«Potrei essere confinato in un guscio di noce e stimarmi re di uno spazio infinito, se non fosse che faccio brutti sogni.»
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vorrei raccontare il sogno di stanotte, ma da dove inizio? ho sognato una situazione complessa ambientata in un luogo visivamente fantastico ma non so da dove iniziare. anzi, i sogni erano tre, uno più complicato dell’altro. la difficoltà che provo anche soltanto a capire come potrei approcciarmi a quelle immagini in modo da poterle descrivere mi dà la conferma che a me piacerebbe fare questo nella vita: raccontare. ma allora, perché non racconto?
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oggi avrei potuto interpretare l’uomo immobile sul divano, una specie di commedia barra dramma esistenziale, una roba d’avanguardia, di quest’uomo in pigiama, ma senza calzini, che compie una serie di azioni sul divano nel suo primo giorno libero dal lavoro. in ordine sparso: salta il pranzo ma fa una colazione abbondante di latte e biscotti e una merenda della sua droga, le noccioline, dimentica di proposito di prendere gli psicofarmaci, fa quattro (!) volte la cacca, gli viene di ascoltare musica ma salta tutte le canzone e di quelle che ascolta salta il finale, cerca invano di attaccare chiacchiera via messaggio, inizia i rispettivi secondi episodi delle serie che sta guardando, senza finirli, finisce di leggere Intermezzo, si sente triste ma non riesce a piangere, inizia a leggere Atti umani, a un certo punto posa tutto e si rannicchia in posizione fetale guardando gli oggetti sul tavolino, per quanto si sforzi non ricorda di aver pronunciato parola. ecco, chissà cosa sia tutto questo: depressione, tristezza, o semplicemente noia, o ancora più semplicemente stanchezza per il lavoro. o tutto insieme.
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forse decidere di leggere Intermezzo di Sally Rooney in questi giorni non è stata una buona idea. però ho trovato una parola che cercavo da tempo: frusciare.
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mi sono appena risvegliato ma ho già sonno, forse sono dimagrito troppo, dice il barbiere, forse è soltanto la depressione, dice Nicholas, prima di riaddormentarmi scrivo a Caterina che stasera non riesco a uscire, mentre digito il messaggio mi sento in colpa perché do buca a tutti, lei però risponde che neanche lei avrebbe potuto, così mi riaddormento e mi risveglio alle tredici precise, spero di trovare nell’elenco delle notifiche un nome, lo trovo. non pranzo, non mi tolgo il pigiama fino alle diciotto e qualcosa, quando decido di avere bisogno di una doccia calda. sotto l’acqua ripenso alla seduta di ieri, la psicologa che si piega in avanti per incalzare sulle domande, le sue espressioni inconsapevoli alle mie risposte. mi dice, le dico una cosa sapendo che la respingerà: lei è molto coraggioso, no, e io sono preoccupata per lei. dice che fare terapia con me è impegnativo, mentre lo dice sorride.
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sono incastrato tra alcuni sconosciuti nel notturno della metro C, la situazione è sempre così drammatica, le corse sono poche, eppure questa è stata la prima vera volta in tanti mesi in cui ho rischiato davvero di non riuscire a prendere il bus per quanto fosse pieno. quando le porte del bus si sono aperte e ho visto il muro di gente ho aspettato che qualcuno scendesse, quando nessuno è sceso e anzi altra gente è salita spintonando, mi sono infilato anche io, incastrandomi tra questo e quello. sono incastrato tra alcuni sconosciuti ma nel corridoio c’è un po’ di spazio vuoto, ignorato da quelle persone che stanno più in là. noto cose che non dico, non voglio grane, però questa volta chissà perché dico, lì c’è spazio, allora qualcun altro nota quello spazio, allora qualcun altro ripete di spostarsi, allora qualcun altro si sposta. si avvia un cambiamento, divento roberto il rivoluzionario. gli dico che non sono un rivoluzionario perché non sono coraggioso, gli dico. passo tutti i giorni davanti al suo portone e non riesco a non buttarci l’occhio ogni volta - l’ascensore piccolo, la libreria all’ingresso, la porta della sua camera all’inizio del corridoio lungo, il letto morbido che ho contribuito a montare, i suoi libri sulle mensole sistemati dalle sue bellissime mani - proprio oggi però il portone si è aperto mentre lo guardavo e io sono stato percorso da un brivido di malinconia e terrore, era però soltanto un vecchio. non sono un coraggioso, gli dico. forse mi scambiano per un mio clone, uno di quelli che lavorano in gelateria. oggi una signora era servita da una collega, però mi guarda poco lontano e mi dice, ma tu sei sempre qua ogni volta che vengo ci sei, allora le dico, siamo tanti cloni signora, lei ride. so far ridere le persone con battute che mi vengono all’improvviso, anzi ne penso diverse contemporaneamente e contemporaneamente penso a tutte le reazioni, scelgo la migliore e la dico. un mio clone è ora sul bus schiacciato tra altre decine di cloni su un bus notturno, desideriamo tutti insieme di tornare a casa e leggere qualche pagina del nuovo romanzo di sally rooney, penso a sally rooney e ricordo alla miniserie che non vedremo mai insieme, penso alla miniserie e ricordo la trilogia che non completeremo mai insieme, penso alla trilogia e ricordo che non continueremo mai insieme pretty woman, che non mi farà mai vedere mamma mia!. non sono un rivoluzionario, gli dico, anche se ora sul bus c’è spazio per tutti i cloni, ognuno dei cloni è triste, dico alla signora che ride. non riesco ad andare al cinema da solo perché il suo pensiero mi crea delle crepe dolorose in qualche strato del corpo non ancora scoperto ma che sento perfettamente esistere all’altezza del petto. è iniziata l’ultima stagione di l’amica geniale mentre io sono uno di quei cloni rimasti indietro, a un episodio della terza, messo in pausa e mai più ripreso perché avevamo voglia di fare merenda. non riesco più a scrivere
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quando annunciarono che Interstellar sarebbe tornato al cinema per non so che anniversario dalla sua uscita lei mi confessò che non lo aveva mai visto, io aggiunsi che lo avrei rivisto volentieri al cinema con lei. allora novembre sembrava lontano un’altra vita, così dissi per scherzo che ci saremmo andati insieme, se fossimo stati ancora qui. lei si impensierì, mi disse di non dire così. quindi oggi fa un po’ male vedere che è andata al cinema a vedere Interstellar per la prima volta e che quell’insieme davvero non esiste più.
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il tecnico del laboratorio muoveva l’attrezzo dell’ecografia sulla piega interna del mio gomito e io riuscivo a pensare soltanto a due cose. innanzitutto ero affascinato dall’idea che quel simpatico dottore riuscisse a capirci qualcosa guardando delle ondine grigie e nere sullo schermo, invitando anche a me a vedere qui e lì. poi mi chiedevo cosa indossasse sotto il camice, poiché i primi bottoni aperti mostravano il suo petto nudo. la diagnosi dice epicondilite. il gomito mi duole, i movimenti del braccio sono limitati. mi è venuto in mente un racconto breve che non scriverò mai su un nazista che ogni volta che fa il saluto romano urla dolorante “ahi, Hitler”. vabbè sto zitto.
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alle 5:41 del mattino penso che forse trovo imbarazzante scrivere narrativa, perché significherebbe ammettere di avere avuto quelle fantasie. come giustificarle? come reggere l’idea che un adulto possa fantasticare così tanto? e poi perché perdere tempo per far sì che che i propri ricami sulla realtà funzionino sotto forma di narrativa? ma la mia mente sembra avere una fantasia propria: mi risveglio da un sogno vivido, di una complessità narrativa e architettonica che mi chiedo da dove siano uscite, visto che io stesso nego e respingo quei ricami sulla realtà che penso improvvisamente, e ripetutamente, mentre semplicemente vivo la giornata.
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ma cosa ho fatto di male nella vita per ricevere nel giro di pochi giorni tre e dico ben tre notifiche da Amazon per segnalarmi questo orrore, questa specie di personificazione della morte della bellezza, questa tracolla per cinquantenni single. c’è stato un periodo in cui cercavo una borsa quotidiana, ma visto lo stile medio di quelle maschili mi ero deciso su una deliziosa borsa femminile, fino a cambiare idea e non acquistare proprio nulla. ora queste notifiche, perché Amazon, perché
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arrivato a casa ho avuto paura di aver dimenticato alla cassa del supermercato di imbustare il pacco di pasta invece è successo di peggio, poiché appesa alla spalla oltre alla borsa della spesa avevo anche quella che porto quotidianamente e la pasta era proprio in quest’ultima, quindi L’HO RUBATA. sono molto tentato di tornare indietro per spiegare il malinteso e pagare i cinquanta centesimi ma sono stanco. oggi in gelateria è entrata una mandria di vecchietti spagnoli venuti direttamente da uno ospizio e mi hanno fatto vivere una mezz’ora che non dimenticherò facilmente.
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diario del giorno
• appena rientrato a casa chissà come mi sono convinto di fare alcune cose da adulto. ho sistemato nell’armadio tutti quei vestiti che negli ultimi giorni avevo accumulato sia sulla sedia sia sul cesto dei panni sporchi. qualcosa mi costringeva a non rimetterli via ma ero comunque spinto a piegarli in modo ordinato. ho addirittura cucinato il pranzo da portare a lavoro domani, poiché già so che domani mattina non avrò tempo di mettermi ai fornelli. non ho ancora messo in coppia i calzini tolti dallo stendino qualche giorno fa, perché sembra un lavoro meticoloso che sento di non avere le energie per fare. colpa anche della delusione dell’ultima volta, quando un calzino era rimasto solo.
• ci sono rimasugli di noi ovunque e io vorrei soltanto poterli raccontare così come li ricordo, quando mi ritornano in mente bell’e buono, senza la paura di annoiare chi mi ascolta. ho ricordato improvvisamente che nel ripiano in cucina ci sono ancora i biscotti che avevamo comprato insieme per quando avremmo avuto fame nei pomeriggi che avremmo passato a casa. vorrei rivederci quel giorno, durante la scelta dei biscotti giusti davanti lo scaffale del supermercato e ritrovare l’espressione del nostro amore bello e ingenuo.
• ripenso a un bambino che ho servito oggi, un cosino alto così che sembrava assai sveglio. mi parlava direttamente e non tramite i genitori come fanno quasi tutti i bambini, bisbigliandogli i gusti dei gelati perché li dicano a me. questo no, mi ha detto i gusti in modo deciso, mentre la mamma faceva altro al cellulare. mentre gli porgevo il gelato ho notato che aveva un cartellino sul petto con su scritto “ciao, mi chiamo matteo”, forse rimasto lì dopo una festa. così gli ho detto, “goditi il tuo gelato, matteo”. lui mi ha guardato sorpreso, era incuriosito e non spaventato. mi ha chiesto “e tu come fai a sapere il mio nome?”. la mamma è scoppiata a ridere. mi sono piegato sul banco e gli ho bisbigliato “sono un mago”. un bambino così sveglio eppure così teneramente scemo. spero comunque che la mamma gli abbia detto il trucco, altrimenti avrò creato un trauma nel piccolo matteo. poi è tornato per chiedermi dell’acqua e mi ha detto che il gelato era buono.
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non so quando né soprattutto perché, o non so perché né soprattutto quando, ho pensato potesse essere una buona idea leggere il romanzo d’esordio di Claudio Bisio Il talento degli scomparsi dopo il monumentale M. Il figlio del secolo, soprattutto, non so come allenare il mio cervello in modo da permettermi di abbandonare un libro a metà lettura senza sentirmi un poco di buono che lascia le cose a metà. però non me lo meritavo un libro che utilizza termini come “strizzacervelli” ma soprattutto “GATTABUIA”.
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