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La terza: dimentica le strade
È strano pensare che da qualche parte esistono i nostri vecchi posti, senza di noi. C’è qualcosa nella natura di noi esseri umani che ci costringe a sentirci speciali perfino per i luoghi - questo albero esiste perché lo guardo io ogni giorno; questo bar non chiude soltanto grazie all’euro e dieci che ogni mattina esce dalle mie tasche, prego, non c’è di che; e la sola idea che altre persone aprano lo stesso portone, mentre non le vediamo, mentre siamo lontanissimi e forse dall’altra parte della galassia, ci dilania dall’interno, come un discorso insopportabile su cui il nostro corpo opera la sua migliore forma di censura (non pensarci, dimenticare).
Poi a un certo punto la realizzazione, la terribile presa di coscienza: sono in macchina e non so se girare a destra o a sinistra, e mentre ci penso do settanta centesimi a qualcuno che mi lava male il vetro, per sentirmi migliore di lui e cominciare a far capire a tutti chi comanda (sei fortunato che li avessi, questi soldi con cui può cambiare la tua vita). Giro a destra e vedo strade che non ho mai visto, posti che hanno vissuto senza di me fino ad oggi: un albero senza foglie, il portone rotto di un palazzo in cui si entra senza suonare, un bar che sta per chiudere per oggi o per sempre.
Cerco un posto dove fermarmi, mentre qualcuno che ha cento volte la mia età mi indica come parcheggiare, e quanto ancora posso andare indietro. Vieni, vieni, fa dalla sua maschera di anni: basta. Lo ringrazio come se ci conoscessimo, e mentre cerco sullo schermo il punto esatto in cui devo andare o in cui devo essere, vedo sulla parete davanti a me l’ombra di qualcosa che ha esattamente la mia altezza, ma molti, molti anni di più.
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La seconda: non chiedermelo più
Anche la tua, di bellezza, è una cosa irraggiungibile. Se ci penso mi ricorda una foto di dieci anni fa di un palazzo che è stato demolito ieri, o sentire casualmente per strada un odore del passato, ma inafferrabile, impossibile da collocare con precisione.
Anche se non ci parliamo più, e forse ti ricordi ogni tanto di me solo mentre spingi il pesantissimo cancello di casa tua, o nei pochi momenti in cui sposti i mobili della tua camera; io ricordo ogni giorno i tratti della tua bellezza. Nitidi, trasparenti: come se li avessi qui davanti in questo momento.
Sdraiata a letto hai in mano una bottiglia d’acqua quasi vuota, poi sei su un treno davanti a me, con una gonna lunghissima in piena estate. Mi dai un biglietto della metropolitana, ci vediamo a colazione, piangi perché hai perso un aereo, ridi con le stesse frasi di una canzone che ripetiamo allo sfinimento. Prendi un ascensore e per un attimo dimentichi il mio piano, ti nascondi in un bosco pieno di conigli, l’anno scorso mi hai detto che vuoi imparare a lavorare il legno.
Sfoglio distrattamente le migliaia di foto salvate sull’iPhone, e nella scheda Persone c’è un cerchio con dentro il tuo viso, e sotto un punto interrogativo. Dai un nome a questa persona?, mi chiede un sistema operativo pensato tanti anni fa in California. No, gli dico, perché dare un nome alle cose le rende reali, e tu non hai più niente a che fare con le mie mattine o le notti in cui non dormo. E mi sento così forte durante questa breve presa di posizione, mi sento così forte che tutti i pezzi mancanti della vita sembrano rimettersi al loro posto, prima di distruggersi di nuovo.
L’ennesimo rifiuto porta il telefono a darmi una via d’uscita, propormi il perfetto manuale della mia salvezza momentanea (è stanco pure lui di assistere a tutto questo): non chiedermelo più. Basta un tocco ed è tutto finito, il tuo viso sparisce, e la tua bellezza senza fine diventa concreta come tutte le cose che si possono dimenticare.
Va bene: domani lo faccio.
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La prima
Questa città ha una specie di bellezza impalpabile. Lo vedo mentre esco dalla stazione, con quei grandi alberi che mi guardano da sopra, mi sembra persino dalla stratosfera, e sembrano far parte di un altro mondo, lontano e profondamente alieno, che ci guarda e si specchia nei nostri occhi ma non ha niente a che fare con noi.
Ma è così con tutto, penso mentre chiudo e riapro gli occhi dopo due secondi. Un uomo ha il biglietto del treno che vorrei prendere io, qualcuno abita su un balcone che sembra il mio ma non lo è, e per questo lo voglio. Una coppia condivide un abbraccio eterno, fermo nelle pieghe dello spaziotempo, che mi sembra insieme velocissimo e senza fine (nota dell’autore: io i miei abbracci li ho sempre cronometrati, sempre, e ti ricordo che vince chi si stacca per primo).
Ancora loro, ancora loro: facce aliene che ci guardano dalla stratosfera e si specchiano nei nostri occhi.
Seduto in un vagone al centro del pianeta ne provo a parlare al mio compagno di posto. Ascolta compagno di posto, gli faccio guardandolo nei polsi, ma che ne pensi di tutta questa cosa, della bellezza inafferrabile dello sfondo su cui viviamo? Riesci a farci i conti? Perché io sogno di piangere ogni notte, e ogni notte non conta niente.
Mi guarda per un solo secondo, si dimentica di me e io di lui.
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