#sono fragile sparo poesia
Explore tagged Tumblr posts
suamy-inoue · 1 year ago
Text
Tumblr media
La tortura di essere la vita
in una carne breve e sciagurata..
1 note · View note
portamiunasediaevattene · 7 years ago
Photo
Tumblr media
Guido Ceronetti - Sono fragile sparo poesia.
54 notes · View notes
pangeanews · 6 years ago
Text
“A cosa serve fare il dittatore quando uno ha famiglia?”: Dylan Thomas sfotteva Mussolini a teatro
Per prima cosa passarono da Milano, “città gigantesca, da incubo”, solo perché avevano perso i bagagli, poi giù verso la Riviera ligure, Rapallo, San Michele di Pagana, i paesi diventati una indelebile pagina delle letteratura inglese grazie a Ezra Pound, William Butler Yeats, Ernest Hemingway. Era aprile, era il 1947, quando Dylan Thomas, questa specie di Bacco malato, icona caravaggesca della poesia occidentale, questa specie di Rimbaud redivivo, folle&pingue, nato a Swansea, la città con il cigno sullo stemma, Galles, il brutto anatroccolo diventato il più grande poeta del dopoguerra, arrivò a Firenze.
*
Del fatidico ‘Giubbe Rosse’, dove s’affollavano i futuristi e Soffici brindava con Papini, Dylan Thomas, alieno ai bagliori dei club letterari, ricorda il tavolino. Lì sopra scrisse una delle tante, patetiche, lettere livide di lacrime alla moglie Caitlin, enormemente tradita (lei ricambiava, per altro, con godimento): “Posso solo dire che ti amo come non mai; questo significa che ti amo per sempre, con tutto il cuore e tutta l’anima, ma questa volta come un uomo che ti ha perso. Ti amerò. Davvero ti amo. Sei la donna più bella che sia mai vissuta”. Quando i poeti arrivavano a omaggiarlo, Dylan si nascondeva. “Qualche volta andava in centro a Firenze a passare una serata nei caffè. Attorno si radunavano gli intellettuali. Thomas fissava nel vuoto e si addormentava. Una fonte attendibile racconta che una volta si nascose nel guardaroba per evitare di incontrare uno scrittore italiano venuto a fargli visita” (Paul Ferris, in Dylan Thomas. Essere un poeta e vivere di astuzia e birra, Mattioli 1885, 2008).
*
Preferiva la compagnia di Luigi Berti, grande traduttore dall’inglese: si davano, insieme, a memorabili bevute. I poeti italiani erano noiosi già all’epoca, evidentemente. Eppure, Dylan Thomas, poeta puro, che depurò la poesia dall’eccesso culturale, riportandola alla sua natura formale e ferina, ha influenzato una bella fetta della lirica italiana. Eugenio Montale e Piero Bigongiari lo onorarono con le loro traduzioni (modeste quelle di Montale), uno dei grandi poeti di oggi, Alessandro Ceni, nasce ispirato da Dylan Thomas. D’altronde, anche Dylan ha un antico debito verso l’Italia.
*
Siamo nel 1932, o giù di lì, Dylan è un “ladro del fuoco”, direbbe Rimbaud – l’unico paragone decente – uno che ha il fuoco lirico dentro. Nel 1932 Dylan Thomas ha diciotto anni: l’anno successivo sarebbe sbarcato a Londra con una poesia in tasca, destinata a una fama infinita, And death shall have no dominion, che strapperà sospiri a Sua Maestà Lirica Thomas S. Eliot. Di lì a pochissimo, nel 1934, Dylan Thomas sorge alla poesia inglese con la prima raccolta, 18 Poems. Nei primi anni Trenta, giovanissimo, Dylan Thomas pratica il giornalismo (sul South Wales Daily Post) e fa teatro, presso il Little Theatre, con la sua amica Ethel Ross.
*
Precocissimo, uno sparo, va considerata la verve ‘teatrale’ di Dylan Thomas. Dal 1945 la BBC ingaggia Dylan per una serie di conversazioni radiofoniche: lui è un po’ druido, un po’ aedo, un po’ pagliaccio. Il 18 giugno del 1946 delinea il poeta così: “un poeta è poeta soltanto per una minuscola parte della sua vita; per il resto è un essere umano, e uno dei suoi doveri è di conoscere e di sentire quanto più è possibile tutto ciò che si muove intorno e dentro di lui, così che la sua poesia possa essere il suo tentativo d’esprimere il culmine dell’esperienza umana in questa nostra strana terra che ha tutta l’aria di voler andare all’inferno”.
*
La poesia, estremamente, è una attitudine, un Nord delle ossa, una postura. Poi, nell’eventualità, si scrive. Dylan Thomas ci insegna che, beh, si può vivere come poeti – affollati da una strana disperazione, da una straordinaria gioia.
*
Un pagina di “Lunch at Mussolini’s”, testo di Dylan Thomas del 1932, scoperto da Roberto Sanesi
Gli archivi di Ethel Ross, ora, sono al Swansea University Archives, ma fu Roberto Sanesi, supremo anglista e grande traduttore delle Poesie di Dylan Thomas (la prima fu nel 1953, per Guanda, aveva 23 anni…), a fare la scoperta. “Alla ricerca di testimonianze sugli anni giovanili di Dylan Thomas, nel 1958 incontrai a Swansea Ethel Ross, cognata del pittore Alfred Janes. Nel 1932, quando Miss Ross conobbe per la prima volta Dylan Thomas allo Swansea Little Theatre, il giovanissimo poeta era già un ‘veterano’ delle peripezie filodrammatiche di quel periodo di provinciali tentativi di revival nella piccola sala di tipo parrocchiale incastrata fra il mare e la collina a Southend, Mumbles”. Ethel mostra a Sanesi “tre fogli battuti a macchina”. Titolo: Lunch at Mussolini’s. Pranzo da Mussolini. Questa la testimonianza di Ethel: “Questo particolare sketch (Thomas) me lo diede per metterlo in scena al Little Theatre. A quel tempo ero io che di solito scrivevo degli sketches comici per i parties che si tenevano dopo ogni spettacolo; ma quello non venne mai rappresentato… Comunque, il testo l’ho ancora io”. Il testo viene pubblicato nel 1970 sulla rivista Il Dramma e riproposto nel 1972, da M’Arte Edizioni in Milano, in un libro artistico, stampato in 100 copie numerate, con silografie di Mino Maccari. Ora, per altro, è leggibile in un sito italiano dedicato a Thomas, con parecchi materiali interessanti.
*
Beh, pare una ‘chaplinata’, qualcosa tra l’atto buffo, la smorfia di Chaplin, l’esigenza comica dei Marx, lo sgorbio di Buster Keaton. Il Dux è un tipo assillato dalla famiglia, che brontola e che agisce d’impeto, come una bestia fragile, contro chi non la pensa come lui. Siamo negli anni Trenta, in Galles, e Benito Mussolini è osservato da un ragazzo di 18 anni con l’ossessione per la poesia e la fantasmagoria biblica in corpo. Il guizzo geniale mi pare proprio quello: guardare il Duce, di cui è nota la prorompente oratoria pubblica, nell’atto privato, incalzato dalla moglie sul cibo (conta soltanto quello e guai a dire che la cucina italiana è modesta), che si premura di sottolineare, niente aglio, per favore, perché “stasera devo tenere un discorso patriottico”, e quando ha l’indigestione scatena incidenti diplomatici e guerreschi. D’altronde, direi, si governa come si caga, il cervello è l’appendice dell’intestino. (d.b.)
***
“Pranzo da Mussolini”
Un atto unico di Dylan Thomas
La stanza da pranzo nella casa di Mussolini a Roma. Entra Mussolini. Indossa la sua uniforme più pittoresca e la migliore della sue espressioni inscrutabili. La famiglia scatta sull’attenti. Lui si siede. Loro si siedono.
MUSSOLINI (versandosi il caffè). Insomma, questo è troppo. L’acqua per la barba era fredda un’altra volta. Lo scaldabagno non funziona, e il bagno è in condizioni schifose. LA MOGLIE. Beh, ma cosa pretendi caro, se ci vuoi tenere una mitragliatrice? MUSSOLINI. Bisogna pure che mi difenda, no? LA MOGLIE. Ma non nella stanza da bagno, caro. MUSSOLINI. Bah! (Sbucciandosi una banana). E guarda questa banana, è marcia. Possibile che non vada mai bene niente in questo posto? LA MOGLIE (compiacente). No, caro. Spero ti sia ricordato di cambiarti la biancheria. MUSSOLINI. Certo. E di far prendere aria alla camicia. E di pulirmi i denti. E di lavarmi dietro le orecchie. IL FIGLIO. Perché papà s’è messo l’uniforme oggi? Deve andare a posare una prima pietra o a inaugurare una biblioteca pubblica? LA MOGLIE. Sta’ zitto, caro. Deve andare a farsi fotografare. MUSSOLINI (secco). Piantala, signorino. (Il ragazzo comincia a frignare. Le donne si guardano). LA MOGLIE. Benito! (Nessuna risposta) Benito! MUSSOLINI. Insomma, cosa c’è? Non ce l’ha un fazzoletto questo ragazzo? LA MOGLIE. Sì, caro. MUSSOLINI. E allora perché non lo adopera? (Il ragazzo ricomincia a frignare) Non lo vedi che sono occupato? Stasera ho un discorso importante. LA MOGLIE. Allora non ti dimenticare l’ombrello, caro, sembra che stia per piovere. MUSSOLINI. Bah! LA MOGLIE. A proposito del vestito nuovo di Edda… MUSSOLINI. E t’aspetti che mi metta a discutere d’una faccenda del genere? EDDA. Dovrò pure averne uno, no? MUSSOLINI. Non essere impertinente. LA MOGLIE. La bambina ha ragione. Se non facciamo alla svelta, perdiamo la svendita. MUSSOLINI. Vorrei sapere a cosa serve cercar di fare il dittatore quando uno ha famiglia. LA MOGLIE. Vorrei che tu non fossi così violento, caro. Quasi rompevi un piattino. MUSSOLINI. Ma come osa? Come osa? Io lo faccio fucilare. Lo faccio fare a pezzi. Lo faccio… LA MOGLIE. Qualcuno che non è d’accordo con te, caro? MUSSOLINI. Che non è d’accordo? Quell’infernale direttore di tutta ’sta porcheria ha avuto il coraggio di criticarmi. (Afferra il campanello). LA MOGLIE. No, un minuto caro. Non abbiamo ancora deciso cosa si mangia a pranzo. MUSSOLINI. Pranzo! Quando i destini dell’Impero tremano?… LA MOGLIE. Sì, caro. Non tornerai tardi anche oggi, eh? MUSSOLINI. Non lo so. Come faccio a saperlo. Perché? LA MOGLIE. Se continui ad arrivare in ritardo per i pasti non riusciremo mai a tenerci in casa una donna di servizio. MUSSOLINI. Mai sentita una cosa simile. Sei tu che ti devi imporre. LA MOGLIE. Sì, caro. Forse ti piacerebbe cominciare con la cuoca? MUSSOLINI (in fretta). Io… eh… certo che no. Ho già abbastanza da fare. (Suona  il campanello. Entra il segretario). IL SEGRETARIO. Eccellenza? MUSSOLINI (mostrando il giornale). L’avete visto? IL SEGRETARIO. Sì, Eccellenza. La polizia segreta l’ha arrestato un’ora fa. Vogliono sapere cosa gli devono fare. MUSSOLINI. Fare? Dobbiamo essere indulgenti. Era un vecchio amico di mio padre. Diciamo vent’anni di galera in una fortezza e un’ammenda di tre milioni. IL SEGRETARIO. Molto bene, Eccellenza. E c’è un’altra questione. MUSSOLINI. Un’altra? IL SEGRETARIO. Al Lido due tedeschi si sono lamentati della cucina dell’albergo. MUSSOLINI. Si sono lamentati della cucina italiana? È un insulto. Immediata rappresaglia con l’Ambasciatore tedesco. IL SEGRETARIO (si inchina e si ritira). Molto bene, Eccellenza. MUSSOLINI. Ecco come ci si deve comportare… Con fermezza. A fronte alta. È così che Napoleone… LA MOGLIE. Sì, caro. Ma cosa vorresti a pranzo? MUSSOLINI. Pranzo! Ma che importanza ha? Lo sai che non bado a cosa mangio. LA MOGLIE. Cosa ne diresti di un po’ di vermicelli, allora? MUSSOLINI. Assolutamente no. Li abbiamo mangiati lunedì. LA MOGLIE. Ma sono nutrienti, ti fanno bene, caro. MUSSOLINI. Ti ho detto niente vermicelli. Non facciamo che mangiare vermicelli. LA MOGLIE. Magari potresti pensare tu a qualcosa. IL FIGLIO. Maccheroni. EDDA. Ssssh! MUSSOLINI. Cosa vuoi dire, signorina? Ssssh? Suppongo di poter avere maccheroni se mi va di avere maccheroni, sì o no? LA MOGLIE. Sì, caro. Ma ricordati cos’è successo l’ultima volta che abbiamo mangiato maccheroni. MUSSOLINI. Eh? IL FIGLIO. Sì, papà. Ti sei preso l’indigestione e hai mandato la flotta contro la Grecia. MUSSOLINI. Come osi? Sai quanta gente è morta per avermi detto molto meno? LA MOGLIE. Sì, caro, ma si può sapere cosa vuoi a pranzo? MUSSOLINI. Te l’ho detto che non mi interessa. Basta che non ci sia l’aglio. Stasera devo tenere un discorso patriottico. LA MOGLIE. Vermicelli, allora? MUSSOLINI. Bah!
  L'articolo “A cosa serve fare il dittatore quando uno ha famiglia?”: Dylan Thomas sfotteva Mussolini a teatro proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2R1IdIo
1 note · View note
sminchio · 7 years ago
Photo
Tumblr media
Sono fragile, sparo poesia
3 notes · View notes
hungerkunstler · 12 years ago
Photo
Tumblr media
Guido Ceronetti - Sono fragile sparo poesia
0 notes
portamiunasediaevattene · 7 years ago
Photo
Tumblr media
Guido Ceronetti -  Sono fragile, sparo poesia.
272 notes · View notes
portamiunasediaevattene · 7 years ago
Photo
Tumblr media
Guido Ceronetti - Sono fragile sparo poesia.
27 notes · View notes
pangeanews · 4 years ago
Text
“È per la bellezza che mettiamo a rischio noi stessi”. Siamo esseri scagliati nel mondo da chissà quali lontananze: sul folgorante romanzo di Ocean Vuong
È folgorante, Brevemente risplendiamo sulla terra, On Earth We’re Briefly Gorgeous (edito in Italia da La Nave di Teseo), esordio narrativo di Ocean Vuong, pseudonimo di Vương Quốc Vinh. Nato in Vietnam nel 1988 e americano dal 1990, oggi vive a Northampton, nel Massachussets. La sua raccolta poetica Cielo notturno con fori d’uscita (Night Sky with Exit Wounds, 2016) è stata una rivelazione. Lui pubblica, tra l’altro, sul New Yorker e Harper’s.
Il romanzo è una lettera alla madre, che lei in realtà non leggerà mai: perché non sa leggere (“Ciao Ma’, ti scrivo per avvicinarmi a te, anche se ogni parola che butto giù è una parola in più che ci allontana”) e perché lei muore mentre il romanzo sta uscendo. Ma più che un romanzo, Brevemente risplendiamo sulla terra è un lungo inno lirico. Racconta la storia di nonna Lan e nonno Paul, il ragazzo americano “con gli occhi da cerbiatto”, di sua madre Rose e la zia Mai. Racconta con nostalgia e dolorante stupore di sé bambino – in casa lo chiamano Little Dog per scongiurare gli spiriti –, fino alla prima giovinezza, gli anni della scuola e la sopravvivenza difficile negli Stati Uniti. Racconta la passione per la lettura e vocazione alla scrittura, il primo lavoro, il primo amore e la scoperta della propria queerness.
Diario, confessione, romanzo storico – in sottofondo si sentono costantemente gli spari e le esplosioni di napalm della guerra in Vietnam, da cui nonna e madre fuggono ma che non riescono a dimenticare –, questa è anche la storia di una formazione. Vuong tesse uno struggente autoritratto, mette a nudo, offre e mescola corpo e interiorità, lo scorrere del sangue nelle vene confuso con il rosso del tramonto americano e le foglie degli aceri.
Alla fine, come nelle favole, l’eroe che si affida ciecamente alla notte, dalla notte uscirà ricompensato.
*
Il doppio centro del romanzo è la vicenda personale dell’autore e il desiderio, affilato come una lama, di fissarne gli ormeggi in una scrittura densa, straziante di poesia. Questa si colloca nel duplice alveo del Vietnam, paese distrutto e lasciato, le origini, la radice – “Quando finisce una guerra? Quando potrò pronunciare il tuo nome e fare in modo che combaci solo con il tuo nome e non con tutto ciò che ti sei lasciata alle spalle?” –, e insieme degli Stati Uniti, paese nuovo della possibilità di sopravvivere, straniero e spesso ostile per una famiglia di tre donne e un bambino immigrati vietnamiti, dono di vita ma anche crudeltà: “Che cos’è un paese se non una frase senza confini, una vita?”.
Ma in fondo siamo tutti, sottintende l’autore, sradicati senza terra, esseri scagliati nel mondo da chissà quali lontananze. E così, da personale, la sua storia diventa storia universale della ricerca di sé: “Può essere che scrivendo a te qui, così, io stia scrivendo a tutti, perché come ci può essere uno spazio sicuro, se il nome di un bambino può proteggerlo e ridurlo a essere un animale allo stesso tempo?”.
Tra questi due poli e due continenti s’incunea e nasce la vocazione alla scrittura, al racconto, la volontà di appropriarsi di una lingua in cui dipanare la fabula della vita americana, della seconda nascita: “Se siamo fortunati, la fine di una frase è dove possiamo cominciare. Se siamo fortunati, qualcosa viene trasmesso in avanti, un altro alfabeto scritto in sangue, muscolo e neuroni…”.
*
Il ricordo esige una lingua in cui raccontare il cammino verso l’affermazione di sé e la salvezza, il limite da superare di là dallo squallore del centro estetico in cui la madre lavora tutto il giorno, i relitti del passato vietnamita e le umiliazioni personali, il macigno da masticare nella sopraffazione dei compagni – “È stato allora che ho visto un lampo (…), la scintilla in realtà veniva da dentro la mia testa. Qualcuno mi aveva spiaccicato la faccia contro il vetro”.
All’ordito di una vita, l’autore intreccia la consapevolezza e l’inizio della ribellione interiore, muta ma inesorabile, con immagini stupende che ci feriscono e legano: “Ho iniziato a fissarmi i piedi, le scarpe che mi avevi comprato, quelle con le lucette rosse che lampeggiavano quando camminavo. (…) Prima ho scalciato piano, poi sempre più veloce. Le scarpette da ginnastica facevano scoppiare mute vampe: le ambulanze più piccole de mondo, dirette da nessuna parte”.
*
Quella di Vuong è prosa lirica grandiosa, illuminata costantemente di poesia come da fuochi dentro le parole, in cui niente è dato per scontato: “Ti chiedi mai se la tristezza e la felicità possano essere combinate fino a creare una sensazione viola profondo, non buono, non cattivo, ma memorabile e degno di nota solo perché così non sei costretta a stare solo da una parte o dall’altra?”.
L’istante perfora spesso la storia nei racconti di nonna Lan, fuggita dal primo marito che è stata costretta a sposare in un matrimonio combinato, in un paese in guerra dove per miracolo scampa la morte e i fucili militari, con una bambina in braccio – sua madre, il visetto piccolo come una pesca affondata tra le sue scapole: “quella volta in cui ha raccontato della tua nascita, dei soldati bianchi e americani stanziati su un cacciatorpediniere nella Baia di ha Long. Come Lan (…) aveva addosso il suo ao dai viola, i lembi del vestito con lo spacco fluttuanti dietro di lei sotto le luci al neon del bar, intanto che avanzava. (…) Come erano stati il suo corpo, quel vestito viola, a tenere in vita una giovane donna che viveva in una città in tempo di guerra per la prima volta da sola: Lan continuava a parlare … (…) nella sua storia avevo smarrito me stesso, coscienziosamente (…). Ero accanto a lei mentre il suo vestito viola ondeggiava nel bar fumoso, tra i vetri dei bicchieri che tintinnavano sopra l’odore dell’olio per i motori e dei sigari, della vodka e della polvere da sparo sulle uniformi dei soldati”.
*
Nonna Lan che – pur con la mente sconnessa, i pensieri confusi nella follia – gli confida di aver fatto la prostituta per i soldati americani, per provvedere a sé e alla sua bambina dopo la fuga. Lo racconta “con orgoglio spinato” e ricostruisce per lui il Vietnam dei suoi avi: “le tue parole erano pietre disposte una alla volta per formare un lunghissimo muro”. Nonna Lan che si dà un nome profumato, Lan – ‘orchidea’ – prima di andare incontro al proprio destino, spaccato a metà sul crinale della guerra, la morte tutto intorno: “A circondare il giovane soldato, la donna e la bambina è l’ostinazione verdeggiante del paesaggio, della terra. Ma quale terra? Quale confine che veniva attraversato e cancellato, diviso e riorganizzato? A ventotto anni, aveva dato alla luce una bambina che un giorno avrebbe avvolto in un pezzo di cielo rubato da una giornata luminosa”. Uno scialle blu in cui ha avvolto la bambina, l’unica sua proprietà.
*
Questo l’affresco corale del passato, “il lembo fragile della storia brutale”. Più vicino, l’altro affresco contemporaneo, quello americano: “È passato da poco il tramonto e nell’aria si sente il profumo dell’erba di bisonte e dei lillà spuntati tardi che spumeggiano di bianco e magenta lungo i giardini curati dei vicini”.
In mezzo la scrittura, il cammino, la vita che prende slancio: “Ma’, avrei voglia di dirti tante di quelle cose. Un tempo ero sufficientemente ingenuo da pensare che la conoscenza avrebbe chiarito le cose, m alcune di loro sono così velate da strati di sintassi e di semantica, da ore e da giorni, da nomi dimenticati, salvati e spellati, che la consapevolezza di una ferita non fa nulla per rivelarla. (…) Ma il mio dubbio è ovunque…”.
*
Destinataria e protagonista, la figura della madre domina il romanzo, ristruttura con la sua forza e resilienza le loro esistenze, riconfigura passato e presente. Anche lei sa raccontare, far volteggiare la fantasia davanti agli occhi del figlio. A un certo punto i due vanno sono in aereo, diretti in California: “stavi dando una seconda occasione a quell’uomo, a mio padre, anche se avevi il naso ancora rovinato per tutti i suoi schiaffi”. Un vuoto d’aria fa sobbalzare il bambino sul sedile, la cintura di sicurezza lo strattona: “Tu mi hai avvolto un braccio attorno alle spalle, ti sei accostata a me e il tuo peso ha assorbito il sobbalzare dell’aereo. Poi hai puntato il dito verso i cumuli di nuvole fuori dal finestrino e hai detto, ‘Quando saliamo così in alto le nuvole si trasformano in massi, in rocce durissime, ecco perché ti senti così’. Le tue labbra brucavano sul mio orecchio, la tua voce era calma, e io ho studiato le montagne gigantesche color granito che fendevano il cielo all’orizzonte. Per forza l’aereo tremava. Ci stavamo spostando tra le rocce, il nostro volo era la perseveranza sovrannaturale del paesaggio. (…) Con le leggi dell’universo fatte nuove, mi sono risistemato sul sedile a guardar fuori mentre ci aprivamo un varco tra una montagna dopo l’altra”.
*
L’elegia ha qui la voce materna, il colore di un anello di plastica da pochi soldi al posto della cena che sempre lei, Rose, non è riuscita a comprare perché in inglese non sa le parole. I ruoli si si sfaldano, l’identità s’inverte e nell’amore si ricompone, la differenza diventa coesione nuova: “La prima volta che ho cercato d’insegnarti a leggere come aveva fatto la maestra Callahan con me, posando le mie labbra sul tuo orecchio e la mia mano sulla tua, le parole si spostavano sotto le ombre che formavano io e te. Ma quel gesto (un figlio che insegna a una madre), rovesciava le nostre gerarchie e con le nostre gerarchie rovesciava le nostre identità che in America erano già tenui e impastoiate”.
Lei non imparerà. Inizia piuttosto a disegnare – la vista, afferma, è l’organo di Dio – e affolla la casa di disegni, quelli che i bambini piccoli ricoprono di colore, li appende per la casa, che “iniziava a somigliare all’aula di una classe elementare”. Perché quel che vuole è riempire i vuoti, colmare l’opacità: “‘Hai mai creato una scena’, mi hai chiesto mentre riempivi una casa (…), ‘e ti ci sei infilato dentro? Sei mai rimasto a osservarti di spalle, finché non ti sei visto sparire sempre di più in quel paesaggio, allontanandoti da te stesso?’ Come facevo a spiegarti che stavo descrivendo la scrittura? Come facevo a dirti che dopotutto io e te siamo vicini, che siamo le ombre delle nostre mani su due pagine diverse, pronte a confondersi?”.
*
“Il dubbio è ovunque”, in questo romanzo. E ovunque c’è, costante, la linea di contrappunto: l’essere fuggevole dell’umano, la sua nostalgia di bellezza malgrado la morte e la sofferenza – “è per la bellezza che mettiamo a rischio noi stessi”. C’è il tentativo sempre identico in ogni poeta, da Saffo a noi, di rendere un poco più stabile la precarietà della nostra vita, un poco più duraturo quel nostro essere fuggevole: “sto provando a credere nel paradiso… (…) In un mondo innumerevole come il nostro, lo sguardo è un gesto singolare: guardare qualcosa significa riempire tutta la propria vita con quella cosa, anche solo brevemente”.
Tutto per Vuong è circolare, come il tempo, come il vento. O il desiderio: “Dicono che se vuoi qualcosa così tanto, alla fine trasformerai quella cosa in un dio”. Ma desiderare tanto qualcosa – o qualcuno – significa anche trasformarla in una preda, e noi stessi in cacciatori d’istanti: “Penso a quella volta che io e Trev siamo saliti sul tetto del capanno degli attrezzi, a osservare il sole che affondava. Non ero rimasto tanto sorpreso dal suo effetto né da come, in pochi minuti che collassavano su se stessi, il sole cambiasse il modo in cui si vedono le cose o ci vediamo noi, quanto dalla possibilità che io potessi vederlo, quel sole. Perché il tramonto, come la sopravvivenza, esiste solo nel momento in cui sta per sparire”.
Così il silenzio e l’oblio esistono per essere contraddetti. E disintegrati da romanzi come questo.
Paola Tonussi
*In copertina: Ocean Vuong (l’immagine è tratta da qui)
L'articolo “È per la bellezza che mettiamo a rischio noi stessi”. Siamo esseri scagliati nel mondo da chissà quali lontananze: sul folgorante romanzo di Ocean Vuong proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2MNpWhg
0 notes
pangeanews · 6 years ago
Text
“Di questo ho bisogno, di questo sparo in faccia, di questo sparo di luce al centro del cervello”: sulla Medusa di Tiziana Cera Rosco
Andrebbe letta, la poesia di Tiziana Cera Rosco, dove la parola s’intaglia in atto, facendo l’elenco maschio di un bestiario. Di bestie, un reziario di miti, una tenda letale che ospita lupi e re, Bucefalo e occhi, Rilke e chiamate, catastrofi e Kafka, Nietzsche e smagliature, è piena la sua azione lirica. Da Calco dei tuoi arti (2002) a Il compito (2008), Dio il Macedone (2009), Anatomia del Solo (2013), Corpo finale (2018), la poesia di TCR si strappa dall’atto pubblico, editoriale, per ossificarsi in una questione intima, di allucinata docenza, che chiama al vissuto più che alla lettura e al salotto. La rarità di TCR è nella sostanza, la medesima, con cui compone gesto verbale e statura artistica (sue opere le vedete, fino al 5 maggio, al Palazzo Visconteo di Abbiategrasso nell’ambito della mostra “Ardeat Corpus”). Tiziana, pure in questo testo, Medusa, pronunciato a Fonte Avellana, il monastero fondato da san Romualdo ed esaltato da san Pier Damiani, nell’ambito del Convegno nazionale “Le voci di dentro”, incenerisce il mito, ne conserva l’osso primordiale, il diamante crudo, nero, e di lì alza l’azione scenica, che è sapienza. Nell’era pietrificata, di Medusa sorprende l’eccezionale innocenza, l’attitudine alle attese, il terrore che sana. Medusa è la guardia, guarda lei perché tu non debba guardare – né guardarla – è a guardia dell’attimo prima, prima che nulla possa più essere accettato e accessibile, ma soltanto acceso e subito. Queste le note di TCR al suo lavoro: “Il nome di Medusa in greco vuol dire Guardiana, Protettrice. Eppure non fu in grado di proteggere se stessa, neanche ad abuso compiuto, un’ambiguità sinistra d avere in se stessa la forza che l’aveva brutalizzata, che si portasse questa cosa come destino. E quindi che fosse corresponsabile e per questo responsabile di una parte del perdono che la comprensione dei fatti richiede come dazio. Esiste qualcosa di più tragico?”. Non c’è mai agitazione, ma agnizione, soppesata in presunta profezia, nella poesia di TCR, che qui pubblico, in parte, pur slegata dalla sua voce, di per sé già benedetta. (d.b.) ***
Poi anche nel buio il mio sguardo Vorrebbe ancora toccare gli occhi di qualcuno La pupilla che il battito inumidisce per l’abbassarsi di una luce Come se da sotto le porte dovesse avanzare La presenza di chi può reggere col fiato una pietra Un’ intimità che l’iride distende dallo spirito Un’intimità che si fa largo da sotto le porte della casa Nella luce bassa di un rifugio E che fa dormire chi deve solo chiudere con la notte. Mentre nel buio il mio sguardo Vorrebbe toccare solo quello di un amore Perché gli occhi vedono tutto E tutto si regge negli occhi Gli occhi che cercano un posto nel quale distendere Un palpito che confessi che siamo tutti innocenti Non abbastanza guardati Non guardati dal profondo di qualcosa che ci liberi Che così segreto quel qualcosa compare a volte in forma di mostro Solo perché dalla nascita Batte il suo destino sulla porta aperta della morte E lì gli occhi ancora cercano nel buio Uno sguardo di radiazione, un corpo intero Un’iride che perforandoci getta sonde al di là dell’essere In quella estremissima possibilità di guardarsi Quella estremissima possibilità di tenere non nascosto Il nostro corpo totale così esposto All’abbandono integralmente. Vedi, Perseo, tu non capisci. Le varie forme dei viventi e delle interiorità Persino dio si tiene sulla possibilità di guardare ed essere guardati. Perché non c’è niente di più fragile che gli occhi Gli occhi stanno aperti pure dopo morti Chiaramente non capisci Perché quella volta si distrussero tre cose sotto magnitudo Poseidone forse sapeva solo che potevo essere guardata tutta Tranne lì Presa in tutta la bellezza Tranne lì Accarezzata, toccata, dischiusa perforata inondata Solo tenendo fede al non aprire mai i suoi occhi sul vivo di quelli miei Perché tutto quello Che entra non appena le palpebre levano i forzieri Se non stai attento, anche se sei un dio, può pietrificarti. Forse ti hanno detto che esistevo prima di così come mi vedi ora Che tra le sorelle ero indiscutibilmente la più bella La più passibile ad essere guardata Forte di una virtù mia, tutta mia Una virtù che cresceva con me, si emancipava negli anni Non una cosa che sta lì come una statua Una virtù della mente che analizzava i composti del duro e dell’aereo Intendo negli uomini Mentre le mie sorelle avevano si ognuna il suo talento Un talento, non so come dirti, nato già adulto Anzi, non nato e mai moribile Mai vulnerabile come il mio Senza quel tempo che sottende che la vita Scappa come un animale che si consuma mentre arde. Loro no ma io, Perseo, io sentivo il tempo Già da piccola nella crescita portentosa dei capelli Che muovendosi estendevano le percezioni del trascorrere Io vivevo il tempo con me, il montare dei fiumi con me, Percorrere, attendere il mare davanti Mentre dovevo recuperare i miei capelli che come anguille Si tuffavano nel mare e annodavano ai fondali il loro destino Tanto che a volte le miei mani Come se avessero artigli li tranciavano in blocco Perché non era più possibile snodarli. Io vengo dal mare, dai miei genitori pieni di fondi Sempre più lontani eppure giovanissimi anche loro In una cristallina misura di età eterna Solo io invecchiavo, Essere Umana Perché essere umani, Perseo, è un destino Un destino Come essere un’arma, o un sole Una conseguenza enorme E il destino umano è una virtù sinistra Accettare di uccidere e di essere uccisi Accettare di non essere solo il migliore dei tuoi ieri Accettare che l’amore è una misura d’abbandono E che la vendetta piange i suoi bambini dentro l’utero dei violentati. Questo un dio non può saperlo Morire Si muore quando non si è guardati a sufficienza Ci si spegne, senza grido Senza una parola che sollevi un isolamento privo di risonanze Ma io in cuor mio ho sempre saputo che sarei scomparsa in un amore estremo In un rapimento, qualcosa che dalle acque presagiva il violento Come se la dimensione alare di un uccello Potesse farmi spiccare un volo da ferma Un’accelerazione terremotale Mi sono detta: di questo ho bisogno Di questo sparo in faccia Di questo sparo di luce al centro del cervello Perché se è vero che ogni donna è una visione delle acque e lui ne era il dio Ogni donna è l’attesa di un’inondazione Che viene a bonificare le cose minime, a sodomizzare il poco A fecondare con una massa crudele il seme candido di un bene d’ alabastro Che anneghi, che sia più potente Di quella dominazione della mente che blocca tutto l’universo!
Tiziana Cera Rosco
L'articolo “Di questo ho bisogno, di questo sparo in faccia, di questo sparo di luce al centro del cervello”: sulla Medusa di Tiziana Cera Rosco proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2UXGWDf
0 notes
pangeanews · 7 years ago
Text
Faruk Sehić: “Lo scrittore deve sputare in faccia alla Storia. Dopo aver narrato la guerra, ora racconto l’amore post-apocalittico”
Faccia dura, occhi liquidi, che purificano il dolore. Quanta morte hai visto, amico mio?, viene da chiedergli. La storia della letteratura occidentale comincia con la parola menin, che significa ira, con l’assedio alla città di Troia, con la guerra e con la morte. Proprio così, con impeto omerico, con sguardo epico e psichedelico (“La sera, quando cadono le Leonidi, nella pioggia di meteore si nascondono i profughi di ritorno alle loro case terrestri. La vita si ripete nella sua semplicità, piena di piccole abitudini e rituali umani”), Faruk Sehić (nella foto di Srdan Veljović) ha raccontato la Guerra in Bosnia. Lui c’era. C’era, il poeta, nell’impeto della battaglia. Classe 1970, a 22 anni Faruk studia veterinaria a Zagabria. La guerra scoppia. Lui interrompe gli studi. Si arma, lotta nell’esercito della Bosnia ed Erzegovina. Comanda una unità di 130 uomini. Vede la morte. Uccide. Forse. “La guerra non è un balletto”, ripete, incessantemente, da Sarajevo, “l’unica città dove posso vivere”, ad ammirare quotidianamente la disgregazione della fu Jugoslavia. Knjiga o Uni, pubblicato nel 2011, viene onorato con l’European Union Prize for Literature e viene tradotto nel resto dell’Occidente. In Italia arriva quest’anno, come Il mio fiume (pp.206, euro 16,00), per l’editore Mimesis. Il libro è mirabile, riduce gli esercizi romanzeschi italiani odierni, quasi tutti, a sociologia applicata al precariato, li retrodata, cioè, al nulla. Alla ferocia, esasperata (“Ho trasformato corpi vivi in ombre, anzi in ombre di farfalle notturne, cioè nulla. Io sono un poeta e un combattente e nell’anima un monaco sufi”), si assemblano passi lirici (che riguardano la Jugoslavia pre-bellica, con l’idillio della vita intorno al fiume Una, che scorre tra Croazia e Bosnia) e micidiali bordate all’ideologia capitalista (“Avviliti, camminerete per i centri commerciali con le spalle curve e i culi unti, bramando i corpi delle sirene affissi sui cartelloni olografici. Vogliono indurvi all’oblio. Vi devitalizzano… Ho detto addio alla depressione neoliberista. I miei demoni non abitano il mondo di oggi. Vi offriranno come modelli il progresso e il benessere di nazioni rigorosamente controllate e voi pagherete con l’oblio”). Insomma. Lo scrittore ha fegato, è bravo, intriso di poesia che fa male, fa quello che la letteratura ha sempre fatto. Dire la guerra, ragionare sulla morte, regnare sulla morte fino a quell’osso estremo, simile a un’alba, che ci fa invocare gli immortali.
Il titolo del suo romanzo ricorda la poesia più nota di Giuseppe Ungaretti, I fiumi. Lei, d’altronde, si poeta. Ungaretti ha scritto poesie in trincea, è un poeta soldato: ha avuto una qualche influenza sulla sua opera?
“Il titolo è stato scelto dal mio editore. Non è possible tradurre il titolo del mio romanzo dal bosniaco all’italiano. Tuttavia, ho letto Ungaretti e Quasimodo, adoro la poesia di Ungaretti, I fiumi: l’ultimo libro che ho scritto si intitola I miei fiumi e cita alcuni brani della poesia di Ungaretti. Riconosco me stesso in quel poema: sono stato un soldato anche io, come lui è stato un soldato durante la Prima Guerra mondiale. Non c’è nulla di più potente nella letteratura come quando capisci che qualcuno, prima di te, ha provato le tue stesse sensazioni. Ungaretti mi ha aiutato a dare forma al mio mondo letterario, come Apollinaire, e altri”.
Lei ha scritto un romanzo lirico e psichedelico, feroce ed efficace. Non ha scritto una ‘testimonianza’, ma una specie di delirio verbale. Quali scrittori legge? Da quail scritture è stato influenzato?
“Tanti scrittori – e non solo scrittori – hanno avuto un forte impatto sul mio lavoro. Amo T. S. Eliot, Apollinaire, Gabriel Garcia Marquez, Seamus Heaney, Zbigniew Herbert, Czeslaw Milosz, Jorge Luis Borges, Bruno Schulz, David Bowie, Lou Reed, e tanti altri. Mentre scrivevo il romanzo, leggevo Gaston Bachelard, Bruno Schulz, Ralph Waldo Emerson, Borges. Il mio libro ‘sacro’ è una raccolte di poesie di Borges. Ho trovato quel libro nell’estate del 1992, in un appartamento vuoto nella mia città, durante i primi giorni di guerra. Quello era un vecchio edificio austroungarico, che ha preso fuoco pochi giorni dopo che ho trovato il libro di Borges. Conservo quel libro. Mi ricorda quanto è fragile la materia, la materia umana, vivente, e la materia non vivente. Il mio libro può essere una testimonianza, perché no? È una finzione, ma molti lettori pensano che il mio libro sia più autobiografico che una fiction, la verità sta fuori, come una serie tivù di X-Files”.
In un passo del libro scrive, “ho ucciso solo perché volevo sopravvivere al Caos”. Lei ha partecipato alla guerra nella ex Jugoslavia. Cos’è la guerra? Ha ucciso qualcuno?
“Sì, ho partecipato alla ‘nostra��� guerra. Non avevo altra scelta. Immagina la situazione in cui uno con gli occhi azzurri viene nel tuo appartamento e ti dice: ‘tu sei un cittadino dagli occhi verdi, devi lasciare questa parte della città perché questa parte della città appartiene ai cittadini dagli occhi azzurri’. Se non obbedisci, ti uccidono o ti portano in un campo di concentramento. Così, mi sono armato per difendere me stesso, la mia strada, la mia città, il mio diritto a essere uguale ai cittadini con gli occhi azzurri. Nessuno vuole essere un cittadino di secondo piano. Loro, i membri del partito democratico serbo di Radovan Karadzic, avevano tutte le armi del mondo, e loro, non tutta la popolazione serba, volevano prendere parte del mio paese e portarlo nella Grande Serbia. Ma questo è stato impossibile perché noi abbiamo combattuto, pur non avendo nulla di comparabile al loro potere militare. Ma noi abbiamo combattuto per quasi 4 anni. E fu una guerra eroica, per diverse ragioni più eroica dell’OLP che ha combattuto contro le forze israeliane nel XX secolo. Ma noi non ci siamo fatti vanto della nostra guerra come fanno molte altre nazioni. Ho combattuto corpo a corpo (in quel tipo di battaglia tutto accade in pochissimi secondi, non hai tempo di pensare, devi solo reagire istintivamente), forse ho ucciso qualche soldato nemico, la guerra non è un balletto”.
Con la recente condanna di Ratko Mladic lei ritiene che l’agonia dell’ex Jugoslavia sia davvero finita? Dove vive oggi? Come vive?
“Vivo a Sarajevo, la sola città della Bosnia dove posso vivere. Eppure Sarajevo è solo l’ombra del suo passato. Faccio il giornalista e lo scrittore. Lotto per vivere ogni giorno come la maggior parte della nostra gente. L’agonia non è finita, noi continuiamo a disgregarci, la Jugoslavia continua a decomporsi”.
Nel suo libro scrive: “Quello che so per certo è che tutto si ripete: la storia si ripete, le nazioni-mattatoio si ripetono”. Questa è la sua idea di Storia? Cosa può fare un poeta al cospetto della Storia?
“No, quella non è la mia idea di Storia; sfortunatamente è la nostra Storia. Io non sono uno storico. I miei libri possono dare un piccolo conforto, ma non salvano nessuno. Il poeta, l’artista, può sputare in faccia alla Storia, può creare un mondo parallelo, una ‘storia’ parallela senza guerre, distruzioni di massa, uccisioni di gente innocente etc. L’umanesimo è molto importante per me, non m’interessa la letteratura come intrattenimento, non compro la merda americana”.
Che idea ha del mondo comunista? E del capitalismo? Nel suo libro esprime critiche verso entrambe le ideologie.
“La Jugolsavia di Tito è stata l’età d’oro delle nazioni slave del sud. Non abbiamo mai abuto uno stato così grande: questi piccoli paesi creati dopo la distruzione della Jugoslavia non sono reali, non sono neanche una ‘repubblica delle banane’. Bosnia, Croazia, Serbia, Montenegro… io non credo in questi stati. Metaforicamente parlando, questa mi pare una soluzione provvisoria creata per poche persone che vogliono fare un mucchio di miliardi in una sola notte. Rispetto le idee del comunismo: il comunismo jugoslavo, intendo, odio e disprezzo lo stalinismo, il nostro comunismo non ha nulla del comunismo russo. Il capitalismo, come ha detto Marx, è l’oppio per le masse.
E ora? Cosa sta scrivendo?
“A un romanzo che si intitola Cinnamon Letters, parla dell’amore in un tempo post-apocalittico”.
*
Per gentile concessione pubblichiamo un brandello da Il mio fiume (Mimesis, 2017)
I giornalisti saccenti, gli esperti che sanno tutto, dicono: è questione di forza maggiore, degli indubbi squilibri tettonici della Storia, dei buchi bianchi presenti nella nebbiolina di Asterion, il dio dei fiumi, del traballante sottospazio presente nella nostra materia grigia, del collasso dell’ultima utopia del Ventesimo secolo, eccetera. Il muro di Berlino ci era crollato addosso, perciò era il caso che del sangue venisse versato da qualche parte. Solo che io non ero una monetina nel regolamento dei conti delle forze cosmiche. In quanto uomo reale, una personalità formata, avevo un compito privato: la sopravvivenza fisica. Perché dovrei credere a chi non ha mai sentito sulla pelle il puzzo della polvere da sparo che nessun detergente può eliminare, se è lui stesso a non credermi? Se dovevo fare qualcosa, l’ho fatto: ho preso il mio destino in mano e non ho aspettato che qualcuno mi bussasse alla porta e mi portasse, stordito dal sonno, davanti a una fossa umida per essere fucilato. La passività si è sempre pagata con la vita e io avevo voglia di vivere. A quel tempo non mi ricordavo dell’anziana padrona di casa di Sveta Klara nella periferia di Zagabria, Katica Cvetko, un donnone originario di Zagorje che nel 1990 aveva detto a me e al mio coinquilino: «In Bosnia i serbi vi sgozzeranno tutti». Cosa potevamo capire allora noi lavoratori dalle mani delicate, innamorati del cinema e della letteratura?
Post scriptum: gli analisti difficilmente comprendono la lotta per la sopravvivenza, perché amano occuparsi di metafore illeggibili e interpretare il destino attraverso i processi globali, eventi di cruciale importanza ma fasulli che mai potranno spiegare la sostanza delle cose: i massacri, la crudeltà, lo stridore dei cingoli del T-55 che anche se lontano due chilometri in linea d’aria vi raggela il sangue. Non ho intenzione di snocciolarvi le affascinanti immagini dell’orrore di cui sono stato testimone: richiederebbero un libro grosso almeno il doppio di questo e il risultato sarebbe lo stesso: chi non capisce che se ne stia nel beato buio dell’ignoranza. La mia biografia è una sequenza di casualità: molte le ho scelte io, mentre altre hanno scelto me. Alla fine, se potessi spiegare tutto a me stesso, scaverei una fossa e mi ci sdraierei vivo, perché la vita non ha senso. La mia biografia è sangue e carne, non entertainment. Io sono da qualche parte nel mezzo. Io sono uno, ma siamo migliaia. Indistruttibili e spezzati.
Faruk Sehić
    L'articolo Faruk Sehić: “Lo scrittore deve sputare in faccia alla Storia. Dopo aver narrato la guerra, ora racconto l’amore post-apocalittico” proviene da Pangea.
from pangea.news http://ift.tt/2j0DZ4m
1 note · View note