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#scrittori Italiani nullità
pettirosso1959 · 12 days
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Dopo il tredicesimo libro postumo di Michela Murgia, i capolavori di Saverio Tommasi e Vera Gheno, gli insegnamenti del Maestro Cecchettin su come essere uomini coraggiosi e di Sua Maestà della Nullità Massimo Gramellini su come dormire bene arriva sugli scaffali l'imperdibile lavoro di Lilli Gruber su come la società dello spettacolo sia intrisa della cultura del porno e di come il sistema cerca di lobotomizzare le nostre menti
Era dai tempi di Simone Weil, Virginia Woolf e Alda Merini che non usciva un siffatto capolavoro ovviamente sotto l'egida di una casa editrice indipendente ed anti conformista come la Rizzoli.
Grazie Lilli
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Da Dario Berardi.
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pangeanews · 6 years
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110 anni fa Filippo Tommaso Marinetti detto “Effetì”, la “Caffeina d’Europa”, il “cretino fosforescente” pubblica il Manifesto del Futurismo su “Le Figaro” (e s’inventò il giornalismo moderno)
L’avevano chiamato la Caffeina d’Europa. E Filippo Tommaso Marinetti, nato in una casa sul mare, ad Alessandria d’Egitto, “col preannunzio sciroccale”, il 22 dicembre 1876, con la sua dirompente carica rivoluzionaria e geniale, in effetti, aveva saputo infiammare lo scenario culturale dell’epoca, riuscendo a rompere la grammatica della tradizione letteraria, esaltando i nuovi miti della modernità, la macchina, i valori della potenza e del coraggio, e della guerra. La sua creatività e la sua originalità erano, a suo dire, patrimonio genetico: “Mio padre m’infuse nel sangue la sua tenacia piemontese – aveva scritto – Gli devo la sua grande forza di sanguigno volitivo e dominatore, ma fortunatamente non ho il fitto intrico dei suoi cavilli spirituali, né la sua memoria stupefacente”.
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L’avvocato, il padre, Enrico Marinetti è nato in una famiglia di piccoli trasportatori a Pontecurone, tra Tortona e Voghera, dove porta avanti uno studio legale ben avviato, si legge nella biografia Filippo Tommaso Marinetti. Invenzioni, avventure e passioni di un rivoluzionario di Giordano Bruno Guerri (Mondadori, 2017). Ad un certo punto, però, il padre del grande futurista si innamora di Amalia Grolli, che, purtroppo, è già sposata e pure triste. Così i due innamorati scappano ad Alessandria d’Egitto per vivere il loro amore autentico ma troppo anticonvenzionale, per l’epoca. La madre di Filippo Tommaso “fu tutta una poesia delicatissima e musicale di tenerezza e lagrime affettuose” e, prima dell’artista, nel 1874 aveva messo al mondo il primogenito, Leone. La casa natale sul porto antico di Alessandria è colma di arredi orientali e altrettanto abbondanti sono i nomi di Filippo Tommaso: Susù, Tom, Thomas, anche se, al consolato e all’anagrafe di Milano, è registrato soltanto come Emilio Angelo Carlo e dice di chiamarsi Filippo Achille Giulio, ma poi, dal momento in cui inizia a scrivere, sceglie Filippo Tommaso e per i più intimi, semplicemente “Effetì”. Una marea di nomi a cui votarsi.
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“Quando appariva distratto, preoccupato da problemi di difficile soluzione o non risolti secondo la sua direttiva – scrive di lui Aldo Palazzeschi – con la sigaretta in bocca si sedeva all’organo per eseguire una sonata che faceva assurgere al massimo livello l’atmosfera da Harem-Moschea di quella casa. Eseguita la sonata si alzava ridendo: ogni dubbio dileguato, ogni difficoltà risolta, il suo ottimismo era di tale lega che nulla riusciva a scalfirne la buccia”. L’appetito futurista, poi, è proverbiale (si ricordano ancore certe mangiate di pastasciutta al Savini di Milano) e ben alimentato con “costolette ampie come bandiere formaggio gorgonzola e vino Grignolino” servito dalla cuoca Marietta. Palazzeschi ricordava: “All’ora del pranzo e a quella della cena appariva Nina giovanissima cameriera azzurra e dalla grazia squisitamente goldoniana, con la massima spigliatezza e quasi con sdegno toglieva da quella tavola, divenuta una fucina, tutto quello che c’era di più per poterla restituire, almeno provvisoriamente, alla propria natura”. Un eccentrico e un dandy che, nonostante le numerose amicizie, incontra anche non poche polemiche e riceve curiosi epiteti: “una nullità tonante” lo definisce Gabriele d’Annunzio (del resto Effetì lo chiamava vecchio trombone e lui gli rispondeva: cretino fosforescente), “poeta degli imbecilli” fu invece il lieve soprannome affibiatogli da Antonio Fogazzaro. Ma la sua vitalità è incontenibile e passa volentieri dalle parole (e dai versi e dagli insulti), ai fatti.
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Nel 1905, appunto, pubblica l’inno, in francese, A l’automobile e pochi anni più tardi, si compra un’Isotta Fraschini da quasi cento cavalli, nomen omen. Ma guidare un “automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia” (il vocabolo è maschile, si sa, all’inizio, fino al 1923, quando d’Annunzio, in una lettera a Giovanni Agnelli, decide di cambiargli il genere) non è così immediato per Marinetti, che si domanda: “se un po’ alla volta riesco a imparare i rudimenti della lingua cinese, volete che non riesca infine a pilotare una Isotta Fraschini?”. Eppure, proprio mentre prende lezioni di guida dall’amico meccanico Ettore Angelici, il 15 ottobre 1908, in via Domodossola, il fattaccio. Gli compaiono davanti due ciclisti, “titubando come due ragionamenti, entrambi persuasivi e nondimeno contradditori” e il futurista sterza bruscamente, precipitando, con qualche ammaccatura, nel canale. Da allora, il futurista si fa accompagnare sempre da uno chauffeur. “Noi vogliamo inneggiare inneggiare all’uomo che tiene il volante” si legge, curiosamente, nel celebre Manifesto del Futurismo, ma l’uomo in questione è quindi l’autista, se vogliamo leggere alla lettera la sua vita. Il Manifesto appare in prima pagina su Le Figaro di Parigi, quello storico 20 febbraio 1909. Ma non è il solo giornale ad ospitare il Manifesto del futurista che dichiarò guerra al chiaro di luna, e non è il primo.
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“Marinetti aveva inondato i giornali italiani – scrive Guerri – di volantini con il testo e sono state rintracciate, finora, otto edizioni a stampa precedenti Le Figaro: sulla Gazzetta dell’Emilia, su Il Pungolo di Napoli, sulla Gazzetta di Mantova, sull’Arena di Verona, sul Piccolo di Trieste, a Napoli su Tavola rotonda, poi sul Giorno di Roma”. I quotidiani locali accolgono il progetto futurista con “il coraggio, l’audacia, la ribellione”, mettendo, in prima pagina, un articolo dalla potente carica esplosiva. Un articolo, in undici punti (tremila battute, spazi inclusi) destinato a “inventare” il giornalismo moderno, come ha scritto Pontus Hulten: “Marinetti ha inventato il giornalismo moderno. Ha capito che l’informazione precede gli avvenimenti. Quando ha pubblicato il Manifesto, il Futurismo non esisteva ancora”. Anche Marinetti, come molti scrittori, ha con sé un’arma carica, in punto di morte. Qualche mese prima di morire, Marinetti, che si è ormai trasferito a Como, vicino al Lario, riceve in dono una rivoltella da parte dell’ambasciatore giapponese Shinrokuro Hidaka. Grazie all’amico nipponico sono stati salvati anche cinque grossi faldoni di documenti, manoscritti, lettere e inediti di Marinetti. Ancora una volta, l’ambasciatore giapponese interviene nella vita del futurista, invitandolo a trasferirsi in due stanze all’Hotel Splendido, l’attuale Excelsior, di Bellagio. La vita abbandona il futurista, ormai sconfitto, magro e malato, davanti ad un lago, quello di Como, luogo di passaggio più che mai in quell’istante, da un mondo all’altro, dall’Italia del nord ferita sotto i bombardamenti alleati. La Caffeina d’Europa si spegne allo Splendido di Bellagio, il 2 dicembre 1944, dietro i monti del lago di Como. E si chiude così il Futurismo, per Marinetti, quel gelido giorno d’inverno.
Linda Terziroli
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pangeanews · 7 years
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Eco due anni dopo, ovvero: l’eco inconsistente del nulla. Quando ‘Umbertone’ si scagliava contro il sistema scolastico e paragonava Fellini a Proust
Come una specie di venerabile taumaturgo della cultura. Tra San Tommaso l’Aquinate e Topolino, quello di Disney. Le memorie intorno a Umberto Eco sono tante, una specie di ecolalia intellettuale. Io ne porto in dote due. La prima è di Mario Guaraldi, l’editore. Siamo nel 1983, Guaraldi ha creato l’evento per la presentazione ‘mondiale’ di E la nave va… di Federico Fellini. “Rivivo la serata al Grand Hotel, nel settembre 1983, quando seduto al tavolo assieme a Umberto Eco, dopo qualche secondo di finto black-out, apparve il Rex in tutta la sua gigantesca magnificenza, sulle note di Nino Rota. Avevamo lavorato ininterrottamente tre giorni per l’‘effetto speciale’ Rex , oscurando le finestre del Grand Hotel e montando il gran pavese fra due pennoni, sulla terrazza dell’albergo…”. Intorno a quella giornata uscì un libro davvero mitico, edito da La Casa Usher, Fellini della memoria, dove Umberto Eco si lancia in un pezzo di astrologica mirabilia – l’arte mirabile dello svaccar qua e là – dal titolo Theut, Fellini e il Faraone, dove mette insieme, poligamia bibliografica, il mito di Theut narrato da Platone, Marcel Proust e Federico Fellini. Guaraldi, in effetti, è uno degli editori più misconosciuti di Eco: nel 1972, con l’intro di Umbertone, pubblicò come I pampini bugiardi una interessantissima – non è un presa per il culo – “indagine sui libri al di sopra di ogni sospetto: i testi delle scuole elementari”, che meriterebbe degno recupero. Eco, che all’epoca non era ancora ‘ah, certo, Eco’, cioè lo scrittore del Nome della rosa, opera una critica salutare – e attuale – del sistema scolastico vigente, analizzando i libri propinati ai nostri baby. Esito: “Si deve ritenere che, per accontentare la maggioranza media, per non suscitare dissensi, per non urtare suscettibilità, per piacere a tutti, si cerchi di mantenere il testo al livello dell’ovvietà, del qualunquismo, della acriticità, della idiozia rispettabile”. E parla, Eco, espressamente, di “squallida, nequizia giorno per giorno perpetrata alle spalle dei nostri bambini”. Il secondo aneddoto lo ricorda, tra i tanti, l’esimio semiologo Paolo Fabbri, collega di Eco e ‘comparsa’ nel Nome della rosa (“sotto lo mentite spoglie di Paolo da Rimini, doctor agraphicus”). Nel 1983, a Rimini, con Fellini, Umberto Eco è già ‘ah, già, Eco, lo scrittore del Nome della rosa”. Dopo i convenevoli intellettualistici, Eco s’involava sui colli riminesi, al ‘Paradiso’, storico locale notturno gestito da Gianni Fabbri, fratello dell’esimio semiologo Fabbri. Dai balconi del ‘Paradiso’, ammirando la Rimini tumefatta di luci, di notte, Eco sussurra, ‘pare Los Angeles…’. Infine, sappiamo che alla fine Eco ha piazzato dimora a Monte Cerignone, borgo medioevale nella provincia di Pesaro-Urbino, dove coltivò parte della sua biblioteca – all’incirca 20mila volumi; l’altra stava a Milano – inseguendo, forse, nella noia marchigiana, l’ombra di Guglielmo da Baskerville. Il succo della storia ve la dico così. Oggi, 19 febbraio, sono dieci anni dacché Fidel Castro annuncia il ritiro dalla vita politica attiva e due anni da quando è morto Eco. Di Castro restano le T-shirt del ‘Che’. E di Eco? L’eco inconsistente del nulla. Esempio. Classe quarta di un liceo classico riminese. Ragazzi maggiorenni o quasi. La prof vuole leggere Il nome della rosa. Domanda fatale. ‘Sapete chi è Eco, vero?’. L’eco del nulla e delle nullità. Uno alza timidamente la manina. Prego. ‘Uno che è vissuto negli anni Trenta, un regista…’. Più o meno. Un altro ha sentito nominare Il nome della rosa. ‘Non è un film in bianco e nero?’. Ovvio. La giovinezza furibonda fa sembrare un fatto dell’altro ieri geologicamente millenario. Ma ci sono due fatti pazzeschi. Liceo classico. Ragazzi maggiorenni. Mentre l’intelligenza nostrana riempie le pagine dei quotidiani ragionando masturbatoriamente sull’eredità di Eco, i ragazzi di un liceo classico di Rimini – mica Corleone – non sanno chi sia Eco. Presumo che anche degli altri Umberto nazionali (da Saba a Tozzi passando per Bossi) sappiano nulla. Ora. Umberto Eco è stato il guru della cultura nazionale degli ultimi quarant’anni almeno. Uno degli autori italiani più letti nel resto del mondo. Un liceale di diciotto anni non sa chi è. Morto da due anni, pare scomparso da due secoli. Annientato. Tesi: i liceali – figuriamoci gli altri – non leggono. Non leggono gli autori viventi. Tra dieci anni i liceali di oggi, magari, sapranno tutto di Eschilo o di un ignoto chiosatore del Quattrocento – così vanno i ghiribizzi dell’accademia – ignorando del tutto le sorti della letteratura italiana di ieri e di oggi, quella vivente, che balza sulla scrivania come un pesce appena pescato. Eco è l’eco dell’inconsistenza culturale di oggi. Colpa di chi? Editori che pubblicano stronzate, scrittori incapaci a scrivere il capolavoro, insegnati mediocri, scuole preistoriche, politica miope, italiani che se vedono un libro girano gli occhi altrove, manco fosse un assassinio? Colpa di tutti. Bisognerebbe creare una università dedicata alle leccornie letterarie italiane, alla poesia e al buon senso bibliografico. Onore e gloria a Eco. I posteri hanno già espresso l’ardua sentenza. (d.b.)
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Per gentile concessione pubblichiamo il testo di Umberto Eco, “Theut, Fellini e il Faraone”, pubblicato in origine in “Fellini della memoria”, a cura di Ester de Miro e Mario Guaraldi, La Casa Usher, 1983.
Immaginiamo che le celebrazioni siano a Parigi, e si festeggi Proust (quando si prendono degli esempi, debbono essere o di infimo o di altissimo livello, altrimenti non vale la pena). Mi chiedo se farei il seguente ragionamento, per celebrare un autore che della memoria sapeva e diceva molte cose. Mi chiedo dunque se non tornerei, a costo di non apparir originale, a quel dibattito antico di cui dà notizia (leggendaria) Platone nel Fedro, quando il Faraone discute col dio Theut (che poi era Mercurio), il quale aveva inventato la scrittura, e gliela proponeva come un utile artificio per conservare la memoria delle cose. E il Faraone a dirgli che aveva inventato qualcosa di terribile, perché da quel momento in avanti, dispensati dal bisogno di ricordare (affidato agli scritti), gli uomini avrebbero perduto l’arte preziosa del ricordo, e l’esercizio, e il culto, del loro universo di privati regesti ed affetti…
L’obiezione al Faraone, parlando di Proust, è facile: ecco un bell’esempio, o figlio di Iside ed Osiride, di come l’arte della scrittura non solo non deprima, ma anzi potenzi ed esalti il nostro gusto del ricordo. Ma, parlando di Proust, rivolgeremmo ancora questa obiezione al Faraone? Credo di no, perché si tratta di questione superata, e già vi si poteva rispondere allegando Saffo o Catullo. Mi chiedo se argomenti analoghi non dovrebbero essere ripresi oggi, che so, per altre invenzioni di altri Ermeti, come per esempio il computer: per dire che, lui calcolando, non ci esimerà affatto dall’apprendere l’arte del calcolare, ma anzi ci renderà più attenti e sensibili ai calcoli più sublimi, e se dimenticheremo le tabelline diverremo però esperti in integrali. Cosa c’entra tutto questo con una celebrazione di Federico Fellini presentato (a giusto titolo) come Fellini della memoria (dove il titolo è giusto ma ambiguo, perché non si sa se celebri il Fellini che ricorda o il Fellini che viene ricordato) ? È che Fellini è uomo di cinema: e riguardo al cinema, ancora giovane quasi quanto la scrittura ai tempi del Faraone, ancora si dice, talora, che – pur essendo indubitabilmente Arte – è tra le arti la più legata ai vincoli della realtà esterna perché, bene lo si sa, per quanto l’autore inventi, deve pur sempre riprendere dalla realtà quello che la realtà offre, persone, paesaggi, colori e suoni. E se la realtà non è lì, il cinema, prima di raccontarla, deve pur sempre ricrearla ovvero ‘metterla in scena’. E se anche i paesaggi sono di cartapesta e i personaggi di alluminio (come accade ai robot di Guerre stellari), si tratta sempre di produrre qualcosa di pre-filmico, appartenente all’ordine del materiale, del fisico, del tridimensionale, prima di registrarlo (e sia pure, di deformarlo) nella ripresa e nel montaggio.
Non sto suggerendo che questi siano dubbi da laico ingenuo, perché del cinema come ‘semiologia della realtà’ hanno parlato, e con gran convinzione, anche chierici tra i più illustri, e si pensi alla fede con cui Pasolini ha sostenuto sino alla fine queste tesi… Ecco, direi che Fellini è qui, con tutti i suoi film, dal primo all’ultimo, coi suoi migliori e con quelli che meno ci son piaciuti, quando si inventa e quando si ripete, a dirci che il film (ambiguamente ancorato alla realtà esterna) è un’arte della memoria, con la quale si può raccontare solo e sempre i propri ricordi, le proprie fantasie, le proprie ossessioni. Possiamo dire questo di molti altri registi, certo, ma Fellini è qui per dirci quasi esclusivamente questo. E come se egli fosse vissuto per redimere il cinema da ciò che gli è esterno, dal pre-filmico, o a dimostrarci che il pre-filmico, con tutto ciò che prende a prestito dalla realtà fisica, vive e viene inventato per praticare un’arte che è ricostruzione di mondi interiori, per privati che siano. Per cui è naturale, amarcord non può essere il titolo di uno dei suoi film, bensì il titolo del suo Opus Magnum. Trismegisto, dunque: tre volte grandissimo come Ermete-Theut, con la sua nave Fellini va sempre al di là di quello che il mondo esterno vorrebbe imporre al suo mondo interiore, e alla voracità della sua nostalgia.
Umberto Eco
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