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Something. Somewhere. Sometime. Someone. Predarubia. 8 Settembre 2017. One day.
Una canzone è come una macchina del tempo... Questo è uno dei tanti incipit che, non approdando a niente, ho cancellato. Con uno sforzo di fantasia si può immaginare il resto di questo inizio che lascio a memoria degli altri che ho eliminato. Credo che si debba scrivere per una ragione e non possa essere un esercizio fine a se stesso. Qualcuno identifica questa ragione in una urgenza comunicativa, ma sono tutte cazzate, siamo vittime di un romanticismo esasperato. Qualcuno muore, si innamora, scoppia una guerra, perde un amico, il treno. Non importa quello che accade, ciò che conta è che c’è qualcosa da raccontare, c’è una storia da narrare. Ed è inevitabile per chi si trova perennemente invaghito del bisogno di raccontare, in qualsiasi sua forma, di aver voglia di farlo. Racconto perché mi va, scrivo perché ne ho voglia, nient’altro. “Non posso farne a meno, devo rispondere a quell’urgenza.” Bello, fosse vero. Ma chi ve lo ha chiesto? Immagino qualcuno camminare per strada ed inciampare cadendo rovinosamente a terra. Voi lì pronti a soccorre il malcapitato ed arriva qualcuno di corsa tutto trafelato. Vi corre incontro urlando ”Presto, presto. Vai a scriverci un articolo, un romanzo, una canzone. Non perder tempo.” Non vi resta che abbandonare il malcapitato al suo destino e correre verso la macchina da scrivere, imbracciare la prima chitarra a tiro, sedere al pianoforte. Sì lo so è molto forzato e paradossale, ma ugualmente quell’urgenza mi pare una grossa cazzata. Non è solo una frase fatta, è il segno inequivocabile che di vero non c’è niente, quasi un segnale convenzionale messo lì appositamente per darti l’opportunità di non essere ulteriormente ingannato. Non è la parola in se che ti avvisa, perché in altre situazioni, in contesti differenti, non ti fa mettere in dubbio ciò che segue. “Scusa, mi puoi indicare la toilette, devo andare urgentemente al bagno.” Nessun campanello d’allarme, sei pronto a credergli ed indicargli il luogo dove espletare quell’urgenza, che sai essere sempre in fondo a destra. Lo diceva Gaber e non puoi non credergli. Ma se alla domanda del giornalista che chiede cosa vi ha spinto ad iniziare a scrivere canzoni si risponde “nasce dall’urgenza...” è inutile proseguire nella lettura ed ancor più inutile andarvi a cercare quelle canzoni che sono nate sotto quella spinta, perché di vero non troverete niente. Serve una ragione per scrivere, ed è una ragione che asseconda un solo ed unico bisogno: la voglia di farlo. Ma non basta, perché se non c’è verità, questa ragione viene a mancare. A questo punto possono essersi verificate 3 situazioni. La prima è che io abbia cancellato l’ennesimo inutile incipit che non è approdato a nulla, in quel caso queste parole non esistono e non le state leggendo. La seconda è che non abbia cancellato niente, ma dopo poche righe vi siate giustamente rotti il cazzo e pertanto queste parole e quelle che seguono è come se non esistessero. La terza è che siate arrivati fin qui, ed io in quel caso vi devo una ragione e la verità. La ragione è che per mantenere il social vivo devo necessariamente pubblicare qualcosa. Potrei pubblicare la foto di noi 4 al bar mentre ci gustiamo un cappuccino, oppure mentre peliamo le patate o facciamo la spesa. Chiaramente in molti lo fanno, ma un conto è postare la propria giornata per farlo sapere ai nostri amici e parenti, per dire loro che eravamo in quel posto e sentirci rispondere che, la prossima volta, se possono, ci verrano anche loro. L’altro è di fare altrettanto su una pagina che è li al solo scopo di far conoscere la nostra musica e ciò che è strettamente connesso ad essa. Lo so che Gianni Morandi lo fa con molto successo e che molti altri, molto meno noti di lui, fanno altrettanto. Ma a dirla tutta a me di Gianni che fa la spesa non frega un cazzo e mi sorprende che interessi a qualcuno. Mi sorprende ancor di più che un perfetto sconosciuto, con una pagina simile alla nostra, mi racconti cosa sta mangiando e che debba scorrere un bel pò la sua pagina per capire se sia un cantante, un ballerino, uno scrittore, un clown. La verità è che non mi va di farlo tanto per farlo, non mi va di pubblicare qualcosa al solo scopo di mantenere vivo il social. La verità è che avrei voglia di parlare delle nuove canzoni, del nuovo album, ma non si può parlare di canzoni che solo in pochi, al momento, hanno potuto sentire. La verità è che avrei voluto parlarvi di One day, perché è una delle poche di Somewhere Boulevard di cui non ho ancora scritto sul blog. La verità è che per quanto avrei voluto non ho un cazzo da dirvi al riguardo, perché Simone Gazzola, che ha diretto il video di One day, mi ha derubato di tutte le immagini che avevo in testa quando ho scritto il brano, sostituendole con quelle che ha lui girato. La verità è che se ora penso a One day penso a quel cazzo di VW arancione, penso alla neve ed al freddo di quei giorni. Penso a Simone sdraiato nella neve che ci riprende. Penso a Marco che si imbosca in cerca di tepore, a Simone che ci parla convinto di averlo ancora al suo fianco. Penso al freddo, all’odore del VW, alle lunghe ore di ripresa, al mal di schiena che avevo, a Simone che dice “buona” e subito dopo “ne farei un’altra” e poi un’altra ancora, ed un altra ancora. Penso alla bellezza di stare insieme con l’unica ragione della musica, alla voglia di raccontare quella bellezza, a sentire che non appartiene più solo a noi 4, ma che anche Simone e Marco ne fanno parte. La verità è che raccontarlo non ha senso, perché tutto questo è nel video, potete vederlo e le mie parole non aggiungerebbero niente. E se non riuscite a vederlo, allora cosa potrei mai dire per riuscire a mostrarvelo? La verità è che Simone si è preso ogni immagine che avevo tranne questa con le parole che l’accompagnano. La verità sta tutta nell’immagine, nelle parole. La verità è che avrei potuto parlarvi di questo e dirvi di chi sono gli occhi, di quale città siano le luci e quale tempo mi sia stato promesso. La verità...One day or another Giuseppe Pocai Per ascoltare la canzone: https://itunes.apple.com/it/album/one-day/1273723314?i=1273723426 Per vedere il video: https://youtu.be/-ILrVG0buSE
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Reflection on Washington Street, DUMBO, Brooklyn. © Guillaume Gaudet Predarubia. 8 Settembre 2017. The waiting song
Somewhere Boulevard avrebbe potuto avere un altro titolo. Lo ha avuto per un breve periodo ed ha avuto in quei giorni una bozza di copertina diversa. Questa è stata la prima foto usata per illustrare agli altri l’idea che avevo in mente. Ne sono seguite altre di strade meno conosciute di questa, strade deserte ed isolate. Strade più facili da trovare a km 0, senza il bisogno di dover prendere un aereo e volare a New York al solo scopo di eseguire uno scatto simile a questo. Sapendo che non avrebbe avuto senso farlo, ma con la segreta speranza che volare fino a New York per eseguire la foto di copertina di un album non resti tra le cose impossibili da fare. Volendo avremmo potuto volare fino a lì, ma sarebbe stato solo un capriccio reso possibile dal proprio lavoro, dai propri risparmi. Questo è un viaggio che ha senso solo se è la musica a renderlo possibile. Il primo titolo a cui ho pensato è stato Puddles and wheels, mi sembrava perfetto e per certi versi lo era, lo è tuttora. Cercavo di capire cosa unisse tutte le canzoni tra loro, cosa le rendesse parte dello stesso racconto. La sensazione che provavo scrivendo i brani di Somewhere Boulevard è la stessa che ho provato adesso con il nostro secondo lavoro. Ogni canzone sembra una storia a sé, però nasce nello spazio che quelle precedenti hanno lasciato, nasce proseguendo la narrazione che le altre hanno tessuto, consapevoli di quanto già detto, di quanto ancora da dire. Somewhere Boulevard non è un contenitore, non è la raccolta delle migliori 11 canzoni scritte in quel periodo. Somewhere Boulevard è un romanzo ed ogni canzone ne è un capitolo. Quando ho scritto Rip ho sentito che era l’ultimo capitolo, che Rip aveva messo fine alla narrazione, che eravamo pronti ad andare in studio. In quel momento mi è stato subito chiaro cosa fosse per tutti noi Somewhere Boulevard. Era il nostro modo di essere felici, nell’unico modo in cui la felicità è reale e piena, quando è condivisa.
“Happiness is only real when shared” sono le parole che, nel bellissimo film di Sean Penn, Christopher McCandless scrive poco prima di morire. Tutto il film vive nell’attesa di quelle parole, assume senso nell’istante stesso in cui vengono vergate. Talmente importanti e vere da doverle in qualche modo inserire nel disco. Se ascoltaste Intermezzo al contrario me le sentireste cantare. Ho sempre sentito la musica come la via per essere felice, ma non l’ho mai concepita come qualcosa da fare in solitaria, ho sempre e solo suonato in una band, trovando che solo quello per me era la maniera di essere autenticamente felice. Non c’è felicità se non è condivisa e scrivere i brani avrebbe significato molto poco se non avessi potuto condividerli con i miei compagni di viaggio, se non avessi potuto sentire, ora dopo ora, in sala prove, quei brani smettere di essere solo miei e divenire nostri. E’ la stessa felicità che si compie solo nella condivisione che ti porta a registrare un disco e a volerlo fare sentire a tutti.
Ma cosa centra Puddles and wheel con la felicità? Forse la domanda vera è perché poi abbiamo scelto Somewhere Boulevard, ma questa è un’altra storia. La felicità sono 2 flashback ed un verso di The waiting song
Flashback #1 Ci sono io, molto piccolo. Sono in Scozia e devo avere forse 3 anni. Ha appena smesso di piovere ed io giro sul triciclo fendendo le pozzanghere, ed il sole, che lì si vede poco, taglia le nuvole rendendo quell’acqua uno specchio. Ci sono solo io, il triciclo e le pozzanghere. E’ solo un piazzale con vista lago, che ospita un fish and chips, un distributore ed un piccolo supermercato. C’è il cottage dove vivo, nient’altro, ma è tutto il mio mondo. Ci sono solo io, il triciclo e le pozzanghere. Vado avanti a pedalare, compiendo un giro ampio per poter lanciare il triciclo attraverso la pozzanghera più grande, alzando le gambe nel momento in cui vi entro per non bagnarmi i piedi, guardando le onde che si formano cancellare per un istante il riflesso del cielo. Non so cosa pensassi, ma sono certo che ero felice e che essere felici fosse una condizione costante ed immutabile. Ci sono solo io, il triciclo e le ruote che girano tra arcobaleni di benzina e pozzanghere di cielo. Flashback #2 Avanti veloce, vent'anni e più dopo. Siamo in Francia, è appena trascorsa, ormai al termine, la settimana più bella della mia vita. Siamo lì come musicisti, nient'altro. Si viaggia leggeri, solo gli strumenti. L'ultimo giorno andiamo sull'Atlantico. La sera prima, quella del concerto, ha piovuto tantissimo. Ci fermiamo lungo questa strada che si perde all'orrizonte, e la strada è così, esattamente come vent’anni prima: piena di pozzanghere. C'è una luce magnifica, ed il mondo sopra si riflette in quello sotto. Ed io sono nuovamente felice e penso che, anche se dura un istante o una settimana, la felicità quando arriva ti appare sempre costante ed immutabile. The waiting song Avanti ancor più veloce. Sono nella canzone, le parole sono immagini vive, luoghi e momenti che attraverso, che ho attraversato. Sono consapevole di quanto questo viaggio sia senza direzione, di quanto appaia tale. Stiamo cercando qualcosa che è più forte della nostra paura, del senso di abbandono. Lo facciamo insieme, so di non essere solo. Cerco la felicità, la voglio portare nella canzone, perché raggiungere la felicità è il fine ultimo di questo viaggio. Canto i versi che mi hanno condotto fino lì, portando alla mente le immagini incollate alle parole. Canto l’ultima frase nota, confine di quanto scritto finora ed ecco che la canzone prosegue e non si arresta, va oltre: “The sun runs over us waiting still, It shines drying the puddles under the wheels.”
Puddles and wheels, pozzanghere e ruote. Non è un titolo è la ricetta per la felicità.
Giuseppe Pocai
Per ascoltare: https://itunes.apple.com/it/album/the-waiting-song/1273723314?i=1273723428
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Lou Reed fotografato da Michael Zacharis. CA. San Francisco. Winterland. 22 Novembre 1974. Predarubia. A girl named Hope. 8 Settembre 2017.
Le dita, unghie lunghe e smaltate, accarezzano l'asta, il microfono. Il cavo avvolto intorno al braccio magro, come fosse un laccio emostatico. L'altra mano regge una siringa, l'ago sfiora la pelle, trafigge la pelle. Quelle cinque dita vi schiaffeggiano il viso, la mano si chiude ed è un pugno allo stomaco. Potete fermarvi qui, se pensate di aver visto tutto, di sapere tutto, o proseguire nel racconto fino al link, fino a premere play. Fino a sentire, in musica, la distanza tra questa foto e la canzone. Fino a percepire l'ostinazione di chi parla, ci parla, in una lingua diversa, consapevole di non essere del tutto compreso, cosciente di comunicare nonostante questo. 1974. Lo scatto è preso durante il Rock N Roll Animal tour. La scena si ripete più volte durante il tour, durante l'esecuzione di Heroin. Alle volte il gesto è solo simulato utilizzando una matita. In alcuni casi, come questo, Lou ha in mano una siringa vera. Qualcuno dice che sia vuota, o che contenga una soluzione salina. Altri che Lou assuma realmente ciò di cui sta cantando. All'epoca l'immagine fece molto scalpore, si disse che era pericolosa, che le giovani menti potevano subirne il fascino, esserne avvalenate, seguirne l'esempio. La realtà è che niente avvelena le menti come l'ignoranza, niente guarisce le stessi menti come il parlarne, l'essere informati. Che ci sia o meno in questa rappresentazione, finta o reale, l'dea di portare allo scoperto un problema, di metterlo in luce, è irrilevante. L'artista ha 5 dita con cui schiaffeggiarvi, la mano chiusa a colpirvi lo stomaco. Il resto, se c'è, spetta a noi, dipende solo da noi. 2017. A girl named Hope non parla delle dipendenze raccontate nella foto. Sono di altra natura. Sono quelle familiari e liquide di mio padre, ma non solo. Scrivendo non si pensa ad una storia, ma si hanno in testa immagini. Provi a descriverle sapendo che attraverso di esse racconti altro. Accanto a mio padre vedevo questa ragazza chiamata Hope, la vedevo in qualsiasi forma di dipendenza, non necessariamente chimica o liquida. Una ragazza di cui ti innamori, nonostante gli occhi rossi come il tramonto, così poco umani. Una ragazza a cui giuri "only one more I swear" a cui fingi di credere "It is the last she promises"
Giuseppe Pocai
Se siete arrivati fin qui cliccate sul link e poi premete play https://itunes.apple.com/…/…/a-girl-named-hope/id1273723314…
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Janis Joplin fotografata da Jim Marshall. Winterland, San Francisco CA. 12/13 Aprile 1968. Predarubia. Somewhere baby. 8 settembre 2017.
L'otturatore si apre per 1/60 di secondo e si porta dietro, dentro, tutto; per sempre. Prima o dopo quell'istante, quella frazione di secondo, non c'è niente, il buio assoluto. Erroneamente la meccanica ci ricorda quella del nostro occhio. L'otturatore è la palpebra che scende e risale. Il nostro battere di ciglia quel click. Talmente veloce che non ce ne accorgiamo, talmente veloce che il nostro cervello può comodamente ricostruire quello che l'occhio si è perso in quell'istante. Passiamo dalla luce al buio per tornare alla luce in maniera così repentina che noi quel buio, quel nero quasi assoluto non lo vediamo, non sappiamo che esiste.
Per un secondo fingiamo che il nostro occhio, la palpebra, funzioni al contrario, che lavori esattamente come una macchina fotografica. Pensiamola perennemente chiusa e che quel battito avvenga nello stesso modo, ma aprendosi per quella frazione di secondo anziché chiudersi. Cosa siamo in grado di vedere e di capire nella brevità di quei battiti? Il resto lo dobbiamo ricostruire. Il resto, lo possiamo solo immaginare.
Siamo al Winterland Ballroom di San Francisco, chiamato anche Winterland Arena o più semplicemente il Winterland. Qui, al Winterland, tra il 1966 ed il 1978 hanno suonato tutti i più grandi. Ci hanno suonato gli Stones, i Led Zeppelin, gli Who, Bruce Springsteen, i Doors, Hendrix, Dylan, Frank Zappa, i Pink Floyd, Queen, Jethro tull, Deep Purple, Cream, Neil Young, i Jefferson Airplane , Kiss, Grateful Dead. La lista è praticamente infinita. Se fate un nome di un artista importante ed attivo in quel decennio state certi che ha suonato al Winterland. Whole Lotta Love fu eseguita per la prima volta live in questo locale e sempre qui, al Winterland, in molti hanno registrato dischi live delle loro performance. Tra i tanti lei: Janis Joplin.
Immaginate cosa voglia dire per Janis essere lì nell'aprile del '68. Sono passati pochi mesi dal Festival Pop di Monterey che l'ha resa popolare in tutto il mondo. Pensate a questa ragazza di 25 anni che è partita da Port Arthur, una piccola cittadina del Texas, e che si ritrova a San Francisco per fare ciò che ama da sempre, l'unica cosa che vuole fare nella vita: cantare. Immaginate di essere lei, di trovarvi lì al Winterland e di realizzare il vostro sogno. Immaginate di essere la star che salirà su quel palco, con la band, le luci ed una sala che contiene oltre 5.000 persone e che quella sera, quando salirete sul palco, sarà piena. Immaginate quelle 5.000 persone tutte li per voi, per le vostre canzoni, per sentirvi cantare, raccontare le vostre storie, ascoltare la musica che avete scritto. Immaginate quanto deve essere bello tutto questo? Riuscite veramente ad immaginarlo?
Ad occhi chiusi lo abbiamo ricostruito, immaginato. Adesso arriva il battito, la palpebra si alza, entra luce, click...la foto.
Janis è seduta nel backstage. Il divano è sfondato, il rivestimento tagliato, strappato. Il vestito gli è salito un pò lungo i fianchi, le gambe a formare una croce con le ginocchia che si toccano a mostrare pudore, a proteggere istintivamente quello che si impone di mostrare. Tra le mani la fedele compagna, la mano sinistra indecisa tra una carezza ed il più consueto svitare. Sul tavolo sacchetti di carta a suggerire cibarie o più probabilmente altre fedeli compagne. Le luci alle pareti, così diverse da quelle sul palco, la fender ed un ampli così distanti da quel palco. Lei guarda da un lato, infinitamente triste e sola. Un battito di ciglia, breve ed eterno, poi il buio.
Somewhere baby parla di questo? Perché svelarlo, perché battere le ciglia. Occhi chiusi, ricostruire ed immaginare, la musica serve a questo. Perché lasciarvi però con l'idea che tutto questo sia casuale e forzato... Con le Prede, un tempo, in chat, senza una ragione, avevamo preso l'abitudine di aggiungere la parola baby dopo il nome del locale in cui avremmo dovuto suonare. Per dire, non lo avessero demolito nel 1985 e ci chiamassero, scriverei alle Prede: ma vi rendete conto? si va a suonare al Winterland baby!!!
Giuseppe Pocai
Per ascoltare:https://itunes.apple.com/it/album/somewhere-baby/1273723314?i=1273723425
#predarubia#somewhereboulevard#somewherebaby#janis joplin#winterland#sanfrancisco#california#rock#music#music blog
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James Marshall Hendrix e Brian Jones fotografati da Jim Marshall. Monterey CA. 16-18 Giugno 1967. Predarubia. Blog. Oggi.
Non so perché ho scelto questa foto per parlare della nascita del Blog. Nel creare questo spazio avevo diversi dubbi. Principalmente se non fosse una forma di comunicazione superata e se avremmo avuto la costanza, le idee, per mantenerlo vivo. I dubbi non sono di ieri o di oggi, quando a tutti gli effetti il Blog diventa pubblico ed ha contenuti, risalgono a diverso tempo fa quando ho creato la pagina per ospitarlo, decidendo di metterla in stand-by, in attesa di chiarirmi le idee. Continuo ad avere i medesimi dubbi, ma il Blog è diventato quantomeno necessario.
Mi sono preso l’onere di raccontare i brani di Somewhere Boulevard sulla nostra pagina Facebook, un modo come un altro per creare interesse verso il disco, per invitare all’ascolto delle canzoni.
Farlo senza svelare, raccontare niente o quasi del brano non è cosa semplice. Non c’è modo di spiegare una canzone. Quello che avevi da dire, la miglior espressione di te è nella canzone stessa. Si sceglie quella forma proprio perché la si sente come quella che più di ogni altra sa raccontare ciò che hai in testa o nello stomaco.
La canzone è una freccia che scagli sapendo di non centrare il bersaglio. La bellezza sta in quel volo, nel tendere la corda, vederla abbandonare le tue dita decidendo lei quando è pronta a farlo. Trattenere il respiro quasi fosse eterno e non l’attimo che dura quel volo. La parabola che immagini e non vedi, perché i tuoi occhi a fuoco sulla cocca e poi a fuoco sul bersaglio mancato si sono persi quel viaggio. La gioia che ne deriva non ha nulla a che fare con l’aver centrato o meno il bersaglio, sta tutta nell’aver liberato la freccia, nel coraggio che serve a scoccarla pur sapendo che inevitabilmente cadrà lontana. La canzone è una freccia, non il bersaglio. Se indichi dove miri, dove hai mirato, togli agli altri la possibilità di innamorarsi di quel volo, non permetti a ciascuno di avere il proprio bersaglio da centrare.
Anche volendo non saprei trovare parole più adatte di quelle in musica, perché qui, scritte, hanno solo 2 dimensioni e pur potendole interpretare un significato ben definito. Puoi raccontare il contesto, l’ispirazione, cosa facevi quando l’hai scritta, cosa hai fatto poco prima di registrarla. Tutto questo è parte della canzone, ci scivola dentro, ma raccontarlo non toglie libertà interpretativa a chi ascolta. Questa foto mi è sempre piaciuta, questa è la ragione di averla messa, ma se proprio vogliamo dargli un significato è che per quanto sia difficile da crederci il Rock and Roll non è morto. In molti lo dicono e noi lo suoniamo fregandocene se sia vero o meno. Allo stesso modo i Blog sono forse defunti. Allo stesso modo ce ne freghiamo, questo per adesso vive, anche se solo per la durata delle 11 canzoni di Somewhere Boulevard. Finite quelle non disperate perché abbiamo altre frecce da scoccare, ma prima ve le faremo ascoltare. Giuseppe Pocai
#predarubia#somewhereboulevard#jimi hendrix#brian jones#monterey#jim marshall#rock#music#blog#rockandroll
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Christopher Johnson McCandless. Self portrait. Stampede Trail, Alaska. 18 Agosto 1992...alcuni giorni prima Predarubia. Intermezzo. 8 Settembre 2017. "Happiness is only real when shared"
La verità è lì davanti ai tuoi occhi, e la scosti come se scostasti una tenda per far entrare più luce. Guardi per un attimo dalla finestra, perché potrebbe essere lì in strada appena fuori dal tuo campo visivo, dal limite che la finestra ti impone. Ti volti sicuro di vederla nella stanza adesso illuminata, adesso che la luce ha cancellato le ombre togliendogli nascondiglio, rifugio. Niente. Non resta che sedersi dove eri seduto prima, continuare a guardare verso la finestra, perché sei sicuro di averla vista in un rapido battito di ciglia.
Sono seduto in poltrona, sfatto. Non è la stanchezza fisica di chi, martello pneumatico in mano, ha martellato le strade per 8 ore sotto il sole rovente. Non c'è sudore ad imperlarmi la fronte. Le mani non hanno traccia di dolore, non vibrano del ricordo di quelle 8 ore che non hanno fatto. Ogni giorno da un mese a questa parte macino i km che mi separano dallo studio dove stiamo registrando il nostro primo disco. Sono svuotato. Non sono le lunghe sedute di registrazioni, ore a ripetere la stessa cosa più e più volte. Ci siamo noi in questo disco, è fatto della stessa materia di cui sono fatti i nostri corpi. E' fisico, nessuna idea astratta, nessuna concezione fintamente intellettuale. L'energia, la forza che le canzoni hanno si alimenta con la forza e l'energia che gli cedi bruciando. Siamo alle voci e lo sforzo di credere in quello che fai, il coraggio che serve a credere, ti svuota l'aria dai polmoni. Domani tocca ad Intermezzo, mi è chiaro cosa c'è dentro, ma forse non basta. "Love burned the ocean" è così, lo è per me. Ma perché non è abbastanza? Perché vogliamo che tutti vedano, ascoltino, che l'amore ha bruciato l'oceano?
Su Netflix in programmazione c'è Into the wild di Sean Penn. Adoro questo film, l'ho già visto 5 o 6 volte. C'è qualcosa però che mi sfugge che so di non aver compreso, che mi disturba. Indosso le cuffie, ci sono le canzoni di Eddie Vedder a fare da colonna sonora al film, nelle orecchie non c'è posto per altro. Sean Penn ha la sensibilità di raccontarti questa storia senza obbligarti a comprenderla. Te la fa ronzare nelle orecchie per tutto il film, in modo che tu ti chieda da dove arriva quel suono, cosa sia quel suono. Lascia a te il compito di alzarti ed andare a vedere. Guardo rapito con quel senso di fastidio che cresce, non lo comprendo vorrei solo tirar via tutto, spengere ed andare a dormire, se non fosse per la bellezza che mi scorre davanti, se non fosse che capire alle volte è così maledettamente importante. Non mi piace il protagonista del film, che sia questo? Non parlo di Christopher McCandless, per quanto il film parli di lui, racconti una parte di lui. Non è Emile Hirsch l'attore che lo impersona, maledettamente bravo nel ruolo. Nella vita reale le persone si muovono in maniera caotica e disordinata, seguendo traiettorie imprevedibili ai nostri occhi. Noi tracciamo linee davanti a noi, che delimitano la strada, segnano la mezzeria. Chi percorre le nostre strade attraversa quella mezzeria più e più volte e noi facciamo altrettanto. Amiamo ed odiamo la stessa persona più e più volte a seconda di quale lato della strada prende, a seconda di quale lato della strada abbiamo preso noi in quel momento. Per quanto ben congegnati i personaggi di una storia seguono una linea ben marcata e prevedibile, l'autore li pone davanti a noi scegliendo per noi il lato, decidendo se dobbiamo amarli od odiarli. Alle volte non è qualcosa di così netto come l'amore o l'odio, non è come nei vecchi film western in cui era impossibile amare gli indiani per quanto ti sforzassi. Non provo il fascino che prova il protagonista nell'abbandonare la civiltà e rifugiarsi nella natura più selvaggia, per quanto capisca l'alienazione da un modello di vita, da una forma di società. Non comprendo l'amore della famiglia, della sorella. Facile da capire se si pensa a quella reale, ma di questa sullo schermo verso questo Christopher? Forse i genitori (film) sono 2 str****, che lo vogliono forzatamente nei loro schemi, ma la sorella? Lei gli è accanto, lo conforta con la sua comprensione, ed è ugualmente abbandonata. Lo stesso amore che provano gli altri, le persone che incrocia sulla via, mi è incomprensibile. Li sfiora appena mentre prosegue nel suo viaggio. Incurante del loro amore che non si è guadagnato. Siamo al Magic Bus e mi arrendo. Sprofondo in poltrona, lo schermo è la mia finestra. La penna incide il foglio "Happiness only real when shared" ed eccola la verità che ti sei ostinato a scansare, convinto che fosse dietro la tenda, in strada, che servisse luce per vederla, che fosse al limite luce stessa. La verità è una tenda che fa polvere, che scansi per non guardarla, illudendoti in quel gesto di poterla finalmente vedere.
"Happiness only real when shared" lentamente a fatica. Gli occhiali posati, lacrime che liberano. Acqua marrone e sporca scorre sulle gambe magre. Pantaloni che risalgono le stesse gambe, tessuto quasi vuoto che solo l'aria riempie. La mano afferra verde e ruggine e si tira dietro il resto. Respiro, freddo, coperta. Il nome che ti sei dato a raccontare cosa hai fatto, il nome che ti hanno dato a dire chi sei. La zip sale ed un triangolo di cielo da spiare. Respiro, freddo ed un tamburo che va dal petto alle orecchie. Il cielo si allarga come il sorriso, il respiro diventa un urlo che si scioglie nell'abbraccio che ti porta indietro e nuovamente lì dove sei, dove eri prima, ma consapevole. Il tamburo accelera. Cielo, freddo ed un respiro, l'ultimo.
Happiness is only real when shared è tutto lì, la felicità è reale solo se condivisa. Ecco il senso di tutto, del nostro essere band, di voler che quell'amore che brucia l'oceano sia visibile a tutti, che tutti possano ascoltarlo. Il giorno dopo tocca ad Intermezzo e tutto questo ci finisce dentro "Happiness is only real when shared" è lì, ma non credete a me, ascoltate anche se è ben nascosto e solo in pochi capiranno dove.
Giuseppe Pocai
Clicca per provarci https://itunes.apple.com/it/album/intermezzo/1273723314…
#predarubia#somewhereboulevard#intermezzo#intothewild#sean penn#emile hirsch#eddie vedder#rock#music
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Buzz Aldrin. Luna. 21 Luglio 1969. Predarubia. Not in my name. 8 Settembre 2017. "That's one small step for (a) man, one giant leap for mankind."
Una delle più famose frasi che siano state mai dette viene pronunciata in quel 21 Luglio. A dirla è Neil Armstrong, primo uomo ad aver posato piede sulla superficie lunare. In realtà sulla Luna ci arrivano il giorno prima, il 20 Luglio 1969, ma non scendono dal modulo lunare fino al giorno dopo ad oltre 6 ore dall'allunaggio. Questa foto ritrae Aldrin, ma anche nell'altra, quella più famosa, è sempre Aldrin ad apparire in foto. Armstrong lo si vede riflesso nella visiera intento ad immortalare lo storico evento.
La frase porta con se quasi 50 anni di congetture, per quel "a" detto o non detto, o chi abbia realmente ideato quella frase che Armstrong giura di aver pensato solo al momento di scendere la scaletta. I detrattori di Armstrong lo descrivono come un uomo mediocre, privo della fantasia e creatività necessarie a concepire parole così adatte all'evento. Ritengono che la Nasa non avrebbe mai fatto posare piede ad Armstrong senza averlo preparato a quel momento, lasciando a lui il compito di improvvisare qualcosa. La capacità tutta Americana a concepire ogni momento come spettacolo è evidente anche nella foto. La bandiera non è posta su di una normale asta. In alto si può vedere che la bandiera è sorretta da un secondo supporto orizzontale, che fa si che la bandiera sembri sventolare. Non è solo la testimonianza del primo uomo sulla luna, è la testimonianza di un evento debitamente studiato e coreografato, la testimonianza della loro innata capacità di saper fare show come nessun altro al mondo.
Resta da capire in che modo questa foto e queste parole si leghino a Not in my name. Se avete avuto la curiosità e la voglia di arrivare fino a qui, sono certo che continuerete a leggere fino al punto di cliccare sul link e premere play.
Not in my name è stata scritta con la Tv accesa, dallo schermo provenivano le immagini consuete di sbarchi e disperazione. Mio nonno, Annibale, è sbarcato ad Ellis Island il 22 Aprile del 1912, aveva solo 3 anni. Un viaggio per mare lungo una settimana a bordo della Rochambeau insieme a sua mamma Maria che, con altri 3 figli al seguito, attraversò l'Atlantico per raggiungere il marito Michele, che già era arrivato negli Stati Uniti nel 1908. Immagino questa donna forte partire da qui, dalla Garfagnana, e percorrere i 1300km che ci vogliono per arrivare a Le Havre e da lì imbarcarsi per l'America. Il primo viaggio, la prima volta che vedeva il mare, la prima volta che sentiva una lingua non sua. Un viaggio di speranza e disperazione, abbandonando tutto e tutti, con biglietto di terza classe di sola andata. La grande depressione seguita alla crisi del '29 la riporterà indietro con più figli di quanti non fosse partita e con Michele a fargli compagnia. Io sono nato diverse decine d'anni in un piccolo paese sulla sponda orientale del Loch Lomond nella verde Scozia. Mio padre aveva intrapreso un viaggio simile, con gli stessi bisogni di chi lo aveva preceduto, ma decisamente meno avventuroso che non merita di essere raccontato. Nelle mie vene scorre il sangue di migranti, di chi viaggia e conosce il viaggiare di chi si muove per speranza e disperazione.
Guardando la tv non avevo in testa la storia di Annibale, Maria, Michele o mio padre. Guardando la tv pensavo ad Armstrong, al suo viaggio, alle parole che disse scendendo la scaletta. Guardando la tv, chitarra in mano, ho scritto il primo verso che è sulla foto. Spegnendo la tv ho scritto il resto.
Le parole di Armstrong hanno un significato preciso, di quanto quel piccolo passo fatto da un uomo sia niente se confrontato al grande balzo che l'umanità stava compiendo attraverso quel gesto. Eppure c'è altro. C'è il porre la storia di un uomo davanti a quella dell'intera umanità, di prendere in considerazione per prima la nostra singola storia e non quella più grande che ci sovrasta. Le storie di sbarchi raccontano tanto e vengono ferocemente strumentalizzate, sia da una parte che dall'altra, clandestini o risorse non fa differenza. Nessuno compie quel viaggio caricandosi di un bagaglio più gravoso della propria storia personale, nessuno vuole portare con se altro.
Giuseppe Pocai
Not in my name racconta questo, forse, se siete arrivati fin qui cliccate sul link e premete play. https://itunes.apple.com/…/alb…/not-in-my-name/id1273723314…
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The Beatles. Yesterday. June 14, 1965. Predarubia. Yesterday. September 8, 2017. And if these two songs had more in common than just the title? Both start with a dream...
Paul finds himself at the home of Jane Asher, with who he was going out at the time. While sleeping, in his dreams, he composes the melody of Yesterday. As soon as he wakes he goes down the stairs, sits at the piano and plays, to make sure that the melody he dreamed did not fly away but was memorised for ever. Yesterday was authored by Lennon and McCartney, as were all the Beatles tracks, but in reality it was Paul’s and only Paul’s. For the first time, in recording, there was only one of the Beatles present. Paul sings and plays the acoustic guitar, accompanied by a string quartet. The Beatles didn’t recognise the track as theirs, even though it was included in the album Help!, to the point of blocking it as a single in the UK. Yesterday came out in the USA as the B side to Act Naturally, a cover sung by Ringo. Following the success of the single it was reprinted with the two tracks inverted.
This is the brief story of Yesterday, the Beatles version, as all the Beatles aficionados know. A story that starts with a dream, and the other Yesterday? We greeted each other on the 14th June 1991. A railway station: Two platforms and two trains going in different directions. From that greeting and a phone call there was nothing, my fault. It wasn’t you on the phone, but another friend. We spoke of all that time together and the direction our lives had taken. We have woven our lives with those of other friends from that time or better I listened to their names and their lives because I had heard nothing from those friends, up to that phone call. Names and faces of people I struggled to remember, spread around the world, brilliant careers, families, children. Among the many names yours. You who left not long are that greeting of over twenty years ago. To bed we take all. We lie next to the fear that the day drives away, on my chest the anxiety and the blame. In that night I dreamed of you, you hadn’t changed, you hadn’t the time to do so. I was sorry, I felt to blame for not knowing any more about you, to have believed you were alive and happy, without a though to say goodbye. I came close to murmuring my explanations, my apologies. In the dream you hugged me smiling, comforting my guilt with a “no worries” and promising that one day we would meet again. You do not choose to write a song, you find it in your hands. The title comes to you the same way. You find it so perfect that not for a second do you consider you gave it the same name as that of the Beatles. Only now, looking for inspiration to write do I become aware that the title is so perfect, that both songs started with a dream.
Giuseppe Pocai
To hear ours, click the link and press play. https://itunes.apple.com/it/album/yesterday/id1273723314?i=1273723422
#predarubia#somewhereboulevard#yesterday#the beatles#john lennon#paul mccartney#george harrison#ringo starr#rock#music
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John Lennon fotografato da Iain Macmillan. 8 Dicembre 1980. "Is this all you want?" Predarubia. Heaven unnecessary. 8 Settembre 2017. "I want this world that should be mine, all I want is now"
Raccontare la musica, la propria, non è semplice. Nel farlo ho deciso di svelare poco del brano che provo a farvi ascoltare. L'idea, forse sciocca, è d'immaginarvi curiosi, sanamente curiosi. Vedo l'immagine catturare la vostra attenzione, la vedo capace di fermare l'incessante scorrere, l'ossessiva ricerca in verticale di qualcosa d'interessante. Quell'attimo ha solo rallentato la corsa della mano o del dito e forse vi ha concesso il tempo per mettere un mi piace. Forse, se dura un istante di più, è abbastanza per notare le parole che accompagnano la foto, abbastanza per volerne sapere di più, per vedere se ci sia un legame tra parole e foto. Ed ecco la risposta alla vostra curiosità, c'è un legame, c'è sempre. Non c'è una ricerca spasmodica nel trovare connessioni tra foto, storie e canzoni. Ci sono immagini che erano lì e sono scivolate dentro nello scrivere il brano. Altre, come questa, che servono per raccontare una storia che conoscevi, avevi presente, quando hai scritto la canzone. Niente di consapevole al momento, ma oggi quel collegamento ti arriva chiaro, da se, senza doverlo cercare.
Tutto ha inizio quell'8 Dicembre del 1980. Siamo a New York, nell'Upper west side di Manhattan. Qui sorge il Dakota building, un prestigioso edificio costruito alla fine dell'800 dove hanno vissuto ospiti illustri, dove a molti è stata rifiutata la possibilità di viverci nonostante disponessero di fama e ricchezza. 10 piani con ingresso sulla 72esima e Central park west su un lato. Attraversando la strada si entra in Central park, attraversando quella strada si entra nello Strawberry fields memorial, 10.000 metri quadrati inaugurati il 9 Ottobre 1985, giorno in cui John Lennon avrebbe compiuto 45 anni.
Deve far freddo a Dicembre a New York, eppure fin dalla mattina, sul marciapiede di fronte al Dakota, c'è un uomo che sta lì seduto, legge ed aspetta. Sta leggendo Catcher in the rye di Salinger (Il giovane Holden) e come tanti fan, è lì nella speranza che John esca di casa, legge ed aspetta, al freddo. Alle 17.40 John e Yoko escono dal Dakota, si stanno recando ai Record Plant Studio dove stanno lavorando ad un brano di Yoko: Walking on thin ice. Vengono attorniati da alcuni fan in cerca di autografi, tra loro Mark David Chapman. Ha con se, oltre al libro di Salinger, una copia di Double Fantasy che porge a Lennon perché la firmi. Paul Goresh fotografa quel momento: John firma l'album mentre Mark David Chapman lo osserva sorridente. John chiede qualcosa a Chapman che annuisce timidamente, felice. Cosa gli chiede? Pazientate, manca poco, ma prima facciamo un piccolo passo avanti. John e Yoko salgono in auto e Mark David Chapman si siede nuovamente sul marciapiede, legge ed aspetta, al freddo. Passano diverse ore, alle 22.50 la Limousine si ferma nuovamente di fronte al Dakota. John e Yoko sono tornati per dare la buonanotte a Sean, prima di andare a cena. John passa accanto a Mark David Chapman, sembra riconoscerlo, lo oltrepassa. Chapman lo chiama "Mr.Lennon" ed esplode 5 colpi di pistola, 4 dei quali raggiungono John. Mark David Chapman non fa altro, non cerca di scappare, si toglie il cappotto, riprende in mano il libro di Salinger, si siede sul marciapiede ed aspetta l'arrivo degli agenti, legge ad aspetta, al freddo. 2 Minuti dopo arriva la prima pattuglia, mettono le manette a Mark David Chapman e lo fanno salire in auto. Passano altri minuti ed arriva la seconda pattuglia che si accorge della gravità in cui versa John, non attendono l'ambulanza, lo caricano in auto e lo portano al Roosevelt Hospital che dista solo 1 miglio. Sono appena passate le 23 quando John entra in ospedale, alle 23.07 di quell'8 Dicembre 1980 John Winston Ono Lennon è morto.
Quando ho pensato di parlare di Heaven Unnecessary ho subito pensato a questa storia, senza un motivo preciso o apparente. Il senso del brano è quasi tradito dal bisogno che un paradiso ci sia, che esista un luogo dove Lennon ha continuato a scrivere musica. Ho preso la foto di Lennon, e come per le altre canzoni ho scritto sopra uno dei versi: "I want this world that should be mine, all I want is now" All I want is now... In un attimo mi è tornato in mente quello che John chiede a Mark David Chapman dopo avergli autografato Double Fantasy, quello che gli domanda è: "Is this all you want" Non immagino Chapman rispondere con il verso della canzone, immagino John rispondere alla propria domanda. Perché tutto quello che vuole è salire le scale e dare la buonanotte al figlio, tutto quello che vuole è andare a cena con la donna che ama.
All I want is now.
Giuseppe Pocai
Per ascoltare: https://itunes.apple.com/it/album/heaven-unnecessary/1273723314?i=1273723427
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The Beatles. Yesterday. 14 Giugno 1965. Predarubia. Yesterday. 8 Settembre 2017. E se queste due canzoni avessero altro in comune oltre al titolo? Entrambi i brani iniziano con un sogno...
Paul si trova a Londra a casa di Jane Asher con cui era fidanzato all'epoca. Mentre sta dormendo, in sogno, compone la melodia di Yesterday. Appena sveglio scende al piano di sotto, si siede al pianoforte e la suona, per far in modo che quella melodia sognata non gli sfugga e resti impressa per sempre. Yesterday porta la firma di Lennon e McCartney come tutti i brani dei Beatles, ma è in realtà di Paul, solo di Paul. Per la prima volta, nelle registrazioni, c'è un un unico Beatles presente. Paul canta e suona la chitarra acustica, accompagnato da un quartetto d'archi. I beatles non si riconoscono nel brano che viene incluso nell'album Help! tanto da impedirne l'uscita come singolo in Inghilterra. Yesterday esce negli USA come lato b di Act naturally, una cover cantata da Ringo. In seguito al successo ottenuto il 45 giri viene ristampato con i due brani invertiti. Questa è in breve la storia di Yesterday, quella dei Beatles, che tutti i Beatlesiani più o meno conoscono. Una storia che inizia con un sogno, ma l'altra Yesterday? Ci siamo salutati il 14 Giugno del '91. Stazione ferroviaria: Due binari e due treni che andavano in direzioni diverse. Tra quel saluto e la telefonata il niente, per colpa mia. Non eri tu al telefono, ma un altro amico. Ci siamo raccontati tutto quel tempo trascorso insieme e la direzione che la nostra vita aveva preso. Abbiamo intrecciato alle nostre vite quella degli altri amici di quel tempo, o meglio, ho ascoltato i loro nomi e le loro vite, perché di quegli amici non avevo saputo più niente, fino a quella telefonata. Nomi e visi di persone che faticavo a ricordare, sparsi per il mondo, carriere brillanti, famiglie, figli. Tra tanti nomi il tuo. Te ne sei andato poco dopo quel saluto di oltre vent'anni fa. A letto ci si porta tutto. Ci si sdraia accanto alle paure che il giorno fuga, sul petto le ansie e le colpe. Quella notte ti ho sognato, non eri cambiato, non hai avuto il tempo per farlo. Ero dispiaciuto, mi sentivo colpevole di non aver saputo più niente di te, di averti creduto vivo e felice, senza un pensiero per dirti addio. Mi sono avvicinato mormorando le mie scuse, il mio dispiacere. In sogno mi hai abbracciato sorridendo, confortando la mia colpa con un "non importa" e promettendo che un giorno ci incontreremo di nuovo. Non si sceglie di scrivere una canzone, te la trovi tra le mani. Il titolo ti arriva nello stesso modo. Lo trovi talmente perfetto che neanche per un secondo ti rendi conto di quanto presuntuoso sia dargli lo stesso nome di quella dei Beatles. Solo adesso, cercando uno spunto su cui scrivere, ti rendi conto di quanto quel titolo sia perfetto, di come entrambe le canzoni inizino con un sogno.
Giuseppe Pocai
Per ascoltare il nostro, clicca sul link e premi play. https://itunes.apple.com/it/album/yesterday/id1273723314?i=1273723422
#predarubia#somewhereboulevard#yesterday#the beatles#john lennon#paul mccartney#george harrison#ringo starr#rock#music
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Rip the video. Portovecchio di Piombino. Agosto 2017. Simone Gazzola & Stefano Campagna. Predarubia. 8 Settembre 2017. Rip
“Asfalto e cemento. Acciaio, ruggine e cielo del Portovecchio di Piombino. Aria calda d'Agosto e vento di scirocco a sfidare i treni in transito. Noi, tra un ciak e l'altro, a cercare ombra ed il miraggio di mare in quel vento. Loro, Simone e Stefano, a raccontare senza sosta la febbre che tutti noi portavamo adosso. Non ci fu che d'esser noi stessi, percuotendo le pelli, tirando le corde ed urlando parole.” Non so perché dovrei aggiungere altro a quanto già scritto pochi giorni fa, quando ricorreva il 1 anniversario dell’uscita del video di Rip, il nostro primo video, però che “storyteller” sarei se quantomeno non ci provassi a scrivere altro.
Rip chiude il tentativo fatto in questo blog di raccontare le canzoni di Somewhere Boulevard, essendo l’ultima che manca all’appello. Tentativo alquanto maldestro se lo scopo fosse stato quello di raccontare veramente le canzoni, perché alla fine di quelle ho detto poco. Non credo che le canzoni vadano spiegate, perché si annulla il potere più grande che recano in se, quello di permetterci di farle nostre, di trovarvi dentro la nostra direzione, il nostro più intimo e personale significato.
Ho spesso cercato in altre foto, in altre storie, quelle che le foto portano con se, di trovare un aggancio tra quella foto e la canzone che andavo a raccontare. Non so se ci sia realmente riuscito, ma ciò che ho scritto è ciò che realmente avevo visto. Beh non è così semplice. Perché il vedere dura l’istante stesso in cui si guarda qualcosa, lo si osserva. Un istante dopo inizia il ricordo. Per quanto una foto ti permetta di tornare più volte a vedere, cancellando così l’inganno del ricordo. Nell’istante stesso in cui sposti gli occhi dalla foto e ti appresti a scriverne nuovamente, scivoli nel ricordo e ciò che scrivi è ciò che immagini di aver visto. Adesso potrei dirvi verso chi o cosa Caterina muove i suoi passi. So esattamente perché sia scalza, perché si è vestita di nero, perché la sua testa è leggermente abbassata. Io so cosa ci sia ad attenderla al limite estremo di questa inquadratura e cosa si sia lasciata dietro alle spalle. Potrei dirvelo ma poi andreste a verificare se nel video tutto questo c’è realmente, dareste vita a questo singolo fotogramma per scoprire se io vi stia mentendo o meno. Forse vi ho mentito, ma vi ho avvisato che lo avrei fatto, vi ho messo in guardia spiegandovene la ragione “cause I’m a tricky man, a storyteller, all is real if you make it real.” Forse adesso vi state chiedendo se l’uomo della canzone sia realmente esistito e se il suo coccodrillo l’abbia realmente morso. Forse vi chiedete se a seguito di quel morso l’uomo sia realmente morto e se il coccodrillo se ne sia realmente rattristato. Forse ve lo state chiedendo o forse no, io non posso dirvi se tutto ciò sia realmente vero, posso solo dirvi, posso giurarvelo, che io l’ho visto. Tutto questo è Rip? Conoscete la mia risposta: forse. Giuseppe Pocai
Per ascoltare la canzone:https://itunes.apple.com/it/album/rip/1273723314?i=1273723421 Per vedere il video: https://youtu.be/0otxuDZxj6E
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Old Carousel. Atlantic City, NJ. 31 Ottobre 2011. Goodbyetrouble (Patrick). Predarubia. Carousel off. 8 Settembre 2017.
Nella canzone la giostra è di un rosso multicolore, che di per sé appare una contraddizione in termini: come fa ad essere multicolore se è rossa? Ci vuole un bello sforzo d’immaginazione a vederla rossa e multicolore. Non tanto perché sia di per sé impossibile. Se guardate la giostra nella foto vedrete che domina in questo caso il giallo, ma che fermo ed immobile non lo direste giallo, direste che è multicolore. Quando ciò che abbiamo davanti è fermo, si lascia guardare, non è difficile vedere la complessità della forma in tutti i suoi aspetti, anche quelli più piccoli ed apparentemente insignificanti. Se fossimo adesso lì nella vecchia Atlantic City al fianco di Patrick che ha realizzato questo scatto, vedremmo i fregi, i disegni, i finimenti dei cavalli. I nostri occhi rincorrerebbero ogni sfumatura di colore, perdendosi in essi, ricominciando più volte una conta che non ha numeri, dimentichi del cielo sopra di noi che minaccia pioggia. Questo è ciò che vedremmo e non servirebbe la nostra immaginazione se fossimo, adesso, nella cara vecchia Atlantic City. La foto è qui proprio per questo motivo, per permetterci di vedere senza dover impegnare tutta la nostra capacità d’immaginare al solo sforzo di trovarci lì, adesso. Siamo lì ed è l’ultimo giorno di Ottobre, la notte di Halloween, All Hallows’ Eve. Non vi fate trarre in inganno, potrebbe essere un qualsiasi altro giorno dell’anno, è solo un modo per farvi prestare attenzione ai particolari, come alla data in cui la foto è stata scattata. Se la nostra giostra fosse ferma ci avremmo fatto attenzione, avremmo letto la data e zucche illuminate da candele avrebbero acceso la nostra fantasia. Lo so tendo a divagare, ma mi è inevitabile. Ci sono le zucche, c’è Atlantic City, c’è questa giostra gialla multicolore ed io non ho la minima idea di dove andare a parare, non so dove queste parole mi stiano conducendo.
Siamo lì in qualsiasi giorno dell’anno, così è più facile non essere distratti dalla ricorrenza di quella data. Ora immaginatevi che la giostra stia girando, che giri sempre più velocemente, che forme e colori si fondino in un vortice giallo. Quello che abbiamo davanti gli occhi tutti i giorni è proprio questo, una giostra che gira impazzita: gialla nella foto, rossa nella canzone. Lo sforzo vero, più grande, è quello di riuscire ad immaginare che oltre quel giallo, quel rosso della canzone, ci siano altri colori. Credetemi è uno sforzo immane che a nessuno riesce fino in fondo. Qui, ad Atlantic City, c’è una giostra che prima era ferma e che anche se adesso sta girando possiamo ricordarla, possiamo richiamarla alla sua forma originale e vederla com’è realmente nonostante l’inganno degli occhi. Ma il mondo, quello che ci gira davanti ogni giorno, è lì da prima ancora che noi aprissimo per la prima volta gli occhi, e già girava impazzito. Non passa giorno che non ci imbattiamo in qualcuno che ci dice convinto che il mondo sia di un unico colore, rosso o giallo che sia. Dio, politica, orientamento sessuale, immigrazione, calcio, medicina, economia, ingegneria, musica, cinema, accoglienza, criminalità, educazione, lavoro. Non importa quale sia l’argomento, senza immaginazione ci resta solo l’inganno degli occhi. Carousel off parla di questo? Da bambino andare alle giostre non era per me un momento propriamente felice. Forse dipendeva dal fatto che soffrivo di mal d’auto e salire sulle giostre era ritrovarmi con lo stesso malessere 100 volte amplificato. L’unico pensiero che avevo quando salivo sul Tagada o altre giostre simili era di non vomitarmi addosso o peggio ancora sulle scarpe di chi mi sedeva accanto. Ci andavo nonostante questo, ci andavo perché volevo divertirmi come tutti gl altri ragazzi della mia età, desiderando di essere come loro. La realtà è che non ci riuscivo, non riuscivo a capire né ad essere parte di quella allegria diffusa. Non era fasulla, gli altri si divertivano veramente in modo sincero. Li vedevo allegri, scintillanti di luci, illuminati dalle scritte colorate. Vedevo la bellezza apparente di quel mondo, ma per quanto apparente era vera bellezza ed io volevo esserne parte. Abbassavo lo sguardo e trovavo il mio di mondo fatto di cartacce, di avanzi di cibo, di lattine vuote e schiacciate. Guardavo quelle giostre incapace di vedere altro che il meccanismo gocciolante olio che le azionava. Ascoltavo le urla di gioia confondersi ai “venghino, signori venghino” non riuscendo a sentire altro che il rumore degli ingranaggi e dei compressori sovrastare urla, inviti e musica stonata. Non mi sentivo superiore, mi sentivo diverso e non volevo esserlo. Volevo quella felicità. Da bambini non ci si sente unici e per questo speciali, ci si sente soli. Da adulto ho trovato ciò che mi rende felice, e cerco di esserlo scegliendo ciò che mi da quella felicità ogni giorno. Ma per quanto ci si sforzi capita di trovarci in situazioni in cui non vorremmo essere. Quando capita mi sento esattamente come allora quando andavo alle giostre, con lo stesso malessere e con la stessa unica preoccupazione di non vomitarmi addosso o sulle scarpe di chi mi è accanto. Mentre il mondo, incurante, continua girare. Giuseppe Pocai
Per ascoltare la canzone: itunes.apple.com/it/album/carousel-off/1273723314?i=1273723330 Goodbyetrouble (Patrick): https://www.flickr.com/photos/goodbyetrouble/
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James Marshall Hendrix and Brian Jones. Photo by Jim Marshall. Monterey CA. 16-18 Giugno 1967. Predarubia. Blog. Today.
I do not know why I chose this photo to talk about the birth of the Blog. In creating this space I had several doubts. Primarily if it were not an outdated form of communication and secondly if we would have had consistance, the ideas, to keep it alive. The doubts are not of yesterday or today, when to all intents and purposes the Blog becomes public and has content, they date back to the time when I created the page to host it, deciding to put it on stand-by, waiting to clarify the ideas . I continue to have the same doubts, but the Blog has become somewhat necessary.
I took the duty of telling the stories of the songs of Somewhere Boulevard on our Facebook page, a way like any other to create interest in the album, to invite listening to the songs.
Doing it without revealing, saying anything or only little about the song is not easy. There is no way to explain a song. What one has to say, the best expression of one is in the song itself. You choose that form precisely because it feels like the one that more than any other can tell what you have in your head or stomach.
The song is an arrow that one shoot out knowing not to hit the target. Beauty lies in that flight, in stretching the cord, seeing it leave your fingers and deciding itself when it is ready to do so. Hold one's breath almost as if it were eternal and not just the moment that the flight lasts. The curve that you imagine and you do not see, because your eyes focus on the nock and then on the missed target you have lost that flight. The joy that comes from it has nothing to do with having hit the target or not, it is all in having released the arrow, in the courage that's needed to shoot it while knowing that it will inevitably fall away. The song is an arrow, not the target. If you indicate where you aim, what you have targeted, you take away from others the possibility of falling in love with that flight, you don't allow everyone to have their own target centered.
Even if I wanted to I wouldn't know how to find better words than those in music, because here, written, they have only two dimensions and yet can interpret a well-defined meaning. You can tell the context, the inspiration, what you did when you wrote it, what you did just before you recorded it.All this is part of the song, it slips inside, but telling it does not take away the freedom from the listener to interpret what was heard.
I've always liked this picture, that's the reason for putting it up, but if we really want to give it a meaning, even if it's hard to believe Rock and Roll is not dead. Many people say it and we play it, not caring it if it's true or not. In the same way the Blogs are perhaps dead. In the same way we do not care, this for now lives, even if only for the duration of the 11 songs of Somewhere Boulevard.Once finished those don't despair because we have other arrows to shoot, but first we will let you hear them. Giuseppe Pocai
#predarubia#somewhereboulevard#jimi hendrix#brian jones#Jim Marshall#monterey#rock#music#blog#rockandroll
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