#storia del pianto
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Il potere del pianto: benefici e storia
Il pianto, spesso stigmatizzato nella società attuale, è un'espressione naturale e benefica per la nostra salute emotiva. La scienza dimostra i suoi effetti positivi, e dovremmo riaccettarlo come parte della nostra vita e della nostra umanità.
L’azione del piangere è vista come un atto di cui vergognarsi, soprattutto se a piangere è un uomo.La società odierna non riesce a comprendere l’importanza del pianto nel sentirsi meglio e rinvigoriti; anzi, viene demonizzato.Oggi vedremo gli effetti benefici del pianto secondo la scienza e daremo anche un’occhiata al valore attribuito ad esso nella storia. Il pianto nella storia Nella società…
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L'altro giorno, ero al supermercato a fare la spesa intorno alle 18:30 quando un uomo anziano è entrato nel corridoio della pasta e mi ha messo una mano sulla spalla. Ho sobbalzato. La mia prima reazione è stata quella di arrabbiarmi e chiedergli di non toccarmi. Poi ho notato qualcosa. L'uomo stava piangendo. Sembrava sconvolto e confuso.
Improvvisamente mi ha chiesto: "Sai dov’è mia moglie? La sto cercando." Gli ho risposto che non lo sapevo e gli ho suggerito di chiedere aiuto al banco informazioni per trovarla. Pensavo che l'avesse persa tra le corsie. A chi non è mai capitato? Ma mi sbagliavo.
Ha continuato a chiedere: "Dov'è mia moglie? Era proprio qui." Le lacrime gli riempivano gli occhi. Gli ho detto di nuovo che non ne ero sicura e gli ho proposto di accompagnarlo al banco del servizio clienti, dove avrebbero potuto fare un annuncio tramite gli altoparlanti. Ha accettato.
Lì, la donna al banco ha chiesto un nome. Lui mi ha guardato, come se fossi io ad avere la risposta. La donna ha alzato gli occhi al cielo e si è rivolta a me: "Signorina, ha IL NOME?" Le ho spiegato che non conoscevo quell'uomo e che non avevo più informazioni di lei. "È uno scherzo?" ha chiesto. A quel punto mi sono resa conto che quell'uomo non era semplicemente confuso, ma affetto da Alzheimer. Avendo avuto un nonno con questa condizione, lo riconoscevo fin troppo bene.
L'ho portato all'area ristoro e ci siamo seduti. Ora tremava e piangeva piano. "Dov'è il mio amore?" Gli ho preso le mani e gli ho chiesto se avesse un cellulare. Mi si spezzava il cuore per lui. Mi ha detto che non ne era sicuro, così gli ho chiesto se potevo cercare nelle sue tasche. Ha acconsentito. Con attenzione, ho trovato un piccolo cellulare a conchiglia. Ho cercato tra i contatti e ne ho trovato uno chiamato "Figlia Krissy". L'ho chiamata subito. Ha risposto in pochi secondi.
"Pronto?" ha detto, con la voce già preoccupata. Le ho spiegato che ero con un uomo anziano che presumibilmente era suo padre. Che eravamo al supermercato di Lane Street e che lui era molto sconvolto e turbato.
"Sto arrivando," ha detto. "Puoi assicurarti che non si allontani?" Ha continuato: "Grazie, grazie mille. Sto venendo."
Per circa 20 minuti, sono rimasta seduta con uno sconosciuto in lacrime. Gli ho tenuto le mani. Gli ho asciugato le lacrime. Quando ha tremato, gli ho messo la mia giacca in grembo. Gli ho dato le risposte di cui aveva bisogno in quel momento. L'ho tenuto lontano dal vagare. Perché era il minimo che potessi fare.
Improvvisamente, è entrata una giovane donna alta, che sembrava avere circa 28 o 29 anni. Lunghi capelli neri e occhi verdi. Ci siamo scambiati uno sguardo e lei si è precipitata verso di noi. "Grazie. GRAZIE," ha detto. "Dovevo assentarmi solo per un'ora, e questo succede. Sapevo che non avrei dovuto lasciarlo. Mi dispiace tanto." Mi ha spiegato che a volte lui si allontana per cercare sua moglie. L'ha persa 13 anni fa, ma non smette mai di cercarla.
Ha aiutato suo padre ad alzarsi dalla sedia e mi ha ringraziato ancora una volta. Mentre uscivano, l'ho sentito dire di nuovo: "Dov'è mia moglie?" Mi si è stretto il cuore, ma ero così felice di vederlo con la sua famiglia di nuovo.
Condivido questa storia non solo perché quest'uomo mi ha toccato il cuore, ma per dire questo: La maggior parte del mondo sono estranei per te. Lo so. Ma non dimenticare mai che condividiamo tutti questo mondo e, in esso, possiamo condividere gentilezza. È l'unica cosa che può farci andare avanti. Se vedi qualcosa, fai qualcosa. Non sai mai quanto grande può essere il tuo impatto sulla vita di qualcun altro.
Non mi importa che il carrello della spesa che avevo lasciato nel corridoio della pasta durante il trambusto sia stato svuotato e messo a posto. Non mi importa di aver cenato un po' più tardi quella sera. Di essere tornata a casa e di aver pianto in cucina per questo dolce, povero uomo. La gentilezza non costa nulla.
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L’unica immagine che ha rispecchiato il mio sentire
è il nero,
il buio di questo inutile dolore.
La guerra ci colpisce come uno schiaffo per la vicinanza fisica, per la contiguità.
Per questo il primo pensiero, urgente e doloroso, va alle Donne .
Tante donne, che ci raggiungono per il loro dolore, per la loro forza, in fuga, resistenti, combattenti che siano.
Le donne a cui si affida la fuga per a cura dei piccoli, figli loro o altrui, degli anziani, della sopravvivenza.
Le donne che vogliono resistere, fare la differenza, anche se questo significa abbracciare un mitra, tirare una molotov, arruolarsi.
Le donne che nascono, come la piccola Mia, partorita nel tunnel della metropolitana, diventato bunker.
Le donne, ragazze, bimbe che muoiono.
Le donne che brillano per la loro assenza ai tavoli dove si negozia, dove si decide.
Non ci sono donne laddove si decide di guerra, di bombardamenti, di confini, di misure d’emergenza, ma che sono sempre presenti dove la guerra si subisce.
Le donne che prendono posizione, netta definitiva, anche rinunciando ad un pezzo della loro storia.
Mi attraversano le parole che cercano di descrivere, di fermare in un’unica forma ciò che vedo, che leggo, che sento. Che tengo, trattengo dentro di me, perché niente di questa immane, dolorosa forza vada perso: le lacrime, la forza, il dolore, il sorriso, lo sgomento, la determinazione, la paura, l’amore, la salvezza, la sconfitta, il sovvertimento di ogni sicurezza, l’annientamento, la perdita di futuro, la fame, a sete, la lotta, la resistenza.
Lo stupro.
Lo stupro, ancora e ancora. Non è in questa guerra. E’ la guerra per le donne. Sempre.
Ancora oggi, nelle guerre (si perché “conflitti”- “operazioni speciali” sono termini troppo edulcoranti, che lasciamo agli infingardi) ci sono uomini che vedono nel corpo delle donne un terreno di conquista, sul quale sfogare la radice della violenza e del modo di essere e sentirsi uomo.
Ed è tremendamente amaro il constatare che il corpo delle donne, di tutte le donne, è ancora considerato semplicemente una cosa di cui appropriarsi.
Non ha a che fare con la fame di energia, i territori da conquistare, i confini da ridisegnare: sono i confini della donna ad essere violati
E lo stupro di guerra ne è la forma più schifosa, come se nello stupro ci fosse una rivincita bestiale, un trofeo, una testa mozzata da appendere alla lancia.
Lo stupro e tutte le forme di violenza sessuale vengono usati come armi di guerra per sopraffare, annientare fisicamente e psicologicamente le donne e le ragazze. Sempre. Centinaia di loro , di NOI, sono sottoposte a trattamenti brutali allo scopo di degradarle e privarle della loro umanità. La gravità e la dimensione di questi reati sessuali sono spaventose, al punto da costituire crimini di guerra.
Ho ancora negli occhi il viso di una giovane che ho incontrato in un campo profughi durante la guerra. Non si può mettere su un foglio tutto l’ orrore che stava dietro quello sguardo pulito, profondamente disfatto e senza lacrime.
Ma nessuna di noi che l’ha incontrata ha il diritto di accantonarlo in un angolo buio dei ricordi difficili.
Il suo pianto silenzioso deve fare rumore attraverso di noi.
-Anna Maria Romano
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Esattamente undici anni fa, mi svegliavo con un sogno. Pazzesco.
Sognavo mia madre, in piedi vestita,come nei giorni normali della sua vita, era davanti al suo armadio metteva a posto . A fianco a lei c'era quel letto, quello ospedaliero, attrezzato, vuoto.
In quel sogno percepivo, serenità.
Mi sono svegliata e ho pensato: che strano sogno,non mi ha turbata, non mi ha spaventata, avevo capito chiaramente...
In quegli anni vivevo i nella stessa palazzina dove vivevano i miei.
Ale aveva 6 anni e Andre 9.
Ci prepariamo e scendiamo dai nonni.
Mio padre è preoccupato e mi dice: stamattina non va.
Solo questo.
Lei è nel letto ospedaliero, con il respiratore e tutto il resto, dimostra duecento anni, mio padre è stato il miglior infermiere che io abbia mai conosciuto.
Maledetta malattia.
Andiamo via, fa caldo, conosco mio padre, porto i bambini fuori, anche se loro sono davvero bravi.
Andiamo nel bar del loro padre, io a giugno ho chiuso la nostra storia, il nostro matrimonio, e stato un anno assurdo,tra una cosa e l'altra.
Intorno alle undici mi chiama mia sorella, piange e non capisco cosa dice, ma capisco cos'è successo
Mamma è volata via.
Ho dovuto sempre dire io da sola, le cose ai miei figli, anche quando il loro padre se ne è andato,sempre io.
Va be, chi se no!
In quel sogno, mi ha salutata.
Non lo dimenticherò mai.
In questi anni non l'ho sognata molte volte, ma solo in momenti miei particolari.
"non lo so dove vanno le persone quando ci lasciano, ma so dove rimangono"
L'unico volta in cui ho pianto è stato quando mia sorella mi ha detto : la mamma ha la Sla.
Chi vuole stare in corpo che non sente più, chi? Sapendo che non c'è nulla da fare.
Quando se n'è andata, ho respirato, lei non respirava più in autonomia, e sapete una cosa, la sua paura più grande era quella , la mancanza del respiro, il suo punto debole era la gola, tantissimo anni fa le era stata tolta la tiroide .
La sua malattia l'ho trovata ingiusta. Non che ci siano malattie giuste...
Quindi io sapevo che non ce la faceva più, in quel saluto ho percepito la sua serenità.
E niente, dopo questo ricordo buttato su questo muro, mi scuso se vi ho trasmesso tristezza, non era questa l'intenzione.
Giovedì.
Ciao Ma😊
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Valzer per un amore
youtube
♥️♥️♥️
" Non abbiamo mai smesso di scoprirci. E non ci siamo mai annoiati. Lui aveva curiosità per me. La curiosità, diceva, è una prova profondissima dell'amore. Negli ultimi mesi della malattia non mi sono mai mostrata fragile. Non gli ho mai pianto addosso tutto il mio amore, stringendolo tra le braccia. Ho mascherato la mia disperazione, pensando che per lui fosse meglio così. Ora mi manca quel momento condiviso di verità e dolore.
Penso spesso a quella vecchia canzone che stava incidendo quando cominciò la nostra storia. Era "Valzer per un amore".
Quando carica d'anni e di castità, tra i ricordi e le illusioni del bel tempo che non ritornerà, troverai le mie canzoni ...
Eccomi qua, a ricordare e in fondo ad aspettarlo: sono sicura che prima o poi ci rincontreremo.
Forse inconsciamente quel valzer era già dedicato a me
Dori Ghezzi
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Incontri inaspettati e tristi.
La storia è un po' lunga: dal 1977 a fine luglio 1991 dove vivo ora c'erano degli inquilini: moglie, marito, figlia.
L'uomo non era una brava persona, pensava di poter fare quello che voleva perché la padrona di casa, mia mamma, era una donna sola con due figli, quindi si credeva il capo: liti continue con moglie e figlia, volavano anche alcune sberle, una sera ad età maggiore della figlia hanno chiesto asilo sotto da noi per poi andarsene di casa minacciando denunce e altro, senza di fatto combinare nulla e tornarsene a casa con lui dopo insistenze della famiglia di origine di lui.
Lui insomma un pezzo di fango, la moglie una povera anima analfabeta non riusciva a dire una frase completa in italiano, la figlia lavorava come commessa dopo una scuola professionale per segretaria.
Succede che la figlia si sposa gravida (disonore) e nell'84 nasce il primo figlio, dopo l'anno di maternità( passato non si sa dove) lei torna al lavoro e scarica h 24 il bambino ai genitori, quindi da noi, perché dove vive con il padre del bimbo, pare, non sia adatto a tenerci dei figli...il bimbo cresce apparentemente buono, me lo ricordo che girava in bici nel cortile di casa con la nonna che lo sgridava se cadeva e bestemmiava. Nasce anche il secondo figlio, scaricato anche quello da noi : finalmente allo scadere del contratto di affitto e senza non poche difficoltà e dispetti più o meno gravi riusciamo a mandare via sti inquilini ( il problema era lui, il pezzo di fango).
Per qualche anno per vie traverse abbiamo saputo delle varie sorti di ognuno di loro, la moglie del pezzo di fango morta per ictus dopo aver faticato una vita, il pezzo di fango morto qualche anno più tardi, figlia e marito e relativi due figli qualche tribolazione di natura depressiva, poi perse le tracce. Da settimana scorsa il primo bimbo dell'84 è ricoverato in unità coronarica per una grave cardiomiopatia dilatativa di nuovo riscontro, imbottito di psicofarmaci seguito da anni dal CSM per episodi di depressione maggiore e schizofrenia...il viso che ricordavo del bimbo in bici, un uomo buono, molto sfortunato, imbambolato dalle terapie, poco affine all'uso dell'acqua e sapone, un uomo che sta pagando tutto il suo vissuto, gli unici contatti telefonici che ha lasciato sono della compagna (messa come lui dal punto di vista psichiatrico) e del suocero...non ha più nessun rapporto con la famiglia di origine, non ne vuole sapere più nulla, neanche del fratello.
Non ho raccontato a mia mamma e mio fratello ( neanche a mio marito e figlio) dell'incontro e non lo farò mai, ho pianto parecchio ricordando cosa abbiamo passato con sta gente in giro per casa, ho pianto per come l'ho visto ridotto, per come questo uomo sia anagraficamente un uomo ma la sua testa è quella di un bambinone, ricordando questi due bambini che vivevano con i nonni, sti due bambini che tutto sommato erano tranquilli ma evidentemente non era così .
Sono molto triste e lascio scritta qui questa mia tristezza.
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Ti preparo per lui
Ho sofferto. Moltissimo, quando ho scoperto che mio marito aveva una storia con te. T'ho odiata. Però pur di non perderlo gli ho detto che poteva continuare, purché lo facesse con assoluta discrezione: occhio non vede… Ma il mio cuore invece sanguinava comunque ogni giorno. Però io mio marito lo amavo troppo e di fatto non ho esitato a calpestare la mia dignità, il mio orgoglio di donna, pur di continuare ad averlo nel mio letto la notte. Ho pianto lacrime caldissime e gli ho fatto fare ciò che voleva, col mio corpo. Ho imparato a fargli dei bocchini che neppure una squillo che debba guadagnarsi i tremila euro quotidiani.
Ho speso cifre folli in abiti, lingerie e cosmetici, per cercare di risvegliare la passione tra noi due. Poi d’improvviso ho provato il forte bisogno di conoscerti, per vedere se anche tu avessi dei difetti. Volevo capire che cosa avessi di speciale, tu. Che pesce prelibato eri. Oppure che razza di speciale ed espertissima puttanona fossi. Invece durante il nostro primo appuntamento a casa tua, dopo il forte batticuore dell’attesa, ho scoperto una donna semplice, pure un po’ dimessa. Fragile, piccolina, magrissima e quasi senza seno. Ma anche molto colta, di buoni sentimenti, piena di umorismo un pizzico amaro e infine assolutamente empatica con me.
Avevi l’anima piena di sofferenza per il tuo matrimonio, naufragato quattro anni addietro... per colpa di un'altra donna! In te batteva un cuore solitario che aveva trovato un lampo di vita e di speranza proprio in mio marito, porca miseria! In lacrime per la mia evidente sofferenza, ti sei offerta di lasciarlo. Eri sincera e io l'ho capito. Però ti ho detto che se tu l'avessi fatto, lui mi avrebbe sicuramente odiata. E non avrei potuto certo tollerare una situazione del genere in casa, coi bimbi piccoli che avrebbero sicuramente risentito della continua tensione tra noi. Per giunta avrei avuto nel letto un marito che sarebbe stato pieno di un rancore sordo che l'avrebbe mangiato dentro ogni giorno un po’ di più.
Fino al punto di lasciarmi, sicuro. E poi il mutuo da pagare, i soldi che già non bastano così: figurati con una separazione! Quindi siamo rimasti così, tutt'e tre. Senza modifiche al nostro singolare ménage a trois. Dopo qualche settimana t'ho chiamata per un consiglio su un problema medico di cui incidentalmente mi avevi parlato la prima volta che ci siamo viste. Quindi, come un'amica intima mi hai accompagnata di persona nel tuo consultorio di fiducia. Chiacchierando davanti a un caffè s'è consolidato il nostro legame. T'ho riportata a casa e nel salutarti m'è venuto spontaneo accarezzarti e baciarti. Non ti sei ritratta, anzi: ti accoccolavi sulla mia mano, come una gattina tenerissima. Bisognosa d'amore puro.
Non potevo proprio evitare di iniziare ad amarti. Abbiamo cominciato a vederci di nascosto. E poi anche a fare l’amore. Era una cosa naturalissima, tra noi. Dapprima mi piaceva semplicemente l'idea di fare sesso con… l'amante di mio marito! Ma a seguire mi sono veramente innamorata di te fino al midollo e anche tu non potevi più fare a meno dei nostri incontri proibiti. Quindi giù messaggi appassionati a ogni ora e telefonate torride di nascosto. Inevitabilmente lui l'ha scoperto: all'inizio è rimasto senza parole, poi ci ha pure concesso di farlo in casa. Dopocena, quando i bimbi dormono. Pur di non suscitare un possibile scandalo. Quindi, una sera a settimana nel weekend la zia Rossella resta a cena da noi e poi ovviamente anche a dormire.
Mio marito può avere me quando vuole, durante la settimana. Per avere il tuo corpo invece approfitta del dopocena settimanale a tre. Dopo che sul letto abbiamo finito di amarci noi donne, io, contenta e soddisfatta, ti preparo adeguatamente per il suo uccello. Ti sputo nel culo e poi ti lecco a lungo per lubrificarti, mentre lui osserva attentamente le operazioni, menandosi il cazzo lentamente e sbavando di voglia. Mentre ti lubrifico per lui, il nostro uomo arrapatissimo continua a massaggiarsi il cazzo, reso già durissimo dall'aver assistito al nostro amplesso. Ti tengo calda e pronta per il suo uccello. Infine, ti lascio alle sue cure e assisto, passiva ma contenta, quando ti sfonda ovunque senza più indugi o delicatezze.
Vorrebbe distruggertelo, quel culo. Vorrebbe spaccartela, quella fregna. Per riaffermare così il suo dominio di maschio, l'esigenza di essere indispensabile e adorato dalla femmina. Devo appunto dire che è evidente che lo fa con assoluta rabbia, per rimarcare il territorio come suo. È chiaramente geloso. A volte per placare un po’ la sua frustrazione e tenerlo buono, quando ha sborrato dentro di te, se tu sei già stata montata a lungo, sei venuta e sei stata soddisfatta, gli chiedo di sfilarsi e quindi glielo prendo in bocca, anche per gustarmi le sue ultime gocce. Quelle tardive, le più saporite. È un mio vezzo, lo confesso: sono diventata un po’ puttana.
Molto puttana! Eh: nella vita si cambia. Molto. Allora me lo pompo per bene. Gli infilo il medio nel culo per farlo indurire al massimo. Lo conosco bene, mio marito. E quindi lo succhio gemendo forte, per fargli chiaramente capire che sto godendo molto nell'averlo in bocca, anche se a tarda sera ormai magari ho solo un gran sonno. Lui così ha certamente l'impressione di essere il sultano di un piccolo harem e viene ancora un'ennesima volta, tenendomi saldamente la testa, a ribadire che anche io sono cosa sua e mi dice ad alta voce che mi sborra dentro quanto e quando vuole. Chiaro, puttana?
Io in ogni caso, davanti al suo cazzo non scappo di certo: un bell'uccello sa dare soddisfazioni che nessun giocattolo potrà mai sostituire. E poi è sempre il mio uomo, il padre dei miei figli. Francamente, ancora non capisco bene di quale delle due donne della sua vita lui sia più geloso. Di sicuro invidia il forte legame che ormai ci unisce. Ma non mi frega più di tanto ormai. Perché vivo con lui, cresco i nostri figli. Sono una moglie e una madre quasi perfetta, oserei dire, ma il mio cuore e il mio corpo sono diventati tuoi. Per sempre.
RDA
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Storia Di Musica #356 - Lou Reed, Berlin, 1973
L'ultimo libro del 2024 è stato lo strepitoso Kairos di Jenny Erpebeck, ambientato nella Berlino Est a fine anni '80, tra gli ultimi anni della DDR e la transizione verso la riunificazione. Quel libro mi ha ispirato per la prima serie di dischi della Rubrica del 2025, che sarà dedicata a dischi che hanno a che fare con Berlino. Due tra i più famosi, Heroes di Bowie, fulcro della cosiddetta Trilogia Berlinese (insieme a Low e Lodger, in verità in primo solo in parte registrato lì, il terzo pensato a Berlino ma finito fuori dalla Germania) e Achtung Baby! degli U2 sono stati già protagonisti delle storie di musica. Ma fortunatamente la città tedesca è stata fonte ispirativa per altri grandiosi capolavori musicali.
Il disco di oggi parte da un assunto: dopo che ci aveva quasi rinunciato, e proprio grazie a Bowie era diventato di nuovo leggenda, Lou Reed è ormai un artista di successo oltre la leggenda che lo accompagnava dai tempi dei Velvet Underground. Dopo Trasformer, ha una necessità particolare di fare un disco particolare, personale, ardito. Lo spunto glielo dà il giovane produttore, che diventerà uno dei più grandi di sempre, Bob Ezrin, chiamato dalla RCA a districare le idee di Reed. Ezrin chiede a Reed: tu scrivi grandi canzoni, che però non hanno mai una fine. Che fine hanno fatto per esempio i protagonisti di Berlin (canzone del primo disco solista, Lou Reed, 1972?). Reed fa sua questa osservazione e costruisce un concept album che racconta la storia dei due protagonisti di quella canzone, Jim e Caroline, coppia di americani che vive a Berlino. Una coppia che vive una vita drammatica, oscura, terribile tra droghe, abusi, maltrattamenti, figli non accuditi. Un viaggio nelle tenebre, nella disperazione, nel caos psicologico (con molti accenni autobiografici) di uno dei maestri narratori di questi viaggi, ricordo a tutti che Reed si laureò cum laude alla Syracuse University in Letteratura Americana.
Musicalmente, Reed in Berlin, che esce nel 1973, registrato tra Londra e New York, ripesca nel suo archivio di bozze, scritte anche per i Velvet Underground, e costruisce con Erzin canzoni dai grandi arrangiamenti, con archi, fiati, accompagnato da un gruppo di musicisti eccezionale: l'ex Cream Jack Bruce, Tony Levin mago del basso, Ainsley Dunbar che fu nel gruppo di Frank Zappa, Steve Hunter e Dick Wagner chitarristi di Alice Cooper, e i fratelli Brecker ai fiati. Berlin, che apre il disco, ha perfino un Happy Birthday, sciorina poi nel suo pianoforte quella sensazione di tristezza e angoscia che, volutamente, permea la storia di Jim e Caroline. Lady Day, un omaggio a Billie Holiday, morta prematuramente per abuso di droghe e alcol, è metafora di ciò che caroline va alla ricerca. Men Of Good Fortune (Men of good fortune often wish that they could die. While men of poor beginnings want what they have and to get it they'll die) è l'amara constatazione della loro condizione materiale. How Do You Think If Feels è il brano più autobiografico di tutto l'album: c'è la drammatica paura di Reed di dormire, dovuta alle serie di elettroshock a cui i suoi genitori lo obbligarono a sottoporsi da adolescente, per curarlo da una latente omosessualità. Oh Jim, è la versione di "autoanalisi" che Jim fa a sè stesso, cosa che Reed fa fare a Caroline in due brani, Caroline Says e Caroline Says II, che partono da una canzone pensata per i Velvet, Stephanie Says: soprattutto la seconda è un pugno nello stomaco per ciò che racconta Caroline: Caroline says\as she gets up off the floor\Why is it that you beat me\it isn't any fun (...) But she's not afraid to die\all her friends call her "Alaska"\When she takes speed, they laugh and ask her (...) as she gets up from the floor\You can hit me all you want to\but I don't love you anymore. Da un lato l'umiliazione sociale (La Gelide Alaska, così la chiamiavano gli amici), dall'altro l'abuso fisico. The Kids, così straziante per il pianto dei bambini, ci descrive la squallida situazione familiare in cui vive la coppia, con i bambini che vengono portati via alla coppia. Il finale è potentissimo: The Bed parte dal suicidio di Caroline, Jim prova una struggente nostalgia per lei e la "racconta" elencando tutti i suoi oggetti rimasti: la cronaca ci dice che in quelle stesse settimane la prima moglie di Reed, Bettye Kronstad, tentò un suicidio tagliandosi le vene. Il disco si chiude con Sad Song, che è tra il dolore e l'assoluzione (I'm gonna stop wasting time, somebody else would have broken both of her arms).
Il disco all'epoca fu osteggiato dalla RCA, che si convinse a produrlo solo perchè Reed firmò un contratto per altri due dischi (che furono un live, il fantasmagorico Rock'N'Roll Animal del 1973, e il glam rock sbiadito di Sally Can't Dance nel 1974), e snobbato da pubblico e critica, che lo bollò come un disastro. Con il tempo, le continue trasformazioni di Reed e nella generale riscoperta della sua musica (che ha una data precisa, cioè quando gli U2 lo chiamano a cantare Satellite Of Love durante gli show dello Zoo Tv Tour) il disco viene riconsiderato uno dei suoi grandi capolavori, nonostante la sua dolorosa e tragica natura. Che tra l'altro fece una vittima illustre: Bob Ezrin ebbe un esaurimento nervoso dopo le registrazioni, probabilmente per aver osservato troppo tempo quella oscurità, ma avrà comunque una carriera stellare, a fine decennio produrrà un altro concept leggendario, The Wall dei Pink Floyd. E un verso di The Kids, Oh, I am the water boy, the real game's not over yet\Oh, but my heart is overflowin' each and everyday, arriva fino ad un ragazzo scozzese, Mike Scott, che chiamerà la sua band The Waterboys.
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Ho finito Naruto
Ringrazio Amazon Prime per aver messo a disposizione Naruto e Naruto Shippuden, ci ho messo mesi per vedere tutte le... boh? Seicento? Millequattrocento? puntate dell'anime, ma ne è valsa la pena.
Qualche considerazione.
OVVIAMENTE SPOILER.
Prima di tutto, c'è una domanda che mi assilla da tempo e che ho trovato scritto da qualche parte su internet: qual è il tuo personaggio preferito? Non lo so.
Ho motivi per adorare Sasuke, Sakura, Gai, Rock Lee, Negi, Hinata, Kakashi, persino Orochimaru. I tre ninja leggendari, tutti e tre, sono stati una colonna portante di tutta la storia, inseriti magistralmente. Naruto no, paradossalmente - non so nemmeno quanto paradossalmente in realtà, mi capita spesso con i protagonisti - non è tra i miei preferiti.
Ho pianto e ho riso per mesi dietro a dei pupazzetti (come diceva mia nonna) e tutti hanno contribuito a questo.
Pain. La saga di Pain è stato il momento più alto e più devastante dal punto di vista emotivo. La morte di Jiraiya apre la saga e fa da sfondo alle vicende di Naruto che, lontano per gli allenamenti, spera in continuazione di poter far vedere all'"eremita porcello" quanto sia migliorato. Decine di puntate in cui Naruto non vede l'ora di rivederlo e lui è già morto. La lotta contro Pain e la distruzione del villaggio, la conseguente morte di Kakashi e Hinata (poi riportati in vita, ma tant'è...)... nemmeno con Kenshiro ho pianto così tanto. Credo che dopo Pain io sia pronto anche a vedere storie di tre ore di cani abbandonati e mangiati dalla fame e dagli insetti (forse no... forse). Potrei rivedere Buffy. Potrei rivedere Futurama. Piango anche ora solo a ripensarci.
Capitolo filler. Troppi. Per fortuna la maggior parte delle volte aggiungevano informazioni interessanti alla storia, ma altre volte mi veniva voglia di skippare la puntata.
Ho tifato per Hinata fino alla fine, comunque, e il matrimonio con Naruto mi ha pienamente soddisfatto.
Sono contento di averlo visto.
EDIT: nell'edizione italiana, Naruto dice in continuazione "e che cavolo" nei sottotitoli, ma mai nel doppiaggio. Era una frase che lo collega direttamente alla mamma, e secondo me era importante, e nel frangente in cui si parla della mamma si inventano un modo di dire per lei e lui che mai è stato detto prima e mai verrà detto dopo, solo per creare questo collegamento raffazzonato. Secondo me è stato un grave errore di adattamento.
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“Più dei tramonti, più del volo di un uccello, la cosa meravigliosa in assoluto è una donna in rinascita.
Quando si rimette in piedi dopo la catastrofe, dopo la caduta.
Che uno dice: è finita.
No, non è mai finita per una donna.
Una donna si rialza sempre, anche quando non ci crede, anche se non vuole.
Non parlo solo dei dolori immensi, di quelle ferite da mina anti-uomo che ti fa la morte o la malattia.
Parlo di te, che questo periodo non finisce più, che ti stai giocando l'esistenza in un lavoro difficile, che ogni mattina è un esame, peggio che a scuola.
Te, implacabile arbitro di te stessa, che da come il tuo capo ti guarderà deciderai se sei all'altezza o se ti devi condannare.
Così ogni giorno, e questo noviziato non finisce mai.
E sei tu che lo fai durare.
Oppure parlo di te, che hai paura anche solo di dormirci, con un uomo; che sei terrorizzata che una storia ti tolga l'aria, che non flirti con nessuno perché hai il terrore che qualcuno s'infiltri nella tua vita.
Peggio: se ci rimani presa in mezzo tu, poi soffri come un cane.
Sei stanca: c'è sempre qualcuno con cui ti devi giustificare, che ti vuole cambiare, o che devi cambiare tu per tenertelo stretto.
Così ti stai coltivando la solitudine dentro casa.
Eppure te la racconti, te lo dici anche quando parli con le altre: "Io sto bene così. Sto bene così, sto meglio così".
E il cielo si abbassa di un altro palmo.
Oppure con quel ragazzo ci sei andata a vivere, ci hai abitato Natali e Pasqua.
In quell'uomo ci hai buttato dentro l'anima ed è passato tanto tempo, e ne hai buttata talmente tanta di anima, che un giorno cominci a cercarti dentro lo specchio perché non sai più chi sei diventata.
Comunque sia andata, ora sei qui e so che c'è stato un momento che hai guardato giù e avevi i piedi nel cemento.
Dovunque fossi, ci stavi stretta: nella tua storia, nel tuo lavoro, nella tua solitudine.
Ed è stata crisi, e hai pianto.
Dio quanto piangete!
Avete una sorgente d'acqua nello stomaco.
Hai pianto mentre camminavi in una strada affollata, alla fermata della metro, sul motorino.
Così, improvvisamente. Non potevi trattenerlo.
E quella notte che hai preso la macchina e hai guidato per ore, perché l'aria buia ti asciugasse le guance?
E poi hai scavato, hai parlato, quanto parlate, ragazze!
Lacrime e parole. Per capire, per tirare fuori una radice lunga sei metri che dia un senso al tuo dolore.
"Perché faccio così? Com'è che ripeto sempre lo stesso schema? Sono forse pazza?"
Se lo sono chiesto tutte.
E allora vai giù con la ruspa dentro alla tua storia, a due, a quattro mani, e saltano fuori migliaia di tasselli. Un puzzle inestricabile.
Ecco, è qui che inizia tutto. Non lo sapevi?
E' da quel grande fegato che ti ci vuole per guardarti così, scomposta in mille coriandoli, che ricomincerai.
Perché una donna ricomincia comunque, ha dentro un istinto che la trascinerà sempre avanti.
Ti servirà una strategia, dovrai inventarti una nuova forma per la tua nuova te.
Perché ti è toccato di conoscerti di nuovo, di presentarti a te stessa.
Non puoi più essere quella di prima. Prima della ruspa.
Non ti entusiasma? Ti avvincerà lentamente.
Innamorarsi di nuovo di se stessi, o farlo per la prima volta, è come un diesel.
Parte piano, bisogna insistere.
Ma quando va, va in corsa.
E' un'avventura, ricostruire se stesse.
La più grande.
Non importa da dove cominci, se dalla casa, dal colore delle tende o dal taglio di capelli.
Vi ho sempre adorato, donne in rinascita, per questo meraviglioso modo di gridare al mondo "sono nuova" con una gonna a fiori o con un fresco ricciolo biondo.
Perché tutti devono capire e vedere: "Attenti: il cantiere è aperto, stiamo lavorando anche per voi. Ma soprattutto per noi stesse".
Più delle albe, più del sole, una donna in rinascita è la più grande meraviglia.
Per chi la incontra e per se stessa.
È la primavera a novembre.
Quando meno te l'aspetti...”
Jack Folla
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“E basta con sta storia che dovete essere forti a tutti costi.
No. Non raccontiamocela per favore.
Siamo esseri divini ma abitiamo corpi umani, fragili, sensibili.
Non c’è nulla di più spirituale di una lacrima che riga il tuo volto.
Hai mai sentito il sapore delle lacrime?
Ha qualcosa di magico.
E gli occhi dopo che hanno pianto li hai mai visti?
Sono ancora più luminosi.
Cosa c’è di più divino di uno sguardo dopo il pianto?
Sii fragile. Permettiti di sentire che ti frantumi in mille pezzi.
Se ti senti abbandonato, permettiti di vivere quell’abbandono.
Se ti senti solo, ascolta la tua solitudine.
Se ti senti stanco, accetta la tua stanchezza.
E riposa.
Smetti di voler essere forte a tutti costi.
Essere spirituali o in cammino non vuol dire non provare emozioni.
Quanto è bella la fragilità che assomiglia ai fiori appena sbocciati in primavera.
Quanto profuma la fragilità. Che quando la vedi ti viene da abbracciarla e contenerla tutta con il tuo amore.
Cosa ci rende più umani del dolore? E in fondo a quel dolore trovare la tua parte più divina?
Smetti di raccontartela.
Non devi essere forte.
Fregatene di chi ti dice che devi spiritualizzare le tue emozioni.
Col cavolo!
Le emozioni non si spiritualizzano.
Sono loro che, se lasciate fluire, ci fanno riscoprire la nostra natura spirituale.
Non credere a chi ti dice: sii forte.
Credi piuttosto a chi ti dice: frantumati in mille pezzi.
Lasciali cadere tutti a terra.
E poi raccoglili e dai loro una nuova forma.
Non credere a chi ti dice: devi essere forte.
Credi piuttosto a chi ti dice: quant’è bello il tuo dolore.
Lo abbraccio insieme a te e vedremo sbocciare da lui una nuova primavera.”
Monica Grando
In questi giorni non sto bene e questo testo, preso dalla bacheca di Chiara Tettamanti, giunge in soccorso come solo lo sguardo di un'amica-sorella può fare.
Abbiamo l'illusione che chi abbia una pratica spirituale o di cura psicologica non soffra o sappia sempre cosa farne della propria sofferenza.
La mia esperienza è di tutt'altro tipo, ed è più vicina a certi giochi dove man mano risolvi un livello, se ne apre un altro più difficile.
La vulnerabilità, come la danza della realtà, sono i nostri più grandi maestri ed essendo tali non sono certo circoscrivibili dentro una tecnica, una prospettiva psicologica o una visione spirituale.
Quindi si, accetto di essere ancora una volta
in frantumi.
Gloria Volpato
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Ho le rughe... Mi sono guardata allo specchio e ho scoperto di avere molte rughe, intorno agli occhi, alla bocca, sulla fronte. Ho le rughe perché ho avuto amici, e abbiamo riso, abbiamo riso tanto, fino alle lacrime. E ho conosciuto l'amore, che mi ha fatto strizzare gli occhi di gioia. Ho le rughe perché ho avuto dei figli, e mi sono preoccupata per loro fin dal concepimento, e ho sorriso a ogni loro nuova scoperta e ho passato notti a cullarli. E poi ho pianto. Ho pianto per le persone che ho amato e che sono andate via, per poco tempo o per sempre oppure senza sapere il perché. Ho vegliato, trascorso ore insonni per progetti andati bene, andati male, mai partiti, per la febbre dei bambini, per leggere un libro o fare l’amore. Ho visto posti splendidi, nuovi, che mi hanno fatto aprire la bocca stupita, e rivisto i posti vecchi, antichi, che mi hanno fatto commuovere. Dentro a ogni solco sul mio viso, sul mio corpo, si nasconde la mia storia, le emozioni che ho vissuto, la mia bellezza più intima e se cancellassi questo, cancellerei me stessa. Ogni ruga è un aneddoto della mia vita, un battito del mio cuore, è l’album fotografico dei miei ricordi più importanti.
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Ogni ruga sui nostri volti
è una storia vissuta con coraggio,
orgoglio,
sorriso,
pianto
e amore.
Sono come le parole di un libro aperto,
sfogliato dal tempo davanti agli occhi del mondo..
Alda Merini
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Insegnerò a mia figlia ad essere se stessa.
A ricordarle di sorridere anche quando non è facile.
Le insegnerò che l’amore non è come lo raccontano le favole, ma la spronerò a conoscerlo. A viverlo.
Le dirò che il tempo non cancella niente, ma che aiuta a stare meglio. A ritrovarsi.
Le insegnerò ad amare se stessa e poi gli altri. A non accontentarsi di chiunque.
Le insegnerò ad asciugarsi le lacrime dopo ogni pianto.
Le insegnerò che non sono sempre gli altri a deludere, a volte sarà anche lei a farlo.
Le insegnerò a vivere di pancia e secondo le sue emozioni.
Le insegnerò che spesso, il bene non riceve altrettanto bene. Ma non le dirò di smettere di donarlo.
Le insegnerò a camminare a piedi nudi sull'erba bagnata, a sentirsi libera ma padrona del suo cammino.
Le insegnerò ad entrare in punta di piedi nelle vite altrui.
Le insegnerò ad andare avanti anche con il mondo contro.
Le insegnerò che non sempre è tutto come sembra, ma che ogni cosa va vissuta prima di giudicarla, affinché possa riconoscere il bene ed il male. Ci sono cose che mi auguro viva, ed altre che si limiti a conoscerle.
Le insegnerò a credere che, se qualcosa la vuole davvero, questa è facile che si avveri.
Le insegnerò a non arrendersi, a prendersi in braccio e portarsi in salvo perché, ahimè, spesso sarà da sola a doverlo fare.
Le insegnerò in fine, che le cicatrici hanno una storia e che ad ogni modo saranno una vittoria.
- Mariarca Cacace
Alle mie figlie ❤️❤️...
@occhietti
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Non mi aspettavo finisse così presto. Sapevo da un po' che questa storia non sarebbe potuta andare avanti per molto, ma una parte di me non era ancora pronta ad accettare di non poter più avere tutto questo. È difficile immaginare che non avremo più quei nostri piccoli momenti di tenerezza e felicità. Quando ti ho incontrato per la prima volta non mi sarei mai immaginata che potessi darmi così tanto. Ero un piccolo cuore rotto e indifeso e tu ti sei preso cura di me con i gesti più semplici e dolci. Non mi sono mai fidata di nessuno, eppure con te è stato così semplice aprirmi. Darti parte del mio mondo per prendermi in po' del tuo è una di quelle cose di cui non mi pentirò mai, anche se adesso fa male il pensiero di non poterlo più fare. Ma ti porto con me, in ogni mia canzone, in ogni mio viaggio, in ogni opera d'arte che mi fermerò a guardare. Mi dispiace che sia finita soprattutto perché avevo trovato in te una persona con cui parlare di tutto, anche delle cose più assurde. Mi hai insegnato molto e so di averti insegnato qualcosa anche io. Eravamo destinati ad incontrarci, ma non ad essere. Non ho nessun rancore e non ho nessun rimpianto. Sono uscita dai miei schemi grazie a te. Ho imparato a vedere il lato positivo delle cose, anche quando tutto sembra buio. Abbiamo riso tanto e abbiamo pianto tanto. Abbiamo condiviso qualcosa di straordinariamente bello e mi sento fortunata per questo. Mi rincuora sapere che per quel tempo che abbiamo avuto insieme siamo stati noi stessi e abbiamo fatto del nostro meglio per capirci e volerci bene. Le nostre strade si sono intrecciate per poco tempo, ma questo tempo ha un valore unico e che non può essere sostituito. Mi hai insegnato che sono in grado di amare qualcuno e che posso ricevere altrettanto amore e questa è una lezione che non potrò mai dimenticare.
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Pochi giorni fa l’autore di Le otto montagne è stato infine dimesso dopo due settimane dal reparto di psichiatria dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano. Tra le pagine del racconto giornalistico di Cognetti, un romanzo in essere, in vita, in continua dolorosa mutazione, c’è tutta la fatica e il pianto che il male di vivere appiccica addosso ai viventi. Cognetti spiega così le ragioni del ricovero: “In primavera e d’estate, senza un apparente perché, sono stato morso dalla depressione. Nelle scorse settimane invece, sceso dal mio rifugio sul Monte Rosa, ero in una fase bella e creativa. Un giorno mi sono accorto che il mio pensiero e il mio linguaggio acceleravano. Gli amici mi hanno fatto notare che facevo cose strane”. Lo scrittore ricorda che nelle fasi maniacali “si può perdere il senso del pudore o quello del denaro. Io ho inviato ad amici immagini di me nudo e ho regalato in giro un sacco di soldi. Si sono allarmati tutti: c’era il timore, per me infondato, che potessi compiere gesti estremi, o che diventassi pericoloso per gli altri”.
Il 4 dicembre il medico dispone un Tso e nel giro di poche ore i ritrova sotto casa un’auto della polizia e un’ambulanza: “Sono stato sedato: da inizio dicembre, causa farmaci, non ho fatto che dormire. Resto un anarchico, ma in ospedale ai medici devi obbedire. Ti svegliano alle sei di mattina e ti obbligano a bere subito due bicchieroni di tranquillanti. Sei vivo, ma è come se fossi morto”. Dice Cognetti che avrebbe cercato di guarire “risalendo piuttosto in montagna o partendo per un viaggio”. Lo sguardo e la speranza che cercano strade battute, i sentieri che hanno fatto stare bene, la montagna come rifugio e isolamento da un reale che soffoca. “Mi sono illuso di poterlo fare. L’innamoramento è durato quattro anni: per due ho fatto il cameriere e mi sono sentito parte di una comunità. Poi, dopo che ho cominciato a camminare e a scrivere l’umanità della montagna mi ha respinto”.
Intarsiato al “ritiro” personale e professionale sembra esserci anche un sentimento e una passione che pesano addosso: “Dopo dieci anni avevo lasciato una ragazza da vigliacco. Non ho avuto il coraggio di dirle la verità, le ho fatto credere che me ne andavo per ritirarmi in montagna. Mentire rende soli, ma soli non si vive”. Tra le possibili cause dell’abisso paradossalmente l’apice: “Per imparare quasi scrivere ho impiegato 40 anni. Dopo il successo con Le otto montagne, una storia urgente e necessaria, mi sono chiesto: E adesso cosa faccio? Non ho trovato una risposta convincente. Forse ho temuto che il mio massimo editoriale, con il Premio Strega, fosse stato toccato: la popolarità è spietata e ha un prezzo significativo”. Infine lo squarcio: “Trovo insopportabili le persone che raccontano un sacco di balle. Depressione e disagio psichico sono un fiume carsico in piena, negato e ignorato per accreditare l’idillio di una società felice. Siamo obbligati ad apparire sani, forti e colmi i gioia. Io però sono uno scrittore: per me è tempo di alzare il velo della colpa che nasconde il dolore. Voglio dire semplicemente la verità, a costo di essere sfrontato”.
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