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Un Americano a Firenze: Henry Brockholst Livingston
Henry Brockholst Livingston (Padre) di Isaac L. Williams Tutti a Firenze lo conoscevano e lo chiamavano “L’americano”. Era Henry Brockholst Livingston, nato a New York nel 1819, ultimogenito dell’omonimo Henry Brockholst Livingston, che alla nascita del figlio copriva il ruolo di giudice associato della Corte suprema degli Stati Uniti e che era stato ufficiale nella guerra d’indipendenza americana. Ricchissimo di famiglia non ebbe mai la necessità di esercitare una professione. Si stabilì a Firenze poco più che ventenne, a partire dal 1841. Fu uno di quegli stranieri, non in piccolo numero, che divennero fiorentini “per adozione” ed ebbero un nome a tutti noto e una spiccatissima fisionomia loro propria. Enrico Livingston si rivelò subito un tipo originalissimo. Possessore di una grande ricchezza, fu di una estrema e quasi eccessiva parsimonia: ai teatri andava di buon’ora per arrivare in tempo a prendere un posto nelle panche di platea e più volte richiese alla Amministrazione fiorentina sgravi sulle tasse, che mai gli furono accordati.
I cavalli erano il solo suo lusso. Attirò l’attenzione pubblica con la mania sfarzosa di guidare per le strade della città la sua straordinaria carrozza trainata da dieci, dodici, addirittura venti cavalli, bardati d’oro, più o meno ammaestrati e vigilati da vari staffieri a piedi. Tutti parlavano di lui: il New York Times lo descrisse nel 1878 mentre guidava una pariglia di 12 cavalli dal mantello equino baio per le strade di Firenze. Era un vero e proprio spettacolo vederlo alla guida della sua carrozza, trainata da un numero spropositato di cavalli, uscire dalle scuderie del Casino delle Delizie, un tempo di proprietà della famiglia Ginori, in via della Mattonaia per raggiungere il viale della Regina e il piazzale del Re alle Cascine. Un acquarello del pittore fiorentino Giovanni Signorini (1808 – 1862), oggi conservato nella Galleria d’ Arte Moderna di Palazzo Pitti, raffigura il passaggio dal piazzale del Re alle Cascine della sua carrozza con un tiro di dieci cavalli. Alla fine dell’ Ottocento i viali delle Cascine costituivano uno dei più prestigiosi palcoscenici del mondo per le ultime “recite” delle carrozze private, antico simbolo del rango sociale. Il parco si apriva al pubblico passeggio, animatissimo specialmente nelle giornate festive e in quelle riscaldate dal sole, quando una folla composta di famiglie popolane, borghesi, aristocratiche, famiglie in libera uscita, vestite con gli abiti della festa si riversavano lungo i numerosi viali e vialetti. I signori non mancavano all’ appuntamento della sfilata di eleganza e del censo, si recavano alle Cascine in carrozza, si esibivano in una specie di parata al piccolo trotto, fra mezzi inchini, cenni di saluto, sorrisi e commenti salottieri. Nel piazzale del Re nel 1869, nel periodo di Firenze capitale, anche Doney aprì un ristorante che sarà frequentato da fiorentini e stranieri. In queste famose e memorabili sfilate Enrico Livingston ogni volta primeggiava per numero di cavalli, inservienti e paramenti , ma dopo che la sua smania di guidare dieci, dodici, venti cavalli per volta dette origine a vari e spiacevoli inconvenienti, la polizia municipale gli proibì, non di usare, ma di abusare della occupazione del suolo pubblico in certe ore della giornata e in certe vie più frequentate per evitare danni alla circolazione di altri mezzi di trasporto e dei pedoni. Il signor Livingston se n’ebbe a male e cambiò domicilio: andò a stabilirsi a Livorno, ma presto abbandonò la città e ritornò a Firenze. Fu sempre originale e stravagante anche negli ultimi anni della sua vita: quasi ottantenne continuerà ad uscire nelle ore pomeridiane guidando da quattro a sei cavalli. Lo accompagnerà sino all’ultimo l’abitudine di rimanere sdraiato su un sofà in una sala del Casino Borghese in via Ghibellina dalla notte sino alle prime ore della mattina, costringendo gli inservienti a far un servizio, davvero dei più straordinari, promettendo che nel suo testamento avrebbe fatto loro cospicui lasciti. Dopo la sua morte, avvenuta a Firenze nel luglio del 1892, rimase per molto tempo nella memoria popolare il ricordo delle sue bizzarrie e della sua singolarità di carattere e del suo memorabile testamento. Lasciò un patrimonio di oltre due milioni di lire in contanti, cifra astronomica per l’ epoca. Nominò eredi universali le nipoti Valentina ed Anna Livingston. Fu stravagante anche nelle sue volontà : destinerà ingenti somme in denaro a stretti amici, tra cui il senatore Olinto Barsanti, suo erede testamentario, ma anche a numerosi cocchieri e conduttori di omnibus, a fiaccherai, a camerieri e altri addetti al servizio del Caffè Bottegone in piazza Duomo, agli inservienti del Casino Borghese, come aveva promesso, e del Caffè Doney.
Non dimenticò nessuno dei suoi camerieri personali , parrucchieri, maestri e assistenti di scuderia, medici che lo avevano sempre curato. Assegnò lasciti a tanti famosi enti e istituzioni benefiche che operavano in città ed a varie scuole d’infanzia. Nel 1912 l’asilo infantile femminile in via di Camaldoli a Firenze, situato nei locali di proprietà della Amministrazione delle Scuole Leopoldine, risultava dedicato a “Enrico Livingston”. Un ritratto dell’ Americano, realizzato dall’ artista romano Eugenio Renazzi (1863 – 1914) ai tempi in cui era studente all’Accademia di Belle Arti a Firenze, era conservato nel Museo Firenze com’era, che dal 1955 sino alla chiusura definitiva nel 2010, si trovava nell’ex convento delle Oblate in via dell’ Oriuolo a Firenze. Oggi un’ urna cineraria nel cimitero degli acattolici, conosciuto come Cimitero degli Inglesi, in piazzale Donatello, conserva le ceneri di questo particolare personaggio, conosciuto da tutti come “ L’ Americano”, che tanto ha lasciato alla città ed ai suoi abitanti.
Marta Questa Read the full article
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Isabella de Medici (1542 – 1576)
She was daughter of Cosimo I de Medici, first Grand Duke of Tuscany, and Eleonora di Toledo. Isabella was born in Florence where, with her brothers and sisters, she lived first in the Palazzo Vecchio and later in the Palazzo Pitti, spending much of her time as a child at father's ancestral country home, Villa di Castello. Isabella was raised and educated in a humanist manner with her siblings. Of great beauty, she had a lively, high-spirited and impulsive character that was commented on by courtiers. As a result, she has, in fact, been tagged as the “Star of the Medici House”. She had an inordinate passion for hunting, music and poetry. Isabella could speak many different languages, play instruments, sing, and write verses.
To secure a relationship with the powerful Roman Orsinis, Isabella’s father arranged her marriage to Paolo Giordano Orsini, Duke of Bracciano, when she was 16. She remained in her father’s household after her marriage, giving her an unusual degree of independence for a woman of her period. Following her mother’s death, she acted as first lady of Florence for a time, displaying the Medici’s aptitude for politics. She suffered several miscarriages and remained childless until her late twenties. Her daughter Francesca Eleonora (known as Nora), was born in 1571 and eventually married her cousin Alessandro Sforza. Her son Virginio was born in 1572 and eventually inherited his father’s dukedom.
Isabella’s free-spirited personality created rumours with regard to the nature of her relationship with Troilo Orsini, Paolo Giordano’s cousin, who was charged with looking after her while her husband tended to military duties. On 16 July 1576 Isabella died unexpectedly at the Medici villa in Cerreto Guidi during a hunting holiday. According to her brother, the Grandduke, this occurred “while she was washing her hair in the morning … She was found by Signor Paolo Giordano on her knees, having immediately fallen dead." However, the official version of events was not generally believed and the Ferrarese ambassador, Ercole Cortile, obtained information that Isabella was “strangled at midday” by her husband in the presence of several named servants. Isabella was the second sudden death in an isolated country villa in the Medici family, her cousin Leonora, having died of a similar “accident” only a few days before. Most historians assume that Paolo Giordano killed Isabella in reprisal for carrying on a love affair with Troilo Orsini, or that he acted on instructions of the Grand Duke Francesco, Isabella’s brother. One scholar, Elisabetta Mori, has argued that Isabella de Medici died of natural causes and that the rumour that Paolo Giordano murdered her was spread by enemies of the Medici.(X)(x)
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Esattamente un anno fa l’Università di Firenze, Dipartimento SAGAS, organizzò un forum per attirare l’attenzione sul degrado di uno dei palazzi più belli di Firenze, il più rappresentativo della stagione tardo barocca insieme a palazzo Medici Riccardi, vale a dire Palazzo Fenzi Marucelli. Fu un sasso gettato nello stagno, che sta cominciando a dare i suoi frutti proprio in questo momento. Andrea De Marchi tenne allora una relazione introduttiva che qui pubblichiamo in occasione del Convegno sui Musei universitari, che avrà luogo nei prossimi giorni (1-2 febbraio 2018), ideato da Cristiano Giometti e Donatella Pegazzano appunto nella prospettiva di una futura musealizzazione del piano terra di Palazzo Fenzi Marucelli, una volta riordinato e restaurato (leggi il programma). Ringraziamo l’autore per averci consentito di fare conoscere questo testo attraverso le nostre pagine. [N.d.R.]
IL MESTIERE DEL DOCENTE universitario negli ultimi anni è cambiato profondamente e probabilmente sta cambiando ancora. Se pensiamo ai nostri maestri non possiamo non invidiarli, perché potevano profondere tutte le loro migliori energie, a tempo pieno, nel condurre ricerche originali e nel trasmettere ai giovani la loro sapienza. Nessuno di loro avrebbe potuto nemmeno lontanamente immaginare i carichi amministrativi rendicontativi e organizzativi che ci soverchiano quotidianamente. Il rischio di smarrire la dimensione gratuita e profondamente umanistica della ricerca per sé stessa e di impoverire così anche le potenzialità di costante verifica ed innovazione metodologica è assai elevato. La pur giustificata reazione di rigetto, che ogni tanto tenta molti di noi, è però sterile e impedisce di cogliere le sfide attuali a cui siamo chiamati, il dovere civile e morale di proiettare la docenza oltre il chiuso delle aule, di confrontarci con le possibili ricadute di quanto insegniamo, di contribuire ad una disseminazione del sapere che fruttifichi in buone pratiche.
[quote style=”boxed” float=”right”]Una società bombardata dalle immagini è nondimeno sempre più affamata di altre immagini, in un atteggiamento bulimico che riduce l’opera d’arte a pretesto occasionale per suscitare emozioni estemporanee e fuggevoli, anziché imparare a gustarle per quello che effettivamente rappresentano[/quote]Ciò è tanto più vero per chi insegna storia dell’arte. Una società bombardata dalle immagini è nondimeno sempre più affamata di altre immagini, in un atteggiamento bulimico che riduce l’opera d’arte a pretesto occasionale per suscitare emozioni estemporanee e fuggevoli, anziché imparare a gustarle per quello che effettivamente rappresentano, per il vissuto anche remoto che vi è sedimentato e trasfigurato, e attraverso di esse coltivare il valore della memoria, provare l’emozione autentica di percepire nella bellezza prodotta dall’uomo nel corso dei secoli il barlume di qualcosa che gli era ancora ignoto. I giovani stanno drammaticamente perdendo la memoria storica, il senso stesso, tragico e commovente, grandioso ed entusiasmante, della storia che sta dietro di loro, in favore di un unico eterno presente ove tutto si livella e galleggia nel plasma infinito del web, dove le differenze si annebbiano, dove nulla emoziona veramente perché tutto è possibile e tutto è già noto.
La storia dell’arte proprio per la maggiore facilità – apparente – di assimilazione delle immagini, può divenire allora strumento privilegiato di un’educazione permanente che contrasti il progressivo smarrimento di identità. Insegnando a leggere il succedersi degli stili e con essi delle mentalità, a decifrare in un monumento, ma pure in una città e nel territorio, un gigantesco palinsesto, alimenta la consapevolezza mai banale del diverso e della diacronia. Le conoscenze storicamente fondate e verificate non sono mai erudizione fine a se stessa, fanno parlare l’opera, ci dispongono ad ascoltarla, in un vero e proprio slow food nella ricezione delle opere d’arte, come palestra della cultura dell’attenzione. Saper leggere un’opera d’arte per le tendenze metodologiche più agguerrite e promettenti vuol dire soprattutto ricollocarla mentalmente nel suo contesto: di produzione, di ricezione estetica, funzionale e ideologica. Rimetterla al suo posto, magari anche con l’ausilio delle straordinarie potenzialità offerte dai rendering e dalle visualizzazioni digitali, o addirittura con la realtà aumentata, con tutti i rischi ludici che essa comporta, e con questa operazione dare un senso ai monumenti e ai musei, riscattare dal rischio incombente sulle nostre città di una regressione ad un unico, proteiforme ma inafferrabile, non-luogo.
[sixcol_four] Queste riflessioni preliminari credo siano opportune nel momento in cui ci troviamo a discutere in questo luogo, così denso di storia e di arte e al tempo stesso così maltrattato, all’interno di un quartiere che è tutto straordinariamente denso e che è non meno sofferente. Palazzo Marucelli Fenzi come l’intera area di San Marco (la chiamo così, rinviando all’antica Cafaggio suburbana, che quartiere non era, cresciuta attorno ai grandi poli religiosi dei silvestrini e poi domenicani osservanti, San Marco, e dei Servi di Maria, Annunziata, pullulante specie in San Gallo di insediamenti monastici femminili), palazzo Marucelli Fenzi e l’intera area di San Marco – dicevo – esprimono delle potenzialità soffocate da un tessuto urbano che non aiuta il dialogo, che talora respinge per ricorrenti episodi di grave degrado, che riassorbe le tante isole di bellezza e di pace che racchiude, i tanti frammenti di arte e di storia che lo fanno illustre, come a volerli nascondere. [/sixcol_four][sixcol_two_last] [/sixcol_two_last]
Sebastiano Ricci, Punizione di Eros, c. 1706-1707, particolare, Firenze, Palazzo Marucelli Fenzi
[sixcol_four]È una gigantesca sfida, che riguarda una pianificazione urbanistica degna di questo nome, dove siano chiare, dichiarate e condivise, le scelte, le priorità, gli indirizzi. Ma è anche più nell’immediato e più in piccolo una micro-sfida che ci riguarda molto da vicino e che vorrei dire è quasi impellente. Abbiamo voluto invitare a questo forum professionisti e dirigenti che svolgono ruoli di responsabilità in istituzioni culturali, formative e museali, che in questa area a rischio di perdita identitaria insistono, nella consapevolezza che tout se tient, che nessuno può progettare in proprio senza dialogare col vicino, che questa realtà atollica se innesca delle sinergie virtuose può davvero schiudere potenzialità inattese. Avviare un confronto non può voler dire che porre i presupposti di un lungo cammino, avendo il coraggio di guardare lontano. Ma per non parere velleitari vorremmo partire molto concretamente dal presente dolorante e dal futuro incerto di questo edificio, di questo monumento che racchiude in sé le ambivalenze, le potenzialità e le pastoie, splendeurs et misères, dell’intero quartiere.[/sixcol_four][sixcol_two_last] [/sixcol_two_last] [sixcol_four] Palazzo Marucelli poi Fenzi – ne parleranno più nel merito Donatella Pegazzano e Cristiano Giometti – è dopo Pitti e palazzo Medici Riccardi l’esempio più alto e fulgido della decorazione barocca a Firenze. «Uno de’ più vaghi e nobili edifici, che da altri gentiluomini siano stati fatti in Firenze nel presente secolo», così lo ricorda Filippo Baldinucci alla fine del Seicento. Come prima di lui Pietro da Cortona e Luca Giordano nelle altre due residenze succitate, qui il veneziano Sebastiano Ricci tra 1706 e 1707 fa irrompere una ventata di aria frizzante. Per quegli anni è un vertice di livello europeo, dove pitture murali, pirotecnici stucchi ad illusione, dorature e vernici traslucide, finti quadri con finte cornici, trompe-l’oeil d’ogni sorta sfondano pareti e volte, trasfigurano gli ambienti. Ma poi il palazzo racconta tante storie, vi si sovrappongono gusti ed epoche diverse, fino all’Ottocento, quando lo comprò Emanuele Fenzi, costruttore della strada ferrata Leopolda, e sempre a livelli molto alti, con boudoir neogotici e neo-cinquecenteschi, ora fatiscenti ed usati impropriamente come studi. Un collega, veneziano provocatore, Giuseppe Pavanello, tanti anni fa mi disse che era riuscito a vedere la cosa più bella che c’è a Firenze. Era riuscito. Non è facile infatti, a meno di essere studenti che, per lo più ignari di tanto splendore e della sua storia, usano quotidianamente la biblioteca di geografia. O fino a poco tempo fa impiegati del nostro dipartimento che avevano la scrivania in quelle stanze, preziose come uno scrigno: ma opportunamente il nostro direttore prof. Stefano Zamponi le ha fatte sgomberare, di modo che possano essere presentate più degnamente al visitatore occasionale che lo richieda. L’altro giorno ho assistito ad una scena surreale: una ventina di signore e signori di un’università della terza età volevano vedere la sala d’Ercole, ciò che è stato loro concesso in via del tutto eccezionale e per pochissimi minuti, purché le fatiche d’Ercole e Sebastiano Ricci venissero spiegati dal loro cicerone mentre erano pigiati nel corridoio, e poi si aggirassero a fatica e in silenzio tra i tavoli per non disturbare gli studenti che leggevano in biblioteca. Il quadrilobo con la Punizione di Eros, di Sebastiano Ricci, che al Metropolitan Museum di New York o alla National Gallery di Londra campeggerebbe isolato, si vede tra il lusco e il brusco, di passaggio tra gli scaffali e sopra al bancone di distribuzione dei libri per il prestito. Nel resto del palazzo occhieggiano decorazioni bellissime, di qua e di là, dove meno te le aspetti, soffocate fra rifacimenti intrusivi, disimpegni disadorni e muri scrostati. Volte affrescate e circondate da stucchi sono offese dalle barre del neon. Nella sala della Guerra, uno degli stucchi stupefacenti del Portogalli è stato perforato per applicare la riloga di una tenda: e non secoli fa!
Visitatori nella Sala di Ercole
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Veduta della Sala dell’Amore punito con la “Punizione di Eros” di Sebastiano Ricci
Giovan Martino Portogalli, Nereide, particolare della decorazione in stucco della Sala della Guerra
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[sixcol_four] Come storico dell’arte e docente che insegna in questa università io mi vergogno. Come possiamo educare alle buone pratiche se non le incarniamo? Come possiamo istillare nei giovani la sensibilità per il patrimonio, per la sua comprensione storica, per le attenzioni che esso merita, se il luogo stesso che ci ospita è un esempio perfetto dell’opposto? Come possiamo accogliere degnamente colleghi e ospiti? È questo il nostro biglietto da visita? Allo stesso modo immagino che tanti colleghi del DIDA si vergognino a discutere pubblicamente tesi di laurea di restauro architettonico in un edificio illustre come Palazzo San Clemente, fatiscente e deturpato.[/sixcol_four] [sixcol_two_last][/sixcol_two_last] [sixcol_four] Palazzo Marucelli Fenzi meriterebbe di essere rivoltato come un calzino, svuotandolo anche di tanti tramezzi e divisori e superfetazioni cementizie, in cui si sbizzarrirono pessimi nipotini di Michelucci, riducendolo ad un vero dedalo di scale e scalette, meandri e mezzanini e terrazzini, dove anche io ogni tanto mi perdo. Nel patrimonio edilizio monumentale dell’Università la maggiore spina nel fianco è probabilmente palazzo San Clemente, lo sappiamo bene. Ma palazzo Marucelli Fenzi, anche senza interventi strutturali straordinari, potrebbe essere ricondotto a dignità per gradi. Ripulire e riordinare con un attento restauro il piano terreno non sarebbe un obiettivo così immane, anzi assai realistico, se solo si liberassero gli spazi occupati dalla biblioteca di geografia, come promesso da anni.
Come tutti sanno esiste un grandioso progetto per un polo bibliotecario umanistico, detto progetto Brunelleschi, consultabile anche sul sito del Sistema bibliotecario di ateneo, e in vista di ciò da qualche anno sono stati traslocati gli studi dei docenti che ancora vi avevano luogo. È una prospettiva entusiasmante, che potrà un giorno mettere a disposizione degli studenti, ma anche della città, un patrimonio librario imponente e spazi polivalenti, dove speriamo troveranno posto anche altre collezioni documentarie assai importanti che l’ateneo ha, come la fototeca di storia dell’arte, negli ultimi anni arricchitasi grazie al dinamismo della collega Sonia Chiodo di fondi notevoli (Parronchi, Marabottini, Del Bravo), ospitando anche quelli preziosissimi di Offner e Boskovits del Corpus of the florentine painting. Non tutto onestamente entusiasma a pari grado: in molti riteniamo discutibile (e mal gestibile, chi pulirà tutti i giorni quella copertura in vetro da foglie e guano?) l’idea di chiudere con vetri il bel chiostro cinquecentesco per tramutarlo in un’enorme sala di lettura: ci piace che i chiostri restino tali! Alcuni benefici già sono giunti e vanno salutati col meritato plauso: così i tornelli che regolano l’accesso, così la grande e luminosa sala di consultazione di italianistica e storia dello spettacolo, ricavata nell’ex aula B, inaugurata il 10 ottobre dello scorso anno e sempre piena di studenti.
Nell’attesa fervorosa della Très grande bibliothèque, che chissà se vedremo prima della nostra pensione, noi abbiamo però diritto a convivere al meglio con la precarietà. Per questo poniamo con forza l’esigenza di trovare oggi, non tra diversi anni, una soluzione ragionevole nello sterminato plesso di Brunelleschi per il fondo librario di geografia, per quanto interlocutoria e non definitiva essa possa essere. La sistemazione attuale, nelle sale affrescate da Sebastiano Ricci, è infamante ed insostenibile, nuoce alla nostra stessa immagine ed è nella sostanza conservativa gravissima, va medicata il prima possibile.
Due anni fa, il 21-22 marzo 2015, il FAI meritoriamente inserì nelle XXIII Giornate di primavera palazzo Marucelli Fenzi, affidando le spiegazioni a giovani liceali formati per ciò, e fu un successo clamoroso: vi affluirono in due giorni circa 5000 persone. Nell’occasione fu reso praticabile anche il varco verso la libreria annessa anticamente a questa dimora illustre, la Biblioteca Marucelliana. Una volta liberato, il piano terreno del palazzo potrebbe diventare un raffinato museo, potenzialmente affidabile per la sua gestione e valorizzazione all’interazione degli stessi studenti universitari, fra tirocinii e spin-off, elaborando progetti anche di didattica per le scuole e per la città, per cui sarebbe adattissimo, raccontando tante storie, dalla mitologia greca al sogno pittorico e illusionistico barocco, dall’uso degli spazi domestici e di rappresentanza, all’auto-rappresentazione di famiglie gentilizie da annoverare tra le maggiori a Firenze fra Seicento e Ottocento. Potrebbe essere uno splendido laboratorio, dove la formazione e la ricerca si intreccino con un museo vivo, come già avviene per il Museo e istituto di preistoria Paolo Graziosi, ospite del Comune d Firenze nella sede delle Oblate.
Un giorno forse non necessariamente così remoto il piano terreno di palazzo Marucelli Fenzi potrebbe aggiungersi come una nuova unità del sistema museale di ateneo, contribuendo così insieme al complesso di Villa la Quiete alle Montalve, su cui si stanno impegnando con grande dedizione e generosità due nostri colleghi storici dell’arte, Donatella Pegazzano e Cristiano Giometti, ad arricchire il già prestigioso sistema dei musei naturalistici dell’università.
“Non solo David” dovrebbe essere lo slogan di una battaglia tenace e capillare, quotidiana, per far emergere un’altra Firenze, fatta di un tessuto pullulante e per nulla minore, anzi densissimo di memorie storiche e di piccoli capolavori, fatta di chiostrini, palazzi affrescati, teatri e teatrini, orti e giardini, collezioni di manufatti particolari e naturalistiche, frammenti di realtà monastiche, biblioteche storiche… che ora non è accogliente, non attira quell’ampia fascia di turismo più colto e raffinato, rimane nell’ombra ed è insidiato dal degrado. Ci sono poi energie riposte della società civile che potrebbero venire dissopite e galvanizzate. È bello trovare schiuso l’uscio del chiostrino affrescato di San Pierino, in via Gino Capponi, ed intravvedere tutti i giorni i colori di quella piccola meraviglia, aperta grazie ai volontari della Società Dante Alighieri. La presenza di una popolosa comunità studentesca, specie dei dipartimenti umanistici, che ha pure spopolato queste zone dagli abitanti residenziali, ma che nel bene e nel male le sta permeando sempre più del suo vissuto, potrebbe essere il motore di una riqualificazione dove i luoghi della formazione (università, accademie, biblioteche) e quelli del patrimonio (musei maggiori e minori) si intreccino, rimandino l’uno all’altro.
Alcuni complessi, come la palazzina neoclassica dei Servi, di Luigi Cambray Digny, su cui è stato pubblicato pure un volume, sono stati felicemente recuperati in anni recenti: ora è la sede dell’altro corno del dipartimento SAGAS, una sede bella e funzionale. Celata, anche a noi docenti e agli studenti, vi è l’ottocentesca aula intitolata al grande chimico Ugo Schiff, ebreo tedesco e socialista della prima ora, con le sue ripide gradinate per le dimostrazioni scientifiche, che necessita di interventi urgenti di salvaguardia e che potrebbe essere una piccola attrattiva (io ho chiesto di recente l’autorizzazione ad entravi, ma non ci sono riuscito, e un custode che invece c’è entrato mi dice che le condizioni di degrado sono allarmanti; per questo nel video che scorre a loop sono in grado di mostrare solo un’immagine sfocata rubata dal web). [/sixcol_four] [sixcol_two_last]
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[quote float=”left”]Perché quest’area non potrà un giorno diventare una piccola Oxford, felicemente incistata sul fianco di una città storica sempre più brutalizzata dal consumo orgiastico del turismo massificato, mordi e fuggi, canalizzato nei due o tre binari obbligati e feticizzati?[/quote] Probabilmente anche altri potrebbero lamentare micro-contesti monumentali che patiscono il degrado e che andrebbero salvati. Ma soprattutto quello che manca è un virtuoso sistema connettivo, una rete che facendo conoscere questi luoghi li aiuti a vivere. Una rete in cui proprio gli studenti di beni culturali, in inquieta ricerca di affinare professionalità efficaci, nutrite di sapienza e di sensibilità, potrebbero giocare un ruolo importante in un futuro forse non così remoto e non così utopico. Perché quest’area non potrà un giorno diventare una piccola Oxford, felicemente incistata sul fianco di una città storica sempre più brutalizzata dal consumo orgiastico del turismo massificato, mordi e fuggi, canalizzato nei due o tre binari obbligati e feticizzati? Perché non potrà esservi coltivata la dimensione accogliente e gradevole del college, dove chiostri bellissimi come quello di Sant’Apollonia non siano manomessi da usi impropri e abbandonati allo squallore, dove siano proposti percorsi alternativi, dove i luoghi che si visitano si confondano e mescolino con quelli dove si studia e si ricerca? Perché non si rade al suolo l’obbrobrio cementizio di Sant’Orsola, un fantasma che ha ghettizzato le insulae circostanti, e non si indice un concorso internazionale per trasformare quella vasta area in redditizia foresteria per gli studenti e polmone verde, rilanciando la vocazione studentesca e universitaria di questa zona di Firenze?
[sixcol_four] Importanti contenitori demaniali, pregni di memorie storiche e ricchi di decorazioni, sono stati dismessi in quest’area o verranno dismessi, senza che sia chiaro, almeno nella nozione comune, quale destinazione li attenderà: il buontalentiano casino mediceo di San Marco, appartenuto a don Antonio de’ Medici e al cardinal Carlo, dove erano la Corte d’appello, la Procura generale della Repubblica, l’Avvocatura di stato e il Circolo ufficiali (si legge su wikipedia: “2012, il complesso è attualmente in attesa di nuova destinazione”); l’ex ospedale militare nell’ex monastero femminile di San Domenico del Maglio, il chiostro di Sant’Apollonia, già menzionato, invaso dalle erbacce ed indecorosamente ridotto ad ospitare la mensa universitaria. Per il Maglio si parla di un polo tecnologico per i beni culturali, in cui sarebbe coinvolto anche l’Opificio delle pietre dure, bisognoso di un terzo polo anche per ospitare la sezione tessili e arazzi, tuttora in Palazzo Vecchio, e questa sarebbe una bella notizia. Per il casino mediceo di San Marco anni fa era stato lanciato, in vista di un finanziamento europeo, un progetto ambizioso di polo integrato, museale e della conservazione, che però non è mai decollato. A fronte delle incognite che gravano su questi importanti beni demaniali, su cui sarebbe auspicabile un dibattito pubblico, ci sono musei che scoppiano e offrono strutture drammaticamente inadeguate sia all’importanza delle opere che conservano sia, nel caso della Galleria dell’Accademia, all’imponente flusso di pubblico. Il Museo archeologico, che si presenta ora con tre allestimenti differenti e contradditori, soffre entro spazi insufficienti. L’Accademia al presente non è in grado di offrire nemmeno il servizio guardaroba, per assenza di spazi, non ha luoghi in cui accogliere più degnamente i visitatori che sono in attesa, e magari intrattenerli con ristori e apparati divulgativi ed educativi. Ma soprattutto – ed è per me che studio questo periodo la cosa più dolorosa – la Galleria dell’Accademia racchiude la collezione più importante che ci sia al mondo della pittura su tavola fiorentina fra Due e Quattrocento, ma queste opere sono ammassate una sull’altra come in nessun museo al mondo si farebbe. Sostanzialmente invisibili per coloro che potrebbero apprezzarle. A quanti nostri studenti sono familiari? Quante classi delle scuole secondarie superiori vanno a visitarle? Quanti pensano che all’Accademia si va solo una volta nella vita, subendo la fila interminabile, per vedere il David? Le stesse opere, distese in altri spazi, coi confronti giusti, avrebbero ben altro impatto e potrebbero essere offerte a gradi diversi di fruizione, al di là del turista esotico mordi e fuggi. Perché non cercare una destinazione altra e limitrofa, in spazi di adeguato respiro monumentale, per la collezione di strumenti musicali? O per la gipsoteca Bartolini: bellissima, per carità, sembra di entrare nella Tribuna di Zoffany, ma che densità bestiale di visitatori! O perché non riqualificare l’insula di Sant’Apollonia e lì dislocare la sezione straripante del Quattrocento rinascimentale, arricchendola dei tanti capolavori grandi e piccoli che giacciono nei numerosi depositi fiorentini (quanti affreschi strappati, anche bellissimi, nel deposito di villa Corsini a Castello!), costruendo un percorso storicamente sensato e finalmente godibile, facendo dialogare le tavole con gli affreschi del Cenacolo di Andrea del Castagno, col chiostro rinascimentale, con la cappellina affrescata da Cenni di Francesco e da altri trecentisti, impenetrabile ai più (celata dietro agli uffici dell’Azienda regionale per il diritto allo studio)? E rivelare queste cose, con eleganza ma efficacia: chi sospetta che sotto alle bandiere italiane ed europee, dietro a quel muro spoglio di via XXVII aprile, non ci sia una caserma o un ufficio della pubblica amministrazione, ma il cenacolo di Andrea del Castagno, come una piccola targa dichiara e come qualche viaggiatore inglese sa bene? Eppure oggi ci sarebbero infiniti mezzi, tra ticket cumulativi a tema, app e percorsi on-line segnalati da QR code, per comunicare, oltre alla banale segnaletica che manca drammaticamente un po’ ovunque in questa zona.
Esiste un pubblico che al paragone dei grandi numeri polarizzati da tre-quattro tappe feticcio è di nicchia, ma che in potenza rappresenta una nicchia assai cospicua. Un pubblico colto ed esigente che giustamente va dove l’offerta è adeguata, ben articolata, raffinata, amichevole, e per cui una città come Firenze è obiettivamente respingente. Anche lo slow food deve avere diritto di cittadinanza nel mondo dei beni culturali di una città come Firenze, contribuendo a quel valore aggiunto che può incidere in maniera determinante sull’immagine complessiva, non brutalmente massificata e livellata. Non è una rivendicazione elitaria. All’opposto. L’idea del museo aperto e diffuso, come itinerario, radicato in luoghi diversi, è l’unica salvezza. Massimiliano Tonelli, animatore del sito Artribune, lanciando provocatoriamente la sfida della gratuità per tutti i musei, sul modello inglese, che alla fine potrebbe rivelarsi anche economicamente un fattore di sviluppo e di incentivo di altri redditi, ben maggiori degli introiti che verrebbero sacrificati, così scriveva: bisognerebbe «accettare che [il museo] smetta di essere un fortilizio quasi impenetrabile di studio ed erudizione, ma si trasformi in un’altra nuova piazza per la città», e perché i musei diventino «protagonisti del tessuto economico e sociale delle città» sarebbe necessario conferire «loro ancora più forza per ottemperare al compito principale che è dato loro: promuovere, esporre, sviluppare, tutelare, fare ricerca sulla cultura e sul patrimonio artistico pubblico».
Io sono piemontese, mi sono laureato a Siena su un argomento marchigiano, ho lavorato come storico dell’arte in soprintendenza a Pisa, come ricercatore universitario in Salento, come professore associato in Friuli, ho sposato una donna veneta. Da dieci anni lavoro e insegno qui. Molti in questa università non sono fiorentini e come me hanno il distacco giusto per rendersi conto di tante potenzialità inespresse. Cari amici fiorentini, permettetemelo: Firenze soffre ancora di un male antico, del pertinace particolarismo, della refrattarietà a fare rete e a lavorare in squadra: ognun per sé e bellum omnium erga omnes. Per questo Fulvio Cervini, come presidente del nostro corso di laurea magistrale in storia dell’arte, ed io, come coordinatore del Dottorato regionale Pegaso in Storia delle arti e dello spettacolo, abbiamo voluto invitare tanti autorevoli vicini di casa, e dare loro la parola, ascoltare i loro lamenti e le loro idee propositive. E scusateci se abbiamo dimenticato qualcuno. Ma non vorremmo che oggi ognuno si preoccupasse solo di rivendicare i propri meriti e il proprio ruolo, rinvangando il passato, alzando steccati, riaffermando prerogative, ma al contrario confidiamo che ognuno sappia gettare il cuore oltre l’ostacolo, lanciare idee e proposte, anche saggiamente utopistiche, guardando lontano e non solo al contingente, per progettare in grande e per progettare insieme. Questa è la nostra terza missione! Questo il vero Horizon 2020 che ci attende! [/sixcol_four] [sixcol_two_last] [/sixcol_two_last]
"Musei, Università, Città" (Firenze, febbraio 2017), di Andrea De Marchi Esattamente un anno fa l'Università di Firenze, Dipartimento SAGAS, organizzò un forum per attirare l'attenzione sul degrado di uno dei palazzi più belli di Firenze, il più rappresentativo della stagione tardo barocca insieme a palazzo Medici Riccardi, vale a dire…
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Vincenzo Ferdinandi, stilista italiano e tra i fondatori dell’Alta moda in Italia. Deve la notorietà grazie al taglio dei suoi apprezzati tailleurs oltre che a una rigorosa conoscenza sartoriale ereditata dalla secolare tradizione di famiglia di costumisti e sartoria presso la Corte Reale dei Borbone nel Regno di Napoli.
Vincenzo è nato a Newark, nello Stato del New Jersey, il 29 novembre 1920 da Antonio ed Ernestina Roefaro; una famiglia originaria di Pontecorvo, italiani, trasferiti agli inizi del secolo negli Stati Uniti dove avevano aperto una sartoria. Sin da giovane, Vincenzo apprende i segreti di un mestiere, tramandato da più generazioni, e inizia il suo percorso fortunato nel mondo della moda.
A metà degli anni ’40 si trasferisce in Italia, paese d’origine dei nonni e, dopo aver trascorso un periodo nella sartoria di famiglia in via del Babuino a Roma e affina il suo stile nella sartoria di Fernanda Gattinoni. Periodo in cui sposa Annamaria Malpieri e ha tre figli.
È stato tra i primi grandi stilisti di alta moda a competere con i più blasonati couturier francesi in ambito internazionale. Nel 1949 va a Parigi chiamato da Christian Dior, conosciuto l’anno prima, per una collaborazione stilistica con la celebre maison francese.
Dopo quell’esperienza anche Londra lo chiama per la progettazione di una linea di calzature che porta a termine con estro e creatività tutta italiana. Nel ’51 a Londra, per il mercato inglese, sigla un contratto con la Clark & Morland Ltd, per una linea di stravaganti calzature, elemento accessorio cui il giovane sarto crede fermamente.
Torna in Italia e, Ferdinandi forte della esperienza parigina, apre un atelier haute couture in via Veneto proprio al centro della Dolce Vita.
“Riconosciuto innovatore già negli anni del dopoguerra, si afferma come uno dei fondatori dell’haute-couture in Italia alla quale imprime con il suo stile un’indiscussa traccia, meritando appieno l’appellativo di maestro del tailleur che gli ambienti della moda nazionale ed estera gli conferiscono”.
Mi sono cucito addosso una passione e l’ho trasformata in un mestiere. Hanno definito ogni mio tailleur “il Signor Tailleur”… Non so se è stato realmente così, so solo che ne ero infinitamente onorato.
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Il suo stile era asciutto, privo di quei fronzoli tanto amati invece dall’amico e collega Emilio Schuberth con cui condivise un giovanissimo apprendista, Valentino Garavani.
Ferdinandi amava lo stile con misurato buon gusto e aveva una innata abilità nel taglio. La sola leziosità che aveva, come gesto scaramantico, era quello di cucire personalmente l’ultimo bottone del capo realizzato.
La donna ferdinandiana ideale era moderna e impegnata, per cui lui realizzava tailleur dalla vita sottile, le spalle prive di cuciture e imbottiture.
Vincenzo Ferdinandi è fra gli importanti stilisti invitati dal nobile fiorentino Giovanni Battista Giorgini a sfilare il 22 luglio 1952 a Firenze per la prima storica sfilata nella famosa Sala Bianca a Palazzo Pitti insieme alla Sartoria Antonelli, l’atelier Carosa, Roberto Capucci, Giovannelli-Sciarra, Germana Marucelli, Polinober, la Sartoria Vanna, Jole Veneziani e sedici ditte di sportswear e boutique. La sfilata contribuì a confermare la nascita e la legittimità di una moda italiana contrapposta alla moda francese e dando il via a “quel pionieristico fermento creativo” ben descritto da una giovanissima Oriana Fallaci inviata a riportarne la cronaca dal settimanale Epoca.
A Palazzo Pitti nel 1952, sfidando le convenzioni dell’epoca, fece sfilare per primo su di una passerella internazionale di Alta Moda, una modella di colore, l’americana Dolores Francine Rhiney che gli costò polemiche e ostracismo.
Vestì Ingrid Bergman, Sandra Dee, Rhonda Fleming, la moglie di Sammy Davis jr. May Britt, Virna Lisi, Anna Magnani, Gina Lollobrigida, Sylva Koscina, Lucia Bosè, Ilaria Occhini, Elsa Martinelli, Marta Marzotto,Eloisa Cianni che fu Miss Italia nel 1952. La figlia di Gabriele D’Annunzio fu sua cliente affezionata.
Nel 1953, Vincenzo Ferdinandi, concorre a fondare il SIAM – Sindacato Italiano Alta Moda (diventato poi Camera Nazionale della Moda Italiana) -, in disaccordo con il fondatore dell’Alta Moda in Italia il nobile fiorentino Giovanni Battista Giorgini, insieme ad altri grandi nomi dell’epoca, tra cui: Emilio Schuberth, le sorelle Fontana, Alberto Fabiani, Jole Veneziani, Giovannelli-Sciarra, Mingolini-Gugenheim, Eleonora Garnett, Simonetta. I secessionisti, come vengono chiamati, sono gli stilisti romani che polemicamente fanno sfilare le loro creazioni nei propri atelier a Roma, due giorni prima delle sfilate di Palazzo Pitti a Firenze.
Nel luglio del 1954, insieme alle Sorelle Fontana, Emilio Schuberth, Giovannelli-Sciarra, Garnett e Mingolini-Gugenheim partecipa ad Alta Moda a Castel Sant’Angelo ambientato nella suggestiva cornice del celebre castello.
Jole Veneziani, Emilio Schuberth e Vincenzo Ferdinandi
In quella occasione fu premiata la statunitense Sally Kirkland, Fashion Editor di Life e di Vogue USA, per il suo ruolo di ambasciatrice della moda italiana negli Stati Uniti che ricevette l’onorificenza direttamente da Ferdinandi. Il cocktail/conferenza stampa per la fondazione del SIAM si tenne a Roma all’Open Gate di Rudy con Consuelo Crespi. Tra i partecipanti, un giovane Beppe Modenese che sarebbe poi divenuto presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana.
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Jennifer Jones indossò un suo tailleur nel film Stazione Termini diretto da Vittorio De Sica, anche se nei titoli di coda i costumi vengono accreditati a Christian Dior.
Rimasi incantato dal suo portamento ricordava Ferdinandi, mi disse che voleva un mio tailleur che la facesse sentire a suo agio durante le riprese del film, ma ne aveva già uno di Dior che gli aveva fornito la produzione. Sottolineò che avrebbe però tranquillamente scelto il mio se le fosse piaciuto di più. E così fece.
Quell’anno Dior vinse l’Oscar per il miglior costume e, da vero gentiluomo gli confidò: “Vincenzo…. a bòn retour….“.
Lo stile asciutto e privo di ornamenti aggiuntivi, valse allo stilista, molti riconoscimenti. I tailleur impeccabili by Ferdinandi, lo fanno apprezzare molto anche all’estero. Negli anni sessanta il produttore di moda tedesco Frederich gli chiese di disegnare una linea prêt-à-porter, cui dà spessore e validità stilistica non indifferente.
Tailleur comodi da indossare ma sempre eleganti tanto da meritarsi l’appellativo coniato per lui da Vogue/USA di A Star Tailor, nel settembre del 1952, e numerosi servizi su riviste specializzate di moda e di settore tra cui Harper’s Bazaar e Marie Claire.
Le creazioni Ferdinandi sono state indossate da attrici e mannequins di quegli anni come: Virna Lisi, Sylva Koscina, Lucia Bosè, Luciana Angiolillo, Eloisa Cianni, Lilli Cerasoli, Jennifer Jones, Eliette von Karajan, May Britt, Ivy Nicholson, Janet Sprague, Loredana Pavone, Anna Maria Ghislanzoni, Marta Marzotto e una giovanissima Elsa Martinelli sono solo alcune.
Elsa Martinelli, molto giovane, accompagnava le sorelle maggiori che lavoravano per Ferdinandi ogni giorno. Restava lì, con loro, fino a tarda sera, trascorrendo del tempo tra tessuti, modelli e disegni, in un mondo tutto suo, fatto di sogni. Elsa voleva esibirsi, non voleva altro che quei vestiti, ma era troppo giovane e mio nonno Antonio l’avrebbe cercata in modo protettivo. “Sei troppo giovane”, le avrebbe detto, ed Elsa non vedeva l’ora di diventare una “ragazza grande” come tutte le altre. Un giorno, alla premiere di una collezione, una modella non si fece vedere e mio padre – contro i desideri di mio nonno – le permise di indossare quei vestiti e la catapultò letteralmente nell’enorme soggiorno, instillandola con coraggio; “cammina con un’altalena come una vera signora”, ha detto, “e tutto andrà bene”, finalmente lanciando la sua carriera. Fu un successo immediato perché la modella in provetta affascinò donne, compratori e giornalisti con la sua elegante postura. Fu proprio quell’esperienza che lasciò il posto a una lunga carriera trascorsa sulle passerelle di diversi atelier prima che, finalmente, arrivando al cinema, diventasse il suo mondo…
Elsa Martinelli nel 1955 con un abito della linea “Sfinge”
Al Festival della moda, tenutosi a Napoli nel ’54, si riconoscono a Vincenzo Ferdinandi anche i meriti per la creazione di cappelli – altro accessorio che lui stesso disegna e fa realizzare da Canessa – quali gli impeccabili “tamburelli” guarniti di visone o ciondoli neri e oro, le sue “pagodine” di velluto nero e le sue piccole “cloches” di feltro fumo di Londra.
Vittorio Gallo realizza per la Astra Cinematografica il docufilm Sete e Velluti sulla moda italiana degli anni ’50 colta negli ateliers romani delle case di moda Ferdinandi, Gattinoni e Garnett.
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Ferdinandi è stato tra i primi ad intuire l’importanza degli accessori applicata alla moda – come borse, scarpe, cinture, profumi – marcata con una propria griffe.
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Personaggio estroverso – nel pieno della Dolce vita capitolina è rimasta famosa una sua scommessa calcistica col pittore Antonio Privitera in occasione di un derby Lazio-Roma, persa la quale fece sfilare per la celebre strada undici mucche addobbate con mutandoni giallorossi.
Ferdinandi negli ultimi anni di vita si è dedicato anche alla pittura, con un suo stile basato tutto sui contrasti e i chiaro-scuri, con una tecnica a olio e ad acquerello.
Con l’inizio degli anni ‘60 Ferdinandi non sfilerà più, ma continuerà con l’attività del suo atelier e lavorerà come consulente per diverse industrie di abbigliamento in Italia e all’estero.
Nel 1963 decide di allontanarsi dal mondo delle grandi istituzioni di moda e con il successo del prêt-à-porter assume una posizione più defilata, pur creando abiti fino alla sua scomparsa avvenuta il 22 aprile 1990 a Roma.
Il suo percorso gli ha portato onorificenze e riconoscimenti: i suoi abiti da cerimonia sono stati indossati da molte donne dell’alta società italiana e internazionale. Molti altri sono stati i riconoscimenti conferiti alla sua arte e alla sua creatività nel corso di tutta la sua esistenza.
Nel 2014 il museo Maxxi di Roma all’interno della mostra Bellissima lo considera tra i pionieri della moda italiana.
aggiornato al 19 aprile 2020
Autore: Lynda Di Natale Fonte: wikipedia-org, patrimonio.archivioluce.com, https://ferdinandialtamoda.com/, web
Vincenzo Ferdinandi #vincenzoferdinandi #ferdinandi #creatoredellostile #creatoridellamoda #perfettamentechic #felicementechic Vincenzo Ferdinandi, stilista italiano e tra i fondatori dell'Alta moda in Italia. Deve la notorietà grazie al taglio dei suoi apprezzati tailleurs oltre che a una rigorosa conoscenza sartoriale ereditata dalla secolare tradizione di famiglia di costumisti e sartoria presso la Corte Reale dei Borbone nel Regno di Napoli.
#22 luglio 1952 Firenze#A Star Tailor#Alta Moda a Castel Sant&039;Angelo#Alta moda in Italia#Anna Maria Ghislanzoni#Antonio Privitera#Astra Cinematografica#Beppe Modenese#Camera Nazionale della Moda Italiana#Canessa#Christian Dior#Consuelo Crespi#Dolores Francine Rhiney#Eliette von Karajan#Eloisa Cianni#Elsa Martinelli#Ferdinandi#Frederich#Ivy Nicholson#Janet Sprague#Jennifer Jones#Lilli Cerasoli#Loredana Pavone#Lucia Bosè#Luciana Angiolillo#Marta Marzotto#Maxxi#May Britt#mostra Bellissima#museo Maxxi
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Team Dalcuore-Villa del Corea... The trunkshow in Korea is coming to an end .... It was two days intense with really Outstanding PEOPLE ... return home, but thank Eddie Park, Jin, Soo and Justin for supporting us in this event. Their Presence Has Been decisive for the success of the trunk show ... Thanks to Mr. Seon for giving dates HIS great hospitality and your sense of being a real signore..Grazie to all of you ... we will meet again in Italy The Pitti ... # WorkInProgress @villadelacorea #sartoriadalcuore #villadelcorea #jin #soo #jastin #damianoannunziato #dalcuoreandfriends #gliamicididalcuore #trunkshow #menswear #teamdalcuore #collaboration #sitornaacasa #napolinelcuore #ingiroperilmondo #verapassione #lanostramissione #portarenapolinelmondo (presso Asiana Lounge Incheon Airport)
#menswear#sitornaacasa#jin#dalcuoreandfriends#ingiroperilmondo#collaboration#gliamicididalcuore#trunkshow#damianoannunziato#verapassione#sartoriadalcuore#soo#lanostramissione#portarenapolinelmondo#villadelcorea#teamdalcuore#napolinelcuore#jastin
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#Repost @sartorialjournal with @repostapp ・・・ Due to the nature of bespoke, it is an experience thought to be afforded to only a select few - typically a demographic of middle aged gentlemen who are privvy to bespoke due to having reached the pinnacle of their professional careers. And whilst this is certainly not intended as a negative, it is rare to see such garments adorning younger and dare we say, ’trendier’ gentlemen. Of equal rarity are commissions outside of the more ‘conservative’ fabric spectrum - this due to the typically corporate nature of the bespoke client's employment. It is fortunate then that younger sartorial enthusiasts like Jonathan Edwards exist - coupling the rich tradition of bespoke with a modern panache. Here, Jonathan is captured during the most recent Pitti Uomo wearing a bespoke coat courtesy of the much fabled master of Neapolitan tailoring, Signore Panico. Cut from a 13oz cornflower blue shetland tweed with a navy overcheck (courtesy of Jonathan's preferred purveyors of tweed in W. Bill), it exudes the nonchalant drama that only an overcoat can, yet remains equally understated when worn in conjunction with the muted navy and grey palette - a sartorial masterclass on how to tastefully differentiate oneself, which culminated in Jonathan featuring throughout Italian Vogue and British GQ’s coverage of Pitti, despite their usual focus on high fashion. @milanstylelive @sartoriapanico @eduardo_de_simone @wbill1846 @escorialwool - photo courtesy of Fabrizio Di Paolo who was generous enough to collaborate with us during this most recent Pitti Uomo. Thank you, Fabrizio. @fabriziodipaoloph
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Days 11,12: Famiglia fa Firenze (e Bologna)
Cantinetta Verrazano has claimed our hearts so a macchiatone and a choice from the fabulous display case is a must first stop on our way to the station for the 1/2 hr trip to Bologna (a créma filled cornetto 1€, macchiatone 1€).
We walk into the Centro storico via the porticoed, marbled floor walkways and la famiglia immediately like the ‘feel’ and the red-toned building colours and ornate stately architecture. A walk around Piazza Maggiore after first calling into s Bialetti shop sale where we pick up a cute black caffetiera and have an interesting chat to the salesgirl who tells us a little about the university and comments very favourably on my Italian. The more I’m told this the more confident I feel and am daring to throw myself into the breach with some good results.
We are taking them to Osteria del Sole 1459 which we’d enjoyed so much on our first visit. Buy some deli items from the nearby alimentari (famous Bolognese Mortadella, prosciutto and salami, burrata, buffalo mozzarella and fresh bread) and take it to a table in the Osteria, buy a glass of wine and enjoy. Next table is a group we title Table of Knowledge, about 8 mates, all sharing their lunch and as Glenn says walking in with as much knowledge with which they’ll walk out but having a great ol’ time doing it. They have a laugh with Isabella when one straggler finally joins them and they cheer and shake their heads and Isabella says “cattivo!” (naughty), si,si they laugh. I offer them our leftover rolls and say, otherwise we’ll throw it out, one takes it kindly and says “beh! il pane non si butta mai!” (Well, bread must never be thrown away!) Dad used to say the same thing. G told me to say “you’re all fading away, you need to eat more”. One wag replies drolly “what we need is a defribulator”😆. A great experience.
This was planned as our antipasto followed by checking out some sights including Le due Torri and the University area followed by a long walk to trattoria Anna Maria, where we wanted them to try Bolognese specialities, tortellini in brodo and tagliatelle al ragu (not spaghetti, never, no, no). Wonderful. Back through the porticoes and apparently we’ve clocked up another 10000 steps (each day so far🚶🏼♂️🚶🏼♂️🚶🏼♂️🚶♀️🚶♀️) 😅.
When we alight the train, I push the friendship by directing map man Adrian to google map us to Officina Profumo-Farmaceutica di Santa Maria Novella (it’s just 2 mins away!). One of the oldest pharmacies in the world, founded by Dominican friars around 1221,the year of their arrival in Florence. The pharmacy used medicinal herbs grown in the monastic gardens to make medications , balms and pomades for the monks’ infirmary. The most beautiful rooms, frescoed, gorgeous cabinetry and looking out onto the cloister garden again frescoed porticoes amaze. Issy and I will return.
Whoa, sore 👣 require rest then a gentle passegiata and an insalata for dinner. We sit just off il Duomo al fresco at Eataly with a side view of the Baptistry. Busker which G and I think is alright but gains 🙄 from the young‘uns adds atmosphere. Gelato for Glenn and weary heads hit pillows. Un’altra giornata bellessima.
The signore at Verrazzano are charmed when I say how much we love this spot and I’m loving hearing la famiglia ordering in Italian, bless. Cappuccino con doppio caffe is the go replacing macchiatone and it’s good and hot and sitting is no extra. Should we try somewhere else for our morning shot? Perche? Is the response. Va bene allora.
The boys opt for Museo Galileo and Isabella and I to wander the vias in our neighbourhood and beyond and we have a wonderful morning - more rewarding and sweet experiences chatting to salespeople or gallery attendants, a few memorable purchases but mostly just a lot of fun memories made.
We tee up with the boys for lunch and after an insalata the night before, apparently pasta is called for so Issy directs us to a spot we’d seen that morning, Casella 18. Perfect tagliolini carbonara (as declared by the experts A and A), pici cacio e pepe (G) and carpaccio con rucola e parmigiano for the girls. Fun, fun, delicious fun.
A little afternoon acquistare (shopping) by all then a welcome relax at Omero for planning and feet up. Apartment is extremely well positioned for this ✅. we’d planned to go to Oltrarno (other side of Arno) but all 3 places I try are booked or not open and the weather looks like it could turn ( but doesn’t ‘cause I take a brolly😉) so we reschedule that for another night and head out to pot luck. A lovely wine bar choice for aperitivo is fun due to great bar staff and my Negroni could lead to addiction (turns out it’s bar man’s favourite so ...). More wandering and we’re not ready to eat so stop again when we turn a corner and the back of the Duomo looms just before us...awesome...well, let’s just sit for another drink and soak it up, right here at this table, steps away. Let’s talk about the awesome people who sweated and slaved to make this magnificence and all the little stories we’ve learnt about its construction. Heaven.
Dinner is one of those where what you eat is forgotten in just the memory of a great meal due to the conversation and laughs, this time by stories of childhood, family history and the whys and wherefores of my life (mostly) interwoven with anecdotes of Glenn’s to spice things up. A few tears but sweet ones...or is that the Antinori and limoncello?
Gelato calls and as we approach our building, a house-music thump is heard and Issy, Glenn and I go see ... boys slink off ... an event of some sort, (probably Pitti Uomo - men’s fashion event - which has led us to us seeing some very spiffy dudes posing and prancing around the city in the last few days). Strobing lights, cool fashionistas, black limos and that beat has us acting the fools as Glenn acts bodyguard 🙄 💃🏼💃🏼👨🏻🎤. Giggles. Bed.
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I colori della città: le pietre di Firenze.
Palazzo Medici Riccardi particolare della facciata Ogni città si configura per la sua storia, per la sua posizione geografica, per il territorio e il paesaggio naturale in cui si inserisce. Sono questi aspetti che le conferisco un carattere; la rendono infatti unica e riconoscibile nelle sue forme. Non per ultima, c’è una componente che la caratterizza in maniera visibile, quella che scaturisce dai colori delle sue pietre, quelle delle facciate dei suoi palazzi e delle sue chiese, quelle delle lastre delle sue strade e delle sue piazze, quelle che la ornano e l’abbelliscono, quelle dei monumenti, delle colonne, degli archi, delle architravi, delle statue, dei tabernacoli e delle epigrafi. Più sono antiche più le città si vestono dei colori del territorio che le ospita e nel quale hanno trovato i materiali per edificare, lastricare, adornare, decorare. Custoditi nelle pietre ci sono anche scampoli di vita che le epigrafi e i festoni incisi raccontano o le teste e i busti che spesso ci sorprendono con la loro presenza, sporgendo da un vecchio muro o immortalando in alto, in modo quasi schivo, personaggi scomparsi o sconosciuti. Tre i colori dominanti a Firenze, quello della pietraforte, della pietra bigia e della pietra serena appartenenti alla famiglia delle arenarie: sono inconfondibili e le conferiscono un’aria austera, ma nello stesso tempo sobria e calda come lo sono le venature marrone-gialloazzurrino della pietraforte, la pietra della Firenze medioevale oppure il marroncino della pietra bigia o il grigio luminoso della pietra serena che, nel contrasto grigio-bianco, domina l’architettura del Rinascimento.
Palazzo Pitti particolare della facciata Della pietra bigia di Fiesole scrive il monaco Agostino del Riccio; in un trattatello del 1597 intitolato Historia delle pietre dice che è molto in uso nella città di Firenze, e d’essa fanno le belle facciate, finestre, usci, ma in particulare le finestre inginocchiate, come si vede nel palazzo dell’Illustrissimo signor Girolamo Gondi ed in molti altri palazzi e casamenti della città. ..Le più famose finestre inginocchiate, attribuite a Michelangelo, sono quelle che si possono ammirare al piano terreno di Palazzo Medici-Riccardi; il nome deriva probabilmente dal fatto che sono sorrette da due sostegni sporgenti simili a gambe piegate.
Palazzo Medici Riccardi finestra inginocchiata particolare Dall’alto la città si macchia del rosso dei suoi tetti e delle cupole delle sue chiese o del verde della serpentinite, ma è trascorrendoci in mezzo che ci accorgiamo quanto siano dominanti gli altri, quelli delle arenarie di cui il territorio si presenta ricco: tutta la collina di Boboli, i rilievi del Piazzale, Arcetri sono infatti costituiti di pietraforte che ha il colore alquanto gialliccio, con alcune vene di bianco sottilissime che le danno grandissima grazia…di questa sorte di pietra è murato il palazzo de’ Signori, la Loggia, Or San Michele, et il di dentro di tutto il corpo di Santa Maria del Fiore e cosí tutti i ponti di quella città, il palazzo de’ Pitti e quello de gli Strozzi ( Vasari). La pietra serena con il suo colore ceruleo chiaro tendente al grigio-azzuzzino, in cui brillano i puntini lucenti delle concrezioni di mica, decora con colonne, cornici e costoloni soprattutto gli interni. Era estratta anticamente nelle cave di Fiesole, lungo la valle del Mugnone e un po’ in tutte le località a nord della città; l’altra a grana medio grossa, conosciuta come una varietà dell’arenaria Macigno*, era più frequente a sud-ovest della città. Così la descrive nelle sue varietà il Vasari nel 1550…è quella sorte che trae in azzurrigno o vero tinta di bigio… e ne’ monti di Fiesole è bellissima, per esservisi cavato saldezze grandissime di pietre, come veggiamo in tutti gli edifici che sono in Fiorenza fatti da Filippo di Ser Brunellesco, il quale fece cavare tutte le pietre di San Lorenzo e di Santo Spirito…. Questa sorte di pietra è bellissima a vedere, ma dove sia umidità e vi piova su o abbia ghiacciati addosso, si logora e si sfalda; ma al coperto ella dura in infinito… Della qual pietra Michele Agnolo s’è servito nella libreria e sagrestia di San Lorenzo…la qual pietra è gentile di grana, et ha fatto condurre le cornici, le colonne et ogni lavoro con tanta diligenza, che d’argento non resterebbe sí bella. La pietraforte per la sua resistenza fu usata anche per la pavimentazione delle strade del centro e per le mura cittadine; la pietra bigia, più resistente al degrado rispetto alla serena sua consimile, abbelliva all’esterno i palazzi fiorentini con stemmi e ornamentazioni varie, mentre la pietra serena, proprio perchè si prestava ad essere scolpita, fu utilizzata per la realizzazione di colonne monolitiche, stipiti e soglie; il Palazzo degli Uffizi e il porticato della SS. Annunziata sono invece gli unici esempi di un suo utilizzo all’esterno.
Santa Maria Maggiore da via Cerretani Seguire i colori della città è un po’guardarla con occhi nuovi, da una prospettiva non solo diversa, ma più attenta ai particolari; non mancano curiosità e misteri che il passante distratto scopre casualmente perchè è difficile accorgersene se non si cercano o non si colgono in un’occasionale sguardo all’insù: cosa ci fa e di chi è la bianca testa pietrificata che sporge sulla torre campanaria della facciata giallo rosata di Santa Maria Maggiore o cosa c’è scritto sui cartigli di pietra ai lati del portone del palazzo detto appunto dei Cartelloni di via Sant’Antonino o a chi appartiene il grigio stemma con tre tafani, in alto, nel bel palazzo in Borgo dei Greci? (ndr: per chi volesse saperne di più, consiglio il bel libro della Giannarelli e della Pellis dal titolo Donne di pietra)
Particolare della torre: in alto, la testa bianca di una statua Firenze sa incantarci anche con i bagliori e le screpolature delle sue pietre e con tutto quel mondo di storie e storia che li accompagna.
Il palazzo dei Cartelloni in via Sant’Antonino
*Macigno – tipo di pietra arenaria dell’Appennino settentrionale, di colore grigio o giallognolo: impiegata come materiale da costruzione con il nome di “pietra forte” nella varietà compatta e pesante e con quello di “pietra serena” nella varietà più tenera, facilmente lavorabile, di colore azzurrognolo. https://tuttatoscana.net/storia-e-microstoria-2/i-colori-della-citta-le-pietre-di-firenze/
tuttatoscana.net
Salvina Pizzuoli Read the full article
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