#se non è un segno questo
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sara-smind · 9 months ago
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Quando dopo anni riprendi in mano un libro che non hai mai finito di leggere
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E noti IL dettaglio
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Raga...
Coincicredo? Io non denze
💛💛💛
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themhac · 2 years ago
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tommaso voce da milanese termini da milanese livello di fastidio che mi provoca da milanese
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onnze · 2 months ago
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Bisogna accettare che non tutti vengono nella nostra vita per restare . Alcune presenze sono passeggere , vengono per insegnare . Nel bene o nel male , avvolte persino entrambi . Poi ci sono quelle persone che lasciano il segno , che vorremmo al nostro fianco per sempre ma non sono lì per rimanere per questo , sono destinate ad essere un ricordo , un ricordo bello o magari talmente bello da essere doloroso . Bisogna accettare .
Poi c’è chi è destinato a noi , ed è lì al nostro fianco e spesso non ce ne accorgiamo . Perché ? Perché troppo occupati a pensare a chi vorremmo al nostro fianco , per accorgerci di chi già c’è . E spesso perdiamo
È solo lì c’è ne accorgiamo , solo lì apprezziamo e ci poniamo domande
Penso che l’essere umano sia complesso , in eterno conflitto con se stesso
Si sa , non siamo mai soddisfatti al 100% ma se lo fossimo forse non ci porremmo più obiettivi nuovi costantemente , forse non ci interrogheremo su ciò che ci circonda e ciò che c’è dentro . Forse addirittura si morirebbe di noia , chi lo sa .
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falcemartello · 25 days ago
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Un grande equivoco grava sull'idea di comunicazione, quello della "contraddizione".
Nei nostri dialoghi quotidiani percepiamo la contraddizione dell'interlocutore come segno di insostenibilità del discorso che sta facendo.
Quando qualcuno si contraddice, dal panettiere al collega, glielo facciamo notare e lui o si corregge o nega che sia una contraddizione.
La contraddizione annulla il senso e l'efficacia di un discorso perché la mente umana - realista per disegno - non accetta che A sia contemporaneamente anche non-A.
Ma estendere questo schema alla comunicazione pubblica, mediatica, alle narrazioni di potere, è un equivoco.
Nella narrazione di potere non esiste alcuna "contraddizione" non perché essa non venga mai pronunciata ma perché non esiste l'interlocutore che la rigetta.
Quando Draghi dice che bisogna smetterla di abbassare i salari non sta parlando con qualcuno, sta lanciando il suono di una formula.
Quando i vecchi media si mettono a dire che adesso la UE sta abbandonando il green, non stanno interloquendo con qualcuno, stanno "informando i fatti", cioè stanno lanciando il suono di una formula.
Quando da un minuto all'altro, letteralmente, Joe Biden passa da essere perfettamente in forma all'essere un demente inabile alla candidatura, non si sta affermando una contraddizione, non perché essa non ci sia ma perché non è un dialogo.
I destinatari della narrazione di potere non sono interlocutori ma assuntori passivi di formule performative.
Alla pubblicità che dice: "questo detersivo lava più bianco" non si risponde: "non è vero è meglio l'altro", si ascolta e basta.
Al prete in chiesa che fa la predica non si risponde, si ascolta e basta, anche se si sentono contraddizioni.
Ma questa comunicazione sta cessando di esistere. I pezzi di Cazzullo possono essere compresi solo da chi si ricorda ancora del prete che faceva la predica ma per chi non è mai stato a messa in vita sua i codici di Cazzullo non dicono niente.
Nell'era dei social, cioè della disintermediazione, la contraddizione tornerà a pesare perché si tornerà allo schema del dialogo tra due persone e si uscirà dallo schema della predica.
Non capire questa cosa porta agli errori politici cui stiamo assistendo.
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papesatan · 6 months ago
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Potevo avere 5 anni. A quel tempo eravamo soliti trascorrere le feste natalizie da alcuni zii, la cui casa in campagna diventava allora accogliente rifugio per parenti e amici. Portavo sempre con me un pupazzo a farmi compagnia, dato che i miei cugini, ormai adolescenti, avrebbero certo mal sopportato l'idea di giocare assieme. Ricordo ancora chiaramente quel pomeriggio: la sera saremmo stati dai miei zii come di consueto ed io mi sarei malannoiato fra i bigi discorsi degli adulti, urgeva perciò la Selezione. 
L'ambita Selezione avveniva per eliminazione diretta in scontri 1 vs 1. Ogni pupazzo s'affrontava in una moderna rivisitazione delle giostre medievali, allo scopo di conquistarsi il mio cuore. Come sempre accade, anche quel torneo era palesemente truccato, sicché alla fine trionfavano sempre gli stessi. Fra i grandi campioni, la più avvezza alla vittoria era senza dubbio la Pantera Rosa, un vecchio pupazzo che mi portavo sempre dietro, ovunque andassi. Dopo averla portata in trionfo quel pomeriggio, le promisi che ci saremmo divertiti, sarebbe stata una grande serata. Non sapevo, ahimè, che per noi sarebbe stata purtroppo l'ultima. Il mio giocarci difatti, a quell'età, trovava massimo sfogo nel lanciar in aria il malcapitato pupazzo, raccoglierlo per poi reiterare il gesto ad libitum. Uno di quegli sciagurati lanci però mandò la pantera talmente in orbita da farla finire dietro un'enorme e inamovibile credenza. A nulla valse piangere e disperarsi, la povera pantera restò lì (con sadico compiacimento di tutti gli astanti). Ricordo ancora il malinconico struggimento di quei giorni densi di colpa e mortificazione, le penose richieste e la perenne risposta ("Quando faremo pulizia"), i piani perversi studiati in dormiveglia per infiltrarmi in casa loro e riprendermi la pantera e il languido desiderio che mi s'accendeva a ogni fiera di paese, quando scorgevo fra i premi del tiro a segno un pupazzo simile a quello tanto amato e perduto. 
Sono passati trent'anni, dico d'aver dimenticato, ma una parte della mia infanzia è rimasta sepolta lì, dietro quella credenza, dove ho smesso definitivamente di credere agli adulti e ho imparato cosa vuol dire perdere qualcuno o qualcosa senza potergli dire addio. O almeno credevo, perché l'altro giorno chiama mia zia per dirci che finalmente, dopo trent'anni, hanno fatto pulizie e spostato la credenza, trovandovi "un giochino di quando Giuseppe era bambino, non so se se ne ricorda ancora..." Ah, zia ingenuotta! Non pensavo che questo giorno sarebbe mai arrivato, così sulle prime ho pensato, "chissà se mi riconoscerà dopo tutto questo tempo..." "del resto anche casa nostra è cambiata, spero non si senta a disagio". Siamo andati a prenderla la sera stessa, era tutta sporca, molto più piccola di quanto ricordassi, orba d'un occhio (non oso immaginare cosa deve aver subito in questi trent'anni di prigionia) e con un aspetto decisamente vintage, ma ora è di nuovo a casa. Mia madre era convinta che dopo anni d'oscurità e polvere, si sarebbe sbriciolata dopo pochi minuti al sole, invece sembra reggere ancora. Dopo averla lavata a fondo, oggi l'ho potuta finalmente riabbracciare come quell'ultima volta trent'anni fa e ho un po' pianto. È stato come riabbracciare quella parte di me che credevo perduta per sempre.
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anchesetuttinoino · 4 months ago
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Il vizio della parola
Il vizio della parola
Il divieto per le donne di usare la voce in pubblico nell’Afghanistan dei talebani. E noi ammutoliti da un diluvio di neologismi assurdi (vedi alla voce “maranza” o “sunshine guilt”)
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Se togli loro la parola, scompariranno. I talebani hanno recentemente emanato una serie di leggi inerenti la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio. Già questo proietta lo sguardo su un mondo che appartiene a una galassia lontanissima. E quando mai dalle nostre parti si parla più di vizi e virtù? In ambito legislativo, oltretutto.
In ogni caso, queste leggi sono state approvate dal leader supremo dei talebani, Hibatullah Akhundzada, e tra i provvedimenti ne spicca uno: «La voce di una donna è considerata intima e quindi non dovrebbe essere ascoltata mentre canta, recita o legge ad alta voce in pubblico». Per promuovere la virtù e scacciare il vizio, le donne non potranno esprimersi a voce alta nei contesti pubblici. Le imbavagliano, anzi le ammutoliscono, ma per il loro bene s’intende.
La scena è agghiacciante, ci costringe a una doccia terribilmente fredda. I talebani hanno chiaro chi sia una donna, a differenza della nostra situazione un po’ più aperta, cioè confusa. Abbiamo trascorso l’estate – ma è stata la ciliegina su una torta sfornata da tempo – a interrogarci su livelli di testosterone, Dna, intenzioni d’anima. Magari, al prossimo caso mediatico, potrebbe essere utile cambiare sfondo e ambientare tutti i nostri dubbi per le vie di Kabul e «vedere l’effetto che fa».
Se dai loro in pasto tantissime parole, scompariranno. Aggiungere vocaboli non è per forza segno di progresso, si può diventare muti per eccesso terminologico. L’aggiornamento dello Zingarelli per il 2025 prevede che il dizionario si arricchisca di nuovi termini, “maranza” e – udite udite – “gieffino” si conquistano un posto nell’Olimpo delle parole validate da definizione. Ma questo è solo un ritocco brutalmente onesto al nostro ritratto umano.
Il crimine terminologico è altrove, là dove spuntano espressioni che ci ritroviamo sotto gli occhi scrollando le notizie. “Coolcation” è la tendenza in crescita per trovare mete di viaggio al fresco. “Workation” è la scelta di lavorare da remoto scegliendo luoghi che offrano svago e servizi per il tempo libero. Una medaglia d’oro per l’assurdo spetta all’espressione “sunshine guilt”, il senso di colpa per aver sprecato una giornata di sole.
C’è, nel nostro intimo, un ribollimento senza nome. Sono scampoli di paura mescolati a slanci di affetto, pulsioni cattive e lacrime struggenti. È questa fucina scabrosa, feconda e indicibile che alimenta la libertà nel tumulto di gesti, scelte, responsabilità. Sono poche, devono essere poche e vertiginose, le parole a cui ricondurre il senso del nostro travaglio. Sillabe scottanti come “amore” o “invidia”. Frantumare il quadro in un mucchio di nuovi pezzettini lo riduce a un puzzle che resta scombinato.
Finiamo per scomparire ed essere muti se l’impegno di affrontare la novità di ogni nuova alba – l’ignavia che fa a pugni con la rabbia, i desideri che bevono sorsi di fiducia – viene sgonfiato dalla bugia che tutto affondi in un senso di colpa per il timore di perdere un giorno di sole.
via tempi.it
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angelap3 · 5 months ago
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Era davvero un essere Speciale❤️
Nel 2001 Robin Williams riuscì a far ridere di nuovo un gorilla che stava soffrendo di depressione per la solitudine, a seguito di questo particolare incontro, decise quindi di visitare Koko quando gli era possibile e di girare insieme a lui degli spot, a favore delle conservazione delle specie protette e contro la sperimentazione animale.
Il legame che si andò a creare fra Koko e l'attore fu così profondo che nel 2014 quando infatti il vecchio gorilla seppe della morte dell'amico, fece segno ai suoi istruttori se poteva piangere e per alcuni giorni rimase pensieroso, con le labbra tremanti per il lutto. Dopo molti anni ricordava infatti quanto l'attore lo avesse aiutato nel momento del bisogno e non si dava pace nel sapere che non lo avrebbe rivisto più.
Koko morì 4 anni dopo, nel 2018, all'età di 46 anni. Oggi è ricordato come uno dei primati più importanti della storia della ricerca scientifica.
Un altro episodio che dimostra il genio, la grandezza e la sensibilità di questo personaggio.
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crazy-so-na-sega · 1 year ago
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Uno studente chiese all'antropologa Margaret Mead quale riteneva che fosse il primo segno di civiltà in una cultura.
Lo studente si aspettava che Mead parlasse di ami, pentole di terracotta o macine di pietra. Ma non fu così. Mead disse che il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito.
Spiegò che nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori. Non puoi scappare dal pericolo, andare al fiume a bere qualcosa o cercare cibo. Sei carne per bestie predatrici che si aggirano intorno a te.
Nessun animale sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo perché l'osso guarisca. Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi.
Mead disse che aiutare qualcun altro nelle difficoltà è il punto in cui la civiltà inizia. Noi siamo al nostro meglio quando serviamo gli altri. Essere civili è questo.
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James Lucas
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occhietti · 2 months ago
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Elogio della donna di classe
di Francesco Lamendola
La donna di classe…
È una Signora con la "s" maiuscola; una donna che, qualunque cosa faccia (o non faccia) e dica (o non dica), rimane sempre al di sopra di se stessa.
Non si dà mai interamente: nel senso che non si svende, non si regala alle mode più facili, ma conserva sempre una parte di mistero, ossia di fascino.
Sì, perché il mistero è affascinante: è il non detto, il suggerito, l’implicito; è il riserbo, la discrezione, il pudore; è l’intimità che non si mette mai in piazza, che rimane fedele a un proprio codice di onore e di riservatezza.
È la femminilità che mantiene il rispetto di sé, che si veste di sobrietà e di senso della misura, perché consapevole che lo strafare non è mai veramente femminile e che l’esibire, l’ostentare, il gridare e il dimenarsi, si addicono alle donne da poco.
Donne di classe si nasce e non si diventa; e lo si è a qualunque classe sociale si appartenga. Una donna del popolo, a determinate condizioni, può avere più classe di una gran dama o di una ricca borghese. Non è questione di soldi e nemmeno di lignaggio. O si è signori nell’anima, o non lo si è; e questo vale per le donne, così come per gli uomini.
La donna di classe non teme le rughe e accetta di invecchiare. Sa di valere, anche se la modestia fa parte del suo abito mentale; perciò non tenta disperatamente di inseguire i perduti vent’anni, ma asseconda con grazia e intelligenza le diverse stagioni della vita, conscia del fatto che il fascino è qualcosa di molto più sottile e di molto più prezioso della bellezza che proviene dalla sola giovinezza.
Non si può essere giovani per sempre e non si deve cadere nel ridicolo di atteggiarsi a ventenni, quando si hanno sessant’anni; ma si può essere sempre raffinate, affascinanti, intriganti, purché si abbia classe.
Quando si ha classe, l’età diventa un elemento secondario o, addirittura, un ulteriore fattore di fascino; perfino le rughe, portate con dignità e naturalezza, possono accrescere il fascino, non diminuirlo.
La donna di classe sa che uno spacco vale più di cento minigonne e sa che uno sguardo può lasciare il segno più di cento perle sull’ombelico, esibito coi pantaloni a vita bassa; sa che alludere è più raffinato che strillare, come sa che sussurrare è molto più sensuale che dire.
La donna di classe si muove con garbo, parla di cose interessanti, e nello sguardo le brilla una luce particolare: perché ama la vita, ma la ama con sensibilità e intelligenza, non con avidità e prepotenza…
- Francesco Lamendola
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abatelunare · 6 months ago
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Di cattivi segni
Chiedo scusa se in questo periodo i miei pochissimi post sono monotematici. Io, qui, racconto la mia quotidianità. Che ultimamente è influenzata, e fortemente, dal lutto avuto in famiglia. Anche oggi telefonate, appuntamenti, condoglianze. Spero di non farci l'abitudine. Potrebbe essere un cattivo segno. E a me i cattivi segni non piacciono. Buonanotte a tutti voi.
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frammenti--di--cuore · 2 days ago
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i gesti davvero belli, quelli che davvero lasciano un segno, quelli che gridano amore da ogni poro, sono quelli che arrivano dal nulla. Se ti porgo un fiore e tu ne cogli uno per darmelo, sarà sicuramente apprezzato. Ma se mi porgi un fiore mentre ho le mani sugli occhi e non ti guardo, perché questa vita non riesco più a guardarla in faccia...questo è un gesto che sarà sicuramente ricordato, perché questi sono i gesti che fanno davvero la differenza, questi sono i gesti che parlano e che non si limitano a rispondere. Solo quando è facile... è per tutti.
zox
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blogitalianissimo · 7 months ago
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I miei genitori guardano sempre programmi politici che sono molto di parte nei confronti del PD, e non riesco a trovare un modo gentile per dirgli che il modo elitario nel quale il PD vede il popolo italiano comprende anche loro
Sono insopportabili, e il fatto che i loro programmi di informazione siano mirati solo a chi già vota PD è ridicolo, tutto il giorno si danno pacche sulle spalle da soli dicendosi che almeno "non sono stupidi quanto chi vota destra"
Vorrei sapere come si aspettano di prendere più voti se alienano in continuazione "gli ignoranti" (che poi chi sarebbero questi ignoranti? Chi non ha le superiori? Le medie? O solo chi non vota PD?)
Questo, GRAZIE. Non aggiungo altro perché hai espresso per filo e per segno il mio pensiero.
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libero-de-mente · 4 months ago
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LA LEGGENDA DELL'ANANAS NEL CARRELLO
Sabato pigro, sabato fresco in questa metà di settembre, con le temperature velocemente precipitate. Ma è anche sabato di spesa questo.
Entro al supermercato con il carrello, il primo reparto che trovo è quello della frutta. Distrattamente prendo un ananas, attratto da quel colore giallo e verde acceso, che mi ricordano i colori della bandiera brasiliana.
Non appena l'ananas è nel carrello, mi sento osservato. Mi giro, incrocio lo sguardo di una donna dall'aria vivace con un carrello colmo di prodotti biologici.
<Forse>, penso tra me e me, <approva la mia scelta di aver preso un ananas fresco e non di quelli inscatolati e già affettati.>
Mi fermo a osservare una piantina di basilico, lei mi si avvicina: "Hai il pollice verde?"
"Scusa?", le chiedo stranito, incredulo che mi rivolga la parola.
"Chiedevo se hai il pollice verde, vedendoti interessato al basilico", mi risponde.
"Mah, ci stavo pensando ma poi ho valutato che vivrebbe di più senza di me ed è meglio lasciarla qui al supermercato", le ho risposto con aria rassegnata.
Così dovrebbe bastarle. Dovrebbe capire che se faccio morire le piante di basilico figuriamoci i frutti dell'amore. Appassirebbero subito.
"Piacere, mi chiamo Monica", decisa con la mano allungata verso di me.
"Eh... piacere, Ri-Rino", le rispondo preso in contropiede.
"Ririno? Che nome strano."
"Mi hanno chiamato così perché non capivo mai niente, dovevano ripetermi le cose due volte da piccolo."
Lei ride. Ha capito la mia battuta, che non era una battuta, ma una vergognosa menzogna per mascherare il fatto di aver balbettato, davanti a lei, il mio nome.
Sorrido e riparto con il carrello, mi sento in imbarazzo, percepisco dal rumore che resta nei miei paraggi con il suo carrello.
Prendo una busta d'insalata e la butto distrattamente nel mio carrello.
"Quindi cerchi una relazione veloce e leggera", mi chiede incuriosita.
"Scusami ma non ti ho compreso."
"Allora", con un sorriso che stenderebbe chiunque, "se vicino all ananas metti l'insalata vuol dire che cerchi una relazione basata sul solo sess0, nulla di più."
"Ah... e se ci fosse della cioccolata?"
"Vuol dire che si cerca un'esperienza dolce e romantica."
"E se ci mettessi della conserva di frutta?", le chiedo incuriosito.
"In questo caso sei alla ricerca di una relazione dolce e duratura."
"Caramelle?"
"Passionale e sempre dolce."
A questo punto dal mio cervello sbuca un ricordo, quello della leggenda dell'ananas nel carrello. Nei supermercati era il modo di segnalare la propria disponibilità a conoscerci. Prima dei vari Tinder, Badoo e Meetic c'erano ananas e altri frutti.
Cazz0. Non me l'ero ricordato, a saperlo ci avrei messo subito dei limoni nel mio carrello, per segnalare una vita aspra. O dei kiwi, per indicare quanto ne avessi pieni gli 'zebedei'.
Deciso do una spinta al carrello, ora non so cosa metterci dentro. Ho paura a guardare la lista. Metti che ci fossero scritte 'zucchine', come interpreterebbe la cosa?
Entro nel reparto delle celle frigorifere, quelle aperte, dove in piena estate trovi quel refrigerio che ti riporta alle fresche serate d'ottobre.
Sento il suo carrello dietro al mio, dal fiato sul collo al carrello al culo è un attimo. Mi giro, lei sorride. Faccio la mossa di indossare la felpa in cotone che avevo appoggiato sull'impugnatura del carrello.
"Sai com'è", le dico mentre la indosso, "ho una certa età:"
Questo dovrebbe essere un chiaro segno della mia anzianità latente.
Velocemente mi fiondo nel reparto dolci, rimango in quella corsia fissando gli scaffali. Credo di aver avuto un'espressione abbastanza preoccupata.
"Tutto bene?", sento di nuovo lei prontamente a chiedermelo.
"Ehm, diciamo di si."
"Stai guardando gli ovetti al cioccolato, ti piacciono?"
"Si, il problema è quando arriverò alla cassa, mi creano più ansia gli ovetti al cioccolato che dei preservativi."
Ride, "Ma dai e perché?"
"Ti sembro uno che ha l'età per comprarsi degli ovetti al cioccolato? Mia cara... cara... scusami, già non mi ricordo il nome."
A quel punto mi mostra il cartellino di riconoscimento, appeso al suo collo, che le era andato sotto la sua felpa, "Ce l'ho scritto qui: Monica. Se vuoi tra poco vado in cassa, appena ho finito di rimuovere alcuni prodotti in scadenza dagli scaffali, così con me non dovrai andare in ansia."
"Ah, ma tu lavori qui!", ma dai ma che scoperta, ma cosa mi credevo? Illuso.
"Si, sei un nuovo cliente da noi?"
"Come fai a saperlo? Generalmente vado da un'altra parte."
"Si impara velocemente a riconoscere la gente che frequenta il supermercato dove si lavora. Chi sono, la frequenza e le assenze."
"Cosa intendi?"
"Intendo dire che lavorando in questo tipo di attività impari a capire il passare del tempo, della vita. Le persone anziane, per esempio, le noti perché ti fanno tante domande. Credo che a volte lo facciano perché sole, per parlare con qualcuno. Quando non le vedi per un po’ di tempo cominci a preoccuparti. Se non le vedi più capisci che potrebbero essere finite in un ospizio. O peggio morte. I bambini invece li noti perché corrono tra le corsie, li trovi spesso in quelle dei dolci o dove ci sono i giocattoli. Quando non li vedi più correre per le corsie vuol dire che sono diventati adolescenti, hanno la loro vita con gli amici. Non vengono più con i genitori a fare la spesa."
Rimango allibito e le chiedo, "E chi sta nel mezzo?"
"Quelli stanno nel mezzo, della vita, vanno e vengono come le offerte promozionali, spesso anche loro sono scontati", gli occhi di Monica sono lucidi, sembrano contenere il firmamento intero.
"Comunque", le rispondo per cercare di farla sorridere, "Non si è mai troppo vecchi e né troppo giovani, per lanciare prodotti a caso nel carrello di sconosciuti al supermercato mentre non guardano. Quando sarai in cassa e vedrai gente rinnegare quello che hanno nel carrello, ecco in quel momento pensa a me. Anche se non sono in offerta."
Non ho fallito, quel sorriso me lo porterò con me fino a che non mi addormenterò. Questa notte.
Oggi un ananas mi ha dato modo d'imparare, di conoscere. La frutta fa davvero bene. Anche se i nostri problemi sono iniziati da una cacchio di mela.
P.s. per questo racconto nessuna addetta alle vendite/cassiera è stata maltrattata
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pettirosso1959 · 3 months ago
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A CHE SERVE L’UNIFIL?
La storia è nota. Migliaia di profughi della Guerra dei 6 Giorni vengono accolti dalla Giordania. Ma presto si dimenticano di essere ospiti di uno Stato. Girano per le strade armati e senza documenti, organizzano posti di blocco per raccogliere non meglio specificate tasse per la causa palestinese, perquisiscono i civili giordani, cercano di convincerli ad entrare nell’OLP nonostante siano soggetti alla leva militare giordana, rivendicano la competenza dell’OLP per i reati commessi in territorio giordano. Insomma, vogliono uno Stato nello Stato.
Quando nel 1970 questi profughi armati cercano addirittura di rovesciare re Husayn, la Giordania reagisce pesantemente. È il «Settembre Nero». Scoppia una guerra civile che durerà un anno. L’OLP sdogana la pratica degli scudi umani, che causano decine di migliaia di morti tra i civili, che per i miliziani islamici sono martiri. Rimarranno uccisi circa 6 mila guerriglieri. Gli altri si rifugeranno in Libano, dove li aspettano 100 mila profughi della Nakba, che non vedono l’ora di regolare i conti con Israele.
Le fazioni palestinesi si stanziano nel sud del Libano. E incominciano a fare il tiro a segno sulle città della Galilea. Di tanto in tanto sconfinano in Israele per compiere mattanze, come quella dell’11 marzo 1978, in cui muoiono 37 cittadini israeliani, tra cui 13 bambini.
Israele non resta a guardare. Il 14 marzo 30 mila soldati dell’IDF invadono il Libano ricacciando in una settimana l’OLP al di là del fiume Leonte, perdendo soltanto 20 uomini contro i 1000 dell’OLP, oltre a 3000 civili. In pochi giorni si riunisce il Consiglio di Sicurezza ONU, che emana la Risoluzione n. 425, con cui viene intimato ad Israele di ritirarsi, perché a calmare le acque ci penserà appunto l’UNIFIL, la Forza Multinazionale.
Questo UNIFIL, oltre ad assistere la popolazione civile, ha il compito di aiutare il Libano a ristabilire la propria sovranità, calpestata dai gruppi palestinesi che utilizzano il sud per lanciare attacchi a Israele. E dovrà coadiuvarlo nel disarmo delle milizie palestinesi. Il Consiglio di Sicurezza vuole che Israele se ne torni a casa, ma tra la linea blu e il fiume Leonte non dovrà rimanere neppure un Fedayyn con una scacciacani.
Israele si ritira. Ma sia l’esercito del Libano che l’UNIFIL non combinano nulla, a parte fare la guardia ai cedri millenari. Cacciate dall’IDF, nel giro di un anno le milizie palestinesi si ripresentano nel sud più agguerrite che mai. Nel frattempo Komeini è salito al potere ed è nata la sanguinosa Hezbollah, che riprende lo sport preferito dei guerriglieri islamici: i razzi verso la Galilea. Tanto che Israele è costretto nel 1982 a invadere ancora.
Sarà sempre la stessa storia, con ulteriore replica nel 2006. Da quasi mezzo secolo, nel rispetto delle decisioni del Consiglio di Sicurezza, ogni volta Israele lascia il Libano attendendo invano la bonifica proclamata dall’ONU, ossia il disarmo completo di ogni gruppo armato nel sud. Le successive quattro risoluzioni del Consiglio di Sicurezza continuano a rimanere lettera morta.
Israele ha appena invaso per la quarta volta il Libano nel tentativo di sbaragliare Hezbollah, foraggiato dall’Iran che gli manda armi attraverso la Siria, sotto lo sguardo non troppo severo proprio di quelli dell’UNIFIL, che in tutti questi anni hanno visto sotto il naso spuntare come funghi kilometri di tunnel come quelli di Gaza. Ora Hezbollah, secondo una tecnica ormai collaudata, si è ritirata a ridosso della forza multinazionale, sulla quale Israele, visti i precedenti, ripone ben poca fiducia. Ma volendo chiudere i conti con il Partito di Dio una volta per tutte, Israele sta entrando in un pesante conflitto con la forza multinazionale, che non vuole saperne di andarsene, almeno per ora.
Ma se l’UNIFIL è stato inviato nel sud del Libano dal Consiglio di Sicurezza ONU per disarmare qualsiasi milizia ostile a Israele, visti i fallimenti dell’ultimo mezzo secolo, per quale motivo Israele non dovrebbe esigere che l’UNIFIL svolga il compito per cui è stato creato? «Se non ci pensate voi, ci pensiamo noi» avrebbe detto Herzl Halevi, capo di stato maggiore dell’esercito israeliano.
Antonello Tomanelli.
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marquise-justine-de-sade · 2 months ago
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Non sono state streghe
a bruciare...
Erano donne,
con la colpa di essere
Molto belle,
molto colte o intelligenti.
Alcune erano vedove o senza padre, avevano latte in casa, terre e acqua nel pozzo, una buona piantagione, altre non credevano nella lussuria del reverendo.
Donne che avevano un segno di nascita, donne che erano molto abili con la medicina erbale e avevano un forte legame con la natura.
Donne che ballavano, dipingevano, cantavano, scrivevano o abili in qualche arte la loro unica colpa erano nate in un mondo sbagliato.
Ogni donna rischiava di essere bruciata nel XVII secolo.
Venivano addirittura gettate nell'acqua e se galleggiavano erano colpevili se affondavano e annegavano erano innocenti.
Sono state gettate da scogliere, posizionate in buchi profondi nel terreno, qualsiasi tortura immaginabile è poco.
Non erano streghe a bruciare erano donne diverse donne con una marcia in piu che per questo davano fastidio e facevano quindi paura perche pericolose "diverse da come l'uomo le voleva e per questo considerate.... sbagliate...
e ancora oggi queste
donne "sbagliate"
continuano a morire...
Erano e sono DONNE !!!!
web
Pensieri di Dartagnan
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angelap3 · 8 days ago
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«Una notte di capodanno.
Io canto al Lido di Genova: guardando dal mare verso la collina vedo una casa illuminata: mi dicono che è la casa di De André... Finisco la serata e verso l'alba salgo i gradini per arrivare alla macchina quando calpesto una moneta da 50 lire e mi dico: "Se a Genova, dove sono così attenti ai soldi, nessuno l'ha raccolta, allora questo è un segno". L'amuleto provoca subito un nuovo incontro: vado alla Phonorama, la più importante sala di registrazione milanese e mi dicono che in una delle salette c'è Fabrizio che incide Valzer per un amore e poco dopo, al bar, arriva proprio lui che mugugna qualcosa sinché non decidiamo di scambiarci i numeri del telefono. Mi saluta dicendo: "Domani ti chiamo". Credevo fosse il tipico "le faremo sapere"; invece il giorno dopo mi chiama davvero.
Cominciamo a parlarci e a vederci sempre più spesso, ma restiamo solo buoni amici. Lui non mi ha mai detto una parola d'amore, ma i suoi silenzi diventano sempre più eloquenti. Morale: nasce un amore grande, grande per davvero...».
Dori Ghezzi
❤️❤️❤️
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