#sfoglio
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jpop you will be allowed to live another day, i guess
#le edizioni per moto hagio sono belle nulla da dire. poi spesso raccolte in volumi unici. prezzi umani. godo#prima o poi comprerò anche il clan dei poe siccome pure quello le scans online sono orribili e frammentarie#a#sta uscendo a cruel god reigns con questa collana ora. troppo lungo per comprarlo però lol ma lo sfoglio in fumetteria#la qualità della stampa è bella. le sue illustrazioni clamorose riescono a far superare la trama alla hanya yanagihara
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Prima sono andata a casa di mia madre per prendere in prestito un trapano visto che il mio è in negozio (nb. Scopro che mia madre non ha più il trapano perché ho anche il suo in negozio. Perché? Che cazzo ne so).
Sono scesa al piano interrato e ho cominciato a cercare, cerca di qua, cerca di là, mi sono imbattuta nella scatola con i miei progetti dell'Università, la riapro sempre quando la vedo, sfoglio le prime cose, guardo i vari pezzi di poliplat, ma non arrivo mai al fondo, non voglio rovinarmi la sorpresa perché so che un giorno arriverò al fondo della scatola e penserò "seee vabbè e questo chi se lo ricorda?" oppure "ma quando mai ho fatto sta cosa" o probabilmente "che cacata" ma anche "geniale, che talento sprecato". Poi ho intravisto su un mobile una scatola con scritto "Camera vecchia C'houncazzodicasino". L'ho aperta e ho adorato tutto. I pochi cd originali che avevo, insieme alle varie compilation, la macchinetta portatile con cui facevo le foto in ogni momento ai miei amici, sempre, sempre, ad ogni occasione avevo quella macchinetta in borsa, un soprammobile in resina che raffigura un fungo del mondo degli gnomi con occhi e naso, un vecchio pass per maison et object, i quadernini e le moleskine dove prendevo appunti all'università di storia dell'Architettura (conservati gelosamente), il vecchio lettore mp3 e una scatolina con alcuni ricordi del nonno. Anche qui non sono arrivata al fondo della scatola. Volontariamente.
Quanto mi piacciono quelle cinque sei scatole piene di ricordi e cose che ho sparse per casa mia e casa di mia madre. Mi passano di mente o forse ci penso ogni giorno. Mi passano di mente e ci penso ogni giorno.
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Mi piace leggere le vite dei santi perché trovo siano la perfetta unione di horror e fantasia. In particolare, fatta eccezione per san Lorenzo e san Sebastiano, amo le vite delle sante, che sono sempre assurde. Riconducibili (e vorrei vedere) ai miti greci, queste donne, quando non psicolabili, molto spesso subivano l'ira di dio e degli uomini per colpe di altri. Espiavano peccati non propri. Si ribellavano. Morivano male. Diventavano sante.
A Palermo ho comprato un libro molto bello. Sante ragazze, di Ljubiza Mezzatesta, (cercatela) una donna fantastica, ingarellata sull'agiografia femminile. Lo sfoglio spesso, confronto le informazioni con quelle che conosco io, imparo nuove cose e leggo dei pezzi alle mie gatte che non comprendono moltissimo di quello che dico; così ho pensato di leggere per chi mi ascolta, il che, per il lavoro che faccio, è davvero una cosa buffa e a parti invertite, ma tant'è. Ho problemi con le erre e all'inizio del pezzo ce ne sono tantissime. Ho problemi con il respiro, perché fumo e non sono abituata a leggere ad alta voce. Ho problemi proprio nella gestione della mia voce, ma mi sono divertita tantissimo e sento di avere un futuro nei podcastahahahahah.
Evviva Santa Lucia. (l'immagine è Santa Lucia, sempre di Ljubiza Mezzatesta)
#sto post durerà pochissimo#perché già mi vergogno#ma sono cose che devo fare#santa lucia#Ljubiza Mezzatesta
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Stasera appena staccato dal lavoro decido di non tornare a casa e passare per la libreria della mia città, ho bisogno di un po’ di leggerezza dopo una giornata decisamente pesante come questa. Entro in negozio e mi fiondo sulla sezione “romanzi rosa” tentando di cercare un libro che non avessi già letto (visto che li ho praticamente divorati quasi tutti).
Mentre sono accovacciata, intenta a leggere la trama di un libro, fanno capolino accanto a me un paio di stivali neri, sono di una ragazza che spulcia lo scaffale: ha i piedi puntati verso l’interno, le mani in tasca e il suo sguardo curioso tradisce la sua apparente timidezza.
Io passo un po’ di tempo a sfogliare i vari libri e noto che lei torna spesso a curiosare tra gli stessi romanzi che sfoglio io, finché non prende in mano un libro: “Magnolia Parks”. Incuriosita, decido di prenderlo anch’io e di capire cosa l’abbia colpita di quel romanzo tanto da tenerselo subito stretto al petto.
Le dico che ha colpito anche me il libro che ha preso e che ho tutta l’intenzione di leggerlo anch’io, lei mi guarda e mi sorride e mi dice che le piacciono le storie che sanno toccare il cuore e da lì mi racconta dei suoi romanzi preferiti, del suo fidanzato (anche lui appassionato di letture rosa), del suo lavoro stressante e di come le piaccia leggere sul treno.
Dopo un po’ mi chiede che lavoro faccio, io le dico che sono una psicologa e lei subito sgrana gli occhi dicendomi che era da tempo che pensava di andare in terapia e che le farebbe piacere iniziare con me. Ci scambiamo i contatti e lei tutta contenta mi dice che non si aspettava di trovare una sorpresa come me in questa serata di dicembre, io le rispondo che sono dell’idea che nulla accada per caso e che forse, semplicemente, questo era il momento giusto. Lei mi stringe la mano, non fa che sorridere e il mio cuore ancora una volta si meraviglia di quanto la vita, a volte, possa essere sorprendente.
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Ci si può lasciare con amore. Qualche ora fa, #TizianoFerro ha pubblicato un post che dovrebbe ricordare a tutti che anche i matrimoni finiscono e che tutto prima o poi si trasforma, per bontà, per capacità o semplicemente perché la vita ci restituisce poi sempre a noi stessi e sempre un po’ più interi. Una carezza Tiziano alla tua bella famiglia, alla tua ricostruzione e ai tuoi bimbi.
Tiziana
“~T & V~
𝟐𝟓/𝟔/𝟏𝟗 ✺ 𝟏𝟓/𝟑/𝟐𝟒
È andata così.
E preferisco raccontarvelo io, come ho fatto con tutti i miei amici, prima che possa trapelare e diventare l’ennesimo pettegolezzo sterile.
La nostra storia è ufficialmente conclusa.
Non è la fine del mondo.
Non è un massacro.
Non è un fallimento, se non lo vogliamo.
È un lutto: si passa attraverso il dolore, ma poi il dolore passa.
E diventa un dono, esperienza, saggezza.
Per ora, speranza.
Quindi grazie vita!
Grazie Dio.
Grazie amici miei.
Grazie a chi mi ha salvato sul ciglio del burrone.
Grazie a chi ha abbandonato la nave mentre affondava.
Grazie cucciolotti miei, donatori di vita eterna.
…grazie Vic.
Sfoglio l’ultima pagina, mentre mi accorgo che sto già scrivendo un capitolo nuovo.
Quindi sorrido: buona ricostruzione, Tiziano!”
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Ti sfoglio pezzo a pezzo
come un libro antico, rilegato.
Ti leggo dai piedi alle labbra
indugiando sui fianchi tondi.
Lascio per sempre l'ultima pagina
la fine che non voglio trovare.
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Sfoglio profili come pagine dell’antologia di Spoon River. Leggo di sogni interrotti e pensieri celati. E mi rendo conto che dietro le immagini e le parole scritte ci sono persone reali con i loro dolori e le loro esperienze.
Mi soffermo a leggere riguardo il loro tempo perduto, di quello che la loro vita sarebbe potuta essere. Mi cruccio perché ne percepisco la sofferenza, ma in parte mi rallegro anche del mio nostalgico dispiacere, perché sembra quasi che io sia ancora in grado di provare qualcosa, nonostante la mia aridità che mi consuma giorno dopo giorno.
Anzi mi faccio anche un po’ schifo, perché certe volte è come se mi abbandonassi ad una sorta di sciacallaggio emotivo, cibandomi della sofferenza altrui, solo per tornare a provare anch’io un’emozione, sebbene per via indiretta.
Mi rivedo poi in quei loro sogni spezzati o in quella loro rabbia e delusione per se stessi, al punto che certe frasi sembrano scritte da me stesso. Alcune di queste me le sono ripetute fino allo sfinimento, un po’ per incoraggiarmi ed un po’ per punirmi. E mi torna alla mente di quanto io sia stato rude con me stesso, riportandomi con il pensiero ad un tempo in cui ero ancora in grado di sognare.
Vorrei dire loro di non fare i miei stessi sbagli. Di non lasciare che il disprezzo per se stessi li convinca di essere dei mediocri come il sottoscritto e di non permettere che quel senso di svuotamento che sembra loro riempirli, li trasformi nella nullità che io poi realmente sono diventato nel tempo. E quando parlo di mediocrità e di nullità non mi rivolgo a me come a quello che appaio esternamente. Tutto sommato a prima vista potrei sembrare una persona sufficientemente intelligente, e neanche così orribile ad un primo ed esteriore impatto visivo, ma se mi si potesse leggere dentro si scorgerebbe come la trama del mio essere sia solo un insieme di pagine bianche.
Percepisco nelle loro parole un vuoto che non è appunto vacuo, ma piuttosto determinato da una pienezza trasbordante incapace di essere adeguatamente incanalata. Come se un terremoto avesse abbattuto lo spazio in cui riponevano le loro speranze, ma quelle speranze in fondo sono sempre lì premendo dentro di loro, reclamando il loro posto. Anime vagabonde in cerca di un sacrario dove riversare tutto l’amore che hanno dentro. Loro si disprezzano, eppure io li ammiro così tanto.
Poi penso a me, alla mia sterilità emotiva. Penso che io quei desideri li ho vissuti e quelle visioni le ho in parte realizzate, ma nel tempo le ho rese grigie e trasformate in momenti di tristezza. Penso che ho la facoltà di rendere malinconico anche il momento più gioioso, come una sorta di Re Mida della mestizia. E come tale ho imparato, per conservare quel poco di serenità che mi resta, a non toccare più nulla al di fuori di me, e mi sono progressivamente spento, divenendo sempre più distaccato e insensibile nei confronti dell’altro. Al punto tale da non riuscire più a provare sentimenti. E così certe notti sento che baratterei volentieri questa asfissiante e apatica vacuità con un po’ di sana vecchia e dolorosa passione…
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più ti sfoglio, più si allungano le vocali finali dei no che si susseguono ad ogni elemento nuovo di te che scopro e che mi piace, no non puoi essere davvero così bella, noo non posso aver utilizzato una parola banale come bella per descriverti, nooo non può essere che abbiamo anche questo in comune, noooo non voglio che la mia immaginazione inizi a propormi possibili anteprime del tuo corpo nudo, nooooo davvero non devi farmi ridere e noooooo assolutamente non provare a ridere tu, ché ogni sorriso è una o in più, noooooooo ti ho detto di tenere ferme quelle labbra, nooooooooo e poi perché mi parli? come ti permetti? perché vuoi conoscermi? perché ti avvicini? lascia perdere, ho quasi finito le o a disposizione nel borsello che non aprivo da chissà quanto, devo riportare tutto alla normalità, mi serve qualcosa che mi rassicuri, dimmi che vivi dall'altra parte del mondo e sei qua nei miei pensieri solo di passaggio, posso dire sì o devo urlare il no più lungo mai sentito?
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La seconda: non chiedermelo più
Anche la tua, di bellezza, è una cosa irraggiungibile. Se ci penso mi ricorda una foto di dieci anni fa di un palazzo che è stato demolito ieri, o sentire casualmente per strada un odore del passato, ma inafferrabile, impossibile da collocare con precisione.
Anche se non ci parliamo più, e forse ti ricordi ogni tanto di me solo mentre spingi il pesantissimo cancello di casa tua, o nei pochi momenti in cui sposti i mobili della tua camera; io ricordo ogni giorno i tratti della tua bellezza. Nitidi, trasparenti: come se li avessi qui davanti in questo momento.
Sdraiata a letto hai in mano una bottiglia d’acqua quasi vuota, poi sei su un treno davanti a me, con una gonna lunghissima in piena estate. Mi dai un biglietto della metropolitana, ci vediamo a colazione, piangi perché hai perso un aereo, ridi con le stesse frasi di una canzone che ripetiamo allo sfinimento. Prendi un ascensore e per un attimo dimentichi il mio piano, ti nascondi in un bosco pieno di conigli, l’anno scorso mi hai detto che vuoi imparare a lavorare il legno.
Sfoglio distrattamente le migliaia di foto salvate sull’iPhone, e nella scheda Persone c’è un cerchio con dentro il tuo viso, e sotto un punto interrogativo. Dai un nome a questa persona?, mi chiede un sistema operativo pensato tanti anni fa in California. No, gli dico, perché dare un nome alle cose le rende reali, e tu non hai più niente a che fare con le mie mattine o le notti in cui non dormo. E mi sento così forte durante questa breve presa di posizione, mi sento così forte che tutti i pezzi mancanti della vita sembrano rimettersi al loro posto, prima di distruggersi di nuovo.
L’ennesimo rifiuto porta il telefono a darmi una via d’uscita, propormi il perfetto manuale della mia salvezza momentanea (è stanco pure lui di assistere a tutto questo): non chiedermelo più. Basta un tocco ed è tutto finito, il tuo viso sparisce, e la tua bellezza senza fine diventa concreta come tutte le cose che si possono dimenticare.
Va bene: domani lo faccio.
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Mi infilo nei tuoi pensieri
sfoglio le emozioni una ad una senza regole dentro i risvolti dissimulati che lentamente si mostrano
li sento restituiti senza nessun sollievo alle lacrime luccicanti che ti incidono
in quel lento supplizio che strozza
in quel liquido senza suono
Il tuo sentire di donna.
A.
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Ho comprato un libro usato dal venditore online Asino d'Oro: la Guida alla lettura di Leopardi, di Vincenzo Guarracino, l'autore che mi ha contattato per chiedermi il permesso di usare due miei pensieri per la compilazione di un Dizionario Leopardiano.
Il volume è in buone condizioni, pari al nuovo se non fosse per le pagine ingiallite; sembra non sia neppure stato letto, ed è dotato di una sovraccoperta in plastica trasparente applicata con la massima cura.
Sapete quanto io abbia bisogno di credere nell'Essere, a causa della mia spinta idealistica, e quanto in ciò sia frenata dal mio razionalismo e scetticismo congenito (e che non ho intenzione di combattere).
Da più giorni sentivo una voce, in eloquio interiore, che mi diceva: "Pezzetto di carta, troverai un pezzetto di carta..."
Leopardi, sei tu?
Sì.
Troverò un pezzetto di carta per strada? Con tutta la monnezza che ci sta a Palermo, capirai!...
No, nel libro che riceverai. È un mio messaggio.
Ah, mi hai fatto una dedica? Che gentile.
Non con la mia grafia, ma proviene da me, ed è per te, per farti credere.
Certo, certo. Gentilissimo.
Arriva il libro, lo tengo confezionato in ripostiglio per due giorni, non sono motivata a sconfezionarlo perché ho già altre letture che mi avvincono, ma mentre leggo altro, sento quella voce:
"Stai tenendo nel ripostiglio il mio messaggio per te. Non avere paura, apri la confezione, sfoglia il libro, guarda..."
Leopardi, non illudermi tanto oltre, perché poi la disillusione sarà amara.
Sorride: "Nessuna disillusione, il pezzetto di carta è nel libro, lo vedo."
Sì sì, va bene, però lo farò domani, perché adesso sto riposando, vedi?
Vedo che giaci a letto, ma che non riposi. (Stavo leggendo delle trascrizioni di sedute medianiche, dannandomi per l'incongruenza con la verità scientifica di alcune affermazioni da parte di spiriti disincarnati, la quale mi faceva pensare, come al solito, che le religioni sono una mera auto-illusione umana.)
Eh, non facciamo tanto i pignoli, ti ho detto domani.
L'indomani, ovvero oggi, taglio l'involucro in cui è avvolto il libro, sfoglio quest'ultimo, mi compiaccio per le sue buone condizioni; sono felice della corposità del volume, mi riprometto di leggerne poche pagine al giorno, per farmelo durare tanto; penso: "Mi farà compagnia per almeno sei mesi. Ottimo! Tra questo e il saggio della Marcon che mi arriverà oggi, avrò letture leopardiane per quasi un anno." Non penso alla sciocchezza del messaggio sul pezzetto di carta... Sfoglio, sfoglio... Poi, tra le pagine ingiallite, precisamente quelle in cui si parla del Dialogo di un fisico e di un metafisico, vedo un pezzetto di carta... Stampato su entrambi i lati.
È una frase evangelica di Luca. Sul retro, un commento ad essa. Il pezzetto di carta probabilmente è stato stralciato da un'agenda: si legge l'anno, 2014, e il santo del giorno, San Carlo Borromeo.
Leopardi mi invita spesso a credere in Dio, a volte anche con un filo di severità, per avvisarmi che non si tratta di uno scherzo, ma di una questione di estrema importanza. La stessa severità ritrovo in questo messaggio rinvenuto fra le pagine di un libro usato, ultima copia disponibile presso un rivenditore che ho scelto a caso.
#diario#pensieri#scrittura#letture#guida alla lettura di leopardi#libri usati#martedì 4 novembre#vincenzo guarracino#manuali#oscar mondadori
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"Il sacro vincolo"
Continuando dal post precedente, la seconda storia invece, che intitolo "Il sacro vincolo", è quella più fresca nel tempo, e che mi arreca un senso di lieve disgusto, oltre che di pesante tristezza.
Tutto accade qui, nel giro di una decina di giorni.
Un po' dal nulla, perch�� i miei post trascorrono quasi sempre ignorati da tutti, compaiono alcuni like da un blog a me ignoto, poi un messaggio, in cui "lei" mi chiede indicazioni approssimative sulla mia età. Rispondo sinceramente anche se restando sul vago, nel frattempo sfoglio questo blog, che è di quelli che Tumblr definisce per adulti, cercando di capire chi, probabilmente un vecchio "hater", stavolta intende perseguitarmi... Il blog sembra uno dei tanti blog porno anonimi, ma poi, scavando di più nel passato, capisco che si tratta di una persona che è qui da tanto, che pubblica tante cose diverse, senza mai, però, esprimere in modo esplicito qualcosa di personale, qualcosa su di sè. Sarà una donna, un uomo, una comitiva boccaccesca?
Inizio a darle credito, a commentare qualche suo post, a insinuare qualche domanda, a rispondere a qualche sua curiosità, a mostrarle delle parti di me, quelle più intriganti, forse, come faremmo tutti, il dorso di una mano, il desiderio più urgente e più vorace. Lei risponde con la devozione con cui compila un sudoku, con la curiosità di una adolescenza in ritardo, con una, almeno apparente, crescente eccitazione che la porta a collegarsi per chattare e a scrivere sempre di più, a qualunque ora.
Poi, sorprendentemente, mi chiede: posso sentire la tua voce? Erano passati solo due o tre giorni, eppure io, stanco davvero di passare da un social all'altro come in un perpetuo tentativo di sfuggire alla verità delle mie urgenze, le dico: chiamami, in qualsiasi momento, questo è il mio numero, e le do il mio numero, quello vero.
Chiama quasi subito, lei, da un numero privato. Ha una voce suadente, non così infantile come l'avevo immaginata, ed è così che inizio a capire, e più che capire è un deja vu, l'ennesimo, uno dei tanti schemi che nella mia esperienza sui social ormai ho finito per riconoscere sempre meglio, sempre prima.
Numero privato, non vuole sapere il mio nome, non vuole dirmi il suo, mi permette di inventare un nomignolo con cui chiamarla, si parla di nebbia e di spiagge, è tutto ciò che mi permette di esplicitare per localizzarci in qualche modo, lei potrebbe essere di Milano o di Padova o di Torino, non sono bravo con gli accenti e il suo, come il mio, sembra essere influenzato da una vita imbastardita, trascorsa a contatto con luoghi e persone diverse, e forse anche da studi che hanno ripulito le tossine della geografia, scartandole dal suo eloquio.
Si emoziona, tanto, mi emoziono anche io, ci raccontiamo cose inutili, sembra esserci davvero una intimità quasi naturale, ovvia, inesorabile. Inizio a confidarle delle cose, a piccozzare il muro della mia diffidenza, prima ancora di aggredire la sua.
I giorni passano, talora il lavoro concede più spazio alle conversazioni in chat, talora meno, ma continuiamo a sentirci, a parlare molto di sesso, di desideri, di fantasie, a codificare un linguaggio comune, che in questo caso è una lingua pulitissima, igienica, una lingua in cui la fica e il cazzo semplicemente non esistono, eppure esistono i desideri, i bisogni, i più selvatici, i più turpi.
Lei, bruscamente, confessa. E' sposata. Lo dice come confessando un peccato mortale e chiedendo una penitenza, una assoluzione.
Le chiedo perchè sposarsi, perchè non convivere semplicemente. Mi parla del vincolo, dell'importanza, della necessità del vincolo, l'essere umano, dice, ha bisogno di vincoli. Non parla di legami, parla di catene.
Come fosse una risposta, e invece non lo era affatto, la avverto della mia intenzione di avere un rapporto occasionale, nei giorni a venire, con una donna che vedo, solo per sesso, di tanto in tanto.
Lei lotta: fieramente, orgogliosamente, con i suoi sentimenti, con le emozioni di rabbia, di gelosia, con l'invidia per lei, con la curiosità, col desiderio di sapere tutto e con il desiderio di zittirmi, di cancellare questa cosa, di cancellare anche la nostra confidenza, se necessario. Vorrebbe mordermi il palmo della mano, vorrebbe graffiarmi, si morde da sola e continua a rovinarsi le labbra staccandosi le pellicine, e mi chiama, di nuovo.
Capisco, sempre meglio, ciò che ormai mi era chiaro come un cadavere sul tavolo settorio: non ci sarà mai nulla di reale, nulla di concreto, nulla di onesto, in questa relazione in cui la mia lealtà e onestà, per lei, è un punto di orgoglio, ciò che la attrae di me e ciò per cui si strugge. Lei non cerca altro, come un lungo elenco di altre che ho già conosciuto qui e altrove, prima di lei, che una forza oscura, un terzo immateriale, astratto, disincarnato, una forza da modellare a suo piacimento, con cui puntellare un matrimonio che è nato morto, un aborto di legame umano che lei chiama "vincolo" solo per disprezzarlo e potersene nutrire, a mo' di escremento dell'amore, alla maniera della beata Alacoque. Non faccio in tempo a dirglielo, tutto questo, però, perchè ci travolge ancora il lavoro, la quotidianità un po' più pesante, finchè si arriva a una chat in cui, chissà come, chissà perchè, lei se ne esce con un "sì, capisco", che è nulla, il punto zero della nostra comunicazione, e perciò mi induce a dire, senza infingimenti o diplomatici rinvii, semplicemente ciò che penso.
Che "capisco" è la parola che detesto, che "capisco" è la parola di quelli che non capisco nulla, affatto.
Che sono disprezzabili i capisco e i mi dispiace e tutto il campionario degli "scusami", dietro cui giocare a nascondino, magari, all'infinito, senza mai tirare fuori un'emozione, senza mai dire "vorrei innamorarmi davvero", senza mai dire "chi sei, voglio sapere tutto di te", senza mai dire "sono tua", con tutto quanto e non solo con la maschera dell'anonimo, senza mai uscire dall'indifferenza per diventare qualcosa di concreto e di effimero, finalmente.
Dice, lei, ancora: "mi dispiace". Dice "è quello che ti meriti".
Già, rispondo. Più tardi, prima di prendere la pasticca per dimenticare: "che schifo".
E sparisce la catena. E sparisce lei. E non sparisco io, sempre più sgomento da tanta bellezza che sprecate così, incenerita nella più volgare mediocrità.
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Sfoglio e scelgo tutto quello che è possibile dire poi ne scarto alcune , ne riprendo altre
Rimane solo ; Esattamente come Te .
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Le coincidenze
All'improvviso è comparso, sul mio comodino, un libro di Leskov: "Una famiglia decaduta".
Quel bel piano di legno, dove riposano pile di cartalibri, un ereader, due cellulari, due tablet, un paio di cuffiette bluetooth, un power-bank, una moleskine per le note e alcuni lapis, evidentemente è stato l'oggetto di una 'messa in ordine' da parte di mia moglie. Ora, io considero quell'ampia superficie una naturale estensione delle mie scrivanie (plurale!) e quindi soggetta alla stessa regola che vige per loro: nulla deve essere toccato, spostato, aggiunto o tolto, pena il mio impazzimento nel ritrovare un qualsiasi oggetto che, con memoria fotografica, ricordo a quale livello di stratificazione appartenga, vicino a cosa sia e perché lo abbia amorevolmente accomodato lì (certo in attesa che, un anno o l'altro, mi punga vaghezza di riaverlo tra le mani). Questa 'riorganizzazione' del piano in noce mi ha proprio infastidito ma mi sono ben guardato dal fare commenti; si sa, siamo nel periodo delle feste...
Il libro era in bella evidenza, chissà perché; se siete buoni lettori sapete senza dubbio che i libri, dotati di una vivace vita autonoma, spesso si nascondono e non si fanno trovare nonostante ricerche capillari, per poi sbucare fuori, all'improvviso, dove meno ci si aspetta. Questo libro però io non lo stavo cercando, quindi, da bell'esibizionista, ha evidentemente trovato il modo di mettersi in mostra per imperscrutabili motivi tutti suoi. Si tratta di un economicissimo pocket Longanesi, risale alla fine degli anni '60 e quasi certamente apparteneva alla biblioteca di mio suocero; però il romanzo devo averlo letto anche io, nel periodo adolescenziale dell'innamoramento con gli scrittori russi; sicuramente dopo i Grandi, però. Lo sfoglio e vado a cercare chi ne sia il traduttore: noi common readers abbiamo un sacco di fissazioni, una di quelle che ho io è di sapere chi traduca/tradisca i testi che leggo; nel caso specifico si tratta di una coppia: Dan Danino di Sarra e Leo Longanesi. Rimango perplesso: mi passa per la mente che il primo, sconosciuto, sia un nom de plume; che Leo Longanesi conoscesse il russo non l'ho mai saputo e forse ha solo 'aggiustato' la traduzione, facendo da editor al primo traduttore: in fondo lo ha pubblicato nella sua stessa casa editrice e avrà voluto avere un buon 'prodotto'.
Faccio qualche ricerca e scopro che Dan Danino (detto Dante) di Sarra era uno slavista, profondo conoscitore di lingue e civiltà slave, docente presso l'Istituto Universitario Orientale di Napoli, traduttore di autori russi, polacchi e cèchi tra cui Ljeskov, Gor’kij, Achmatova. "Il suo curriculum annovera attività didattica, pregevoli traduzioni di autori russi, polacchi e cèchi, autorevoli riconoscimenti per la promozione della cultura dell’Est in Italia, collaborazioni a riviste nazionali e straniere di rilevanza intellettuale, rigorose ricerche filologiche nel grande gruppo delle lingue slave. La severità dei suoi studi lo pose tra gli intellettuali bene considerati nei Paesi slavi e nel mondo della Slavistica italiana." Leggo QUI. Lo studioso era originario di Fondi. Quest'ultima informazione mi fa accendere, fioca, una lampadina: Fondi, Alberto Moravia, Elsa Morante, “La ciociara”... (uno dei peggiori libri che abbia mai letto).
Approfondisco e scopro che quando Moravia e consorte sfollarono da Roma nel 1943, sperarono di essere aiutati proprio da due loro buoni conoscenti che vivevano a Fondi: i giovani fratelli di Sarra; all'arrivo nel paese non trovarono però Dante, che era impegnato in una docenza a Bratislava, tuttavia la sua famiglia, per i coniugi Pincherle (che si erano sposati nel 1941, testimone di nozze Leo Longanesi...), riuscì a trovare, nei dintorni, una casetta dove si rifugiarono per mesi e dove Moravia scrisse “La Ciociara”, il suo capolavoro (ironia, eh, ironia!).
Resto tuttavia pensieroso: perché il libro sarà improvvisamente comparso in bella vista? Vorrà ricordarmi di andare a leggere anche "L'angelo suggellato" di cui mi parlò con calore un'amica tempo fa? Mi starà suggerendo di riprendere in mano il saggio di Benjamin su Leskov? Vorrà che lo rilegga perché il messaggio che mi deve comunicare è contenuto proprio nel testo? Oppure c'è qualcos'altro che non ho ancora capito?
N. Ljeskov (sic) [Захудалый род - Zahudalyj rod, 1874 ], Una famiglia decaduta, Milano, Longanesi, 1967 [Trad. D. di Sarra, L. Longanesi]
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mentre sfoglio le pagine del mio romanzo, i miei occhi si perdono tra le parole, mentre tu, con lo sguardo fisso su di me, mi accarezzi dolcemente i capelli.
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Sfoglio e ricordo, immagini di luoghi ancestrali. Posti scolpiti nell'animo.
Solletico dell'anima del bimbo che fu.
Riecheggiano ancora argentee risate di bambini che scalinate di pietra solcavano scorrazzando.
Odor di fumo di ritti comignoli.
Fruscio di foglie, voce di vento, che giovani cuori ha consolato.
Suoni, odori, sensazioni, si spandono su muri che parlano di storia.
Nell'animo cassetti che rinchiuso han tanti momenti.
Momenti che son caldo crogiolo per anima triste.
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