#stimoli neurali
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Da #gliaudaci #giulioperroneditore
Il cellulare di Alessandra con la suoneria del Tempo delle Mele cominciò a squillare canticchiando in toni sempre più alti. Lo aveva lasciato chissà dove senza trovarlo subito e quel momento canoro inaspettatamente lungo, mi catapultò indietro ai miei anni testosteronici, quando ti sentivi in grado di far tutto .La mia corteccia premotoria prese il sopravvento sui movimenti dei muscoli prossimali del tronco, contribuendo alla creazione di uno schema motorio che si gongolava di quegli stimoli musicali e cominciai a muovermi in uno swing melenso e nostalgico ascoltando quel mood. I miei neuroni si sincronizzarono con il sound facendo affiorare pensieri, dando libero sfogo alla corteccia prefrontale e in quel momento i ricordi mi inondarono prepotenti. Essi affluivano misti, impetuosi,veloci. Potevo vedere ineuroni e le loro sinapsi tramutarsi in silenti messaggeri chimici di adrenalina,serotonina, dopamina, molecole di piccolissime dimensioni, tutte insieme provocare risposte immediate, come la percezione di un profumo, il brivido d’un tocco o la reazione di un sorriso; poi stanche, tramutarsi d'un tratto in scintillanti mercuri elettrici, postini neurali, e ancora una volta, sfrigolare e rilasciare vagonate di ricordi, sorrisi, pianti, dubbi e vanità. Ma da dove arrivavano? Come venivano archiviati i ricordi d’una vita? Come venivano catalogati, in base a quale priorità? Non arrivavano alla memoria come fotografie, ma erano scomposti nei loro costituenti primari: colore, sapore, movimento, profondità, intensità, suono. E poi magicamente accadeva il prodigio e appariva la memoria e tutto lì davanti a me, aveva un preciso sapore, un esatto impasto e odorava di vita passata e felice. Filamenti dispersi nelle varie aree del cervello si ricomponevano unendosi come perfette tessere di un mosaico lungo 50 anni, e muti, facevano riemergere il ricordo di una serenità ormai scomparsa, e insieme a un complesso sistema di connessioni cerebrali, procuravanola pelle d’oca.
#robertonicolettiballatibonaffini #romanzo #lettura #libro #soundtrack #memory #mental
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SUFFUMIGI E VAPORIZZAZIONI CON OLI ESSENZIALI, UN VERO TOCCASANA INVERNALE
SUFFUMIGI E VAPORIZZAZIONI CON OLI ESSENZIALI, UN VERO TOCCASANA INVERNALE
Come già stra detto, gli Oli Essenziali (O.E.), possono essere un aiuto di grande importanza nel periodo invernale, per tutti noi.
I suffumigi e vaporizzazioni sono un altro modo di utilizzare e ottimizzare gli effetti degli oli, e sono preziosi nei seguenti casi:
Raffreddori
Sinusite
Influenza
Affezioni delle prime vie respiratorie con tosse e catarro
Bronchite
Vanno fatti in questo modo:
Si…
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#aroma#aromacologia#aromacology#essential oil#Health Coach#leila silva#Life coach#naturopata#neuroni#oli essenziali#salute#stimoli neurali
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La magia della sinestesia,no non quella poetica.
Per sinestesia si intende un particolare fenomeno sensoriale per il quale la persona che ne è affetta percepisce i diversi stimoli sensoriali non come distinti, ma come concomitanti.Questa è la definizione psicologica di questo fenomeno.
Molti sono stati,ed a oggi sono,i nomi celebri della nostra storia che hanno posseduto o possiedono questa qualità:
Richard Feynman,Stevie Wonder,Vladimir Nabokov,Duke Ellington, Pharrell Williams,Billy Joel,Robert Cailliau,Ludwig Wittgenstein,Vincent Van Gogh e potrei continuare.
La sinestesia è tanto rara in generale, quanto comune nel mondo artistico,infatti quelli che ho citato non sono che alcuni dei numerosi artisti che hanno avuto anche grazie alla sinestesia una marcia in più nel loro ambito di interesse.
Tuttavia,se tanti sono gli ambiti di applicazione,al di là della pura vita quotidiana,altrettante sono le forme di sinestesia che possiamo trovare,alcune più rare di altre,ma ugualmente esistenti
Le due tipologie maggiormente presenti sono la forma uditivo-visiva e quella grafema-colore, vi sono però anche altri forme ovvero: suono-colore,musica-colore,quella timbro-colore, parola-colore,udito-tatto,udito-gusto,tecnica timbro (che però è ipotetica)
Richard Feynman diceva:"Quando vedo delle equazioni, vedo le cifre a colori- non so perché e mi chiedo come diavolo deve apparire agli studenti",quindi possiamo dire che non solo la sinestesia sorprende chi non la possiede,ma ne vede gli effetti,ma anche coloro che non solo l'hanno ma ne fanno uso.
Nobokov descrive le tonalità cromatiche delle lettere e sottolinea come nel suo caso sia comune in famiglia; Ellington percepiva ogni nota di un colore differente a seconda del componente della band che la stava suonando;infine un ultimo esempio che possiamo addurre è Van Gogh che presentava una forma rara e non ben confermata di sinestesia che consisteva nell'associazione della tecnica pittorica di artisti da lui conosciuti al timbro più o meno dolce e profondo di altrettanti strumenti musicali, come violini, pianoforti e organi.
Benché,siano molti gli artisti ed i personaggi di spicco della nostra società a possedere queste caratteristiche anche le persone comuni come me e come voi possono o potrebbero avere a che fare con la sinestesia,in prima persona o no.
Ci sono sinesteti che associano i colori alle persone,per loro ogni individuo è come avvolto da una nuvoletta colorata a seconda di come il soggetto veda le persone ed associ loro una determinata sensazione positiva o negativa; altri riescono rapidamente nel calcolo nel caso gli si ponga la questione di contare un certo numero di 2 in una moltitudine di 5; si può anche associare una canzone ad una forma ed un colore specifico che gli apparterrà sempre oppure in una determinata occasione piuttosto che in un'altra.
Ma nello specifico in cosa consiste la sinestesia ed in cosa può cambiare la nostra visione della nostra vita?
Dal greco syn aisthesis è percepire insieme e consiste in una particolare condizione cerebrale nella quale la
stimolazione di una modalità sensoriale produce
un’involontaria attivazione in una seconda modalità
sensoriale.
Secondo Ramachandran si ha la sinestesia in quanto attivazione congiunta delle aree sensoriali dovuta ad un eccesso tra le due aree, mentre per Grossenbacher nel cervello dei cinestetici alcune connessioni neurali risultano ancora attive mentre non vengono più "utilizzate" in chi non sperimenta tale modo di percepire.
In un soggetto colpito da sinestesia si tratta, quindi, di una vera e propria contaminazione sensoriale involontaria che rappresenta, per i soggetti che ne sono affetti, la normalità percettiva quotidiana.
Si pensa che sia circa il 4% della popolazione possegga questa condizione,pochi in totale,ma tuttavia spesso i sinesteti vengono concepiti come strani o peggio ancora malati,beh non lo siamo,ma non siamo nemmeno speciali perché siamo solo persone come voi con qualche interazione in più a livello dei sensi.
La sinestesia però,per me che la posseggo resta un po' una magia nella quale cose meravigliose e alle volte considerate impossibili accadono. Le persone si meravigliano e si incuriosiscono oppure ti trattano come un clown del circo,sta a te sapere come gestirle,sta a te non abbassare la testa, ma essere orgoglioso/ a del tuo essere unico/a. Non c'è nulla di male ad essere noi stessi e non c'è nulla di sbagliato a vedersi speciali.
-umi-no-onnanoko (@umi-no-onnanoko )
#sinestesia#sinestetic#sinesteta#writing#scrittura#12.12.20#umi-no-onnanoko#la magia della sinestesia no non quella poetica#life#vita#true story#storia vera#write#scrivere#psycology#psicologia#thoughts#pensieri#riflessioni#reflections#studi#study
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Nel costruire un programma di intelligenza artificiale ci si basa sull’assunto che i processi cognitivi siano fenomeni chimico-fisici misurabili in modo oggettivo (quello che viene definito approccio riduzionistico allo studio della cognizione), e che questi fenomeni siano espressione di eventi computazionali, ossia di calcoli, che in quanto tali possono essere riprodotti anche al di fuori del nostro cervello.
In questo ambito di ricerca è possibile quindi fare una prima distinzione sul tipo di intelligenza artificiale con cui abbiamo a che fare: parleremo quindi di intelligenze artificiali deboli nel caso di programmi in grado di risolvere problemi specifici troppo complessi o ripetitivi (come ad esempio l’elaborazione dei dati necessaria per effettuare delle previsioni meteo); la definizione di intelligenza artificiale forte invece presuppone la riproduzione artificiale della mente umana, un obiettivo dalla cui realizzazione siamo lontanissimi. E che, almeno secondo gli esperti, potrebbe addirittura non essere mai raggiunto. Questo anche se già ad oggi esistono programmi di intelligenza artificiale debole che sembrano esprimere un’intelligenza forte, come i software in grado di battere i campioni del mondo umani in diversi giochi da tavolo, imparando dai propri sbagli e diventando così sempre più abili, partita dopo partita. Per capire il livello di complessità del sistema computazionale che si vuole riprodurre si pensi ad esempio a un’abilità, comune a moltissimi animali (anche quelli che consideriamo meno intelligenti, ossia evoluzionisticamente più lontani da noi), apparentemente banale ma che risulta molto difficile da riprodurre in una macchina: la visione.
Cosa avviene nel cervello quando vediamo
Quando i fotorecettori posti sulla retina vengono colpiti da uno stimolo (cioè dalla luce) inviano un segnale, attraverso il nervo ottico, alla corteccia visiva primaria. Quest’area del cervello, posta nel lobo occipitale (a livello della nuca), è costituita da neuroni che producono del potenziale d’azione (o, detto altrimenti, “scaricano”) quando gli stimoli visivi appaiono nel loro campo recettoriale. In quest’area i neuroni codificano e discriminano cambiamenti anche minimi a livello di orientamento spaziale e di colori, in un crescendo di complessità che porta, alla fine, a vedere un oggetto identificandone bordi, contorni e caratteristiche principali.
Vedere un oggetto in termini di forme e colori è un’informazione necessaria, ma di certo non sufficiente: è a questo punto, infatti, che intervengono le aree associative visive (la corteccia visiva secondaria, terziaria e quaternaria, Fig. 1). Queste aree sono responsabili del riconoscimento e dell’interpretazione dei segnali provenienti dalla corteccia visiva primaria, e ci permettono di “dare un senso” a quello che vediamo, anche grazie alle informazioni apprese e memorizzate da esperienze precedenti.
In pratica, grazie alla corteccia visiva primaria riusciamo a vedere un martello come un oggetto formato da una parte lunga e stretta, di legno, su cui si innesta blocco di ferro dalla forma appuntita; ma è solo grazie alle aree associative che riusciamo a capire che stiamo osservando un oggetto che possiamo impugnare, e che possiamo utilizzare per battere o estrarre dei chiodi. Lo stesso processo accade nel momento in cui dobbiamo riconoscere il volto di una persona: è proprio dalla descrizione di un deficit delle aree visive associative che ha preso il titolo L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, un saggio del neurologo Oliver Sacks. Nel caso clinico descritto il paziente, che non presentava alcun problema sensoriale legato alla visione, non riusciva a distinguere il visto e la testa di sua moglie dagli oggetti di uso comune tra cui, appunto, il proprio cappello.
A questo livello, cioè dove si realizza l’integrazione di processi percettivi, attentivi e mnemonici, avviene quindi il riconoscimento dell’oggetto, la parte più intelligente del processo visivo. Il nostro cervello lo attua attraverso l’estrazione delle caratteristiche fondamentali di quello che stiamo osservando, per poi confrontarle con pattern di stimolazione incontrati in precedenza. Prendiamo questa immagine:
Tutti noi riconosciamo in essa una sedia, anche se non abbiamo mai visto questo particolare oggetto prima d’ora. Tuttavia riusciamo ad estrarre alcune caratteristiche dell’oggetto (ha quattro gambe, una seduta, uno schienale) che ci permettono di categorizzarla come tale. In maniera implicita e inconsapevole abbiamo risolto anche un problema – assolutamente non banale dal punto di vista cognitivo – che è quello dell’invarianza, ossia di riconoscere l’oggetto a prescindere dal suo orientamento nello spazio e dal punto di vista da cui lo sto osservando.
Riprodurre un modello complesso
È chiaro che alla base della visione c’è quindi un modello di organizzazione gerarchica, molto complesso da riprodurre in un algoritmo. Come fare, quindi, per far sì che un software veda e riconosca un oggetto? Il primo passo è quello di descrivere in modo analitico, e quindi riprodurre, il funzionamento di un neurone. Bisogna quindi creare delle unità base che si attivino o si inibiscano in risposta all’integrazione dei segnali provenienti da altre unità che sono connesse ad essa. Successivamente, i neuroni devono essere organizzati in reti neurali multistrato che emulino la struttura gerarchica del riconoscimento visivo (ad esempio della sedia di prima). Avremo quindi innanzitutto uno strato di input, costituito neuroni artificiali attivati da dati, come i pixel di un’immagine; una serie di strati intermedi, nascosti, che elaborano queste informazioni; uno strato di output che fornisca la risposta finale (“oggetto riconosciuto come sedia”).
Nel corso degli ultimi 6-7 anni queste reti, denominate hierarchical convolutional neural networks (HCNN) sono passate da avere poche unità di strati fino alle centinaia di ora, e vengono addestrate al riconoscimento di oggetti specifici attraverso l’utilizzo di milioni di immagini. Da un “classico” sistema di machine learning si è passato a quello che viene definito deep learning. L’aspetto forse più strano di questi sistemi è che essi non sono in grado di fornire una spiegazione adeguata sul come sono arrivati a fornire un determinato output, ossia una descrizione degli stati intermedi: per questo motivo questo ci si riferisce a questo problema come il problema della scatola nera. Ciò risulta di particolare importanza sia per sviluppare reti neurali sempre più efficienti, sia per capire dove si stia sbagliando quando qualcosa non funziona. Anche se a volte il riconoscimento visivo eseguito dalle reti neurali deep ci appare sbalorditivo, esse sono in realtà molto fragili: se in situazioni ottimali il riconoscimento avviene in modo corretto, basta un leggerissimo rumore di fondo, impercettibile per la visione umana, per mandarle letteralmente in tilt.
L’immagine a sinistra viene riconosciuta correttamente (“panda”) dal software di intelligenza artificiale, con una confidenza del 57%. Se però si applica un rumore di fondo impercettibile per l’occhio umano (immagine al centro), l’immagine risultante, a destra, viene classificata erroneamente (“gibbone”), e per di più con un’altissima (99,3%) confidenza [Goodfellow et al., 2015].
Quindi per ora possiamo stare tranquilli: il momento in cui un cyborg umanoide sarà in grado di distinguere in un contesto complesso nemici e possibili bersagli è ancora lontano. Tuttavia quella che stiamo vivendo è un’importante epoca di transizione e miglioramento nel mondo delle intelligenze artificiali e delle neuroscienze, due rami della ricerca scientifica uniti sempre di più in uno scambio biunivoco di informazioni, conoscenze e soluzioni.
Leggi anche: L’intelligenza artificiale del domani
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Quando i bambini sono scoordinati, cosa fare.
L’idea comune è che il movimento e il funzionamento del nostro cervello siano due cose completamente separate. IN realtà è una convinzione del tutto errata, perché è proprio dal movimento che il nostro cervello recepisce una serie di stimoli fondamentali per attivarsi e funzionare al meglio, favorendo così le connessioni neurali. Tutti gli organi sono coinvolti, quindi l’intero sistema recettivo tra cui anche i senti fanno parte di un processo complesso finalizzato a produrre in modo coordinato il movimento. Questo significa che avere un problema di coordinazione può essere un primo vero campanello d’allarme collegato a meccanismi di sviluppo neuropsicologico, tra cui apprendimento oltre che il linguaggio.
I bambini con un disturbo motorio presentano difficoltà nella coordinazione dei movimenti, appaio impacciati, con difficoltà e rifiuto nell’esplorazione del corpo, non vogliono disegnare e si muovono poco. Questo si si ripercuote inevitabilmente sul benessere psicofisico in quanto il bambino percepisce chiaramente la difficoltà e il suo essere diverso, situazione che va poi a ripercuotersi in maniera obsoleta sulla proprio autostima, inibizione del movimento per paura di sbagliare di scrittura. Con il tempo se trascurato la difficoltà motoria può avere ripercussione sulle abilità di apprendimento e di scrittura fino a diventare un vero e proprio disturbi, che non si risolve nella crescita senza un adeguato intervento terapeutico, con un impatto importante sullo sviluppo globale del bambino. Se diagnosticato e trattato precocemente, le possibilità di un buon miglioramento sono altissime, non solo per quanto riguarda il movimento, anche e soprattutto in termini di consapevolezza del proprio corpo e autostima.
Migliorare le capacità motorie, aumenta le abilità di movimento e aiuta un bambino ad acquisire maggiore forza, migliorare la postura e stabilizzare il sonno. Lanciare, correre, ruzzolare, mantenersi in equilibrio, ma anche coordinare dita e mani, sono tutte attività che divengono fondamentali per il corretto sviluppo sia psicologico che motorio del piccolo.
Il bambino deve poter sperimentare il piacere del movimento e in questo lo sport diventa fondamentale, uno degli strumenti utili per aiutare il bambino a migliorare le sue capacità di coordinazione e movimento. Per questo è molto importante scegliere lo sport più adeguato.
Le arti marziali come il judo e il karate, ad esempio sono considerate le discipline migliori nei casi di bambini con disprassia e difficoltà di coordinazione, in quanto consente loro di prendere coscienza del proprio corpo e migliorare le capacità di coordinazione, un modo per imparare e comprendere il funzionamento del proprio corpo e controllarlo, aumentano la sicurezza in se stessi e nelle proprie capacità.
#difficoltà di coordinazione bambini#disprassia#coordinazione e movimento bambini#disturbo motorio bambini#sport bambini#autostima#judo#arti marziali#disturbo dell'apprendimento
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COSA determina la personalità di un individuo? Generazioni di psicologi, questionari alla mano, hanno tentato di schematizzare e quantificare i diversi tratti della personalità. Tuttavia, la comprensione dei meccanismi neurofisiologici che li caratterizzano rimane un terreno relativamente vergine, esplorato solamente da una decina di anni. In questo filone si inserisce lo studio pubblicato nella rivista NeuroImage dalle ricercatrici Sandra Arbula ed Elisabetta Pisanu della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste che, sotto la supervisione di Raffaella Rumiati, professoressa di Neuroscienze cognitive, hanno esaminato l’attività del cervello di persone con differenti gradi di empatia. Secondo i loro risultati, l’attività del cervello dei soggetti più empatici e altruisti cambia a seconda che il contesto sia sociale o meno, permettendogli di sfoderare quelle abilità che risultano importanti e più utili per la riuscita dell’interazione con il prossimo. Ciò non avviene, o avviene in misura ridotta, nel cervello delle persone più distaccate e individualiste. I tratti della personalità riflettono degli aspetti chiave della variabilità individuale. Per cercare di comprendere i meccanismi alla base di queste differenze occorre indagare i comportamenti associati a ciascuno tratto e le loro basi neurali.
Il questionario
Innanzitutto, l’equipe della SISSA ha selezionato, attraverso la somministrazione di un questionario, decine di volontari in base al loro grado di amicalità. Secondo il modello teorico dei cosiddetti Big Five, questa è – insieme a estroversione, l'essere coscienziosi, stabilità emotiva e apertura mentale – uno dei tratti fondamentali della personalità. L’empatia è associata a caratteristiche quali l’empatia, la cooperazione e la generosità che richiedono la capacità di cogliere aspetti cognitivi, emotivi e motivazionali dell’altro nelle situazioni sociali. I partecipanti allo studio osservavano stimoli visivi che descrivevano situazioni diverse, alcune caratterizzate da contenuti sociali e altre da contenuti non sociali. La loro attività cerebrale è stata quindi registrata utilizzando la risonanza magnetica funzionale, che permette di rilevare le aree cerebrali che si attivano durante l’esecuzione di un determinato compito. “Abbiamo osservato che nella corteccia prefrontale dorsomediale si forma una rappresentazione dei contenuti sociali estratti dalla percezione di una scena. Quando, in uno specifico individuo, il pattern di attività dell’area è simile nelle situazioni sociali e in quelle non sociali, siamo in grado predire che quella persona è dotata di una bassa amicalità. Quanto più è marcata la differenza, invece, tanto più questo tratto è probabile che sia più sviluppato” spiega Rumiati.
L'istruzione conta
Le radici dello studio, che è parte di un progetto più ampio, affondano nell’esperienza della neuroscienziata presso l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur), dove ha approfondito il ruolo di predittori quali il tipo di scuola frequentata e il livello di istruzione dei genitori. “Sia la nostra esperienza come studenti che quella di docenti ci suggeriscono che per andare bene a scuola e all’università non basta essere intelligenti ma bisogna anche sapere come studiare, pianificare l’apprendimento, sapere dosare le nostre risorse. Questi aspetti diventano più comprensibili se prendiamo in considerazione anche la personalità” spiega la neuroscienziata, che prosegue: “Trovo di grande interesse svelare i punti di sovrapposizione tra personalità e funzioni cognitive si intrecciano, anche a partire da dove avviene nel cervello. Questi primi risultati ci permettono di capire un po’ meglio le interazioni tra i meccanismi neurali sottostanti personalità e capacità cognitive e sociali, almeno per ciò che riguarda l’amicalità”. In prospettiva, i risultati potrebbero contribuire allo sviluppo di test di personalità più obiettivi ed efficaci, includendo per esempio una verifica dell’empatia di un individuo sulla base della sua risposta cerebrale a stimoli diversi. “Ciò permetterebbe di aggiungere un livello di complessità alla definizione della personalità: non più limitata ai costrutti psicologici individuati tramite questionari ma integrata da correlati neurofisiologici” conclude Rumiati.
#Neuroimage#SISSA#Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste#Raffaella Rumiati#empatia#psicologia#neuroscienze cognitive
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Input sensoriali dell'olfatto nella percezione degli odori
Decodificato il linguaggio neurale degli odori. Tecniche di intelligenza artificiale permettono di decodificare gli schemi di segnali neurali associati alla percezione degli odori e di usarli per ingannare il cervello. Lo dimostra uno studio, che ha indotto alcuni topi di laboratorio a percepire un odore virtuale. Il linguaggio che il cervello usa per percepire gli odori può essere compreso e almeno in parte riprodotto con tecniche di intelligenza artificiale: lo ha dimostrato un gruppo di ricercatori dell’Istituto italiano di tecnologia (IIT) e della New York University, che è riuscito a trasmettere al cervello di topi di laboratorio un odore virtuale, che non corrisponde ad alcuna sostanza presente nell’ambiente. Il risultato, illustrato in un articolo su “Science” si deve a un algoritmo di apprendimento automatico, sviluppato dal Laboratorio di computazione neurale dell’IIT coordinato da Stefano Panzeri, che riesce registrare e interpretare i complessi schemi di attività del bulbo olfattivo, la regione cerebrale che elabora gli stimoli odorosi, in particolare delle strutture chiamate glomeruli. Una volta addestrato questo algoritmo, gli autori hanno provato a “parlare” lo stesso linguaggio del cervello: l’idea era elaborare per via matematica un odore virtuale, e trasmetterlo a un cervello per verificare se venisse percepito come reale. L’occasione è stata fornita da topi di laboratorio della New York University, ingegnerizzati con tecniche di optogenetica. Read the full article
#glomeruli#inputsensoriali#intelligenzaartificiale#neuronicerebrali#neuroscienze#olfatto#optogenetica#percezione#sensazioni#sistemaolfattivo
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Affetto, il robot bambino che prova dolore
Si chiama Affetto ed è un robot di ultima generazione, sviluppato presso l'Università di Osaka. La sua caratteristica principale? Simulare in tutto e per tutto le emozioni umane, reagendo a diversi tipi di stimoli. Compresi quelli dolorosi. La ricerca in campo di robotica è sempre più sofisticata. Le Intelligenze Artificiali stanno raggiungendo livelli di complessità mai visti prima. Al punto che le reti neurali sono state in grado di identificare la minaccia di ben undici asteroidi sconosciuti alla scienza; ne abbiamo parlato in questo articolo. Lo sviluppo di robot evoluti, in grado di simulare sensazioni umane, si arricchisce di un altro tassello. Affetto è l'ultimo di una lunga serie di robot programmati per essere sempre più reattivi agli stimoli circostanti e "simili" agli uomini.
Il robot bambino di Osaka
Affetto "nasce" nel 2011 presso l'Università di Osaka, in Giappone. Il robot bambino è stato realizzato dal professor Hisashi Ishihara e dal suo team; Binyi Wu e Minoru Asada. Al momento del suo debutto, il viso riproduceva in maniera abbastanza grossolana i lineamenti di un bambino di 2 o tre anni.
La prima versione del robot bambino Questo "chassis facciale" era collegato a un esoscheletro equiparabile a un torso umano meccanizzato. All'inizio, Affetto era in grado di reagire solo a un range limitato di stimoli esterni. I primi risultati, però, sono stati decisamente incoraggianti. L'androide "bambino" era cioè in grado di interfacciarsi con il suo ambiente e interpretare correttamente gli stimoli tattili. Sia quelli gradevoli, come una carezza, che quelli dolorosi, come una scarica elettrica.
Ricreare le espressioni umane in un androide
Stabilito che Affetto era in grado di "sentire" il dolore, il problema era come rendere manifeste le sue sensazioni. Il volto sintetico della prima generazione di robot, infatti, aveva una mobilità estremamente limitata. Imitare la miriade di micro-movimenti facciali di un essere umano non è certo facile. Il viso umano infatti ospita moltissime terminazioni nervose. Ma l'ingegneria robotica non si è mai lasciata scoraggiare dalla complessità della sfida.
Simulare le espressioni umane è una sfida della robotica L'obiettivo era realizzare pelli sintetiche in tutto e per tutto simili alla pelle umana. E in grado, come quest'ultima, di muoversi sul volto degli androidi. Adattandosi alla loro mimica e simulando alla perfezione emozioni e sentimenti. Nell'ultimo decennio, la ricerca in questo campo non si è mai fermata. I robot di ultima generazione riconoscono ed esprimono sempre più emozioni diverse. Contemporaneamente, le Intelligenze Artificiali che li animano sono in grado di elaborare stimoli e situazioni. In maniera non molto dissimile a come faremmo noi umani.
Affetto piange e fa il broncio
L'ultima versione di Affetto, il robot bambino, è notevolmente migliorata rispetto ai prototipi precedenti. Il viso ora è decisamente più simile a quello di un bambino in carne e ossa. Merito della pelle artificiale perfezionata. Che non è ancora in grado di replicare tutti i movimenti di un volto umano, beninteso. Però è senz'altro più realistica della versione precedente. Affetto, quindi, è in grado di esprimere le sue sensazioni. Proprio come farebbe un bambino umano.
Quando riceve una scossa elettrica, Affetto esprime dolore con smorfie e lamenti Quando viene attivato, il robot assume un'espressione curiosa e interessata. Inoltre è molto reattivo agli stimoli circostanti. Per esempio, gira gli occhi verso le fonti sonore che lo circondano. Nel momento in cui al robot viene trasmessa una scarica elettrica, Affetto fa una smorfia di dolore. Le sopracciglia si inarcano e la bocca si spalanca come per urlare. Anche il movimento degli occhi è decisamente più fluido e naturale che in passato. Conferendo al robot bambino un'espressività che si può definire, a buon diritto, straziante.
Perché vogliamo consolare Affetto?
Vedendo le smorfie di dolore di Affetto, il primo impulso dello spettatore è quello di consolarlo. Naturalmente il robot non è ancora del tutto identico a un bambino vero. Però è comunque abbastanza realistico da scatenare negli umani una forte risposta emotiva. Ma perché proviamo tenerezza nei confronti di Affetto? Il motivo si chiama epimelesi. Ovvero una reazione istintiva di protezione nei confronti di un cucciolo. L'impulso epimeletico che proviamo per Affetto è lo stesso che sentiremmo di fronte a un cagnolino o un gattino in difficoltà. L'essere umano, infatti, è in grado di provare empatia per soggetti di specie diverse. Non siamo gli unici, peraltro. Anche numerosi animali hanno in comune con noi questa caratteristica.
L'aspetto umano del robottino ci fa provare compassione per lui Le Intelligenze Artificiali, invece, non sono attualmente in grado di proiettare le loro sensazioni al di fuori della sfera personale. Gli stimoli e le percezioni sono solamente quelle tattili ed emozionali che percepiscono in prima persona. Da qui la nuova sfida che si pone la robotica; realizzare androidi capaci di feedback emotivi ma anche empatici. Una sfida particolarmente sentita in Giappone, dove l'età media è molto elevata e i robot empatici potrebbero fornire supporto e compagnia a centinaia di anziani solitari. Se vi siete commossi guardando il capolavoro di Kubrick "A.I - Intelligenza Artificiale", il robot bambino Affetto non potrà lasciarvi indifferenti. Read the full article
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Vedere Vedersi Essere visti per guardare il mondo!
Al convegno della Federottica interviene Santa Fizzarotti Selvaggi, Vice Presidente Nazionale dell’Associazione Crocerossine d’Italia Onlus
(di Santa Fizzarotti Selvaggi) Il mio saluto è a nome della Presidente nazionale della Associazione Crocerossine d’Italia Onlus Donna Mila Brachetti Peretti e di tutte le Socie e i Soci della sezione di Bari guidata da Grazia Andidero. L'Associazione Crocerossine d'Italia Onlus che fu fondata da Mila Brachetti Peretti nel 2014, in quel tempo Ispettrice Nazionale del Corpo delle Infermiere Volontarie CRI, insieme ad un gruppo di donne, ora sul territorio nazionale opera in diverse realtà. L'Associazione è aperta alle II.VV. non in stato attivo e a tutti coloro che credono nei valori dell'umanità quale ponte tra generazioni, popoli e civiltà. Il riferimento alle Crocerossine si inscrive esclusivamente nella forte motivazione di ricordare il ruolo storico delle stesse nella più ampia storia d'Italia, nel rispetto anche poi di quelli che sono stati i cambiamenti. È stato pertanto immaginato uno sviluppo di questa radice capace di aprirsi a tutti coloro che desiderano donare il loro tempo a favore di coloro che sono in stato di disagio in un mondo così complesso. Offrire, cioè, la possibilità di una nuova visione del mondo. Grata al la Federottica e al Dott. Sorrento per aver richiesto un mio contributo Negli occhi, nello sguardo è sempre il riflesso dell’anima e del mondo. Noi siamo i nostri sensi che il cervello, questo organo meraviglioso e in parte sconosciuto elabora dando luogo alla mente il cui prodotto sono i pensieri non disgiunti dalle emozioni. È l’emozione la madre del pensiero, scrive I Matte Blanco. Tutti i sensi, quali estensioni dell’organo centrale collaborano nel farci orientare nel mondo. Sono tutti egualmente importanti ma l’udito e la vista sono quelli che ci consentono l’uno di essere vicino alle persone e l’altro vicino alle cose. Con lo sguardo si possono toccare le cose, con l’occhio attiviamo lo sguardo della mente. “Vedere” cioè la natura delle cose con l’occhio e con l’intelletto: ovvero con un intelligere complesso e totale, che scaturisce dalla percezione. L’occhio conserva il suo ruolo di comunicazione privilegiato. Lo sguardo consente di vivere qualsiasi esperienza… Quando per esempio i genitori “guardano” il proprio bambino confermano il suo senso di sé, il suo sentirsi parte del mondo. Uno sguardo può cambiare la percezione di sé riconoscendo il suo mondo interno mentre sente di essere riconosciuto dall’altro. Quando il bambino vede se stesso riflesso nello specchio, necessita sempre dello sguardo dell’altro per riconoscersi. È il tratto unario teorizzato da Lacan che fa sì che il soggetto non senta di essere in frammenti Ci si sente “degni di esistere” così come si è senza veli o maschere: si tratta del vero Sé. Lo sguardo dell’Altro, e in questo caso della madre da forma all’informe, a quel mondo magmatico che abita dentro di noi. Il luogo del divieto (rappresentato dall’inconscio forcluso) diviene tollerabile e attraverso lo sguardo si possono contenere le angosce, gli aspetti incontrollabili. Il bambino vuole essere visto e riconosciuto dallo sguardo della madre per sentire di esistere. Merleau-Ponty riconosce nell’occhio il fattore portante. In una sua opera, “La fenomenologia della percezione”, sostiene che l’occhio presiede alla regolazione della forma. In “Il visibile e l’invisibile”, afferma che bisogna tener conto anche della parte invisibile, vale a dire di quel mondo che si percepisce con un senso altro. L’Occhio è lo strumento attraverso il quale il soggetto ordina e riordina continuamente il mondo. Picasso operò una inversione prospettica: da figurativo che era inventò il Cubismo, ovvero incominciò a guardare dentro le cose e gli esseri umani. Lo sguardo senza occhio è una condizione assolutamente contemporanea: dominati dal visuale siamo assolutamente accecati. Il cervello non vede più nulla e non si accorge delle cose. (P. Virilio) Urge dunque rieducare lo sguardo per vedere il mondo da altre prospettive. “L’occhio può perdersi, può smettere di funzionare, ma la visione è un’altra cosa, appartiene a un ordine totalmente differente”, afferma Derrida. Che cosa significa davvero vedere? Quanto sappiamo degli occhi come strumento percettivo che il cervello utilizza per ricevere le informazioni insieme a tutti gli altri sensi? Cosa significa non vedere bene? La psicoterapia, il sostegno, il prendersi cura dei disturbi visivi sono un vero e proprio “viaggio affettivo e emozionale condiviso” dove persona in difficoltà e operatori sono insieme ad esplorare la propria anima, le angosce in un gioco di transfert e controtransfert assai complesso. Percepire e vedere il mondo facilita la costruzione della mente ad opera del cervello. Si dà un senso alla realtà, a quella realtà che il cervello vede e che vede in relazione alle emozioni. I circuiti cerebrali si sviluppano diversamente a seconda degli stimoli, delle immagini, dei suoni, delle parole. Queste ultime con il loro corpo sonoro e le immagini che evocano possono distruggere come possono facilitare la guarigione. Le esperienze possono influenzano le connessioni neurali e l’organizzazione del nostro cervello. L’esperienza dà forma al cervello attraverso la neuroplasticità (cambiano le connessioni e questo cambia il cervello stesso) Siegel D. 2002. Occorre essere consapevoli che, nel buio, ci manca assolutamente l’Altro, quell’altro che può rischiarare le notti. Per un bambino l'esperienza più atroce che determina la sensazione incontenibile dell’angoscia è quella di non essere tenuto dalle mani della madre, di non essere accudito, contenuto e sostenuto, di non essere visto. Nota è l’angoscia dell’ottavo mese quando il bambino si accorge di un volto estraneo che non è quello della madre (R. Spitz) “Non vedere l’amore”, “non essere visto”, significa esperire il senso della solitudine, una condizione disperante nel cuore della propria notte. Essere in una stanza buia da bambini ci faceva paura, non eravamo scomparsi, ma ci faceva paura: era necessaria la mano della madre, la sua ninna nanna. Non vedevamo nulla, sentivamo noi stessi e il nostro essere inermi dinanzi al mondo, sgomenti. La luce dell’amore della mamma rischiarava il buio ed è di questo amore che si nutre l’Associazione Crocerossine d’Italia onlus, un "amore agapico" che dona agli altri. Siamo consapevoli della necessità di giungere al cuore, all’anima delle persone in stato di fragilità vedendo il mondo da un’altra ottica, con uno sguardo altro, uno sguardo che accarezza le ferite di ciascun essere umano per facilitarne, se possibile, l’accettazione e talora la guarigione. Il bambino si perde e si ritrova nello sguardo della madre che riconoscendolo assume una funzione speculare: si struttura la funzione dell’Io. Si tratta di una metafora per dire che tentiamo di riconoscere le difficoltà per far sì che queste possano essere affrontate per aiutare a guardare la realtà interna in relazione con la realtà esterna e con la luce ritrovata in sé rendere luminoso il mondo. Read the full article
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Interazioni cuore/cervello: le nuove frontiere in neuro-psico-fisiologia
I meccanismi di integrazione tra i sistemi rappresentano la sfida che muove da sempre la ricerca delle Scienze Umane.
In che modo l’attività fisiologica del cuore interagisce con le funzioni del cervello umano? E, al contrario, quando e come le funzioni fondamentali del nostro cervello, quelle emotive, cognitive e comportamentali interagiscono con le attività autonomiche del “sistema cuore”? In altre parole, il cuore e il cervello come comunicano? Quando e in che modo il contesto affettivo e sociale diviene importante in questa interazione?
Il XXI secolo tira le fila sugli sviluppi compiuti dai numerosi studi della neurofisiologia, psicofisiologia e neuroscienze cognitive. L’interesse è rivolto a comprendere i meccanismi che legano i processi funzionali di regolazione mente-corpo intrasistemici e intersistemici in un’ottica neurobiologica, psicologica e sociale. In questa direzione e nell’ambito delle interazioni cuore-cervello, è estremamente interessante la Teoria Polivagale di S. Porges (Porges, 2001-2007) che si propone di spiegare i meccanismi neurofisiologici sottostanti questa interazione ampliando, così, il paradigma classico del sistema nervoso autonomo.
Porges, partendo dagli studi anatomofunzionali del nostro cervello, integra la sua teoria con i moderni paradigmi della psicologia evoluzionistica, della Infant Research (in neuropsicofiologia e psicopatologia infantile) e delle scienze cognitive.
Come sappiamo, la teoria neurofisiologica classica divide il sistema nervoso autonomo in sistema simpatico e sistema parasimpatico. In questo modello, il sistema simpatico ha funzione attivante e catabolica (utilizza energia), aumenta lo stato di reattività dell’organismo (arousal), predisponendolo all’attacco o alla fuga. Le reazioni sono mediate da adrenalina e noradrenalina. E’, dunque, responsabile della nostra sopravvivenza. Il termine arousal (traducibile in italiano, in maniera poco esaustiva, con il termine “stato di attivazione”) si riferisce alla modalità dell’organismo di essere reattivo rispetto a stimoli interni ed esterni di varia natura, modificando parametri fisiologici come la frequenza cardiaca, il ritmo respiratorio, la vasodilatazione, la vasocostrizione, l’attività elettrica del cuore, la motilità intestinale, la secrezione ormonale, la conducibilità elettrica della cute, il diametro pupillare, ecc. Il sistema parasimpatico, all’opposto, ha funzioni anaboliche, ovvero di risparmio e ripristino dell’energia, diminuisce lo stato di arousal, agisce attraverso il nervo vago a trasmissione colinergica, rallenta la frequenza cardiaca, facilita la digestione. Ha un ruolo, quindi, protettivo e di recupero dell’omeostasi.
La visione dualista e antagonista dei due sistemi, così come è stata studiata negli anni, ha determinato una maggiore enfasi sul ruolo del simpatico nell’attivare le nostre risposte allo stress e ha dato una minore attenzione alla comprensione delle funzioni specifiche del sistema parasimpatico. Secondo Porges, la prospettiva simpatico-centrica del nostro sistema autonomo, pur spiegando bene il funzionamento di alcuni organi specifici a livello locale, non costituisce un modello esaustivo per spiegare come gli esseri umani si difendono dalle diverse e molteplici condizioni avverse della vita.
Porges propone un modello bidirezionale che lega mente e corpo, considerando il ruolo del cervello nella regolazione della fisiologia periferica (per esempio la regolazione neurale sia delle attività cardiovascolari sia delle funzioni endocrine), come una piattaforma neurale da cui emergono i comportamenti sociali con funzioni adattive e orientate a uno scopo. La Teoria Polivagale pone l’enfasi su:
l’esistenza di due circuiti vagali anziché uno solo;
l’importanza della relazione gerarchica tra loro;
l’importanza di considerare tutte le risposte difensive come adattive di fronte alle difficoltà ambientali e di relazione sociale.
Il primo quesito è: ci difendiamo solamente agendo risposte di iper-arousal? Per rispondere a questa domanda, Porges prende in considerazione il paradigma evoluzionistico della specie e questa cornice è la prima differenza tra dualismo antagonista del SNA e Teoria Polivagale. La prospettiva filogenetica fa riferimento al cervello tripartito di McLean (1973) in cui, nell’uomo, è possibile rilevare tre sezioni strutturali:
Cervello Rettiliano (la struttura più antica, tipica dei rettili ancestrali), formata dal tronco encefalico, dall’ipotalamo, dal talamo e dai nuclei della base;
al disopra del cervello rettiliano, circa 100 milioni di anni fa si è formato il Cervello Limbico, struttura formata dal riencefalo e dal lobo limbico che caratterizza il cervello dei mammiferi inferiori;
Crescendo di complessità, circa 20 milioni di anni fa, si è aggiunta la terza struttura neurale: Cervello Neocorticale o Neopalio o Cervello Mammifero, composta dalle circonvoluzioni più esterne della corteccia cerebrale che caratterizza il cervello dei mammiferi superiori.
Ciascuna struttura del cervello ha proprietà peculiari che riguardano particolari tipi di intelligenza, di memoria e di organizzazione spazio-temporale. Le tre sezioni costituiscono un Sistema interagente e funzionante come un’organizzazione per livelli gerarchici in cui i circuiti più evoluti del sistema nervoso inibiscono quelli più primitivi e, solo quando i nuovi circuiti falliscono, allora intervengono i più antichi. Il Sistema Nervoso Autonomo dell’uomo funziona nello stesso modo. Il secondo punto di differenza importante, tra la teoria classica del SNA e la Teoria Polivagale è, quindi, la nozione stessa di “Nuovo Circuito” inteso in senso filogenetico che evidenzia le interconnessioni biologiche tra le vie afferenti e quelle efferenti. Il vago non è un unico nervo, ma è formato da molteplici percorsi neurali che si originano in diverse zone del tronco encefalico.
Quindi, Porges descrive il SNA composto da tre circuiti neurali, gerarchicamente organizzati, che regolano l’adattamento dello stato comportamentale e fisiologico in contesti relazionali e sociali sicuri, pericolosi e potenzialmente letali: 1) il ramo Ventrale Parasimpatico del nervo vago che risponde agli stimoli sociali positivi; 2) il ramo Simpatico-adrenergico che risponde alla mobilizzazione (iper-arousal / attacco-fuga) 3) il ramo Dorsale Parasimpatico del nervo vago che produce una risposta di immobilizzazione o perdita di coscienza.
Il Sistema Ventro Vagale, evolutivamente il più recente, è presente solo nei mammiferi e si è poi evoluto ulteriormente negli esseri umani. E’ il Vago Intelligente, composto, per lo più, da fibre mielinizzate: quindi, funzionalmente mature e più efficaci, efferenti del Nucleo Ambiguo che innervano gli organi sopradiaframmatici, è associato con processi attivi di attenzione, movimento e comunicazione. Il SVV guida i muscoli del volto, della laringe, dei polmoni, del cuore e determina la nostra capacità di esprimere le emozioni con il volto, la voce, la prosodia e il respiro; risponde a stimoli sociali in situazioni di relazioni interpersonali favorevoli e sicure. Correla con l’attivazione fisiologica “ottimale”, definita da Siegel “finestra di tolleranza”.
Nell’uomo consente cambiamenti impercettibili e molto repentini degli organi interni, in particolare del ritmo cardiaco e respiratorio, ovvero esercita una regolazione viscerale con un minimo impatto sul sistema biochimico ad esso associato. La sua funzione fondamentale, quindi, è quella di avere un effetto modulatorio del Sistema Nervoso Simpatico e una inibizione del Sistema Dorso Vagale, determinando una regolazione degli stati emotivi e del comportamento di coinvolgimento sociale.
Vengono facilitati i sistemi di azione dell’attaccamento (ad es.: lasciarsi cullare nelle braccia della madre, ricercare il conforto di una persona amica, abbandonarsi ad un abbraccio amoroso, ecc.), della socializzazione, del gioco, dell’esplorazione (Van der Hart et al. 2006).
Il sistema Ventro Vagale si forma tra il secondo e il terzo anno di vita e media la modulazione delle emozioni da parte della corteccia prefrontale ventrale. Prima di questa età, quindi, i bambini molto piccoli non sono capaci di modulare le proprie risposte allo stress attraverso un’azione corticale, hanno bisogno che i loro caregiver (gli adulti che li accudiscono) lo facciano per loro. La Ricerca sulla Psicopatologia Infantile degli ultimi cinquant’anni - considerando gli aspetti bio-temperamentali di ogni individuo - ha dimostrato l’importanza delle buone cure tra genitore e bambino che consistono in una sintonizzazione affettiva con i bisogni primari del piccolo che sono il contatto fisico-uditivo-cinestesico e che facilitano la nutrizione, l’addormentamento e la vigilanza in uno stato di calma.
I processi interattivi di regolazione neurofisiologica (genitore-bambino) permettono una maturazione e una crescita del sistema nervoso organizzandosi anatomo-funzionalmente in pattern di attivazione (connessioni neuronali), come schemi-circuiti di esperienze apprese.
Dunque, questi nuovi processi di attivazione di regolazione affettiva rimangono impressi nella memoria episodica e, poi, immagazzinati nella memoria autobiografica e sono potenzialmente attivi tutta la vita. Quindi, anche in età adulta, il SVV modula e/o interagisce con il Sistema Simpatico in contesti in cui prevale il senso della “sicurezza” e del “benessere”, come ad esempio nel divertimento giocoso, nei comportamenti sessuali condivisi, ecc.
Il Sistema Simpatico Adrenergico In situazioni di ambiente insicuro, al contrario, il Sistema Ventro Vagale viene inibito. Il pericolo percepito attiva in automatico, o in modo semi-automatico, il Sistema Simpatico adrenergico, facilitando le reazioni di attacco o di fuga. In caso di mancata risoluzione dell’attivazione simpatica, ovvero nel caso di continue minacce ambientali, il sistema simpatico può rimanere attivo in uno stato di iperattivazione (iper-arousal): paura incontrollabile, panico, immobilizzazione rigida, determinando a livello locale sul cuore disfunzioni del battito come le tachiaritmie.
Il Sistema Dorso Vagale, il sistema di difesa non mediato dal Cervello emotivo (lobo Limbico) e dalla Neocorteccia. Il più antico, è l’ultimo sistema di emergenza nell’uomo. Un sistema di fibre non mielinizzate controllato dal Nucleo Motore Dorsale che innerva gli organi sottodiaframmatici (milza, fegato, stomaco, intestino tenue, colon tratto prossimale) e che riduce drasticamente il metabolismo di tutto il corpo. In situazioni di pericolo di vita, oggettivo o percepito – come nelle esperienze traumatiche acute e/o ripetute, in cui la minaccia è soverchiante e insormontabile, non si può né fuggire né attaccare, si attiva nell’animale come nell’uomo l’antica via Dorso Vagale, di sottomissione, congelamento (freezing), dissociazione (percezione di essere estranei al proprio corpo o all’ambiente circostante), immobilità tonica, bradiaritmie fino alla asistolia con perdita di coscienza (sincope neuromediata). Tali reazioni, adattive e difensive in alcune specie animali, come la morte apparente (feigned death), perdono la loro funzione regolatrice negli esseri umani. La risposta dorsale vagale di ipo-arousal consiste in una disconnessione funzionale (detachment) (Holms e al. 2005) tra le strutture del cervello tripartito, cioè tra le strutture limbiche inferiori (amigdala), il tronco dell’encefalo e quelle superiori corticali.
Altri studi neurofisiologici hanno confermato ed integrato le ipotesi di Porges sui meccanismi di disregolazione autonomica nei disturbi stress-correlati.
Nella pratica clinica in psicologia dell’emergenza e in psicotraumatogia sono spesso presenti quadri sindromici in cui si evidenzia anche una grave compromissione nella regolazione autonomica del tono vagale che può manifestarsi transitoria o cronica.
Gli studi sulla variabilità del ritmo cardiaco (HRV) di van der Kolk e colleghi (2015) in soggetti con Disturbi da Stress Post Traumatici hanno evidenziano che questi soggetti, quando ricordavano episodi di vita terribili, presentavano una significativa instabilità della frequenza cardiaca, contrariamente ai soggetti del gruppo di controllo che riuscivano a stabilizzare il battito e non avevano un Disturbo post-traumatico. Altri recenti studi di neuroimaging (Lanius et. al. 2005, 2009; Shore, 2007) hanno evidenziato che l’arousal disregolato, presente nelle varie forme traumatiche ripetute, determina una dissociazione delle aree cerebrali normalmente collegate tra loro, che può manifestarsi transitoria come nelle forme semplici di Disturbo da Stress Post Traumatico, oppure può influire sullo sviluppo di alcune aree cerebrali, determinando un deficit di integrazione tra l’attivazione emotiva (mediata dall’amigdala), i sistemi di significato profondo (mediati dal sistema prefrontale destro) e la memoria esplicita (ippocampo e cervello sx), come nei Disturbi Complessi Trauma-correlati.
In conclusione: le nuove frontiere della neuro-psico-fisiologia hanno aperto le porte alla conoscenza “dell’essere umano” nella sua complessità, la cui salute o malattia non può più prescindere dalla stretta relazione con i contesti sociali-affettivi e ambientali. Scoprire i meccanismi di come questa integrazione avvenga è una sfida che muove da sempre la ricerca delle Scienze Umane. Paola Foggetti Psicoterapeuta, Psicofisiologa Clinica Psicologia d’Emergenza e Psicotraumatologia Sesto Centro di Psichiatria e Psicoterapia Cognitiva Roma
Articolo pubblicato su www.cardiolink.it
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Da Gli audaci: “Il cellulare di Alessandra, con la suoneria del Tempo delle Mele, Reality, cominciò a squillare canticchiando in toni via via sempre più alti. Lo aveva lasciato come sempre chissà dove, senza riuscire a trovarlo subito e quel momento canoro inaspettatamente lungo, mi catapultò indietro fino ai miei anni testosteronici, quando ti sentivi in grado di far tutto e volevi fare tutto. La mia corteccia premotoria, prese il sopravvento sui movimenti dei muscoli prossimali del tronco, contribuendo alla creazione di uno schema motorio che si gongolava di quegli stimoli musicali e cominciai a muovermi in un uno swing melenso e nostalgico ascoltando quel mood. I neuroni si sincronizzarono con il sound, facendo affiorare pensieri, dando libero sfogo alla mia corteccia prefrontale e in quel momento, i ricordi mi inondarono prepotenti. Essi affluivano misti, impetuosi, veloci, potevo vedere i miei neuroni e le loro sinapsi, tramutarsi, da silenti messaggeri chimici di acetilcolina, adrenalina, serotonina, dopamina, molecole di piccolissime dimensioni, tutte insieme provocarmi risposte immediate, come la percezione di un profumo, il brivido d’un tocco o la reazione di un sorriso, e poi stanche, tramutarsi d’un tratto in scintillanti mercuri elettrici, postini neurali, ed ancora una volta più di prima, sfrigolare e rilasciare vagonate di ricordi, fremiti e sorrisi, pianti, dubbi e vanità. Ma da dove arrivavano? Come vengono archiviati i ricordi d’una vita? Come vengono catalogati, in base a quale priorità? Quale misterioso richiamo li aveva attratti, facendoli riaffiorare dall’oblio? Essi non arrivavano alla mia memoria come fotografie, ma erano scomposti nei loro costituenti primari: colore, sapore, movimento, profondità, intensità, suono, e così via, e poi magicamente ecco che accadeva il prodigio, e appariva la memoria, il dipinto, il quadro, l’insieme e tutto li davanti a me, aveva un preciso sapore, un esatto impasto e odorava di vita passata e felice. #gliaudaci #robertonicolettiballatibonaffini #leruditaedizioni #librodaleggere #bookstagram #mood #sound #booklovers #childhood #narrativafantastica #leggerechepassione https://www.instagram.com/p/CWnV0lfoIOn/?utm_medium=tumblr
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COME RICONOSCERE GLI OLI ESSENZIALE?
COME RICONOSCERE GLI OLI ESSENZIALE?
Gli oli essenziale possono essere di molto aiuto in questo periodo che stiamo più tempo rinchiusi a casa.
Per noi e i nostri piccoli sono veramente un sollievo e dei veri medicinali naturali, che possono allontanare malanni invernali e non solo.
Ma per farne un uso sicuro dobbiamo conoscere cosa utilizziamo nell’odore di casa o anche per massaggi.
In realtà alcuni oli essenziali possono…
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L’economia ve la spiego con la Pop Culture
Laureato, con lode, in Economia all’Università di Modena che porta il nome di “Marco Biagi” il giuslavorista assassinato da un commando di terroristi con una tesi dal titolo “Verso la lingua universale per lo studio delle scienze sociali: l’approccio narrative-based” che gli è valsa il prestigioso premio “Enrico Ferrari” per la migliore tesi di laurea specialistica in Economia e Sistemi Complessi. Carlo Taglini, classe 1986, oltre a vantare un curriculum già denso per la giovane età è appassionato di sport, tifoso del Milan e ammiratore di Clarence Seedorf di cui dice “…è l’unico che vorrei al mio fianco in qualsiasi sfida”, di pop culture e ovviamente di economia. Ha esordito sul nostro blog magazine con un articolo in tre puntate che anticipa il paper, primo progetto editoriale della Fondazione Ora!, che firmerà e che avrà come titolo “Generazione 90210”, titolo che ha scelto ascoltando, in una di quelle sere che non passano mai, I’m Always Here di Jim Jamison, la colonna sonora di Baywatch.
“Taglini, cosa intende per “Generazione 90210”?”
“La Generazione 90210, come il prefisso postale di Beverly Hills e come il primo vero teen drama della tv italiana poiché Twin Peaks era qualcosa di ben più complesso, è la generazione che è cresciuta con aspettative straordinarie, perché il mondo negli anni ’90 era veramente straordinario, nel senso che una serie di coincidenze ha reso quel decennio straordinariamente ottimista. Con studi in Università perlopiù mediocri, forse appena migliori di quelle attuali, e incapaci di prepararla al mondo del lavoro; delimitata anagraficamente, i 30-40enni di oggi si trovano nemmeno a metà strada rispetto alla pensione, è la generazione che si trova in maggiore difficoltà nello scenario socio-economico attuale, a causa di aspettative irrealistiche. Non doveva andare così e poteva non andare così.”
“Nel suo articolo che anticipa il paper divide i decenni non in maniera cronologica ma secondo alcuni avvenimenti, ce lo può spiegare meglio?”
“Ovviamente i decenni sono per definizione periodi di 10 anni, tuttavia io guardo alla storia come ad una concatenazione di trend di medio-lungo periodo. Un trend si inverte in presenza di un qualche evento di straordinaria importanza; i primi che mi vengono in mente sono i seguenti: l’elezione di Ronald Reagan, la caduta del muro di Berlino, l’attacco alle Torri Gemelle, il crollo della Lehman, l’elezione di Donald Trump. Questi sono tutti eventi dopo i quali il mondo non è stato più come prima.”
“Quindi lei che è nato nel 1986 quanti trend ha già vissuto?”
“Stando alla carta d’identità sarei nel mio quarto decennio di vita, ma allo stesso tempo, stando a questa categorizzazione, che ovviamente non è un dogma, sono nel mezzo del quinto trend narrativo.”
“I primi quattro: l’era Reagan, la Great Moderation post-muro di Berlino, la guerra al terrorismo con la missione Enduring Freedom, iniziata simbolicamente con l’attacco al World Trade Center l’11 settembre del 2001, la grande crisi. Ce li analizzi meglio…”
“Del primo non ricordo pressoché nulla, il secondo è quello più lungo e fortunatamente anche il più bello, il terzo è la brutta copia di quello precedente, caratterizzato da una bolla speculativa, quella dei subprime, una bolla che non è altro che la brutta copia della Dot Com, che, a ragione, Vernon Smith avrebbe poi definito “un’orgia di consumi”; l’ultimo è invece il trend più cupo, soprattutto nella parte iniziale e può essere considerato come la fase terminale, la vera fine della narrativa ottimistica degli anni ’90″.
“Poi l’elezione, contro ogni pronostico, di Donald Trump.”
“Non è mai facile analizzare la storia mentre la stai vivendo ma a mio avviso l’era di Trump è qualcosa di nuovo, la reazione ad un mondo fatto di squilibri commerciali cronici in alcune nazioni, di tassi di cambio e di interesse manipolati, di vocaboli politically correct usati dalle élite, inadeguati alla risoluzione dei problemi quanto i cosiddetti proclami populistici di Matteo Salvini and Company.”
“Quindi non vede Trump come un fenomeno di passaggio, quasi di costume, qualcosa che poteva succedere solo nei “Simpson”?”
“Non so se Trump sia una semplice parentesi prima dell’inizio di un trend ancora più potente: è senz’altro uno dei fenomeni più interessanti di tutti i tempi; è il risultato di 15 anni, dal 2001 al 2016, ossia da quando la Cina è entrata nel WTO, l’organizzazione Mondiale del Commercio, di politiche commerciali sbagliate a livello globale, di tassi di cambio manipolati e conseguenti squilibri economici che hanno portato ad un livello socialmente insostenibile di de-industrializzazione nei Paesi più sviluppati.”
“Cosa sono stati gli anni 90, quelli che definisce il decennio dell’ottimismo?”
“Sono stati un cielo estivo senza nuvole e, incredibilmente, senza afa. Sono stati anni caratterizzati da una grande crescita della produttività, da bassa inflazione e quindi da bassi tassi d’interesse. Sono stati gli anni di Baywatch; David Hasselhoff in un’intervista disse che l’America è il bagnino del mondo, e che Baywatch rappresenta il sogno americano: impossibile contraddirlo. Beverly Hills 90210 e Baywatch sono stati due chiari esempi del soft power made in USA.
“Poi sono arrivate le bolle speculative. Esattamente cosa sono?”
“Questa è una domanda molto più complessa di quello che potrebbe sembrare di primo acchito. Vi sono due convinzioni in merito alle bolle speculative: la prima è che esse siano frutto dell’irrazionalità, la seconda è che siano un fenomeno meramente economico-finanziario. Bene, secondo me queste convinzioni sono entrambe errate. Prendiamo per esempio la quotazione della Lehman Brothers che il 15 settembre 2008 crollò circa dell’80% in un giorno; sintetizzando, il crollo fu innescato dal fatto che il mercato ebbe la certezza che la FED, la Banca Centrale degli Stati Uniti, non sarebbe intervenuta per salvare questa banca. È come se la variabile dummy “garanzia statale” fosse improvvisamente passata da 1 a 0: di conseguenza il valore delle azioni crollò da un momento all’altro. Tutto ciò è non-lineare ma perfettamente razionale dal punto di vista di un investitore. Tuttavia le bolle speculative sono un fenomeno non solo economico. Vi sono movimenti politici che sono delle autentiche bolle speculative.”
“E la generazione Glee in cosa differisce da quella 90210?”
“Nelle aspettative. La generazione Glee è composta da una maggioranza che ha capito che Gordon Gekko nel suo discorso alla platea in Wall Street – Money Never Sleeps (2010) aveva ragione. Chi è cresciuto negli anni’90 è spiazzato dal contesto attuale, perché nessuno dei consigli dei genitori sembra veramente funzionare e perché il mondo in generale è diventato più incerto. Chi è cresciuto negli anni ’90 aveva certezze, questa generazione cresce in un contesto completamente diverso: di attentati, di tensioni commerciali, di elevato debito pubblico e privato. Non ci sono nemici ben definiti, chi è Al Qaeda? Non c’è unità nell’Occidente e fantasmi del passato stanno tornando alla carica seppur in forma diversa.”
“Il salto dal West Beverly al liceo William McKinley è qualcosa di molto più profondo quindi?”
“Il salto tra Beverly Hills e l’Ohio, è enorme: passiamo da un gruppo di ragazzi stupendi, full-blooded WASP come dicono gli americani, ad una compagnia di canto corale che, soprattutto all’inizio, è un’armata brancaleone. Glee non avrebbe mai funzionato negli anni ’90 così come Baywatch non funzionerebbe oggi, tanto è vero che il film del 2017 con Zach Efron e Dwayne Johnson è sostanzialmente una parodia della serie televisiva ed era giusto così. Quei telefilm, quelle narrative, fanno sognare ma non sono più credibili.”
“Secondo la sua teoria come può una narrativa influenzare l’economia? Come l’attuale pop culture influenza l’economia e i consumi?”
“Tutti i comportamenti degli agenti sociali sono determinati dalle narrative di riferimento. L’economia altro non è che lo studio di come gli agenti sociali possono massimizzare il proprio benessere a fronte di risorse limitate; le cosiddette bolle speculative si verificano quando una narrativa è molto forte e porta ad un allineamento delle aspettative, ma le narrative sono sempre presenti, anche in condizioni di mercato “normali”.
Ora, un passo fondamentale è capire che le narrative si veicolano come virus, come malattie. Più una malattia è infettiva, più si diffonderà; più una storia è convincente e più condizionerà le scelte di investimento, di risparmio e di consumo. Inoltre, vi sono agenti più influenti di altri, con più connessioni, i quali una volta “infettati” possono far sì che una storia si diffonda più velocemente.
Lo studio dell’economia, ma più in generale delle dinamiche sociali non può prescindere dall’utilizzo di strumenti innovativi quali automi cellulari, reti neurali ma anche modelli ad agente e MMORPG. Non voglio insinuare che le scienze sociali abbiano senso solo se possono essere modellizzate, ma che studiando i contributi classici e cercando delle similitudini in modelli aventi un’origine del tutto differente, si possono imparare delle cose molto interessanti e soprattutto fare nuove ipotesi, che spesso trovano riscontro nella realtà.”
“La Juventus acquista Cristiano Ronaldo il calciatore più forte del pianeta. Si apre un nuovo trend?”
Credo che sia un affare incredibile un po’ per tutti. Per la Juventus che si garantisce le prestazioni di quello che è ancora nonostante i 33 anni l’attaccante più forte del mondo, per il Real Madrid che deve rifondare una squadra puntando su giocatori con nuovi stimoli e per Cristiano che ha capito che era meglio chiudere con uno score record (450 gol in 438 partite) la sua esperienza madridista ed essere ricordato come il più grande giocatore nella storia del più grande club del mondo.
È quindi senz’altro una delle sfide più affascinanti di quest’epoca, ma vorrei anche sottolineare due aspetti che consentono al contempo una riflessione sullo studio delle scienze sociali. Il primo è l’importanza di avere una prospettiva di lungo periodo nel considerare pro e contro delle proprie scelte; il secondo è il fatto che dal 2012 ad oggi Ronaldo ha rimontato 3 Palloni d’Oro di svantaggio a Messi e che quest’anno rischia un sorpasso clamoroso.
Ora, penso che cercare di capire come sia possibile che un calciatore con meno talento e più anziano abbia compiuto una simile impresa sia doveroso e sarà oggetto di un mio prossimo articolo. Per ora posso solo dire che tra i modelli per la complessità ne esiste anche uno in grado di spiegare questo fenomeno.”
In conclusione, prima di salutarci, Taglini che snocciola teorie con la credibilità di uno stimato professore e con l’entusiasmo dei suoi 30 anni aggiunge qualcosa:
“Deve essere però chiara una cosa: l’appartenenza ad una generazione piuttosto che all’altra è determinata dalle narrative che ognuno di noi ha come riferimento, non dalla data di nascita. Perché il darwinismo prevede anche un certo grado di adattamento al mutare dell’ambiente. Poi certo, la data di nascita approssima molto bene quella che può essere l’appartenenza generazionale, ma non vi è dubbio che i nati negli anni ’80, ossia i primi che sono stati fregati dalla bolla dei subprime, presentino, con gradazioni diverse, entrambe le caratteristiche di queste due generazioni, chi è nato negli anni ’70 molto meno e via dicendo. Ecco perché dico che sono le aspettative a determinare la distinzione: la riduzione delle aspettative è l’unico modo che può consentire a tutti noi la sopravvivenza perché quelle degli anni ’90 erano irrealistiche”.
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Huawei presenta Track AI, un dispositivo capace di riconoscere i primi segni dei disturbi visivi nei bambini di tutto il mondo
Huawei ha messo a servizio di importanti enti di ricerca medica la sua forte esperienza nel mondo dell’Intelligenza Artificiale, per contribuire a salvaguardare la vista dei bambini. Huawei, in collaborazione con IIS Aragon e DIVE Medical, ha creato Track AI, uno strumento di valutazione basato sull'Intelligenza Artificiale progettato per rilevare e diagnosticare i primi segni di disturbi visivi nei bambini.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità stima siano circa 19 milioni i bambini nel mondo affetti da problemi alla vista, di cui il 70-80% affetti da patologie prevenibili o curabili. Nella maggior parte dei casi, si tratta di bambini che rimarrebbero con disturbi non diagnosticati per anni, che potrebbero determinare conseguenze più gravi per la vista, lo sviluppo, le opportunità educative e sociali. I casi meno gravi e facilmente prevenibili di menomazioni della vista colpiscono attualmente 12,8 milioni di bambini.
"Negli ultimi anni, ci siamo impegnati per sviluppare uno strumento che valuti la salute visiva nei bambini piccoli e identifichi quelli con disabilità”, ha affermato Victoria Pueyo, oftalmologa pediatrica, DIVE Medical. "Con Huawei, che supporta e alimenta DIVE tramite la sua Intelligenza Artificiale, ora siamo in grado di poter lavorare per un obiettivo: implementare questa tecnologia in tutto il mondo per garantire supporto per ogni tipo di disturbo della vista.”
Per rilevare eventuali problemi alla vista, il software DIVE (Devices for an Integral Visual Examination) installato su Matebook E monitora e traccia il movimento di ciascun occhio mentre il paziente osserva stimoli diversi, progettati per testare i numerosi aspetti della funzione visiva. I dati del paziente raccolti vengono quindi elaborati sullo smartphone HUAWEI P30, che utilizza l'algoritmo HUAWEI HiAI per identificare i potenziali indicatori di disabilità visive.
Grazie alla tecnologia di HUAWEI P30 e HUAWEI HiAI, Track AI dà vita ad un dispositivo facile da usare, portatile e dal costo contenuto, in grado di identificare questi problemi nei bambini il prima possibile, già a partire da sei mesi di vita.
“In passato gli smartphone non erano così potenti da riuscire a gestire algoritmi basati sull’AI e i dati venivano inviati al cloud per essere processati. La comunicazione verso e dal cloud rallenta il processo AI, inutilizzabile senza connessione. La nuova tecnologia TRACK AI unisce il meglio del machine learning di Huawei e l’Intelligenza Artificiale dei nostri dispositivi a dati e ricerche della IIS Aragon e DIVE Medical”, ha dichiarato Peter Gauden, Technology Expert, Huawei. "Track AI fa parte del più ampio impegno di Huawei per superare i limiti di ciò che è umanamente possibile e utilizzare l'intelligenza artificiale per migliorare concretamente la vita delle persone. Il nostro obiettivo per questo progetto è quello di aiutare genitori e medici di tutto il mondo a rilevare i disturbi visivi in modo più rapido, semplice ed efficace, grazie all’Intelligenza Artificiale".
Come funziona?
Gli occhi dei bambini che soffrono di alterazioni visive seguono movimenti della pupilla diversi rispetto alla norma. DIVE è in grado di raccogliere informazioni accurate sulla posizione dello sguardo durante i test visivi elaborati scientificamente. L’interpretazione di questi dati è complicata per gli operatori sanitari non specializzati ma, grazie all’AI, è possibile insegnare ai computer a identificare movimenti anomali delle pupille per realizzare più facilmente i controlli e le diagnosi assistite, in modo da velocizzare il processo dalla diagnosi fino alla cura.
Track AI si appoggia alle funzionalità di TensorFlow di Google, una piattaforma open-source, e a Huawei HiAi, per creare un sistema di machine learning su smartphone supportato dall’innovativo chip Kirin 980, il processore Huawei dotato di AI che sta ridefinendo il futuro degli smartphone. La doppia rete neurale di Kirin 980 supporta la tecnologia AI, permettendo allo smartphone di processare direttamente i dati, velocizzando così considerevolmente il processo e proteggendo allo stesso tempo la privacy dell’utente.
Track AI su smartphone è consultabile ovunque, non necessita di connessione WI-FI e riceve dati in tempo reale per velocizzare la diagnosi. Le straordinarie capacità degli smartphone Huawei rendono possibile l’utilizzo di Track AI in tutto il mondo, da un oculista in un ospedale nel Regno Unito a un dottore in un villaggio africano.
Ad oggi in fase di sviluppo, Track AI sarà presto disponibile. Il funzionamento di un sistema basato sull’intelligenza artificiale richiede un’ampia raccolta dati, e questo processo è attualmente in corso su migliaia di bambini in cinque Paesi e tre continenti (Cina, Messico, Emirati Arabi Uniti, Spagna e Regno Unito). Una volta raccolta la quantità di dati necessaria, le reti neurali saranno allenate e il prototipo Huawei sarà lanciato entro la fine del 2019, in vista di una piena diffusione nel 2020, così da aiutare gli operatori sanitari e diagnosticare e curare le malattie della vista in tempo.
Per maggiori informazioni e per verificare la disponibilità di HUAWEI P30 e P30 Pro nel tuo paese, visita il sito http://consumer.huawei.com .
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COSTRUZIONE DI NICCHIA CULTURALE
COSTRUZIONE DI NICCHIA CULTURALE
È necessario affermare, come assioma di partenza, che la dinamica della produzione della struttura del corpo umano (v. supra, Bauplan) e del funzionamento dei suoi organi e dei suoi apparati fisiologici, compreso il cervello, non è sufficiente a formare il dispositivo cervello-mente; infatti, questo dispositivo, come s’è detto sopra a proposito della GNST (Groups Neuronal Selection Theory), mostra la sua processualità (casuale, dinamica e plastica) a partire dalla vita fetale con la formazione del sistema neurale (il repertorio primario) e continua, come detto, sino alla morte, arco di vita dove si presenta l’interazione del cervello (del corpo) con l’ambiente esterno (repertorio secondario) che compartecipa via via alla costruzione d’una nicchia ecologica e culturale, fenomeno (il cui stampo è imprevedibile, cioè unico e irripetibile) ch’è dovuto a una dinamica dove le reti sociali, appoggiandosi sulle reti neuronali grazie ai fenomeni del rientro e della categorizzazione e ricategorizzazione percettiva, sono corresponsabili della transizione della mente dallo stato neonatale (coscienza primaria, propria anche ad altre specie) allo stato adulto (coscienza d’essere coscienti) dell’organismo, ciò che si traduce in un coagulo di rapporti tra loro interdipendenti che l’organismo tesse con la nicchia ecologica, con gli altri organismi della propria umana specie e d’altre specie (costruzione di nicchia culturale) e nell’eventuale successo/insuccesso di tali rapporti; ed è importante sottolineare da subito che questo strumento della nicchia culturale, ossia il dispositivo cervello-mente edificato per filogenesi dal genere Homo affinché questi possa arrivare a essere in grado di modellizzare e rimodellizzare ontogeneticamente il mondo circostante allo scopo d’essere esonerato dai limiti del qui e ora propri alla coscienza primaria, è solo uno strumento che, se pur diverso, è pari per valore (ma non per efficacia creativa/distruttiva) a quello che usano le altre specie per modificare la loro nicchia ecologica; fatta salva questa parità, bisogna sottolineare che, eseguendo un’analisi comparata dei tessuti cerebrali di alcune specie (ne sono state monitorate ca. un centinaio prima di reperire quelle pertinenti), queste presentano poi una parentela con un meccanismo che nel genere Homo s’ipotizza abbia innescato quella prosocialità interagente fra insiemi d’organismi che permette infine di costruire una nicchia culturale, cioè d’implementare delle reti sociali, e che rimanda ai neuroni di von Economo (von Economo neuron, o VEN); quest’ipotesi della prosocialità si basa, per il genere Homo, sulla scoperta di una tipologia di cellule cerebrali fusiformi (a forma di fuso, o spindle cell), cioè sottili e allungate, e a forma bipolare, con un soma che presenta un assone apicale e un dendrite all’altra estremità (dunque con una struttura dendritica semplice), cellule la cui comparsa avviene in piccolo numero nella 36a (altri dice 35a) settimana dopo il concepimento, numero che poi cresce durante i primi quattro anni di vita postnatale (con un picco attorno agli 8 mesi) e che in seguito rimane relativamente stabile durante l’età adulta, numero che si presenta poi con valori superiori nell’emisfero destro del cervello per un’asimmetria che emerge durante i primi mesi di vita postnatale; ancora, lo sviluppo di queste cellule cerebrali fusiformi durante l’infanzia potrebbe subire l’influenza di fattori ambientali, quali la assenza/presenza di stimoli, l’assenza/presenza di fattori di stress, la assenza/presenza di qualità nelle cure parentali etc., con ricadute positive o negative, durante l’età adulta, sulle competenze/incompetenze cognitive di tipo sociale (tipo riconoscimento degli errori propri e altrui e pronta risposta adattativa a condizioni mutevoli); capacità/incapacità di risoluzione dei problemi (problem-solving) che si giustappongono poi sulla capacità/incapacità dell’autocontrollo emotivo e la presenza/assenza di stabilità emotiva, ciò che porta a modificare/alterare, a livello dell’ontogenesi, le tappe dello sviluppo socioemotivo in meglio o in peggio; la figura seguente mostra una microfotografia di un neurone piramidale (a) e di un neurone di von Economo (b) colorati con il metodo di Golgi (cioè fissando i preparati con bicromato di potassio e impregnandoli con nitrato d’argento); in (b) si nota la struttura fusiforme della cellula e la presenza di un assone apicale che trasmette le informazioni ricevute dal dendrite basale (sul funzionamento dei neuroni, v. supra); la barra di scala vale per entrambe le immagini:
Figura n. . Fonte: Watson, Jones e Allman, 2006, p. 1108.
Cellule, ancora, che sono rare e ca. 4 volte più grandi rispetto alla media degli altri neuroni e che sono stati individuate per la prima volta da von Economo (da cui il nome) nello strato V di due regioni del cervello, una chiamata corteccia cingolata anteriore (anterior cingulate cortex, ACC, v. supra) e l’altra corteccia frontoinsulare (frontoinsular cortex, FI, v. supra), come mostra la figura seguente dove a sinistra si ha la vista laterale del cervello con la corteccia frontoinsulare (FI, colore rosso) e a destra se ne ha la vista mediana con la corteccia cingolata anteriore (ACC, colore rosso):
Figura n. . Fonte: Ibegbu, Umana, Hamman e Adamu, 2014, p. 2.
Ora, s’è scoperto che questi neuroni su cui si basa l’ipotesi sopracitata sono poi presenti nella famiglia Hominidae al suo completo, cioè in tutte le sue ramificazioni (v. supra) in generi, cioè Homo, Pan (Pan troglodytes e Pan paniscus), Gorilla (Gorilla gorilla) e Pongo (Pongo pygmaeus e Pongo abelii); i VEN sono poi più abbondanti in Homo e via via diminuiscono in densità negli altri generi con la seguente progressione: Homo (Homo sapiens) > bonobo (Pan paniscus) > scimpanzé comuni (Pan troglodytes) > gorilla (Gorilla gorilla) > oranghi (Pongo pygmaeus e Pongo abelii) e, indipendentemente dalla loro densità (ch’è storia evolutiva a seguire), tutto ciò riporta a un loro antenato comune proveniente dall’Africa settentrionale/orientale (della superfamiglia Driopitècine, Dryopithecinae) e presente all’altezza di ca. 15 milioni di anni fa, nel tardo Miocene (dunque prima della divergenza, datata grossomodo a 6 milioni d’anni fa, fra i lignaggi del genere Homo e del genere Pan, v. supra), cui bisogna però aggiungere che i VEN sono presenti, se pure in misura minore, anche nel genere Macaca, anche questo appartenente come i già citati generi al gruppo di primati delle scimmie Catarrine (Catarrhini) o scimmie del Vecchio Mondo, specificamente alla sottofamiglia Cercopithecidae (Cercopitècidi), sottofamiglia che s’è scissa dal sottordine Catarrine tra l’Oligocene e il Miocene, ca. 25 milioni d’anni fa (in ogni caso, per i neuroni di von Economo si tratta d’una recente specializzazione filogenetica, tanto che si sospetta che la vulnerabilità dei VEN nelle condizioni disfunzionali legate ai disturbi neurali propri a Homo sapiens, v. infra, sia dovuta proprio al fatto che l’evoluzione non abbia potuto plasmare il loro funzionamento e l’integrazione con altre popolazioni cellulari con il dovuto tempo); la figura seguente mostra la localizzazione della corteccia frontoinsulare (FI) e della corteccia cingolata anteriore (ACC) su sezioni coronali di cervello in Homo sapiens, in Pan paniscus (Bonobo) e in Gorilla:
Figura n. . Fonte: Ibegbu, Umana, Hamman e Adamu, 2014, p. 2.
Questi VEN, ancora, s’è poi scoperto che sono presenti anche in elefanti (della famiglia degli Elefantidi, Elephantidae), balene (della famiglia dei Balenidi, Balaenidae), delfini (della famiglia dei Delfinidi, Delphinidae) e, in misura minore, nei procioni (della famiglia dei Procionidi, Procyonidae) e complessivamente tutti questi mammiferi fra loro filogeneticamente diversi (umani, scimmie, elefanti, balene, delfini e procioni) arrivano a suggerire che i VEN derivano da popolazioni comuni di neuroni (molto probabilmente da una popolazione di neuroni piramidali) già presenti nella corteccia prefrontale e nella corteccia cingolata anteriore di mammiferi ancestrali e evoluti più volte nel contesto di specie-specifiche pressioni adattative, come dire che il fatto che questa classe di neuroni, in quanto presente in varie specie con distribuzioni corticali simili e con numeri assoluti di VEN ragionevolmente comparabili, può essere indice dell’evidenza che i neuroni di von Economo filogeneticamente conservati possono arrivare a rappresentare, a seguito delle dette pressioni selettive fra loro comparabili, una specializzazione neurale ch’è squisitamente relativa a dimensioni del cervello molto grandi; specializzazione, a sua volta, che sarebbe pari, nelle diverse nicchie ecologiche delle citate specie, alla presenza d’una socializzazione emergente che coinvolge aspetti emozionali/cognitivi, allocati nelle suddette regioni corticali e legati alla trasmissioni d’informazioni strategiche per la sopravvivenza delle specie (ciò che fa rientrare anche queste specie, oltre al genere Homo, nell’ipotesi della prosocialità); la figura seguente mostra l’adattamento della filogenesi dei mammiferi placentati, compresi Ordini (a destra) e Superordini (a sinistra); in rosso sono indicati ordini che contengono almeno una specie i cui VEN sono stati descritti:
Figura n. . Fonte: Butti, Santos, Uppal e Hof, 2013, p. 322.
Infatti, questi neuroni di von Economo, in quanto grandi e con un’architettura dendritica semplice e simmetrica, hanno permesso agli studiosi di congetturare che essi sono stati sviluppati per la velocità di trasmissione delle informazioni, vale a dire che hanno probabilmente il ruolo d’accelerare, in un cervello a sua volta grande, la comunicazione della corteccia cingolata anteriore e della corteccia frontoinsulare con le altre aree del cervello (cioè di avere una funzione d’interconnessione fra aree corticali e sottocorticali distanti) grazie alla loro stretta arborizzazione dendritica con collegamenti assonali che s’estendono e attraversano gli strati della corteccia (questo in base al fatto che nel sistema nervoso la dimensione dei neuroni spesso si correla con la velocità); le informazioni che la corteccia cingolata anteriore e la corteccia frontoinsulare anteriore devono poi velocemente veicolare, in quanto neuroni di proiezione che funzionano da crocevia, o relais, fra diverse aree cerebrali, riguardano la presenza delle sensazioni che un organismo (qui del genere Homo) sperimenta, sensazioni che le due citate aree integrano e automonitorano, quali le funzioni d’una regolamentazione di base delle percezioni proprie agli stati corporei interni, per esempio, di dolore, di caldo/freddo, di fame e altro ancora (nell’ottica dell’omeostasi fisiologica), cui s’aggiungono tutti quegli aspetti che coinvolgono la consapevolezza di sé e degli altri e i processi decisionali effettuati in condizioni d’incertezza, ciò che s’intreccia con le funzioni esecutive della corteccia prefrontale (v. infra); ciò che, ancora, include emozioni quali l’empatia, la fiducia, il senso di colpa e altro ancora, vale a dire un’intera batteria di percezioni/emozioni/cognizioni che si presentano come prosociali (e le sperimentazioni su organismi del genere Homo dicono che queste aree s’attivano per effettuare una rapida scelta intuitiva in situazioni sociali più o meno complesse, per esempio, in un’interazione a due, se si scruta con attenzione la dinamica dell’espressione facciale dell’altro per discernere e valutarne le intenzioni), tanto che si sospetta che la consapevolezza di sé (l’automonitoraggio) e la consapevolezza sociale (v. teoria della mente, supra) facciano parte d’un dispositivo cervello-mente dove le reti sociali s’appoggiano in modo epigenetico sulle reti neurali, dunque grazie a un cablaggio flessibile dei circuiti socioemotivi che potrebbe permettere la sociogenesi e di dare origine a un cervello sociale; altri esperimenti, infatti, suggeriscono che le citare aree contenenti VEN sono attivate in situazioni di monitoraggio della rete sociale cui un individuo partecipa e in cui scopre un errore sociale dovuto, per esempio, a un cambiamento di stato di uno dei partecipanti, ciò che può attivare nel soggetto valutante un ventaglio emotivo intessuto di risentimento, inganno, imbarazzo, ciò che, ancora, può dare avvio a risposte adattive all’errore rilevato; oppure possono essere attivate dall’empatia in una situazione di sofferenza da parte di un individuo compresente nella rete sociale, per esempio, quello d’una madre a fronte di grida d’un bambino in difficoltà; oppure, ancora, possono essere attivate da segnali prosociali come l’affetto e la fiducia e altro ancora; inoltre, mentre molte di queste dinamiche sono coscienti, possono esisterne anche altre di cui l’organismo agente è inconsapevole, e a questo proposito, per esempio, è stato dimostrato che quando un soggetto guarda negli occhi il suo interlocutore non è consapevole se le dimensioni delle pupille di quest’ultimo s’alterano in modo discordante con la prosocialità ch’è in essere fra i due in quel momento (cioè s’allargano in modo involontario a causa dello stress emotivo che si mette in atto per simulare una concordanza che non c’è), inconsapevolezza che, al contrario, la corteccia cingolata anteriore e l’insula anteriore del soggetto non vivono in quanto s’attivano subito all’effettuarsi della dilatazione della pupilla dell’interlocutore e subito allertano il cervello sull’incongruenza presente nel fatto sociale, cioè dell’effettuarsi probabile d’un errore comportamentale nel caso non s’intervenga (e non si dimentichi che lo stato delle pupille tra interlocutori è costantemente monitorato dalle dette regioni cerebrali, sempre e durante tutte le interazioni sociali); tutto un insieme di fatti che alla fine induce a sospettare che queste aree cerebrali siano le componenti base d’un dispositivo cervello-mente preposto al controllo flessibile dei comportamenti diretti a un obiettivo (goal-directed) che si presentano in una rete sociale, quelli in cui l’individuo partecipante alla detta rete ne valuta sia gli aspetti negativi che positivi ch’essa al momento presenta in vista della sopravvivenza sociale; e si dice sopravvivenza perché l’evidenza che i neuroni di von Economo siano, come sopra affermato, presenti in mammiferi filogeneticamente diversi come gli esseri umani, le scimmie antropomorfe, gli elefanti, le balene e i delfini, è interpretabile come risultato d’una loro evoluzione sotto pressioni evolutive specie-specifiche legate alla costruzione di nicchie culturali fra loro decisamente comparabili (ossia a una evoluzione convergente, v. supra, in cui si presenta un adattamento neurale capace di veicolare con rapidità, in aree fra loro distanti d’un cervello grande, informazioni rilevanti sul contesto sociale, volendo, alla specializzazione di circuiti neurali legati alla cognizione sociale); e a proposito della sopravvivenza in un contesto sociale, e fatto salvo che una perdita di VEN nella corteccia frontoinsulare può essere correlata con una disinibizione, mentre una perdita di VEN nella corteccia cingolata anteriore si può correlare con l’apatia, può essere indiziario della validità dell’ipotesi della prosocialità (una specie di prova indiretta) il presentarsi nella demenza frontotemporale (frontotemporal dementia, FTD), specificamente nella sua variante comportamentale (behavioral variant FTD, o bvFTD), d’un deterioramento comportamentale che, indagato, mostra che oltre il 70% dei VEN presenti risultano essere stati distrutti selettivamente (mentre i VEN restanti mostrano alterazioni importanti nella morfologia, quali soma gonfio e dendriti intrecciati), ciò che porta a un progressivo restringimento dei lobi frontali e temporali del cervello, ciò che, ancora, produce il detto deterioramento comportamentale legato a disturbi della personalità, per esempio, irritabilità, iperattività, eccessi d’ira, aggressività, inaffidabilità dei giudizi, autolesionismo, assenza completa d’empatia, indifferenza rispetto al proprio aspetto fisico, mancanza d’inibizione verbale e comportamentale (con comportamenti sessuali inappropriati e atti osceni), evitamento dei contatti sociali e altro ancora; e il tutto porta a sospettare che i neuroni di von Economo siano coinvolti nell’implementarsi d’una rete sociale, tanto che la loro assenza si traduce in una totale inconsapevolezza sociale di sé e mancanza d’autocontrollo, cioè in una completa disgregazione della precedente vita sociale della persona che subisce la demenza, il tutto, ancora, in un arco temporale relativamente breve e con un climax distruttivo dell’intero repertorio comportamentale appreso nel corso del tempo; e questo nel mentre i neuroni che sono prossimi alle aree danneggiate con deficit di cognizione sociale rimangono in gran parte inalterati mantenendo integre le aree cerebrali non coinvolte, e quale esempio di questo fatto si può avanzare la presenza intatta della memoria, che di solito rimane tale per un ampio tratto nel decorso della bvFTD; ancora, s’è notato che nella schizofrenia e nell’autismo i VEN sono coinvolti in deficit della regolazione emotiva e delle competenze sociali e nell’agenesia del corpo calloso in comportamenti sociali carenti (dovuti a un’errata interpretazione dei segnali sociali o a una impropria valutazione degli affetti, cioè a un’alessitimia; l’agenesia è poi una condizione del corpo calloso del cervello dove mancano, in modo totale o parziale, le fibre commessurali che fanno da ponte di collegamento fra l’emisfero destro e l’emisfero sinistro); detto questo, valga ora come inciso una precisazione che riguarda il ruolo specifico assunto dai VEN all’interno della corteccia cingolata anteriore, corteccia che funziona come interfaccia tra le emozioni e le cognizioni, e che trasmette i risultati delle trasformazione avvenute nella corteccia cingolata anteriore a un’area ch’è denominata corteccia frontale polare (frontopolar cortex, FPC), corteccia ch’è poi classificata come area 10 di Brodmann (A10, v. supra); ora, si suppone che questa corteccia frontale polare integri a un livello superiore i risultati di varie operazioni cognitive (fra loro distinte) che le arrivano dalla corteccia cingolata anteriore allo scopo d’implementare un obiettivo comportamentale decisamente più complesso, per esempio, una rapida pianificazione adattativa a condizioni ambientali e sociali fortemente mutevoli, come dire un’acquisizione d’opzioni legate a nuovi comportamenti; la figura seguente riporta con il colore blu, in una mappa cerebrale di Brodmann, la localizzazione dell’area 10 (si noterà ch’è una grande area che occupa la porzione anteriore del lobo frontale del cervello); la vista del cervello è poi quella laterale (lateral); si ricorda che in Homo sapiens A10 è grande, sia in assoluto che relativamente, ed è molto più piccola, anche se ben sviluppata, nei Bonobo, negli scimpanzé comuni, nei gorilla e negli oranghi (l’estensione di A10 cala grossomodo nello stesso ordine in cui diminuisce la densità del neuroni di von Economo):
Figura n. . Fonte (modificata): Allman, Hakeem, e Watson, 2002, p. 336.
La figura seguente mostra invece, sempre in una mappa cerebrale di Brodmann, la localizzazione, colorata in arancione, della corteccia cingolata anteriore (ma v. anche supra, fig. n. ), ritaglio ch’è classificato come area 24 (A24); la mappa rilocalizza, inoltre, anche l’area 10 per una messa a confronto delle due aree in oggetto; la vista del cervello è quella mediana (medial):
Figura n. . Fonte (modificata): Allman, Hakeem, e Watson, 2002, p. 336.
Entrando ancora di più nel dettaglio, è stato dimostrato che la corteccia cingolata anteriore opera un continuo monitoraggio dei cambiamenti di feedback dovuti all’interazione dell’organismo con il suo ambiente, cambiamenti che ne influenzano la sopravvivenza e la riproduzione e avviano risposte comportamentali per mantenere o migliorare queste condizioni e, in questo contesto, il ruolo dei VEN è che possono essere utilizzati per trasmettere l’avvenuto riconoscimento d’una situazione problematica (per esempio, la discriminazione tra segnali contrastanti) e delle informazioni necessarie per riaggiustarla ad altre aree corticali e a strutture sottocorticali ed eventualmente aumentarne la frequenza di trasmissione, cioè che possono partecipare alla dinamica riparatoria di molti sistemi efferenti (v. infra) all’interno del cervello e, soprattutto, che i neuroni di von Economo compartecipano all’attività della corteccia frontale polare (area 10); infatti, la corteccia cingolata anteriore è propriamente coinvolta nella maturazione comportamentale della consapevolezza di sé, consapevolezza che si determina (tramite la coazione a una logica non cieca di prova ed errore, dunque con una valutazione delle alternative ch’è relativa ed è in attesa di feedback positivo) con l’avanzare dell’età d’un organismo, ciò che si lega all’autocontrollo, alla volontà e, appunto, alla capacità acquisita di riconoscere gli errori e di poterli risolvere (problem solving); e, in questo dispositivo, sia la corteccia cingolata anteriore che l’area 10 mostrano un legame funzionale, ossia s’attivano quando un organismo recupera una memoria episodica pertinente (ciò che rimanda a una memoria a lungo termine), vale a dire quando l’area 24 e l’area 10 sono coinvolte in attività che richiedono di ricordare eventi specifici accaduti nel passato, e questa capacità d’integrare eventi passati come protocollo d’azione per il presente al fine di modificarlo ai propri fini è un aspetto importante della dinamica di sviluppo dell’autocontrollo (v., infra, l’esempio dei cacciatori-raccoglitori); il che è dire che l’area 10, con l’apporto delle informazioni veicolate dai VEN, confronta la situazione attuale con l’esperienza pertinente della memoria episodica, calcola le probabilità di successo d’un protocollo d’azione, e a seguire, e basandosi su questi calcoli probabilistici, implementa la strategia ritenuta (salvo gli errori che potrebbero presentarsi) la più adatta a quel dato contesto; ed è di supporto alla presenza di questa capacità, ch’è legata a compiti cognitivi complessi, il fatto che questo processo di maturazione implica, oltre alla formazione d’una memoria a lungo termine, anche un costante aumento dell’attività metabolica della corteccia cingolata anteriore nell’arco temporale che va dall’infanzia all’età adulta dall'infanzia, cui s’aggiunga che v’è anche la prova d’una maggiore attivazione della corteccia cingolata anteriore in organismi che presentano una competenza storicamente acquisita a meglio comprendere le dinamiche sociali e che in condizioni di mancato autocontrollo dovuto a disturbi per deficit d’attenzione, quindi di fronte a un problema sociale che il soggetto implicato non riesce a risolvere, non sono presenti risposte nella corteccia cingolata anteriore e, pertanto, non v’è alcun legame funzionale con l’area 10; inoltre, le lesioni all’area 10 sono associate con l’alterazione di quelle competenze cognitive che permettono di valutare l’esperienza in corso, tanto da comprometterne la pianificazione strategica prevista come risposta, cioè le funzioni esecutive; per quanto riguarda, infine, lo scenario evolutivo che ha portato, rispetto ai lignaggi che precedono Homo sapiens, a una crescita numerica e funzionale dei neuroni di von Economo e a cambiamenti all’estensione e alla rilocalizzazione topografica dell’area 10 (compreso un aumento dello spazio tra strati corticali che ha così permesso un aumento di connettività con altre aree d’associazione ritenute d’ordine superiore), è importante sottolineare che questa specializzazione in termini di ridimensionamento e d’organizzazione suggerisce che le funzioni associate a questa parte della corteccia sono diventate particolarmente importanti nel corso del processo d’ominazione, giacché non ci si può impedire di vedere questa relativamente recente specializzazione se non come legata a una dinamica in continua evoluzione della pianificazione delle azioni a venire e dell’intrapresa d’inedite iniziative che implicano, necessariamente, dei fenomeni di sociogenesi (comprendendo in questi anche l’evoluzione tecnologica per la trasformazione delle risorse) e delle operazioni di trasferimento intergenerazionale dei tratti culturali dipendenti dalla costruzione di nicchia, cioè a un cambiamento materiale e funzionale delle competenze cognitive, dei comportamenti adattativi e dell’ambiente preesistenti a Homo sapiens; ora, e fatto salvo che, come sopra detto, la costruzione della nicchia culturale è solo una componente (sia pur diffusa e dominante nell’antropizzazione dell’ambiente) dell’eredità ecologica, può essere utile che, a proposito di cultura materiale e sociogenesi, s’osservi com’è possibile avanzare l’ipotesi che, nella storia del genere Homo, delle reti sociali si siano appoggiate su delle reti neuronali edificando per filogenesi un dispositivo cervello-mente che permetta al genere Homo di modellizzare e rimodellizzare ontogeneticamente il mondo circostante, questo valorizzando il rapporto che i cacciatori-raccoglitori (hunter-gatherer; per il loro stile di vita, v. anche supra) hanno con l’ambiente spaziale e con l’ecosistema in cui si ritrovano ad agire, rapporto legato a una processualità di lunga durata del sopra abbozzato dispositivo cervello-mente durante i 2 milioni di anni in cui questa pratica di sostentamento d’una collettività è stata vigente (cioè fino alle soglie del Neolitico); questo, ancora, valorizzando una strategia cognitiva che qui si recupera dalla Landscape Mind Theory (LMT, traducibile come teoria della mente basata sul paesaggio, e dove il paesaggio è da intendersi quale spazio delle interazioni fisiche, cognitive e sociali tra un organismo appartenente al genere Homo e l’ecosistema), strategia che s’appoggia, oltre che alle precedenti aree sopra citate, a due specifiche aree corticali di cui si parlerà a seguire; in quest’ipotesi s’avanza il sospetto che la pressione ambientale abbia indotto, nel corso del tempo, una sommatoria d’abilità cognitive adattate a risolvere problemi spaziali riguardanti la sussistenza (cioè la fenomenologia delle strategie venatorie da adottare o adottate in quanto imposte da un dato paesaggio) e, in pari tempo, problemi legati alla classificazione dell’ecosistema (cioè a problemi tassonomici nell’attribuzione dei nomi da dare ai tratti che caratterizzano il paesaggio, di fatto alla realtà e alla complessità del vissuto non solo venatorio); tipologia di problemi che, senza voler arrivare a sostenere uno stretto isomorfismo tra le strutture del paesaggio e le strutture cognitive che ne risultano modellate (e che sono in grado, come documentano le ricerche etnografiche, d’organizzare spazialmente le percezioni, le rappresentazioni e le conoscenze individuali/collettive), risultano comunque essere tra loro fortemente interdipendenti nella matrice dei comportamenti storicamente messi in atto nelle società di caccia e raccolta; il tutto parte dalla costatazione che esiste, nel tempo storico proprio ai cacciatori-raccoglitori, un’omeostasi che fa sì che le azioni di disturbo continuo dei fattori casuali (una qualsivoglia contingenza che si presenta) siano mantenute intorno a un livello d’equilibrio e tra gli organismi che abitano l’ecosistema e tra la collettività che questi organismi li preda, questo con il ricorso a un’attività di controllo materiale/immateriale sull’ambiente e sul vissuto dei detti organismi da parte dei cacciatori-raccoglitori che risultano così essere gli agenti d’una autoregolazione capace di controllare tutta la realtà (questo in quanto in grado di regolare, attraverso attività d’inibizione/promozione, i flussi appropriati del vissuto sociale mediante sistemi di controllo a feedback negativi/positivi); regolazione omeostatica che interviene, dunque, sia a livello etologico (per esempio, grazie a un comportamento ch’è la risultante d’una pressione ambientale che vale per tutti gli organismi di quell’ecosistema, e che nell’ecosistema sociale è controllata a livello segnico, v. infra) che ecologico (per esempio, controllando il rapporto prede/predatori); bisogna, infatti, sottolineare che a livello etologico il detto comportamento non è altro che la risposta a delle modificazioni, intervenute nell’esistente d’un organismo, da parte dell’organismo stesso (volendo, a partire qui dal predatore Homo habilis, v. supra) e che sono promosse dall’interazione fra stimoli che provengono tanto dal suo interno (interocettivi) quanto dall’esterno che lo circonda (esterocettivi), esterno qui da intendersi tanto come ecosistema quanto come rapporto con conspecifici; comportamenti che, in una società di caccia e raccolta, si producono/riproducono con una stereotipia che, se isolata e resa discreta, si mostrano poi specie-specifici, cioè tipici di una data specie in un dato ambiente e in un dato momento storico (e che qui si possono solo congetturare), e che potrebbero alla fin fine dare origine, se elencati, a quello che si definisce come un etogramma (che, nel passaggio da una tipologia ambientale/sociale all’altra, dovrebbe essere poi in grado, grazie ai suoi riaggiustamenti negli schemi corporei, di mostrare nel repertorio dei comportamenti, fra loro comparati in modo indiziario e congetturale, le processualità d’una pressione evolutiva); per ricostruire in modo congetturale questo etogramma, se pure con modalità rozze e grossolane, cioè per provare a descrivere il comportamento d’un organismo del genere Homo, e tenendo conto del fatto che il sistema di caccia e raccolta è l’unica strategia di sussistenza che, come detto (v. anche supra), ha caratterizzato l’ontogenesi del genere Homo per almeno due milioni di anni, è necessario partire dall’indagare come quest’insieme d’organismi possono organizzare l’approvvigionamento alimentare in un dato ambiente, cioè analizzare la loro condotta diretta a un obiettivo (goal-directed, v. supra) di acquisizione o di prelievo delle risorse, partendo da quello che hanno bisogno di sapere dei cacciatori/raccoglitori per portare a compimento il loro compito (su questa questione, v. anche supra), il tutto al fine di modellizzare con una certa approssimazione il contesto ambientale in cui questi organismi perseguono il loro scopo (gli ambienti occupati dai cacciatori-raccoglitori possono essere o artici o desertici o forestali, in ogni caso si tratta di zone climatiche caratterizzate da risorse trofiche e/o idriche relativamente scarse e disperse su territori più o meno vasti); secondo una logica che rimanda alla realtà esperenziale che si basa sugli studi etnologici che hanno come oggetto i cacciatori-raccoglitori odierni e le loro pratiche di foraggiamento, e fatte salve le competenze ecologiche necessarie in questo tipo di società, risulta che la pratica della raccolta opera su porzioni relativamente limitate dell’ecosistema generalmente contigue, ciò che facilita l’orientamento e la memorizzazione delle direzioni di spostamento sul territorio che sono rese riconoscibili da punti identificabili nel paesaggio (landmark), mentre la caccia, in quanto le risorse sono mobili, è costretta ad operare su porzioni molto estese dell’ambiente che impongono, con la loro non contiguità, un disorientamento nello spostamento ch’è supplito da competenze cognitive flessibili (v. supra), ragione per cui qui si prende in carico il solo cacciatore; la figura seguente mostra le possibili mappature del territorio, a sinistra quella di società di soli raccoglitori (gathering, in figura) che si spostano su territori contigui (ciò che richiede, in linea di massima, una memoria puramente topografica del territorio), a destra quella di società di cacciatori-raccoglitori (hunting e gathering, in figura) che si spostano gli uni (gathering) su spazi contigui e gli altri su spazi non contigui (hunting), ciò che dà origine a una mappatura dell’ecosistema diviso in due parti (divisione segnalata, in figura, da una linea tratteggiata tra lo spazio dei cacciatori e quello dei raccoglitori), e dove lo spazio dei cacciatori è suddiviso in due zone, una con aree di ricovero (shelter) legate strategicamente ai lunghi percorsi da compiere, e l’altra con le aree discontinue legate al percorso effettivo o possibile della preda e senza dimenticare che tanto per i raccoglitori quanto per i cacciatori, le risorse trofiche non sono percepite solo come una cosa, ma implicano, nella loro rappresentazione mentale, anche un dove e un quando poterle trovare:
Figura n. . Fonte: Meschiari, 2014, p. 56.
Per quanto riguarda specificamente il cacciatore (e dato come prerequisito ineliminabile quello della resistenza fisica alla fatica, v. supra), si può grossomodo affermare che questi deve possedere delle conoscenze sulla composizione, sulla struttura, sulla configurazione dei suoli e dei processi che vi operano; deve possedere una profonda consapevolezza geografica del territorio, dei confini distintivi, delle aree di transizione, delle barriere, etc.; deve utilizzare, come i raccoglitori, dei punti di riferimento (landmark) che non coincidono con la meta per potere così organizzare la sua percezione dello spazio; deve memorizzare gli itinerari, la distanza, il tempo necessario per spostarsi da un luogo all’altro; deve possedere delle strategie variate di spostamento nello spazio (legate anche ai cambiamenti stagionali e alle dinamiche metereologiche); deve riconoscere le connessioni ecosistemiche presenti nel repertorio dei luoghi familiari; deve possedere delle competenze biogeografiche sulla distribuzione e sulle dinamiche comportamentali relative alle specie animali cacciate e no; deve essere capace di usare in modo abile le tecnologie di caccia disponibili (dal tardo Paleolitico, archi, lance, mazze); deve possedere una memoria della probabile distribuzione spaziale delle risorse trofiche e deve essere capace di predire ipotesi e formulare decisioni sulla distribuzione delle risorse alimentari; deve possedere delle capacità inferenziali nella lettura degli indizi e delle tracce lasciate dalle prede; deve sapersi coordinare con il gruppo (specialmente se s’impiegano trappole, reti, barricate, palizzate, recinti o altro ancora che necessitano di una forte cooperazione attiva) per elaborare strategie finalizzate alla cattura delle prede e al sostentamento della collettività (e dove la spartizione della carne obbedisce a regole più o meno elastiche, ma sempre presenti); deve saper far fronte agli imprevisti e altro ancora, deve possedere, insomma, una mappatura dell’esistente che sia pari all’intreccio dinamico e contestuale che mettono in moto le sue innumerevoli competenze e i suoi comportamenti in un ambiente che, poiché saturo di segnali ecologici, necessita d’una griglia induttiva per essere interpretato; infatti, a proposito di questa griglia, bisogna sottolineare che ne fa parte anche un surplus legato a una creazione di significati aggiunti, per spiegare i quali partiamo dal fatto che il cacciatore sa ch’esistono delle categorie sistematiche corrispondenti ai vari organismi presenti nell’ecosistema, cioè dei raggruppamenti gerarchici dei viventi o taxa (v. supra), e il cacciatore, come sa di questa gerarchia, sa anche che a ogni livello gerarchico i taxa s’escludono a vicenda e che ogni organismo, preso in sé, è attribuibile a un dato taxon, e anche se i taxa sono classificati in modo variabile nelle varie tipologie di società di caccia e raccolta, in generale i livelli gerarchici fra taxa sono, all’interno d’una data tipologia sociale, stabili; ancora, il cacciatore sa che se due specie presentano una caratteristica comune, se ne può dedurre che tale caratteristica è condivisa anche da altre specie dello stesso taxon tanto che, stando a questa logica inferenziale, se un nuovo organismo è collocato in un taxon, si presenta un automatismo che tende ad attribuirgli le stesse caratteristiche condivise da altri appartenenti allo stesso; ciò nonostante questa tassonomia non però è vissuta in modo così meccanico come la descrizione che precede lascia presupporre, questo perché questa tassonomia manca della componente del rapporto di osmosi fra tutte le cose che risulta essere fondante nell’esperienza del cacciatore; infatti, a questa tassonomia ch’è garante dell’osservabile, vale a dire dei collegamenti ch’esistono di fatto e che il cacciatore istituisce tra gli organismi quali sono presenti nell’ecosistema condiviso (per esempio, la capacità di ratificare la presenza d’una colorazione o d’una morfologia somigliante fra organismi diversi, oppure la competenza nel reperire il rapporto ch’esiste tra predatore/preda, comprese le dinamiche della catena alimentare a ciò correlata etc.), i detti rapporti d’osmosi aggiungono un surplus di significato; e questo surplus, che risulta essere poi legato alla creazione d’immagini, non è dato dal fatto che questa creazione sfrutta in modo parassitario l’esperienza del cacciatore per potere poi produrre i suoi elaborati, ma è l’esperienza stessa del cacciatore quale questi la vive nell’ecosistema ch’è prodotta e strutturata dal suo sistema d’immagini in osmosi con il tutto (sistema, ancora, legato a una trasmissione di tratti culturali intergenerazionali in quelle società), ciò che fa sì che questo sistema possa così agire da collante causale sempre attualizzato nella fabbricazione d’un significato (meaning-making) ch’è in grado di debordare la meccanicità della sopra descritta logica tassonomica creando questo surplus che la scompagina e dove, come mostrano degli studi etnografici, gli organismi non sono percepiti come entità isolate all’interno d’un taxa ma, per esempio, come incrocio di relazioni complesse anche con animali appartenenti a diversi taxa; la figura seguente mostra un esempio di tassonomia presente presso gli Iglulingmiut (gli Iglulingmiut sono un popolo Inuit dell’Artico orientale che vive nella zona di Igloolik, nel Nord del Canada), dove la sistematica dei parlanti di questa zona distingue i nirjutit (alla lettera, gli animali utilizzati per essere mangiati), cioè i mammiferi, che sono divisi in pisuktiit, terrestri (quali il caribù, l’orso polare etc.), e puijiit, marini (quali l’orca, il narvàlo etc.); i tingmiat, gli uccelli (quali il beccaccino, la stròlaga etc.); gli iqaluit, i pesci (quali il ghiozzo, il salmone etc.); i qupirruit, gli animali piccoli (quali gli insetti, i ragni, i vermi etc.) e, infine, gli uviluit, i molluschi, sistematica ch’è legata a una trama di relazioni interspecifiche accessorie tra i taxa (le tassonomie sono rese, in figura, ognuna con un cerchio e dove i cerchi inglobanti i taxa sono fra loro autonomi; le relazioni tra i taxa sono segnalate, in figura, da rette che vanno dal taxon d’un cerchio a un altro d’un altro cerchio); e la trama che s’intesse nella figura è poi dovuta a osservazioni di tipo ecologico che possono debordare e rovesciare la tassonomia anatomica standard; per esempio, il caribù e il tricheco sono tra loro legati per il fatto di essere, in modo simmetrico, la preda del lupo e dell’orca, organismi legati a loro volta in quanto predatori alfa ciascuno nel proprio habitat; altre volte, invece, il legame è dato dalla condivisione della stessa nicchia ecologica, della stessa preda d’elezione, o anche da fattori più aleatori di tipo analogico, come il colore del pelo, o da un’affinità morfologica o etologica minore, tanto che, a livello generale, i taxa possono parzialmente sovrapporsi, sia orizzontalmente che verticalmente, e dare origine a sistemi classificatori anch’essi sovrapposti che conducono a una trasgressione della gerarchia dei livelli e delle regole d’inferenza (modalità che, all’interno del gruppo sociale, è poi riusata per altre tipologie di rappresentazione, per esempio, in narrazioni legate alla cosmologia, al sacro o a altre classi di fenomeni etc., e questo perché nelle società di caccia e raccolta, come si vedrà a seguire, la razionalità operante a livello materiale dell’empiria venatoria e la non-empiria dell’immaginario prodotta dalla sociogenesi dei cacciatori-raccoglitori non sono percepite e vissute come tra loro in opposizione, bensì come inevitabilmente complementari):
Figura n. . Fonte (modificata): Meschiari, 2014, p. 58.
Tutto questo capita perché il sistema d’immagini del cacciatore è basato su un transfert di significato (o semantico) dovuto alla contiguità dei significati (spaziali, causali, temporali etc.) presenti nello stesso campo semantico, quello d’un animale, in cui un termine sostituente, presente (per esempio, in nome del luogo che il cacciatore ha di fronte a sé), sta in un rapporto logico con un termine sostituito e assente (per esempio il nome tassonomico dell’animale ch’è stato da lui visto in quel luogo), laddove il campo semantico, riferito a un singolo elemento linguistico, è poi l’insieme registrato da una collettività dei suoi possibili significati (e, se riferito a un gruppo di elementi, è la sfera di significati che essi hanno in comune), è cioè polisemico, vale a dire provvisto d’una pluralità di significati; ed è questa logica, ch’è quella della figura retorica classificata come metonìmia (o metonimìa), che fa sì che la descrizione tassonomica sopra offerta sia esperita dal cacciatore in modo molto meno meccanico di quanto farebbe un Homo sapiens odierno, il che è dire che per il cacciatore un animale non è mai decontestualizzato dall’ambiente in cui entrambi (preda e predatore) vivono, bensì è vissuto secondo una direttrice metonimica del posto che questi occupa nello spazio fisico e ecosistemico (habitat fisico/biologico), cioè è sempre incistato in una matrice topologica con cui in cui entrambi vivono in un rapporto di reciproca dipendenza e in cui il contenente sta al posto del contenuto, la causa al posto dell’effetto e il concreto al posto dell’astratto (e viceversa, in quanto questi rapporti sono sempre reversibili); e senza dimenticare che se all’inizio questa tassonomia ch’è alla base dell’etogramma del cacciatore ha presumibilmente coperto un ruolo di risposta all’esigenza ineludibile di catalogare le specie commestibili/non commestibili, a seguire la direttrice metonimica s’è estesa anche ad altre forme viventi non necessariamente utilitaristiche; oltre a questa, è poi presente anche una direttrice che si basa sul fenomeno dell’apofenìa (Apophänie), dove l’apofenia è da intendersi, in questo contesto, come la capacità cognitiva di un cacciatore di trovare un significato in configurazioni di realtà che, di fatto, sono solo configurazioni di cose originate dal caso, là dove il cacciatore ha quindi una percezione, che esperimenta, di vedere qualcosa che però non esiste, tanto che la rappresentazione del cacciatore si fonde con lo stimolo sensoriale (visivo, uditivo, olfattivo, tattile) insufficiente a produrre senso, di modo che questa capacità cognitiva gli fa perdere quella capacità che consiste nel differenziare gli elementi sensoriali diretti (la realtà effettiva) da quelli riprodotti a livello corticale (la realtà immaginata), per esempio, nel riconoscere visivamente qualcosa di già sperimentato con effetto di realtà tra le foglie delle piante dove caccia, tipo un predatore (e si sa che in contesti percettivi ambigui si può creare nell’osservatore uno stato d’allerta fisiologico in grado di falsare una percezione reale), o nel riconoscere il verso d’una preda in emissioni sonore dovute al caso (per esempio, al fluire del vento, allo stormire delle foglie, al fluire dell’acqua o a altri suoni naturali), o nel riconoscere delle tracce olfattive che in realtà hanno una origine diversa da quella percepita etc., ed è probabile che questa capacità cognitiva permessa dall’apofenia (ch’è poi una caratteristica generale di varie specie di Homo) non sia un difetto, ma sia stata permessa dall’evoluzione in quanto consente, anche in presenza d’indizi rarefatti, forsanche sbagliati, d’individuare situazioni di pericolo, cioè di potere adottare reazioni rapide di fuga che favoriscono la sopravvivenza, ed è pure plausibile che in ambienti poco antropizzati, dove il contesto percettivo è ambiguo, l’apofenia abbia funzionato per lungo tempo come un meccanismo essenziale di sopravvivenza; l’apofenia, dunque, opera un montaggio tra due campi visivi, uno reale e uno ricostruito a livello corticale in cui il secondo prende il posto del primo, ciò che dà origine a un qualcosa che è pertanto isolato dal continuum percettivo del reale e che, se provvisto di nome, si separa dalla realtà fisica ed entra a far parte d’una realtà ricostruita, culturale, un significato ch’è vissuto da un soggetto appartenente a una società di caccia e raccolta, ed è possibile che a fronte delle turbolenze caotiche, casuali e ingovernabili di questo continuum l’insieme dei soggetti d’una società di caccia e raccolta operi dei tagli e che, nelle slabbrature che si creano, sia messa in opera come collante cognitivo, e a un livello generalizzato, la procedura dell’apofenia che riesce, in questo modo, a produrre una struttura ordinata, una modellizzazione della realtà trasmissibile a livello intergenerazionale, e quale esempio, si può citare l’arte rupestre del Paleolitico (v. infra) nella quale chi intravede delle anomalie nel substrato roccioso (venature, sgocciolamenti di calcare, porzioni convesse o concave, noduli, variazioni cromatiche nelle rocce etc.) può interpretarle come delle parti anatomiche d’un animale (un ventre, uno zoccolo, un occhio etc.) che sono solo da integrare con dei contorni (pittogrammi), come dire che l’animale è visto da subito nella roccia e solo a seguire è completato con tratti complementari, e dove l’abilità apofenica si traduce in una rappresentazione della realtà che travalica il tempo di chi l’ha creata; ancora, l’apofenia è in atto quando il cacciatore è capace di sovrapporre modelli ambientali o ecosistemici noti a luoghi sconosciuti (per esempio, grazie al linguaggio orientato sul paesaggio, landscape oriented, proprio alle società di caccia e raccolta, d’adottare la pratica della denominazione/descrizione di ciò che si vede; ciò che, grazie a questi marcatori topografici, impone al paesaggio sconosciuto i nomi del noto facilitandone la domesticazione), ciò che gli permette di interpretare visivamente e linguisticamente un territorio sconosciuto come se fosse un territorio familiare sulla base di una somiglianza morfologica, anche vaga, imposta dai marcatori topografici, quindi conseguentemente di operare in un habitat sconosciuto, ma simile, così come ha operato nel suo habitat nativo; vale a dire d’attivare, grazie alle somiglianze geomorfologiche, delle attività d’orientamento spaziale (wayfinding, v. infra) e d’inseguimento (stalking) della preda che sono già state attivate in posti simili; di strutturare un orizzonte d’attesa, ch’è già stato messo in atto nell’habitat nativo, nell’habitat sconosciuto che gli è simile (per esempio, un torrente che ricorda al cacciatore l’improvvisa comparsa d’una preda nei pressi d’un torrente simile, ciò che lo mette in allarme, o altro ancora); insomma, tutto un insieme di possibilità induttive che gli permettono strategie efficaci di predazione (di sopravvivenza) dal punto di vista topografico ed ecologico, ciò che, volendo, mostra il vantaggio in termini evolutivi di vedere, grazie a delle catene apofeniche, dei luoghi familiari in luoghi che in realtà non lo sono (come dire che l’apofenia, semplice o complessa che sia, può permettere alla mente d’elaborare, fra entità separate dal punto di vista empirico e fattuale, intere sistematiche isomorfe); il che è affermare, ancora, e allargando le sue procedure all’intero vissuto delle società di caccia e raccolta, che sia la direttrice apofenica che quella metonimica danno origine a un dispositivo generatore di credenze che fa sì che l’autoinganno, come costruzione mentale prima che culturale, sia dotato d’una efficacia pratica (vincente alla prova dei fatti) che spinge il genere Homo a interpretare in modo olistico il tutto dell’ambiente che esperimenta, ciò che lo porta, come accennato, alla sovra-interpretazione di tratti che sono, in sé e per sé, privi di significato, ma che, se legati a una codificazione che arriva a creare dei segni e dei sistemi segnici (v. infra), ecco che questi sistemi segnici possono intervenire nelle strategie operative che portano, da un lato, ai processi che originano la cultura materiale, cioè le modalità complesse di sostentamento (foraging) d’una collettività, e, dall’altro, sono in grado di modellare la produzione e la riproduzione sociale di questa stessa materialità che li sorregge; produzione/riproduzione sociale che in un dato decorso temporale è volta a garantire e perpetuare comportamenti dati e approvati, quali l’elaborazione di strutture rituali e mitiche (documentale da studi etnologici riguardanti la costruzione ecologica del sacro) che traducono l’omeostasi ecologica e la sua manutenzione nelle società di caccia e raccolta attraverso una specie d’isomorfismo tra tempo profano e tempo sacro, isomorfismo ch’è in grado di proiettare sull’ecosistema una rete di significati che permettono anche l’origine di sistemi di regole morali, travestite da credenze, il cui precipuo ruolo è quello di garantire e perpetuare comportamenti individuali/collettivi nell’uso sostenibile delle risorse ambientali e dove (stando all’etnolinguistica) anche il paesaggio è incorporato nelle strutture linguistiche in uso e, pertanto, nella trasmissione delle conoscenze; per quanto riguarda poi la definizione del termine segno, esso è dato da un significante materiale, in sé privo di significato, ch’è associato da un codice, e in un modo arbitrario, a un significato, laddove è poi il codice che produce un segno ch’è riconosciuto, condiviso e trasmissibile come sistema di segni, segnico, dalla collettività degli interpretanti, e ciò che qui interessa è che se la collettività degli interpretanti è data dai cacciatori-raccoglitori e il sistema segnico è il paesaggio, quest’ultimo è allora pensato, appropriato e vissuto in queste società come una matrice cognitiva con la forma d’un ipersegno (ch’è codificato a vari livelli, pratico, rituale, morale e sociale, tutti fra loro sempre compresenti in un dato momento storico) ch’è in grado di mettere ordine in un insieme di significanti materiali, cioè di strutturare ciò ch’è senza nome in una realtà ordinata dotata di senso, vale a dire di creare con il lavoro immateriale della mente una nicchia culturale che facilita il lavoro materiale; ora, il modello cognitivo che coinvolge la sopraddetta gestione dell’ambiente (di fatto la proiezione di reti sociali su delle reti neurali per arrivare a creare un dispositivo cervello-mente), cioè che permette con l’attività di foraggiamento la costruzione di una nicchia culturale da parte di queste società di caccia e raccolta, ha alla sua base anche delle strutture corticali, che svolgono ruoli distinti ma complementari nell’atto del riconoscimento del paesaggio, che coinvolgono l’attivazione di due aree corticali, l’area paraippocampale (Parahippocampal Place Area, PPA) e la corteccia retrospleniale (Retrosplenial Cortex, RSC), aree che presentano un ruolo centrale nella contestualizzazione dello sfondo visivo, vale a dire nel riconoscimento e nella memorizzazione dei luoghi; tanto che, per quanto riguarda il riconoscimento dei luoghi, queste strutture sono direttamente coinvolte nel discriminare visivamente nel paesaggio degli elementi che indichino la direzione da seguire per arrivare a una meta (per esempio, alla predazione), cioè l’orientamento spaziale (o wayfinding, traducibile come scoperta della direzione), così come intervengono, per quanto riguarda la memorizzazione dei luoghi, nella mappatura cognitiva (o cognitive mapping), ossia costruendo una rappresentazione mentale della realtà (del mondo esterno) attraverso una codificazione sommaria delle immagini dei luoghi soggetti a una fenomenologia venatoria (questo perché, per potere essere pragmaticamente utili, cioè riutilizzabili, queste mappe possono essere solo abbozzate), mappatura che però, all’uso, deve poi essere integrata di volta in volta; fatto salvo il ruolo dell’ippocampo (v. supra), ch’è una struttura cerebrale al centro d’un vasto sistema neurale che sottende la rappresentazione e l’uso delle informazioni riguardanti l’ambiente spaziale, nello specifico delle differenze funzionali fra le due citate aree corticali, l’area paraippocampale (PPA), che altro non è che una sottoregione della corteccia paraippocampale (che si trova medialmente nella parte inferiore della corteccia temporo-occipitale), è poi coinvolta in una percezione visiva statica, cioè nella codificazione (percettiva) della struttura spaziale dei luoghi conosciuti/sconosciuti, cioè al modo in cui sono disposte le parti del paesaggio (o layout) e probabilmente nella pianificazione dei percorsi (nei luoghi già mappati e di cui si recupera la mappa da integrare) ed è inoltre reattiva alle scene raffiguranti luoghi piuttosto che ad altri tipi di stimoli visivi, per esempio, a volti o oggetti; mentre la corteccia retrospleniale (RSC, cioè l’area della corteccia retrostante lo splenio, dove a sua volta lo splenio è l’estremità posteriore del corpo calloso, area ch’è situata tra la corteccia parietale e l’ippocampo), tra le altre funzionalità, elabora le caratteristiche permanenti o più stabili d’un ambiente e, in quanto mappa il conosciuto, ne diventa la memoria topografica a lungo termine, tanto che la sua attività varia in funzione del tipo di conoscenza spaziale recuperato (può, per esempio, trattarsi di posizione o d’orientamento; e per inciso, la risposta più forte della RSC si ha poi nel recupero della posizione da parte d’un soggetto); tutto un insieme che ci permette d’affermare che la costruzione d’una nicchia culturale ha alla sua base una costruzione di nicchia ecologica (come ipotizza la Niche Construction Theory, NCT, v. supra) che ne costituisce l’anteriore storico in quanto, come s’è cercato di mostrare (con ipotesi, va da sé, da approfondire e convalidare), è il sistema cognitivo che è stato direttamente modellato dal sistema ecologico, ragione per cui non è una modellizzazione sociale quella che determina le visioni del mondo (Weltanschauungen, v. supra) dei cacciatori-raccoglitori, ma è giusto la materialità imposta dalla modellizzazione ecologica (che traduce la sopravvivenza e la riproduzione dell’organismo) che imposta un modello culturale storicamente determinato nelle sue strategie cognitive, il tutto con l’iniziale complicità della prosocialità (legata ai neuroni di von Economo, VEN) che favorisce un’implementazione delle reti sociali da cui parte la processualità multifattoriale che s’è cercato sopra di spiegare.
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