di Cristo e li ha seguiti per diversi anni. Come si può non rimanere colpiti dallo sforzo che un lavoro simile comporta? La durata, l’accuratezza, la dedizione, l’assoluta caparbietà con cui si è relazionato con il soggetto. Tutto questo impegno è stato premiato dalle foto che ha realizzato.
TENETE BEN IN MENTE IL PERCHE’ STATE REALIZZANDO QUESTO PROGETTO
“La maggior parte del lavoro che vediamo è confuso perchè i fotografi non hanno le idee ben chiare su ciò he intendono realizzare. E questo è un livello di consapevolezza che può essere insegnato sino a un certo punto e incoraggiato e può essere agevolato con le persone che abbiano ben chiaro ciò che vogliono dire. Un grosso errore che si commette è quello di voler dire troppo. Vogliono cambiare il mondo con un singolo progetto. Non capiscono che iniziare con un piccolo, semplice ma molto significativo progetto è più efficace che provare a coprire troppi aspetti tutti insieme. Se non si è capaci di spiegare il lavoro con una sola frase, difficilmente verrà bene.”
CONCENTRATEVI SULLA STORIA, NON SULLA CARRIERA.
“Molte persone si concentrano esclusivamente su come fare carriera in fotografia. Se questa è la vostra preoccupazione principale, siete destinati a fallire. Se vi preoccupate solamente di terminare un lavoro solo per fare carriera allora qualcuno potrebbe arrivare prima di voi. Dovete seguire i canali tradizionali, far vedere il vostro lavoro ai professionisti, farvi conoscere. Prima o poi qualcuno vi noterà e le cose inizieranno a cambiare”.
MANTENETE IL VOSTRO ENTUSIASMO INIZIALE
Spesso ciò che accade dopo un primo progetto di successo può essere scoraggiante per i fotografi che, all’inizio della loro carriera possono subire le pressioni circa il produrre più lavori e lavorare meglio.
“Uno dei problemi classici è la difficoltà di lavorare a un secondo progetto. Ma dovete continuare a lavorare come al solito. Dovete trovare il vostro ritmo per non rimanere schiacciati dalla pressione. Se manterrete il vostro entusiasmo iniziale, questo si autoalimenterà e ne sentirete tutti i vantaggi”
Jonas Bendiksen GB. Runnymede. 2015. Dolores (David Shaylers transvestite femme persona) speaking to the flock. Paul the apostle writes “nor is there male and female, for you are all one in Christ Jesus”. Today’s Messiah has an alter ego named Dolores Kane, who embodies the feminine aspects of divinity. Like Jesus of Nazareth, David and Dolores move in circles far outside of society’s establishment. David Shayler the Christ was born December 24th, 1965 in Middlesbrough, an industrial town in North East England. A former MI5 agent, he blew the whistle on the secret services in 1996 to uncover corruption and incompetence. He has been fighting the Goliaths of the Earthly Judiciary and Establishment ever since. His revelation that he was Jesus Christ came in 2007. Since then he has been on a mission to teach humanity Christ consciousness, unconditional love and the supremacy of God’s law over Man’s legislation. © Jonas Bendiksen | Magnum Photos
Jonas Bendiksen RUSSIA. Krasnoyarsk Territory. 2015. Disciples of Vissarion at a communal lunch during a Christmas pilgrimage. Christmas for them is January 14th, Vissarion’s birthday. In 1988 the man born as Sergei Torop lost his job as a traffic policeman in the Siberian town of Minusinsk. Shortly afterwards, just as the Soviet Union unraveled around him, he had his first revelations that he was Jesus Christ. He founded the Church of the Last Testament in the early 1990s. People flocked to him from all corners of the Russian empire and founded an off-the-grid utopian eco-village in the Siberian wilderness, the Abode of Dawn. The community now numbers around five thousand dedicated followers. They have built their own schools, churches, formed a priesthood and their own social structure. Vissarion’s right-hand disciple, Vadim, is always close by and records all Vissarion’s deeds and proclamations. The resulting chronicles are continuously published in thick Russian-language tomes titled Pozledniy Zavet, or The Last Testament. They are currently on volume sixteen. © Jonas Bendiksen | Magnum Photos
Jonas Bendiksen INRI Cristo’s disciples rolling him around on the compound grounds on his rolling pedestal. INRI (born Alvaro Theiss) takes his first name from the initials of the inscription the Romans placed on the cross to spite him 2,000 years ago: Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum, or Jesus of Nazareth, King of the Jews. The first awakening as the Christ came already in 1979 during a fast in Santiago of Chile, and INRI subsequently spent many years as a wandering preacher before settling in New Jerusalem, which is located outside of Brasilia. Most of the dozen or so disciples who live inside INRI’s compound are women. While the 69-year old Saviour and his followers live a private and secluded life, they are also busy disseminating his teachings to the world via the Internet, using YouTube, music videos and live broadcasts of sermons. From the book “The Last Testament”. Brasilia. Brazil. 2014. © Jonas Bendiksen | Magnum Photos
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Questo articolo è una traduzione dall’originale che potete leggere a questo link: https://www.magnumphotos.com/theory-and-practice/martin-parrs-advice-documentary-photographers/?utm_source=fb-social&utm_medium=social&utm_campaign=Editorial
Tutti i diritti per le immagini sono proprietà degli autori riportati sotto ciascuna didascalia.
Buona lettura e alla prossima!
I consigli di Martin Parr per i fotografi documentaristi Mentre la fondazione a lui intitolata pianifica un 2018 pieno di eventi, Martin Parr ci regala alcuni dei suoi migliori consigli.
#agenzia fotografica Magnum#Bieke Deeporter#come lavorare a un progetto fotografico#fotografia documentaristica#magnum#marco scotto fotografo#Martin Parr
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Seminario/Workshop: Antropologia, luce e fotografia
Un nuovo incontro di approfondimento delle varie declinazioni della luce con l’arte e le professioni: giovedì, 20 aprile 2017, dalle 15.30 alle 19.30, l’Aula Magna dell’Università della Basilicata – in Via San Rocco a Matera – ospiterà il seminario dal titolo “Antropologia, luce e fotografia”, tenuto dalla fotografa etnografica Marina Bernardi. E’ la settima iniziativa della serie organizzata dall’Accademia della Luce di Matera all’interno dell’evento “Matera, la luce si fa scrittura”, prodotto con l’accompagnamento di Sensi Contemporanei Basilicata, e in collaborazione con la Regione Basilicata – Ufficio Sistemi Culturali e Turistici – Cooperazione Internazionale.
“Il modo in cui guardiamo il mondo potrebbe essere un riflesso, un gioco di luce che la nostra mente codifica culturalmente e che pertanto interpreta con gli strumenti fisiologici e culturali a disposizione” – esordisce la relatrice nella scheda di presentazione del suo intervento. “La percezione diventa così un fenomeno complesso, olistico che riguarda non più il solo guardare, ma l’intera ecologia dei sensi in cui il corpo è immerso.”
Come si combinano l’antropologia e la fotografia? Risponde Bernardi: “Sono sue modi per raccontare, decostruire e reinterpretare il mondo, due atti di conoscenza, due linguaggi con una propria storia, grammatica, capacità narrativa. Hanno specificità metodologiche proprie, ma anche linee di contatto ed è su queste linee di contatto che porrei l’attenzione. Una di esse è la luce. La luce come esperienza soggettiva e collettiva come fenomeno antropologico come prima fonte tra tutte di scrittura. È importante quindi capire se esiste un’antropologia della luce e cosa significa, esplorare i temi dell’antropologia visiva e connetterli alla fotografia, specie quella documentaria e sociale. La fotografia come racconto autonomo connesso allo sguardo antropologico e lo sguardo antropologico come racconto autonomo connesso alla produzione di immagini. Occorre fare questo giro perché per troppo tempo si è generata un’asimmetria tra i due saperi considerati come mero corredo espressivo l’uno all’altro”.
Marina Bernardi è nata a Grassano, in provincia di Matera, nel 1983. Vive a Roma, dove ha conseguito gli studi in Antropologia Culturale e dove è cominciata la formazione nell’ambito della fotografia sociale presso il Wsp Photography. E’ specializzanda presso la Scuola di Specializzazione di Beni Demo etno-Antropologici dell’Università di Roma “La Sapienza”. Nel 2013 alcuni suoi scatti del workshop in Etiopia vengono premiati nell’ambito del Nikon Talents: è vincitrice assoluta del contest e ottiene il primo premio nella categoria Street e Reportage. Riceve inoltre menzioni e segnalazioni anche ad altri concorsi internazionali come IPA, Px3, Sony World Photography Awards.
Per assistere al seminario è necessaria la prenotazione sul sito www.accademialucematera.it. l’ingresso è gratuito fino ad esaurimento dei posti disponibili.
Seminario/Workshop: Antropologia, luce e fotografia è stato pubblicato da Matera Guide | Guida Matera | Sassi Matera | Matera 2019
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Comunicato Stampa #585: Matera, il 20 aprile seminario su antropologia, luce e fotografia
Gli eventi organizzati dall’Accademia della Luce di Matera propongono l’appuntamento con la fotografa etnografica Marina Berardi
Un nuovo incontro di approfondimento delle varie declinazioni della luce con l’arte e le professioni: giovedì prossimo, 20 aprile 2017, dalle 15.30 alle 19.30, l’Aula Magna dell’Università della Basilicata - in Via San Rocco a Matera – ospiterà il seminario dal titolo “Antropologia, luce e fotografia”, tenuto dalla fotografa etnografica Marina Berardi. E’ la settima iniziativa della serie organizzata dall’Accademia della Luce di Matera all’interno dell’evento “Matera, la luce si fa scrittura”, prodotto con l'accompagnamento di Sensi Contemporanei Basilicata, e in collaborazione con la Regione Basilicata - Ufficio Sistemi Culturali e Turistici - Cooperazione Internazionale.
“Il modo in cui guardiamo il mondo potrebbe essere un riflesso, un gioco di luce che la nostra mente codifica culturalmente e che pertanto interpreta con gli strumenti fisiologici e culturali a disposizione” – esordisce la relatrice nella scheda di presentazione del suo intervento. “La percezione diventa così un fenomeno complesso, olistico che riguarda non più il solo guardare, ma l'intera ecologia dei sensi in cui il corpo è immerso.”
Come si combinano l’antropologia e la fotografia? Risponde Berardi: “Sono sue modi per raccontare, decostruire e reinterpretare il mondo, due atti di conoscenza, due linguaggi con una propria storia, grammatica, capacità narrativa. Hanno specificità metodologiche proprie, ma anche linee di contatto ed è su queste linee di contatto che porrei l'attenzione. Una di esse è la luce. La luce come esperienza soggettiva e collettiva come fenomeno antropologico come prima fonte tra tutte di scrittura. È importante quindi capire se esiste un'antropologia della luce e cosa significa, esplorare i temi dell'antropologia visiva e connetterli alla fotografia, specie quella documentaria e sociale. La fotografia come racconto autonomo connesso allo sguardo antropologico e lo sguardo antropologico come racconto autonomo connesso alla produzione di immagini. Occorre fare questo giro perché per troppo tempo si è generata un'asimmetria tra i due saperi considerati come mero corredo espressivo l'uno all'altro”.
Marina Berardi è nata a Grassano, in provincia di Matera, nel 1983. Vive a Roma, dove ha conseguito gli studi in Antropologia Culturale e dove è cominciata la formazione nell'ambito della fotografia sociale presso il Wsp Photography. E’ specializzanda presso la Scuola di Specializzazione di Beni Demo etno-Antropologici dell'Università di Roma "La Sapienza”. Nel 2013 alcuni suoi scatti del workshop in Etiopia vengono premiati nell'ambito del Nikon Talents: è vincitrice assoluta del contest e ottiene il primo premio nella categoria Street e Reportage. Riceve inoltre menzioni e segnalazioni anche ad altri concorsi internazionali come IPA, Px3, Sony World Photography Awards.
Per assistere al seminario è necessaria la prenotazione sul sito www.accademialucematera.it. l'ingresso è gratuito fino ad esaurimento dei posti disponibili.
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Matera, il 20 aprile seminario su antropologia, luce e fotografia
Gli eventi organizzati dall’Accademia della Luce di Matera propongono l’appuntamento con la fotografa etnografica Marina Berardi
Un nuovo incontro di approfondimento delle varie declinazioni della luce con l’arte e le professioni: giovedì, 20 aprile 2017, dalle 15.30 alle 19.30, l’Aula Magna dell’Università della Basilicata - in Via San Rocco a Matera – ospiterà il seminario dal titolo “Antropologia, luce e fotografia”, tenuto dalla fotografa etnografica Marina Berardi. E’ la settima iniziativa della serie organizzata dall’Accademia della Luce di Matera all’interno dell’evento “Matera, la luce si fa scrittura”, prodotto con l'accompagnamento di Sensi Contemporanei Basilicata, e in collaborazione con la Regione Basilicata - Ufficio Sistemi Culturali e Turistici - Cooperazione Internazionale.
“Il modo in cui guardiamo il mondo potrebbe essere un riflesso, un gioco di luce che la nostra mente codifica culturalmente e che pertanto interpreta con gli strumenti fisiologici e culturali a disposizione” – esordisce la relatrice nella scheda di presentazione del suo intervento. “La percezione diventa così un fenomeno complesso, olistico che riguarda non più il solo guardare, ma l'intera ecologia dei sensi in cui il corpo è immerso.”
Come si combinano l’antropologia e la fotografia? Risponde Bernardi: “Sono sue modi per raccontare, decostruire e reinterpretare il mondo, due atti di conoscenza, due linguaggi con una propria storia, grammatica, capacità narrativa. Hanno specificità metodologiche proprie, ma anche linee di contatto ed è su queste linee di contatto che porrei l'attenzione. Una di esse è la luce. La luce come esperienza soggettiva e collettiva come fenomeno antropologico come prima fonte tra tutte di scrittura. È importante quindi capire se esiste un'antropologia della luce e cosa significa, esplorare i temi dell'antropologia visiva e connetterli alla fotografia, specie quella documentaria e sociale. La fotografia come racconto autonomo connesso allo sguardo antropologico e lo sguardo antropologico come racconto autonomo connesso alla produzione di immagini. Occorre fare questo giro perché per troppo tempo si è generata un'asimmetria tra i due saperi considerati come mero corredo espressivo l'uno all'altro”.
Marina Berardi è nata a Grassano, in provincia di Matera, nel 1983. Vive a Roma, dove ha conseguito gli studi in Antropologia Culturale e dove è cominciata la formazione nell'ambito della fotografia sociale presso il Wsp Photography. E’ specializzanda presso la Scuola di Specializzazione di Beni Demo etno-Antropologici dell'Università di Roma "La Sapienza”. Nel 2013 alcuni suoi scatti del workshop in Etiopia vengono premiati nell'ambito del Nikon Talents: è vincitrice assoluta del contest e ottiene il primo premio nella categoria Street e Reportage. Riceve inoltre menzioni e segnalazioni anche ad altri concorsi internazionali come IPA, Px3, Sony World Photography Awards.
Per assistere al seminario è necessaria la prenotazione sul sito www.accademialucematera.it. l'ingresso è gratuito fino ad esaurimento dei posti disponibili.
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La fotografia documentaria come forma d’arte (sesta parte)
La fotografia umanista
di Lorenzo Ranzato
Introduzione
Con questo articolo completiamo il nostro racconto sul vasto mondo della fotografia documentaria, affrontando il significativo capitolo della fotografia umanista. Com’è facile intuire, la selezione degli argomenti e degli autori trattati è stata del tutto personale: quindi una scelta selettiva e parziale, che trascura inevitabilmente molti altri fenomeni del documentarismo che si sono manifestati nella seconda metà del ‘900.[1]
Come abbiamo visto, questo importante filone della fotografia del ‘900 si afferma a partire dagli anni ‘30, con un comune filo conduttore che può essere ben riassunto in questa frase: “il desiderio di vedere qualcosa riconosciuto come una realtà”[2]. Come ci segnala David Bate, questa aspirazione o volontà di raccontare in modo diretto (straight photography) il reale in tutte le sue manifestazioni “può includere approcci differenti, dove la verità è valutata in termini di interpretazione e rappresentazione”.
In effetti, seguendo il suo ragionamento, possiamo riconoscere all’interno del genere documentario la presenza di due tendenze diverse che si relazionano con il reale in modo oggettivo oppure soggettivo.[3]
A grandi linee, avremo un tipo di fotografia oggettiva o descrittiva che tende a porre un filtro tra fotografo e soggetto, cercando di mantenersi in una posizione neutrale senza farsi coinvolgere all’interno della scena ripresa. Questo tipo di fotografia è comune ad autori che abbiamo già conosciuto nelle precedenti puntate e che si esprimono con modalità espressive diverse: ci riferiamo a fotografi come Albert Renger-Patzsch o August Sander, oppure ai fotografi del Gruppo f/64.
1-Cartier-Bresson, foto da Images à la Sauvette 1952, “il libro” per eccellenza secondo Federico Scianna
Diversamente, la fotografia soggettiva o espressiva non pone barriere tra il fotografo e il soggetto, anzi vuole entrare dentro le cose che desidera raccontare, cercando di coinvolgere lo spettatore nella narrazione, pubblica o privata che sia. In questo filone molto variegato possiamo riconoscere le esperienze del documentario sociale (in particolare quella della Farm Security Administration) e più in generale quelle del fotogiornalismo – da Robert Capa, il più famoso fotoreporter di guerra, alla Bourke-Withe -, sino ad abbracciare la stagione d’oro della fotografia umanista che si afferma come “la tendenza dominante del documentario postbellico”[4].
A conclusione di questo breve riepilogo, segnaliamo che sul sito di Fotopadova è presente un contributo in due puntate di Guillaume Blanc, La storia della fotografia documentaria, tradotto e pubblicato da Gustavo Millozzi (a cui dedichiamo questo articolo). Una sua consultazione potrà essere utile per inquadrare l’argomento in una prospettiva temporale più allargata, che non solo riassume la storia del documentarismo sviluppatosi nel corso del ‘900, ma va anche alla ricerca dei precursori e di tutti quei fenomeni ragruppabili sotto l’etichetta di “documento”, che rappresenta fatti o persone reali oppure descrive avvenimenti storici.[5]
La fotografia umanista
“L'oggetto della fotografia è l'uomo, l'uomo e la sua vita breve, fragile, minacciata”.
La frase di Henri Cartier-Bresson, registrata in un’intervista del 1951 viene generalmente considerata da molti studiosi un modo per definire “la fotografia umanista”.[6]
2-Innamorati per le vie di Parigi, foto di Doisneau, Boubat e Izis.
In realtà, questo filone della fotografia soggettiva/espressiva, nasce all’interno del milieu fotografico francese degli anni ’30, dove un nutrito gruppo di fotografi condivide un comune interesse per l’uomo e le sue vicende di vita quotidiana. Particolarmente attenti alla vita della città, ci restituiscono “le figure di un’umanità autentica e sincera: uomini semplici, lavoratori e le loro famiglie di ceti modesti, bambini ricchi della loro innocenza e spontaneità solitaria, o coppie di innamorati rese migliori dalla forza dei loro sentimenti”.[7]
3-Brassaï, Paris de nuit, libro sulla vita notturna parigina.
La maggior parte dei fotografi umanisti condivide la professione di “reporter-illustratore”, ma ciò non toglie che molti di loro raggiungano lo status di fotografi-autori, grazie all’editoria che costituisce la parte più gratificante del loro lavoro. Valga per tutti il famoso libro fotografico Paris de nuit (1933) del fotografo ungherese Brassaï, che si stabilisce a Parigi nel 1924 dove frequenta l’ambiente surrealista e conosce Picasso. Dopo la seconda guerra mondiale “le flaneur des nuit de Paris” si trasformerà in un “globe-trotter”, grazie a una lunga e fruttuosa collaborazione con Harper’s Bazaar.[8]
4-Foto di bambini di Doisneau, Ronis, Izis e Boubat
Assieme a lui, ricordiamo i quattro più importanti rappresentanti della fotografia umanista francese: Robert Doisneau, Willy Ronis, Izis e Édouard Boubat che hanno in comune un grande amore per la città di Parigi e per le sue strade che diventano la principale scenografia dei loro scatti. Soprattutto a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, trasmettono al mondo “une certaine idée de la France”, attratti da quanto c’è di incanto o di mistero nei fatti quotidiani oppure alla ricerca di temi cari ad altre arti quali le canzoni, il cinema, la poesia e la letteratura.[9]
5-Doisneau Au Pont des Art 1953, Un regard oblique 1948
Ma per il pubblico restano due gli indiscussi protagonisti di quella stagione d’oro della fotografia: da un lato Robert Doisneau, con la sua visione del mondo romantica e compassionevole e il suo sguardo attento a cogliere lo spettacolo permanente della vita quotidiana, che trasforma le anonime persone della strada in attori naturali della commedia umana, trasfigurandoli spesso in figure fantastiche e oniriche [10]; dall’altro, Henri Cartier-Bresson, che nei diversi periodi della sua vita è sempre riuscito a rinnovare il suo sguardo sul mondo, tanto da essere definito l’occhio del secolo e considerato il massimo interprete del cosiddetto “realismo espressivo”, che si contraddistingue per la capacità di saper individuare e cogliere dentro il flusso ininterrotto del tempo l’istante decisivo.[11]
6- Cartier-Bresson, Hyères 1932, Ivry sur Seine 1955
Il movimento umanista inizia ad avere un certo seguito anche al di fuori della Francia a partire dagli anni ’50, come reazione al terribile dramma della seconda guerra mondiale, con la volontà di affermarsi nel resto del mondo come linguaggio universale accessibile a tutti.
Il movimento raggiunge il suo apice con la Mostra The Family of Man - organizzata da Edward Steichen al Museum of Modern Art di New York nel 1955 - che assume una risonanza planetaria, grazie ai suoi messaggi di fratellanza universale e di dignità dell’uomo, di speranza e di condivisione di un medesimo destino. È un progetto grandioso, costituito da 503 fotografie provenienti da 68 paesi diversi, che diventa la più grande manifestazione nella storia della fotografia e che verrà esposta negli anni successivi in molte parti del mondo.
7- The family of man, 1955
Alle fotografie di grandi autori come Ansel Adams, Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, Édouard Boubat, Robert Capa, David Seymour, Bill Brandt, Elliott Erwitt, Eugene Smith, Robert Frank, August Sander, Sabine Waiss, Margaret Bourke-White, Richard Avedon, Garry Winogrand, si affiancano immagini di fotografi meno noti, mentre altre fotografie di Dorothea Lange e Russel Lee provengono dall’ archivio della Farm Security Administration, realizzato negli anni della Grande Depressione statunitense.
Come abbiamo già detto nell’introduzione, il movimento umanista diventa la principale espressione della fotografia a livello mondiale a cavallo degli anni ’50 e ’60, ma verrà ricordato anche come uno dei periodi più caratterizzanti della fotografia francese, che dagli anni ’30 fino agli anni ’60 ha avuto il suo centro indiscusso nella metropoli parigina.
8- The family of man, 1955
Gli anni del secondo dopoguerra sono caratterizzati da importanti trasformazioni politiche, sociali e culturali, dove il generale benessere dell’occidente, sostenuto dal boom economico, convive con “la guerra fredda” e il rischio nucleare. Ma già negli anni ’60 iniziano a manifestarsi fenomeni di crisi, alimentati anche dalla contestazione dei tradizionali valori borghesi da parte delle giovani generazioni in nome di una nuova ideologia libertaria: contestazione che raggiunge l’apice nel 1968, che verrà ricordato come l’anno delle grandi manifestazioni di piazza e degli scioperi dentro le fabbriche e le università.
Nello stesso tempo, con l’affermarsi del pensiero liberale e il propagarsi di nuove forme di consumismo, al di là dell’oceano gli Stati Uniti acquisiscono progressivamente un ruolo egemone a livello mondiale, diventando la principale forza trainante dell’economia di mercato, che porterà a radicali cambiamenti anche in ambito culturale.
In particolare nel campo delle arti visive, assisteremo a un grande sviluppo dell’arte e della fotografia americana - inizialmente influenzate da quella europea - che nel corso del tempo si imporranno autonomamente a livello internazionale. Con lo sviluppo dell’Espressionismo astratto (in particolare l’Action painting di Jackson Pollock) e con l’affermarsi di una particolare forma di street photography tipicamente americana, si aprirà una nuova stagione per le arti visive caratterizzata da una radicale trasformazione dei linguaggi, che segnerà una forte discontinuità con il passato.
Anche il mondo della fotografia a cavallo fra gi anni ’50 e ’60 dovrà affrontare una vera e propria “rivoluzione visiva” attuata da Robert Frank con il suo libro The Americans: dalla critica Frank verrà considerato come l’anticipatore di un nuovo linguaggio che sovverte radicalmente i paradigmi che hanno contraddistinto l’estetica e le più tradizionali forme espressive della fotografia umanista, un linguaggio “informale” che ancor oggi possiamo riconoscere in molte manifestazioni della fotografia contemporanea.[12]
---- [1] Ci riferiamo in particolare a quanto già scritto in un mio precedente articolo pubblicato il 18 giugno 2021: I territori del “fotografico”: pittorialismo, documentarismo, concettualismo. Documentarismo va inteso nello specifico significato che gli attribuisce David Bate nel suo libro La fotografia d’arte, (Einaudi, 2018). Bate prova a reinterpretare il mondo della fotografia, della sua storia e dei suoi autori attraverso tre categorie del fotografico - pittorialismo, documentarismo e concettualismo -, entro le quali circoscrivere i diversi comportamenti della fotografia, così come si sono evoluti a partire dalle origini sino ai giorni nostri: comportamenti che di volta in volta hanno assunto proprie specificità linguistiche e poetiche e che, a mio avviso, in alcuni casi hanno avuto modo di contaminarsi o ibridarsi, soprattutto nella più recente fase della contemporaneità.
[2] David Bate, Photography. The Key Concepts, 2016, Trad. it. Il primo libro di fotografia, Einaudi, 2017, p. 89.
[3] Bate, op. cit. p. 83.
[4] Bate, op. cit. p. 68.
[5] Gli articoli sono stati pubblicati rispettivamente il 10 dicembre 2022 e il 23 gennaio 2023. Il testo originale è consultabile al seguente indirizzo: https://www.blind-magazine.com .
[6]Ricordiamo che sul sito di Fotopadova ci sono diversi articoli che trattano della fotografia umanista, articoli rintracciabili con una ricerca dal menu collocato in alto a sinistra: Edouard Boubat, sguardo di velluto di Marie d'Harcourt, da: https://www.blind-magazine.com/news/edouard-boubat-a-velvet-gaze/ (trad. Gustavo Millozzi); Henri Cartier-Bresson: “Non ci sono forse - vivere e guardare”, da https://lens.blogs.nytimes.com/ (trad. Gustavo Millozzi); Adolfo Kaminsky: la Parigi “umanista” e popolare (seconda parte) di Lorenzo Ranzato; Templi, Santuari, Cappelle e capitelli della Fotografia: 2, Casa dei Tre Oci a Venezia:“Esposizione” di WillY Ronis, di Carlo Maccà; Sabine Weiss, ultima fotografa umanista, di Gustavo Millozzi.
[7] Si veda: La photographie humaniste sul sito del Ministero della Cultura francese-Biblioteca nazionale di Francia: https://histoiredesarts.culture.gouv.fr/Toutes-les-ressources/Bibliotheque-nationale-de-France-BnF/La-photographie-humaniste-1945-1968.
[8] Brassaï, Photo Poche n. 28, 2009, con introduzione di Roger Grenier e un’ampia bibliografia alla fine. La collezione di questi agili ed economici libretti tascabili, pubblicati dal Centre national de la photographie, presenta un vastissimo catalogo di fotografi con più di 150 titoli.
[9] La photographie humaniste, cit. Segnaliamo anche il libro La photographie humaniste, 1945-1968: Autour d'Izis, Boubat, Brassaï, Doisneau, Ronis..., Catalogo della Mostra omonima, a cura di Laure Beaumont-Maillet e Françoise Denoyelle, con la collaborazione di Dominique Versavel, ed. Biblioteque Nationale de France, 2006
[10] Fra i molti libri si veda il recente: Robert Doisneau, Catalogo della Mostra a cura di Gabriel Bauret, Rovigo 23 settembre 2021-30 gennaio 2022, Silvana Editoriale 2021.
[11] Fra l’immensa bibliografia consigliamo la lettura del libro tascabile: Henri Cartier-Bresson, Gallimard 2008, con testi di Clément Chéroux, storico della fotografia e conservatore per la fotografia al Centro Pompidou. Alla fine, oltre ad un’ampia bibliografia, sono riportati alcuni testi e aforismi di HCB. Ricordiamo una delle sue celebri frasi: “Scattare una fotografia significa riconoscere, simultaneamente e in una frazione di secondo‚ sia il fatto stesso sia la rigorosa organizzazione delle forme visivamente percepite che gli conferiscono significato. È mettere testa, occhio e cuore sullo stesso asse”.
[12] Per un approfondimento si rinvia a: Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento (e oltre), Mondadori, 2012. Particolarmente interessanti i capitoli: Sull’onda dell’informale e La grande armata delle avanguardie che racconta il rapporto fra mezzo fotografico e i nuovi fenomeni artistici della Body Art, Narrative Art e Conceptual Art che si affermano nel corso degli anni ’70.
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La fotografia documentaria come forma d’arte (seconda parte)
di Lorenzo Ranzato
--- I precursori del documentarismo
--- Introduzione
-- Come abbiamo visto, nel corso degli anni ‘30 si afferma il documentarismo, che si sviluppa “all’interno di un più ampio movimento di cambiamento sociale e attitudine liberale”(1): è una grande svolta epocale, che chiude una significativa stagione della storia della fotografia, durata oltre settant’anni, e che ha visto la nascita e il tramonto del pittorialismo.
Al filosofo tedesco Walter Benjamin va attribuito il merito di aver ribaltato l’ormai anacronistica concezione di Charles Baudelaire, che per oltre mezzo secolo aveva diviso il mondo della pittura e dell’arte in due schieramenti contrapposti (2): da un lato gli immaginativi (i veri artisti che vogliono “illuminare le cose” con il loro spirito) e dall’altro i realisti (ovvero i positivisti, che vogliono erroneamente “rappresentare le cose come sono”).
Ed è proprio grazie ai suoi scritti e in particolare ai due saggi - Piccola storia della fotografia del 1931 e L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica del 1936 - che l’arte ha potuto emanciparsi in modo definitivo da quella atavica dimensione spirituale o religiosa che aveva caratterizzato da sempre l'opera artistica tradizionale. In questo modo, con la liberazione dell’oggetto artistico dall’ ”aura”, si apriranno nuove prospettive e inediti spazi per i media emergenti quali la fotografia e il cinema, che rapidamente si affermeranno non solo come forme innovative del modernismo, ma anche come forme iconiche del XX secolo.
Atget Photographe de Paris, 1930
La fotografia documentaria muove i primi passi negli Stati Uniti, inaugurando una nuova importante e complessa stagione della fotografia, che pervade tutto il ‘900 e arriva fino ad oggi, creando nel tempo una varietà di ramificazioni – generalmente definite in molti testi e nel web come “sottogeneri” - che spaziano dal fotogiornalismo, con la nascita delle riviste illustrate, alla fotografia pubblicitaria, dalla fotografia umanista sino al reportage di guerra e alla street photography, per arrivare forse alle recenti forme di giornalismo diffuso o all’inesauribile fenomeno della produzione fotografica nei social network.
In realtà, anche nell’epoca del pittorialismo imperante è possibile individuare alcuni fotografi che in qualche misura non seguono i canoni pittoricisti, ma usano il mezzo fotografico in modo più diretto. Tra questi, abbiamo scelto quattro autori che hanno contribuito con modalità diverse a porre le basi del nuovo linguaggio fotografico moderno. In Europa: Thomson che fotografa la vita di strada di Londra, Atget che documenta l’antica Parigi. In America Riis e Hine che utilizzano la fotografia come strumento di indagine e denuncia sociale.
Due precursori europei: Thomson e Atgèt
Il primo autore che possiamo citare è lo scozzese John Thomson, che è stato uno dei primi fotografi di “reportage” nell’Estremo Oriente. Negli anni ‘70 dell’Ottocento ha documentato “la vita di strada” di Londra: le sue fotografie scattate in modo sistematico – che sembrano evocare le descrizioni dei romanzi “realistici” di Charles Dikens – vengono pubblicate nel 1877 in forma di libro. Street life in London può essere considerato, a tutti gli effetti, fra i primi esempi di “realismo fotografico”, un genere che troverà la piena affermazione con l’avvento delle riviste illustrate, destinate a raccontare “storie per immagini” per un sempre più vasto pubblico di lettori (3).
John Thomson, Vita di strada a Londra, 1876-1877
Fra i precursori non può mancare Eugène Atget, che dal 1889 al 1924 ha documentato la vecchia Parigi, che si stava trasformando in una metropoli moderna, “manifestando fin dall’inizio l’ambizione di creare una collezione di tutto ciò che vi è di artistico a Parigi e nei dintorni” (4). Si considera un fotografo commerciale, tanto che nel 1890 espone fuori del suo laboratorio una piccola targa con la scritta “Documenti per artisti”. Con il suo apparecchio a soffietto 18x24, un pesante treppiedi di legno e qualche scatola di lastre fotografiche ha percorso in modo sistematico le strade di Parigi, fotografando le sue architetture, i suoi negozi e le vetrine con inquietanti manichini, suscitando l'interesse dei surrealisti come Man Ray e Brassaï.
Il riconoscimento artistico di questa vasta collezione documentaristica è soprattutto postumo, grazie all’interessamento di Berenice Abbott che acquista dopo la sua morte gran parte della collezione di negativi, stampe e album, oggi custodita al Museo d’arte moderna di New York. Atget infatti muore quasi sconosciuto nel 1927, sebbene gruppi di sue stampe fossero già presenti in vari archivi di Parigi. Soltanto nel 1930, sempre per iniziativa della Abbott, esce il primo libro composto da 96 fotografie, Atget, Photographe de Paris. Da questo momento la sua fama crescerà, tanto da essere consacrato come uno dei più influenti fotografi della prima età moderna: apprezzato e riconosciuto sia dai giovani fotografi americani come Walker Evans, Ansel Adams, Margaret Bourke-White, sia da quelli europei come André Kertesz, László Moholy-Nagy ed Henri Cartier-Bresson.
Eugène Atget, Il Cabaret à l’homme armée, 1900 Eugène Atget, Rue Hautefeuille, 1898
La fotografia come indagine sociale: Riis e Hine
In America Jacob Riis può essere considerato il capostipite della moderna fotografia di indagine sociale. Emigrato dalla Danimarca, inizialmente lavora come reporter della polizia, ma poi si dedica a fotografare le aree più disagiate di New York. Nel 1890 pubblica il suo libro Come vive l’altra metà: studi sulle case popolari di New York, dove documenta la miserevole vita degli immigrati nel Lower East Side di Manhattan, libro che ha un forte impatto sull’opinione pubblica per la crudezza delle immagini, al punto da convincere l’allora governatore Theodore Roosevelt – suo amico personale, che lo defini “il miglior americano che abbia mai conosciuto” - a prendere provvedimenti per migliorare le condizioni di vita nell’area più densamente popolata del mondo, con oltre mezzo milione di persone concentrate in poco più di un chilometro quadrato. Per questi motivi, Riis è ricordato come uno dei fotogiornalisti e riformatori sociali più influenti, che ha documentato le ingiustizie sociali dell’America a cavallo fra la fine dell’ ‘800 e l’inizio del ‘900.
Jacob Riis, Inquilini della casa popolare di Bayard Street, 1889
Lewis Hine, insegnante presso la Ethical Colture School di New York, si avvicina alla fotografia con l’occhio del sociologo, fotografando la vita degli immigrati a Ellis Island, ma a partire dal 1908 la sua attenzione si concentra sul lavoro minorile, diventando fotografo ufficiale del National Child Labor Committee, una organizzazione creata per combattere il lavoro minorile nell’industria pesante. Attraverso una descrizione accurata dei soggetti ripresi e delle loro condizioni di lavoro, utilizza la fotografia come strumento di denuncia sociale.
Lewis Hine, Famiglia di immigrati italiani, Ellis Island, 1905
Nel 1918 viaggia in Europa per documentare, su richiesta della Croce Rossa Internazionale, la situazione dei paesi del Vecchio Continente devastati dalla Prima Guerra Mondiale. Tornato a New York nel 1919, Hine rivolge nuovamente il suo interesse al mondo del lavoro, con una nuova attenzione alle qualità formali dell’immagine, pubblicando nel 1932 il libro Men at Work, dedicato alle maestranze che hanno contribuito alla costruzione dei grattacieli di New York.
Lewis Hine, Lavoro minorile in un cotonificio della Carolina, 1908
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1 David Bate, Photography. The key concepts,2016; trad. Il primo libro di fotografia, Einaudi, 2017, p. 67.
2 David Bate, Art Photography, 2015; trad. it. La fotografia d’arte, Einaudi, 2018, p. 102.
3 David Bate, op. cit., pp. 61-2.
4 J. C. Gautrand (a cura di), Eugène Atget. Paris, TASCHEN, 2016, p. 19.
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A Bassano Robert Capa e a Padova la campagna fotografica per la FSA con Walker Evans, Dorothea Lange e Ben Shahn
di Carlo Maccà
Robert Capa oltre che "il più grande fotografo di guerra" che con i suoi servizi non solo sui campi di battaglia e colla partecipazione alla fondazione dell'agenzia Magnum segnò un momento fondamentale nell'avanzata della fotografia documentaria , fu anche uomo di grande fascino che sfruttò anche nei suoi rapporti col mondo femminile, per esempio su Ingrid Bergman quando, nel 1945, si incontrarono a Parigi e poi a Hollywood (chi accusò Rossellini come rovina-famiglie nascondeva i precedenti dell'attrice!). è da prevedere che la fama del personaggio anche al di fuori del mondo della fotografia, ampiamente diffusa soprattutto presso il pubblico femminile attraverso riviste di intrattenimento e di moda (Nota 1), contribuirà al successo della mostra ROBERT CAPA. RETROSPECTIVE aperta al Museo Civico di Bassano del Grappa fino al 22 gennaio 2018.
da Vogue. © international center of photography/Magnum Photo
Non c'è da scandalizzarsi, anzi, si può sperare che la mostra serva a contrappesare un poco il danno fatto alla considerazione della Fotografia presso il grosso pubblico, compresi gli utenti compulsivi di smartuffoni e tavolette, dalla contemporanea disseminazione, nell'ambito di Bassano Fotografia 2017, in luoghi inadatti e spesso poco dignitosi di immagini a stampa proposte da autori volonterosi, talvolta non indegni. La mostra è una compilazione di immagini possedute da Magnum, direttamente fornita dall'agenzia agli enti richiedenti, che da anni gira con successo per il mondo. (Nota 2). Garanzia di qualità sono la sua fonte, il suo sponsor e la sede, e per un amante della fotografia e della cultura fotografica vederla (o rivederla) è un dovere.
Una mostra altrettanto importante, purtroppo quasi segreta e di breve durata (fino all'8 ottobre), presenta al Palazzo Angeli, in Prato della Valle a Padova, un assaggio d'un altro monumento della fotografia documentaria, l'opera commissionata a una compagine di autori dalla dall'agenzia governativa Statunitense F.S.A. (Farm Security Administration) per sensibilizzare politici e popolazione agli effetti della siccità e della depressione sugli agricoltori degli stati centrali americani in appoggio al nascente New Deal roosveltiano. Ma la commessa si rivelò vitale per numerosi fotografi e artisti che, nei tempi della Grande depressione, se la passavano tutt'altro che bene, e determinante per la loro crescita professionale e artistica e la loro fama.
La caratteristica più interessante delle immagini in mostra è che si tratta di esemplari provenienti dagli archivi della F.S.A (ora conservati presso la Biblioteca del Congresso di Washington e messi a disposizione del pubblico e concessi per la riproduzione attraverso la piattaforma http://photogrammar.yale.edu/ ) riprodotti in fac-simile, con tutte le annotazioni d'archivio e coll'aspetto di stampe d'epoca stagionate - ma non deteriorate -dall'età. Gli allestitori hanno selezionato 25 (quante lo spazio a disposizione ne permetteva, fra la decine di migliaia accessibili) fra le immagini più rappresentative di vari autori, escludendo però quelle che ritenevano diventate delle icone "troppo" note. Ma quanti fra i presenti all'inaugurazione della mostra degli esiti del concorso Esìli. Racconti, fotografie, illustrazioni - di cui l'esposizione delle immagini della F.S.A. è un'appendice - e i (probabilmente pochi) successivi visitatori sono in grado, per interesse o preparazione culturale, di apprezzare pienamente quello che vedono, senza agganci a icone note? Ben altro merita l'accurato e intelligente lavoro fatto da chi ha preparato le stampe - di livello più che professionale - e l'esposizione. Merita di essere ampliato (ad almeno 50 immagini), affidato a sedi espositive note al colto e all'inclita e ben collaudate. (Nota 3), o almeno presentato presso circoli fotografici, nel Veneto e altrove, accompagnandolo col racconto dell'impatto sociale e culturale che ha avuto negli Stati Uniti.
Let Now Praise Famous Men, traduzione italiana
Di Dorothea Lange, quanti fra noi conoscono qualcosa di più che Migrant Mother? Quanti conoscono l'esistenza di Let Us Praise Famous Men (1939), racconto dell'incontro dello scrittore James Agee con alcune famiglie di mezzadri del sud degli Stati Uniti? Il suo stile molto ispirato lo rende per noi illeggibile in lingua originale e faticoso nella traduzione italiana. ma le 62 fotografie di Walker Evans, che Agee accompagnava nella sua indagine per la F.S.A., riprodotte all'inizio del volume sono fra le sue più pregnanti. Quanti ricordano Ben Shahn come fotografo, oltre che come il pittore statunitense più apprezzato fino all'avvento di stili più lontani dalla realtà? Una sua personale molto importante era presente alla Biennale veneziana del 1954, quando, appena uscito dalla scuola secondaria, lo apprezzai ed amai più di tutti i grandi nomi di cui l'esposizione era carica. Già prima della recessione per le sue opere pittoriche si ispirava spesso nella forma ma anche nel soggetto a preesistenti immagini fotografiche, in particolare per la serie dedicata al processo Sacco-Vanzetti. (Nota 4) Ma, dopo la pratica come fotografo "quasi casualmente" professionista per la F.S.A, per anni ricorse sistematicamente alla fotografia per fissare situazioni, atteggiamenti o forme urbane da usare nei suoi quadri.
© Ben Shahn: Centerville, Ohio, 1938.
La maggior parte degli Italiani (non giovanissimi!) che conoscono almeno di nome Ben Shahn lo devono a Snoopy, il bracchetto di Charlie Brown, il cui (del cane) salotto era notoriamente adornato da un quadro di quell'autore. Indagini di esperti, in base a vari indizi, fra cui il fatto del suo essere in perfetto accordo cromatico colle piastrelle di ceramica del salotto, hanno appurato che si dovrebbe trattare di Portrait of myself as a young boy. Possiamo notare il taglio dell'immagine, in netto stile fotografico.
© Ben Shahn, Portrait of myself as a young boy, 1943
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Nota 1. Si veda per esempio https://www.vanityfair.com/culture/photos/2014/06/photographer-robert-capa-d-day#10
Nota 2. La stessa mostra si potè vedere nel 2013 presso il Centro Internazionale di Fotografia di Scavi Scaligeri di Verona, che pubblicò anche un catalogo completo e commentato delle immagini esposte. Una mostra più ampia, comprensiva anche di immagini uscite in anni recenti dalla famosa Valigia Messicana, fu allestita nello stesso anno a Villa Manin di Passariano di Codroipo, Udine ( http://icon.panorama.it/eventi/robert-capa-centenario-mostra-villa-manin/ ). Per la Valigia Messicana si veda per esempio: http://www.clickblog.it/post/49045/the-mexican-suitcase-la-storia-dei-negativi-di-robert-capa-ritrovati-dopo-trentanni-dalla-sua-scomparsa
Nota 3. A proposito di Palazzo Angeli ( presso cui è in mostra permanente la collezione Zotti-Minnici delle Lanterne Magiche ) che ne è della proposta di vendita a privati ufficializzata da precedenti amministrazioni, la cui notoria fame di cultura era evidentemente soddisfatta dalle sedi espositive pubbliche esistenti? O Padova non chiede di più? Si veda, per esempio, l'ossimoro in http://mattinopadova.gelocal.it/padova/cronaca/2016/05/18/news/palazzo-angeli-riapre-e-ospitera-mostre-ma-torna-in-vendita-1.13497686?refresh_ce
Nota 4. https://www.khanacademy.org/humanities/art-1010/art-between-wars/american-art-wwii/a/shahn-the-passion-of-sacco-and-vanzetti
#Robert Capa#Museo Civico Bassano del Grappa#ingrid bergman#Roberto Rossellini#Palazzo Angeli Padova#Farm Security Administration#Biblioteca del Congresso Washington#Dorothea Lange#James Agee#Walker Evans#Ben Shahn#Charlie Brown#Biennale d'Arte Venezia#Scavi Scaligeri Verona#Villa Manin Passariano#Museo del Precinema Minici-Zotti#Carlo Maccà
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Madame d’Ora
di Andrea Scandolara
--- Chi era Dora Kallmus, fotografa di inizio Novecento? – chiede il giovane-assistente all’affermato fotografo. – Ne sai qualcosa di più?
Ahh… allora hai visto anche tu quell’articolo pubblicato un po' di giorni orsono su Il Venerdì di Repubblica?
Dora Kallmus, autoritratto con gatto nero (1929)
No, mi sarà sfuggito… ma ho visto alcuni dei suoi scatti
Beh, come già sai è stata una fotografa dei primi anni del 1900, lei era nata nel 1881 a Vienna da una famiglia ebrea. Da non confondere con Dora Maar, altra donna fotografa ma di qualche decennio successivo. E’ stata la prima donna fotografa del XX secolo e la prima ad avere uno studio professionale con il suo nome: Madame d’Ora, lo pseudonimo che si era scelto per la professione da pronunciarsi alla francese. Sì, perché in quel periodo Vienna era invasa da gente proveniente da tutto il mondo e la pronuncia alla francese dava un tono in più”.
Pablo Casals (1912) Karoline Nostitz-Rieneck (1913)
Ma non l’avevo mai sentita nominare; non è un autore famoso, quindi – rincalza l’assistente.
Era molto famosa ai suoi tempi, poi è passata nel gruppo degli autori dimenticati. La sua fama le aveva permesso di fare dei ritratti a molti personaggi celebri; Gustav Klimt è stato il primo nel 1908 e poi sono seguiti molti altri, dall’ultimo imperatore d’Austria alla ballerina Anna Pavlova, da Colette ad Arthur Schnitzler. Era anche fotografa di moda ma quello che più conta rimane il suo anticonformismo che le ha consentito di infondere modernità in tutti i suoi lavori. La sua storia personale l’ha fatta crescere libera, oltre gli schemi consolidati di quegli anni, è stata la prima donna a frequentare corsi universitari; così quando ha iniziato a fotografare l’emancipazione femminile, il coraggio, la libertà da regole e pudori, si sono tradotti in innovazione dei suoi scatti capaci di rendere bello chiunque e qualsiasi cosa. La strada del successo era aperta.
Tsuguharu Foujita (1927) Josephine Baker (1928)
Cosa intendi per innovazione?
All’epoca il ritratto aveva delle regole ben precise, erano diventate degli stereotipi. Dora, che aveva studiato grafica e fotografia, inizia a ritrarre i soggetti in pose diverse, più naturali, più vicine all’osservatore; cose impensabili prima di lei. Il ritratto comincia con lei a diventare più dinamico, viene superata la limitatezza imposta dal rappresentare esclusivamente il volto della persona e racconta qualcosa di più delle fattezze del soggetto. Non si fa problemi nel rappresentare il nudo quando gli altri lo escludono a priori; naturalmente quelle immagini viste oggi hanno ben altra valenza, ma solo perché sono cambiati i tempi.
E poi?
Poi nel 1921 apre uno studio anche a Karlsbad, in Germania, ma già nel 1925 si trasferisce a Parigi. Lì lavora con Coco Chanel, e numerosi sono i ritratti di personaggi famosi come Josephine Baker, Tamara de Lempicka, Alban Berg, Maurice Chevalier; trova le porte aperte nel mondo della moda per conto di numerosi periodici e la sua libera creatività le assicura committenze prestigiose. E’ di quel periodo la parte più consistente della sua produzione, e ti assicuro che non è poca.
The Demon Machine (1924) Posa ritmica (1930)
Viste queste premesse, come mai è finita nel gruppo dei fotografi dimenticati?
Anche se già nel 1919 si era convertita al cattolicesimo, nel 1940 con l’invasione dei nazisti in Francia Dora si sente in pericolo per il suo passato ebraico. Vende il suo studio di Parigi, si nasconde in un convento nel sud della Francia e successivamente in una fattoria. Madame d’Ora smette di fotografare. Solo al termine della guerra riprende la sua attività con un lavoro sulle condizioni dei campi profughi dell’Austria e poi, all’età di 75 anni, con un lavoro sulla brutalità dei macelli di Parigi. Nel 1959, investita da una moto, perde la memoria e resta inabile al lavoro. Si ritira in Austria dove morirà nel 1963.
Colette (1953)
Quindi – azzarda l’assistente – mi pare di capire che i suoi scatti, pur innovativi e creativi prima della guerra, non corrispondevano più agli stili in uso dopo la cessazione del conflitto. Si era già fatta strada il neorealismo e la fotografia documentaria sviluppata dai grandi fotografi di guerra, a cominciare da quelli della Magnum.
Questo è sicuramente uno dei motivi. Ma l’aver bruscamente interrotto la sua attività per i noti eventi bellici e per aver prodotto poco dopo la guerra, le ha impedito di restare sulla scena proprio nel periodo quando la cultura fotografica si stava diffondendo significativamente in Europa.
Peccato le sia capitato questo destino; ho visto alcuni dei suoi scatti e mi appaiono di una modernità travolgente. Poi guardi la data e resti senza parole.
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