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Mille Occhi.
Sono insonne da tre giorni, credo, e spero che questo gufo riesca a volare... almeno fin sopra gli infiniti alberi che vedo attorno a me, perché questo buio mi sta schiacciando. Valentina N. agente del ministero, quindi auror - nemmeno ufficialmente, ma okke - e sono da qualche parte sui monti del nord Italia, ho trovato qualcosa di... difficile comprensione.
Ho concluso i miei studi nella prestigiosa scuola italiana - e alquanto segreta - di Caput Draconis. Abbiamo sconfitto un mago oscuro, venuto da un tempo lontano, uno che aveva a che fare coi tarocchi. Non lo so... Alan Verse aveva un certo fascino, nonostante non impazzisca per i francesini vecchi di secoli. Era strano, particolare, come riuscisse ad avere un’ascendente su molte persone, pure su di me. Chissà... Il mio insegnante di Difesa contro le Arti Oscure, mi aveva preparato pure a quello, peccato lo abbia fatto solo l’ultimo anno. Ho dovuto veder morire gente, prima di decidere che cosa farne della mia vita. In realtà non lo so nemmeno ora, non so perché sono qui, non so come riuscirò ad inviare quest’ultimo e disperatissimo gufo ai miei amati grifondoro.
Loro sono rimasti tutti alla scuola, solo io e Ariana siamo “fuori”, lei è in una congrega, è sempre stata potente e sensibile, ha sempre avuto il controllo giusto per essere parte di “streghe pure”, come le definisce mia madre. Sono le streghe che hanno il controllo della propria vita, che continuano ad evolvere, scoprirsi e migliorarsi, sempre al servigio dei deboli con le loro predizioni ed il loro saper “discendere” nel ignoto... “Mica come te!” Già. Mica come me.
Io fino alle dieci del mattino di mercoledì sei maggio, ero nel mio ufficio.
C’erano, come sempre, mille deposizioni da controllare. Persone che avvistano globi luminosi, ombre dietro le tende, svolazzamenti tra i lampadari. Vi chiedete mai dove finiscono tutte le denunce per u.f.o o cose simili? dove, Il Vaticano, e non mio zio peppino, IL VATICANO, manda i casi di esorcismo “irrisolti”, incomprensibili, o che sembrano tutt’altro che casi di possessioni o di schizofrenia?! Bene, ogni volta che una giovane donna grida dopo aver visto l’uomo falena, quel grido viene mandato al mio ufficio. Ve la faccio breve: L’Italia è una regione ricca di radici magiche differenti, specialmente per la sua storia da sempre piena di differenze culturali, influenze da ogni dove e cose così. Beh, l’ufficio misteri ha ben pensato di creare una succursale nascosta e praticamente segreta ai più (in realtà non ci caga nessuno quindi non ne parlano), proprio qui, poiché sembra che il suo essere un misto di culture e magie, la renda un polo/meta di pellegrinaggio per qualsivoglia tipo di creatura... e AH il vaticano, il quale ha stipulato patti segreti con altre comunità magiche (ai tempi dei tempi) per far sì che NOI ci occupassimo dei LORO “indemoniati”. Quindi, ci occupiamo di tutto ciò che è misterioso ed incalcolabile, tutto ciò che i babbani pensano di vedere e che vedono... ma di fatto non possiamo dirlo. Un po’ come i “Man in Black” o i “Ghost Busters”.
E’ in una delle tante cascine/castelli diroccati che vedrete salendo per il nord Italia, dove le montagne minacciano il cielo, aguzze, e la verdeggiante valle si stende ai piedi di altissimi alberi.
Un posto fantastico per studiare i casi di combustione spontanea, “le calamità” ovvero quelli che i babbani complottari chiamano SPC - sono delle creepy pasta ma questo è perché glielo lasciamo credere... ma forse non dovrei dirvelo - e tutti i criptidi che non rientrano nelle “adorabili creature magiche”. Insomma, mostroni strani e cose di altri pianeti che usano magie estremamente vicine a principi scientifici. Tradotto: “No signora, suo figlio non è stato rapito dal uomo nero, è stato il vostro parroco...” Phil mi ha detto di non rispondere così, ma cosa posso dirvi, loro ci mandano millemila casi al giorno, hanno UN PROBLEMA nel gestire le loro genti, è palese, aggiungiamoci poi che è incredibile il numero di creature mutaformi-non umane attualmente in circolazione.
Tornando a noi, era il sei maggio, una mattina raggiante in un ufficio abbastanza ordinato e reso colorato ma minimalista dai miei acquisti compulsivi. Adesso tutti hanno un cestino personalizzato in colori pastel, ma nessuno ha ancora capito come addestrare il poltergheist.
In genere io non esco, rispondo al telefono, compilo i moduli per i nostri auror speciali (ne abbiamo tipo tre) e gli dico dove andare. Ci muoviamo tra Italia e stati limitrofi ma spesso vanno anche altrove accorpandosi con gli auror inglesi, soprattuto contro i vampiri a nord est. Devo passare in rassegna tutti i casi conclusi e ordinare nei propri contenitori i vari mostroni, anche se con alcuni abbiamo contatti “stretti” (nota: non tutti i criptidi sono incapaci di comprendere la nostra lingua e/o offensivi/dannosi per l’umanità - vedi “Mothman”) insomma faccio il magazziniere dell’occulto. Quella mattina faceva abbastanza caldo, la radio mandava buone notizie per quanto riguarda il covid-19, cosa che ha colpito anche la comunità magica. E insomma, mi sentivo bella sbarazzina, accidenti a me...
Alla mia scrivania arrivò un referto, uno dei tanti, macchiato d’inchiostro. Si parla di diversi bambini scomparsi, di fuochi accesi nella foresta, dei soliti paesani che berciano qualcosa di incomprensibile sulle scie chimiche e sugli alieni. Beh sembrava assolutamente normale, ma quelle macchie, tante macchie d’inchiostro. Ed era arrivato così, quindi chiedo chi lo avesse compilato... mi sentivo un po’ presa in giro, era illeggibile e ciò che potevo leggere, pagina dopo pagina, era sempre più inquietante. Come se alcune parole fossero state cancellate di proposito. Mi venne un nodo alla gola, le teorie complottare scemavano mentre la roba seria aumentava. Si parlava chiaramente di sacrifici, di corpi trovati sventrati e di “creatura dai mille occhi ma senza nemmeno un ciglio in viso”. Bene, appena smisi di avere i brividi, mi incazzai e continuai a chiedere informazioni. Solitamente devo SOLO TIMBRARE I REFERTI E CATALOGARLI, OK, IO TIMBRO E LORO PORTANO A COMPIMENTO LA MISSIONE. Nulla di ciò che avevo letto online o OVUNQUE corrispondeva alla descrizione di questa creatura, e le scene che balenavano nella mia testa, erano alquanto crude.
“Valz. Nessuno ha compilato quel modulo, ci è arrivato così” Attualmente sono dispersa nelle foreste di quello che credo sia ancora Il Trentino, non so dirvi cosa sia questa creatura, ma continuo a sentirmi osservata da quando ho letto quel referto.
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Ammetto la mia passione smodata per “Lezioni di piano” (ovvero: quando Jane Campion andò a trovare Janet Frame)
Sei anni fa un uomo è in bicicletta con la figlia – la figlia ha cinque anni, sono le cinque del mattino, la luce, viscosa, sembra essere prodotta dall’intensità della pedalata – i vampiri della notte, con bottiglie e deliri tra le mani, tornano agnelli sotto la grazia dell’alba. In una spiaggia riccionese, era il 2013, una fatale Notte Rosa, quell’uomo va ad ascoltare Michael Nyman che suona, all’alba. Porta la figlia, che ha un nome biblico, perché non può abbandonarla a casa, da sola – ma soprattutto perché quando era ancora più piccola si addormentava sulle note di quel pianista. Non importa la statura estetica di Nyman, in questo contesto. Tutto ciò che vale è esemplificato dalle note – sempre le stesse, fino all’ipnotismo, che incanta il tempo – di Lezioni di piano.
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In originale, come si sa, Lezioni di piano è semplicemente The Piano. Il pianoforte in quel film dà e toglie la vita: non c’è alcuna ‘lezione’ impartita, ma una resa e una crudeltà. In quel film, il pianoforte è il Minotauro, il mostro, e tenta di trascinare la pianista negli abissi oceanici, legata alla corda-filo, a una ispirazione che uccide. Cosa c’è di più labirintico dell’Oceano, d’altronde, e che malia demonica sussurra il pianoforte, un oracolo.
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Uscito nel 1993, The Piano consente a Jane Campion, 25 anni fa, di ottenere l’Oscar per la Migliore sceneggiatura originale. Vince anche le reticenze francesi, la Campion: è l’unica regista donna ad avere conquistato la Palma d’oro a Cannes. Sono un’anima semplice: i contrasti binari che agiscono in quel film (selvaggio/domestico; armonia/violenza; amore/morte), in quinta neozelandese, in quell’Ottocento di merlettate liturgie familiari e ambizioni al fuggiasco, mi smuovono. Secondo me The Piano è un capolavoro. In questi giorni è stato presentato rinnovato, esito di un restauro ad opera della Cineteca di Bologna.
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Holly Hunter, che in quel film è Ada, la sordomuta che dimostra la sordità all’amare di tutti gli altri, retta sull’agave della musica e sulle ali fittizie che indossa la figlia, va sposata immediatamente, per la sua assoluta inafferrabilità. Ami solo ciò che non si può raggiungere. Ada è un nome di Nabokov – Ada o ardore è pubblico cinquant’anni fa – ma è soprattutto biblico. Adah significa ‘la bella’.
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In una lunga intervista rilasciata a la Repubblica, Jane Campion ha ammesso la ‘fonte’ prioritaria di The Piano. “Anche se non è tratto da un libro ha sempre una matrice letteraria. Sono stata ispirata dalla letteratura del Novecento, penso a Cime tempestose delle sorelle Brontë, quel tipo di letteratura. Volevo fare un film che fosse in quell’atmosfera”. Lasciamo stare il pazzesco refuso, imputabile all’intervistatore – Cime tempestose è pubblico nel 1847!
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Facciamo un piccolo tour filologico, piuttosto. Nel 1990 Jane Campion esce con Un angelo alla mia tavola, è il film che precede The Piano, tratto dal ciclo di libri autobiografici di Janet Frame. Janet Frame è morta 15 anni fa ed è la scrittrice neozelandese più grande. Anche la Campion viene da lì, dalla Nuova Zelanda. Le “poesie scelte” di Janet Frame sono pubblicate da Gabriele Capelli Editore come Parleranno le tempeste, nel 2017; i romanzi, dal primo, Gridano i gufi, scritto poco più che ventenne, sono in catalogo Neri Pozza. Nell’introduzione a Un angelo alla mia tavola (Neri Pozza, 2010) Jane Campion racconta i suoi incontri con Janet Frame. Il primo accade il 24 dicembre 1982. “Janet non assomigliava a nessuna delle persone che avevo incontrato; sembrava libera, più viva, più piena di energia. Era divertente, arguta e profondamente sana di mente. Janet non seguiva le convenzioni del comportamento umano e sembrava non le importasse nulla di come si vestiva o del suo aspetto”. Da ragazza, con una diagnosi, sballata, di schizofrenia, la Frame fu tradotta in manicomio – è emblema, anche lei, dei rapporti tra follia e letteratura, o meglio, dell’incapacità di troppi uomini di non saper tradurre il diverso in profezia. Era la vigilia di Natale, la Campion domanda alla scrittrice qualcosa in merito ai suoi programmi per la festa. “Ho intenzione di trascorrere il Natale con delle mie vecchissime amicizie… con le sorelle Brontë, Emily e Charlotte”. Penso, quindi, che The Piano sia una sintesi maori che mescola Cime tempestose all’egida sbilenca di Janet Frame.
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I maschi che ruotano intorno alla magnetica Ada – Harvey Keitel e Sam Neill – sono entrambi in difetto. Uno fa parlare la logica, l’altro il corpo, ma lei che è il silenzio e un volto pietrificato all’atto suggerisce ad entrambi la soggezione. Ciò che parla è la musica, che come un veleno santifica i corpi all’espiazione del cuore, li snerva. Il mostro – questa specie di Arianna che cavalca il pianoforte/Minotauro – devi ucciderlo. O accettare di esserne soggiogato. Tra inginocchiatoio e gibetto la differenza è in un vocalizzo, un fraintendimento di vocativi.
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Il ciclo autobiografico di Janet Frame esce tra 1982 e 1985; nel 1989 i tre volumi della serie sono raccolti in uno, Un angelo alla mia tavola. La scrittura della Frame è diversa, dispari, sincopata, bambina, sordomuta all’ovvio, abilitata agli estremi. Qui riproduco un assaggio, dal capitolo I pini. La scrittrice è a Ibiza. Dietro ogni bagliore, avverte il soprannaturale, a rasoi. Questo va cercato: la smobilitazione dei paralleli, saltare ad ostacoli l’equatore, sentirsi in patria nell’espatrio. (d.b.)
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Arrivarono i temporali, che infuriarono sulla casa. I lampi illuminavano a giorno la stanza, e i venti gemevano, piangevano, urlavano come non li avevo mai sentiti urlare. Mi facevano pensare agli antichi dèi, creature nate dal tuono, dal lampo, dalla tempesta, che si abbattevano contro le finestre come se cercassero di entrare, artigliando il vetro, usandolo come uno strumento musicale. Spesso nel mezzo di un temporale, uscivo a camminare per la strada che scendeva dall’altra parte dell’isola; sedevo sulla roccia grigia fra gli alberi e le piante grigio argento abbattute, e pensavo di non essermi mai sentita tanto a casa. Ero felice di essere sola su un’isola del Mediterraneo, senza parlare inglese, usando uno spagnolo che veniva accolto con maggiore entusiasmo di quanto lo fosse mai stato il mio inglese; il tentativo di esprimere i miei pensieri era raccolto con bontà da persone fiere che cercassi di parlare la loro lingua e impazienti di spiegare, suggerire, aiutare e insegnare. Quando invece si parla la propria lingua ad altri che sono a loro volta parlanti si è soli nella lotta per soddisfare le aspettative dell’ascoltatore.
Ogni giorno, mentre sedevo a battere a macchina, guardavo la città specchiata nel mare, e una volta percorsi la strada che costeggiava il porto fino alla sponda opposta, dove si trovava la città vera che conoscevo solo come immagine nel mare, ma era come se cercassi di passare dietro uno specchio, e sapevo che qualunque fenomeno si nascondesse dietro la luce, la città, il mare, la vera città degli specchi si trovava al di là, come una città immaginata…
Oh, quanto prendevo sul serio il mio sogno di essere una poetessa! Sono da sola adesso, mi dicevo. Vivo la vita di una scrittrice. Mi sentivo in pace con me stessa, come se mi trovassi su una spiaggia ultraterrena a osservare la creazione di scene dai grandi dipinti del mondo, gli abitanti di Ibiza che si muovevano come diretti da pittori, e le case, le piante, il cielo di notte e di giorno, tutti con i colori che i pittori avrebbero scelto.
Janet Frame
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“Ho inseguito le Ninfe. D’altronde, amiamo proprio ciò che è inafferrabile”: dialogo con Fabrizio Coscia
A seguire il barbaglio del desiderio, il barlume dell’amare ci si perde, ci si addentra, anzi, forse si adempie, la follia, come accadde a Aby Warburg, ninfomane e ninfologo, e a HH, Humbert Humbert, il maniaco di Lolita, colto dalla mania della ‘ninfetta’. La Ninfa, creatura vitale e astrale, che orienta all’amore per perderti, come ciò che è inafferrabile per un fruscio, è oggetto d’indagine e d’andare dell’ultimo libro di Fabrizio Coscia, scrittore portato al contropiede narrativo (non edifica trame, la città ideale, fittizia, della letteratura, ma assiste a un sussulto di suggestioni), già autore di libri importanti (cito, almeno, La bellezza che resta, 2017). I sentieri delle Ninfe (Exòrma, 2019) è un libro che squaderna ossessioni e che insegue l’ineludibile odore dello sfuggente, portandoci da Calipso e dall’Antro delle Ninfe (così lo studio di Porfirio sui canonici versi di Omero) alla Kim Novak di Vertigo, da Aby Warburg a Thomas S. Eliot – che decreta nella Terra desolata, “Le ninfe son partite” – a Pierre Bonnard, ed è un libro che s’avventa nel pericolo (“Nympha è la vita che irrompe, con il suo movimento. E amarla non è per niente facile, perché vuol dire amare una profondità priva di sguardi”) aprendo ad altri libri, un sentiero che sfocia nella foresta bibliografica (continuate l’avventura tra la lista di testi svelati nella porzione dei Riferimenti e citazioni). Coscia scrive con passo di Ninfa: questa ninfologia ha valore di vento e di specchio, se la tocchi nel nocciolo scompare, non capisci se sia alba o tramonto, ha luminosità di latte. Il libro comincia sulle fatidiche gambe di Dora Markus, che stregarono Bobi Bazlen tanto da pretendere dall’amico Eugenio Montale una poesia per la misteriosa – proprio per avvenenza erotica e avventatezza lirica si fa la storia della letteratura. La Dora in cui s’insinua Coscia – e che ha ruolo nell’ultimo libro di Franco Rella, Immagini e testimonianze dall’esilio, Jaca Book, 2019, a dire della complice vaghezze di certe icone dell’ispirazione – lavora in forma di ninfeo dentro il cranio di Montale. L’amata sfuggente Irma Brandeis – è divino soltanto l’amore impagabile perché inappagato – è eternata con il nome di Clizia, la ninfa che si fa girasole (che è anche la copertina del libro di Coscia, secondo l’interpretazione di Evelyn De Morgan). Criterio della Ninfa è l’ambiguità: se all’apparenza è volo volitivo, cosa che va, nella Primavera hitleriana assurge a ruolo dell’amore che resta mentre tutto, in modo insostenibile, si sfa, “Guarda ancora/ in alto, Clizia, è la tua sorte, tu/ che il non mutato amor mutata serbi”. L’uomo si smaga per la Ninfa, e lei, magari, ne ha commozione, raccogliendolo. (d.b.)
Parto così. Le Muse ispirano, le Ninfe invocano l’inseguimento e l’amare, le Moire tagliano la fune dell’esistere. Sono donne quelle che presiedono alla virilità creativa, alla vita. Perché ti sei messo a inseguire le Ninfe?
In verità, le Ninfe sono anche Muse e Moire. Sono Muse perché attraverso il loro movimento seduttivo rappresentano una fonte di ispirazione, ma nel senso della possessione: Platone, per bocca di Socrate, usa la parola “nympholeptos”, ovvero in preda alle Ninfe, posseduto dalle Ninfe. Si tratta, naturalmente, di una possessione erotica. Di una manía che, secondo lo stesso Socrate, è migliore della moderazione, perché è di origine divina, mentre la moderazione è umana. L’innamorato, spiega ancora Platone attraverso Socrate, «si estrania dalle preoccupazioni umane e si orienta al divino e i più lo rimproverano di essere folle, ma non sanno che in realtà egli è posseduto da un dio». Sono parole che rimandano a quelle che scriverà Freud duemila anni dopo nel Disagio della civiltà: «Al culmine di un rapporto amoroso non rimane alcun interesse per il mondo circostante». Da questo disinteresse e da questa esclusività nasce l’estrema pericolosità di Eros, una pericolosità che ci avvicina ai territori di Thanatos. Ecco perché dico che le Ninfe sono anche Moire. Ce lo fa capire bene Omero quando nel tredicesimo libro dell’Odissea descrive l’antro delle Ninfe e scrive che ci sono telai di pietra, dove le Ninfe tessono meravigliosi manti color porpora. E dunque: perché mi sono messo sulle loro tracce? Per verificare se in qualche modo attingendo al mito classico si potesse evocare ancora la dimensione demoniaca delle Ninfe. Viviamo tempi di addomesticamento delle passioni, di immagini neutrali, dematerializzate, fredde, da schermo di computer o di smartphone. Invece l’immagine della Ninfa ci aiuta a recuperare il senso profondo dello sguardo, quello che si affaccia sull’abisso, che ci spinge ad andare oltre, sempre oltre, per interrogarci sulla nostra identità. Chi siamo quando amiamo? Quando inseguiamo il nostro desiderio? E, soprattutto, quali fantasmi evochiamo?
C’è Dora Markus, ninfa così vaga da farsi poesia, e Lolita, ninfa carnale, che diventa ossessione esemplare. Tra le ninfe, mi pare, ci sono categorie e diversità, troni e dominazioni, come nelle schiere degli angeli: è così?
Già il mito elenca diverse categorie di Ninfe: ogni Ninfa cambia nome a seconda dello spazio che abita: i boschi di montagna sono popolati dalle Oreadi, che possono vivere dentro gli alberi (come le Driadi o Amadriadi); le fonti e i corsi d’acqua dolce sono il regno delle Naiadi: nelle sorgenti vivono le Pegee, nelle fontane le Creniadi, nei fiumi le Potameidi, nei laghi le Limniadi. Nelle profondità del mare nuotano le Nereidi, figlie di Nereo e dell’oceanina Doride; il cielo è popolato dalle Aurae, Ninfe della brezza, e dalle Pleiadi. È un universo di creature che continuano a sedurci, a parlarci attraverso le immagini, a parlarci intimamente di noi. T. S. Eliot ha scritto che le «Ninfe sono partite», disertando la scena della modernità, ma dagli studi di Georges Didi-Huberman abbiamo scoperto che a volte esse ritornano. E proprio questo ritorno nella modernità, che è un ritorno del rimosso, ho voluto indagare nel mio libro.
Qual è (a parte la L. che omaggi) la ninfa letteraria che ti ha fatto perdere la testa?
Confesso che ho sempre avuto un debole per la belle dame sans merci, la figlia della fata cantata da John Keats nella sua superba ballata. Il suo sguardo selvaggio, il passo leggero, i lunghi capelli, il mistero del suo linguaggio e dei suoi gesti, i doni che offre al cavaliere, il suo pianto e la sua sparizione, tutto è incantevole in lei. È l’incarnazione della femme fatale, che ispirerà l’iconografia preraffaelita, ma anche l’emblema del fatto che ogni storia d’amore è, spesso, una storia di parole incomprese.
Il libro, infine, è anche un ninfeo di autori e di fonti. Io avrei aggiunto Balandine Klossowska, per deformazione rilkiana. Tra Vertigo e Bonnard, qual è il lato privilegiato per ammirare la ninfa, quale l’artista che ne ha fatto, a tuo dire, ossessione creativa?
Ciascuno ha il suo ninfeo personale. Io stesso ho lasciato fuori molte figure ninfali perché a un certo punto mi stavo trasformando in un accumulatore seriale di Ninfe, mentre l’obiettivo del libro è diverso. Tra tutti i nympholeptos di cui ho parlato, il più ossessionato di tutti è stato sicuramente Aby Warburg, il geniale storico dell’arte ebreo-tedesco che ha fatto della Ninfa una vera e propria mania, fin dagli anni giovanili dei suoi studi di dottorato, quando la scoprì nelle immagini dei quadri di Botticelli e poi negli affreschi del Ghirlandaio. Una mania che lo ha portato letteralmente al manicomio. La sua degenza a Kreuzlingen, fra il 1921 e il 1924, nella celebre clinica «Bellevue» dello psichiatra svizzero Ludwig Binswanger, luogo storico della schizofrenia, è una discesa agli inferi della psicosi. Warburg ebbe l’impressione che quella psicosi fosse una vendetta delle Ninfe, della loro dimensione demonica. Ninfe trasformatesi dunque in Menadi. Lo scrive in una nota del suo diario, rievocando la Ninfa estatica maniaca, che è un chiaro riferimento a Platone: chi osa guardare la Ninfa cade nella sua trappola. La Pathosformel inseguita da Warburg per tutta la vita – ovvero quel fermo-immagine, quella formula di pathos, qualcosa di stereotipico ma carico di energia, che ritorna e si ripete attraverso i secoli, per dare forma alla «vita in movimento» – non abbandonerà lo studioso fino agli ultimi giorni della sua vita. Nel suo incompiuto e più ambizioso progetto, iniziato subito dopo le dimissioni dal manicomio, Mnemosyne, un atlante di immagini montate una accanto all’altra su grandi pannelli neri, in cui veniva abolito il concetto stesso di «storia dell’arte», sostituito dalle corrispondenze, le metamorfosi, le sopravvivenze delle immagini artistiche nel corso del tempo, anche da epoche lontanissime tra loro, Warburg torna ossessivamente alla Ninfa, a cui dedicherà diversi pannelli. Questa fedeltà a un’immagine, che ho cercato di raccontare nel mio libro, ha qualcosa di eroico e di commovente allo stesso tempo. Certo, poi c’è anche Pierre Bonnard, questo straordinario pittore che ha dipinto incessantemente, ossessivamente, il corpo nudo della sua donna, facendone la modella più dipinta della storia dell’arte, senza riuscire a penetrare il mistero della sua identità. È una storia struggente, come struggente è la sua pittura, che è il risultato di questo mistero indagato e accettato nella quotidianità, in uno spazio domestico e per questo tanto più folle. In questo caso l’ossessione ninfale feconda di dolore l’artista, lo apre a una visione nuova della realtà. I suoi ultimi autoritratti, dopo la morte della moglie, sono davvero impressionanti: è Orfeo tornato dagli inferi senza la sua Euridice.
Fabrizio Coscia è autore, tra l’altro, di “Soli eravamo e altre storie” (2015), “La bellezza che resta” (2017) e di uno studio “Sulle tracce di Francis Bacon” che s’intitola “Dipingere l’invisibile” (2018)
Cosa attrae della ninfa? La fugacità? Perché preferirla a Lilith o alla Sfinge o ad Aletto?
È il suo essere un être de fuite ad attrarre. Proust ha scritto su questo pagine memorabili, dicendo tutto ciò che c’è da dire. È il lato inafferrabile, sfuggente dell’essere amato a suscitare il desiderio. Ninfa è un movimento continuo, che non s’arresta mai, e in questo movimento continuo ci conduce su sentieri che non avremmo mai immaginato di percorrere. Ninfa è dunque l’Altro, non tanto in senso lacaniano quanto in quello in cui ne parla la filosofia di Lévinas, un Altro inteso come epifania, e dunque come «relazione diretta con ciò che si dà sottraendosi». Riconoscere nell’Altro qualcosa di estraneo da noi vuol dire imparare ad amare al di fuori del desiderio del possesso. Ma per imparare ad amare dobbiamo essere disposti anche a varcare i territori della perdita. La Ninfa infatti decreta la morte ma anche la resurrezione. È questo che ho scoperto, alla fine, scrivendo questo libro.
Nel tuo laboratorio artistico. Come prende forma un libro come questo? Da dove sei partito, da che lato? Da una immagine, da un verso, da un barlume imprevisto?
Tutto è nato dalla foto delle gambe di Dora Markus. Dall’ossessione di Bobi Bazlen per quelle gambe e dalla poesia di Montale. L’identità di quel personaggio ridotto a una sineddoche (le sue «gambe magnifiche») mi ha incuriosito, ha dato il movimento iniziale alla mia ricerca. Mi sono messo sulle tracce di questo fantasma e ho capito che quel fantasma era il fantasma di Nympha. Come l’ho capito? Dalla natura stessa della fotografia, che, come ci spiega Roland Barthes, è sempre un’allucinazione, qualcosa che ha a che fare con l’immobilità amorosa o funebre, la rievocazione di uno spectrum (il soggetto della fotografia) che è assente mentre lo vedo, ma la cui immagine certifica che c’è stato. Questa essenza fuggitiva, evanescente della fotografia è la stessa della Ninfa. Il libro dunque parla di che cosa si afferra, si percepisce, si scopre davanti alle immagini; che cosa si affronta e si rischia quando le guardiamo. Da qui è nata l’idea di seguire diverse storie, diverse figure, letterarie, storiche, artistiche, cinematografiche della Ninfa. Ma di raccontarle per frammenti, rinunciando a un’idea di unità, di totalità. La narrazione, intesa in maniera tradizionale, non mi interessa più, credo che sia, in fondo, una mistificazione. Abbiamo perso il centro, irrimediabilmente, e fingere che ci sia, soltanto perché si narra una storia, non ha più alcun senso. Quando penso alla mia scrittura mi piace pensarmi come un antico rapsodo, nel senso etimologico del termine, ovvero “colui che cuce i canti”. È un’immagine bellissima, perché restituisce da un lato un’idea artigianale della scrittura, che la apparenta al lavoro del sarto, e dall’altro un mettersi al servizio di ciò che è già stato detto o scritto prima di noi, e di mettere insieme i frammenti per creare qualcosa di nuovo.
Declina il sottotitolo: “nei dintorni del discorso amoroso”. Al di là di Barthes: perché i dintorni, perché il discorso? Si scrive, in fondo, per capire cosa si ama o per amare con forza quadrupla?
Nella parola “discorso” è implicito il senso del movimento, del passare da un luogo all’altro; ma vi è anche quello dello “scorrere”, del fluire. Qualcosa che ci riconduce alla natura liquida che hanno in comune la scrittura e le Ninfe, come se non si potesse scrivere d’altro se non d’amore. Come se dietro ogni discorso amoroso ci fosse sempre il tentativo di afferrare qualcosa che fluisce via, che si rifiuta di essere detto, e che tuttavia non si può non tentare di dire. Del resto, quando scriviamo d’amore ci muoviamo sempre a vuoto, nei paraggi appunto di un centro irraggiungibile. Il discursus amoroso è, pertanto, un movimento destinato a restare nei dintorni, nei paraggi, sulle tracce di una sopravvivenza, perché nel momento stesso in cui nominiamo Eros, già ci sfugge, già ne perdiamo il senso, eppure dobbiamo farlo, non ci possiamo sottrarre. In fondo potremmo dire che la Ninfa, più che essere simile alla scrittura, è la scrittura stessa, è il linguaggio dell’arte, l’unico che ci permette di fare un po’ di luce sull’insensatezza del vivere.
Ora, piuttosto, che Ninfa insegui, cosa scrivi?
Ho corso molto dietro le mie Ninfe. Credo che adesso mi fermerò per un po’. Questo libro chiude una trilogia che ho iniziato quattro anni fa con “Soli eravamo” e che ho proseguito con “La bellezza che resta”. Sono libri che hanno in comune una nuova modalità di scrittura, rapsodica, appunto, spuria, che mette insieme saggistica, narrativa, biografia e autobiografia. E sono libri con cui ho cercato di indagare i punti di contatto tra arte e vita, un aspetto che mi sta particolarmente a cuore, perché rivela un’idea della letteratura, e dell’arte in generale, come resistenza. Una resistenza sull’orlo della catastrofe, a cui siamo tutti condannati, certo, ma pur sempre una resistenza.
*In copertina: “Clizia”, Evelyn De Morgan, 1887 ca.
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