#sarebbe di una tristezza allucinante
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Ah btw ho capito adesso che quel "allora che ne pensi di Mimmo" si riferisce alla sospensione perché l'aveva sbolognato subito e Manuel invece l'ha pensata come opinione sulla cotta cioè Manuel si è incazzato perché rosica e Simone si è incazzato perché rosica pure però anche perché pensa che sia completamente disinteressato a lui
#se la scrivessi io sta cosa#tipo un po' introspettiva#(cosa che non escludo farò un giorno quando mi convinceró che ho bisogno di allenare la creatività quindi mi serve scrivere cazzo)#sarebbe di una tristezza allucinante#però vista così fa ridere#per me no#fa male al cuore tanto forte etcetc#un professtag
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“Lui si porta i libri di Kafka ma poi studia solo ogni cu*o che passa”. Le hit dell’estate più rarefatta del secolo, ovvero: sull’analfabetismo della musica italiana (che spacciano per indagine socio-artistica)
Ci si attendeva tonnellate di romanzi claustrofobici incubati durante la clausura anticontagio (arriveranno, dategli tempo) e di film ambientati nella cattività degli zoo per umani che sono diventate le città (purtroppo a quello di Enrico Vanzina ne seguiranno altri), così nel frattempo sono tornate le canzoni. Anzi le hit, come sono chiamate quelle produzioni che dovrebbero durare quanto gli assorbenti e invece diventano la colonna sonora delle stagioni.
Ci sono sempre state le hit, ma quelle imposte dalle radio durante l’estate post Covid – la più rarefatta e sospesa dell’ultimo secolo – oltre a rinsaldare i nostri vincoli affettivi con la mediocrità sembrano aver individuato la loro funzione sociale: sono diventate il piccone con cui demolire quel che resta della lingua italiana, il machete con cui smembrarla a beneficio di una comunicazione orizzontale, istantanea, indistinguibile e quindi informe. «Senza studiare, senza fiatare, basta intuire che è anche troppo, colpo d’occhio è quello che ci vuole, uno sguardo rapido» scriveva Ivano Fossati (Il battito, 2006), preconizzando la necessità di sintonizzare le nostre frequenze filologiche su onde sempre più elementari, catacombali: «Dateci parole poco chiare, quelle che gli italiani non amano capire, basta romanzi d’amore, ritornelli, spiegazioni, interpretazioni facili – diceva Fossati – ma teorie complesse e oscure, lingue lontane servono, pochi significati, titoli, ideogrammi, insegne, inglese, americano slang». Si argomenta spesso della crisi della letteratura, del vuoto intorno al cinema e della mancanza di coraggio dell’arte italiana, ma la verità è che dalla musica pare non ci si possa aspettare altro che disgregazione, chiacchiericcio, volgarità più o meno esplicite, analfabetismo a rigorosa misura di social. Ma guai a scambiarla per sottocultura, al contrario questa potrebbe essere la nuova frontiera della dignità autoriale con cui viene chiesto di fare i conti agli interpreti del nostro tempo, e chi non risponde «presente» o è tagliato fuori o è un dinosauro (come chi scrive).
*
La morte di una lingua.
Per brevità (ovvero banalità), velocità di trasmissione e universalità del messaggio, le canzoni post Covid sono diventate l’espressione più allarmante della deriva del Paese e della Lingua, nonostante questa rimanga tra le più belle, complesse e tradotte al mondo. Ma forse è proprio questo il demonio contro cui combattere, il padre nobile e ingombrante da abbattere. Forse alle nuove generazioni di produttori e compositori non va giù proprio questo, l’insopportabile paragone con un passato impietoso sotto troppi aspetti: nobiltà della missione, qualità del prodotto, straordinaria ricchezza artistica, inarrivabile varietà di proposte, mercato che oggi semplicemente non c’è. Va da sé che l’unica espressione culturale con cui ingaggiare un confronto, nel tentativo di riuscire a vincerlo, per paradosso è proprio l’ignoranza. Volendola tracciare con una parabola, la flessione della ricerca linguistica all’interno delle canzoni moderne, si dovrebbe scavare un fossato, interrarsi in un bunker atomico. Indifendibile, squallida, quasi sempre sessista anche se nessuno dei Benpensanti della Domenica lo fa notare. A larghi tratti analfabeta, quasi sempre composta da una manciata tra sostantivi, aggettivi e pronomi (massimo dieci, sempre gli stessi), ampiamente intrisa di offese gratuite, nomi e marche importati da lingue straniere. Né militante né consunta, né vissuta né scaltra. Una lingua traslucida, abbandonata per eccesso di frequentazione. Una lingua al consumo, usa e getta come le carte prepagate. Una lingua fantasma, nemmeno codice di riconoscimento. Avvertimento lampeggiante, segnale di insipienza riconoscibile da tutti e da lontano. Una lingua svenduta al massimo ribasso, umiliata come se di null’altro si potesse parlare che di stronzate, perché alla gente ignorante (stando al marketing alla base della concezione di questi capolavori) bisogna rivolgersi con cose ignoranti (ecco perché una signora che storpia il nome scientifico del ceppo di un virus su una spiaggia italiana, mixata e debitamente masterizzata fa più download di Alberto Angela). E in questo deserto nessuno chiede uno sforzo di creatività, nemmeno a quelli che invece avevano colpito – o ci avevano provato – per la loro audacia. «E comunque si balla, come bolle nell’aria. E si tagga la faccia, che è riaperta la caccia. E comunque si bacia, l’italiana banana…» canta Francesco Gabbani nel Sudore ci appiccica, mentre Diodato fotografa la solitudine che ci siamo lasciasti alle spalle con «lo vedi amico arriva un’altra estate, e ormai chi ci credeva più, ché è stato duro l’inferno ma non scaldava l’inverno, hai pianto troppo questa primavera» (tratto da Un’altra estate). Non fanno meglio Ermal Meta e Bugo, con Mi manca: «E mi manca aspettare l’estate, comprare le caramelle colorate. E mi manca (mancano, sarebbe plurale) le strade in due in bici. Mi manco io, mi manchi tu. E mi manca una bella canzone (sinceramente, anche a noi!)».
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Bene intesi, nessuno pretendeva la chiave d’interpretazione dell’umanità. Ma forse è proprio dentro la musica, nelle note più spensierate di questi testi privi di urgenza e tensione morale, che la pandemia sembra aver riposto tutte le banalità che ha succhiato infilando una cannuccia sulle nostre teste. «Blocco a volte sembro ancora triste, il testo è vero sai che mamma è fiera, fumo sopra ai sedili di un Velar, penso a quando il successo non c’era – Shiva in Auto blu – fa i soldi appena diciottenne, in qualche modo sotto quelle antenne, in quanti cambiano lo sai anche tu…», con un seguito quasi mai inferiore ai 20 milioni di follower. Che la lingua non esista più lo si capisce da gemiti, monosillabi e vomiti che ormai sono diventati testo e non pretesto, overdose di egocentrismo, autoerotismo più esasperato di quello di certi scrittori. «Lui si porta i libri di Kafka – profetizza J-Ax nella sua Bibbia estiva, quella di quest’anno si chiamava Ostia lido – ma poi studia solo ogni culo che passa». E poi la ricostruzione delle giornate tipo in cui riconoscersi tutti, non solo gli adolescenti ai quali questi pezzi sarebbero destinati. «Mi chiedi com’è passare le giornate a stare sul divano, con un caldo allucinante che mi scioglie, non dormo più la notte, ventilatore in fronte, e questa casa sembra proprio un hotel – scrive Giulia Penna in Un bacio a distanza –. Latine, il bel Paese, pizza pasta e mandolino, tu portami del vino, ché forse in questo pranzo non t’arriva manco il primo».
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Come nei decreti “Mille proroghe” in cui insieme alla manovra finanziaria finiscono anche le sanatorie sui profilattici scaduti, in questa deriva consumista sono finite umiliazioni («ay papi non mi paghi l’affitto (…) Mamma lo diceva, sei carino ma non ricco»: Giusy Ferreri ed Elettra Lamborghini, La Isla); icone di plastica («tu fra queste bambole sembri Ken, ti ho in testa come Pantene»: Baby K e Chiara Ferragni, Non mi basta più);l’ostentazione della povertà («Nelle tasche avevo nada, ero cool, non ero Prada»: Mahmood, Sfera Ebbasta e Feid, Dorado); e la nemesi, sotto forma di insofferenza verso gli eccessi di comunicazione («Te lo spacco quel telefono, oh-oh, l’ho sempre odiato il tuo lavoro, oh»: Elodie, Guaranà).
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Ferie d’Agosto.
In una memorabile scena del bellissimo film con cui Paolo Virzì ha anticipato di almeno un ventennio il funerale politico del Paese, cioè Ferie d’Agosto, Ennio Fantastichini (capo famiglia di Destra) dice a Silvio Orlando (capo delegazione di Sinistra) queste parole: «La verità è che nun ce state a capì più un cazzo manco voi, ma da mo’…». Che non solo è vero, ma fotografa alla perfezione la saturazione di un pubblico in cui chi prova a dire «no» è condannato all’emarginazione, alla solitudine, alla gogna. «Se c’è una cosa che mi fa spaventare, del mondo occidentale, è questo imperativo di rimuovere il dolore. Secondo me ci siamo troppo imborghesiti – dice Dario Brunori in Secondo me – abbiamo perso il desiderio, di sporcarci un po’ i vestiti, se canti il popolo sarai anche un cantautore, sarai anche un cantastorie, ma ogni volta ai tuoi concerti non c’è neanche un muratore».
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Certo non mancano le eccezioni, taluna musica riesce ancora a incarnare l’essenza di una missione a cui non solo i chiamati all’appello rispondono (cit. Leo Longanesi). Così come non mancano le ambizioni, le lezioni di scienza e coscienza di chi mette insieme la musica al più antico insegnamento degli umani, il sapere (penso al progetto Deproducers, lo straordinario tentativo di deprodurre, appunto, la musica attraverso l’ausilio della scienza); ma si tratta di oasi che al cospetto delle cover patinate, delle tracce inascoltabili imposte dalla tv e dalla pubblicità, dinanzi al muro di intolleranza al bello eretto soprattutto da alcune etichette musicali, non arriva alla grande platea. E non ci arriva perché non racconta una mutazione, non arriva perché non riesce a essere antidoto a tutto il peggio prodotto in questi anni, segnatamente in questi mesi.
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A pensarci bene la pandemia non c’entra, al contrario come noi è costretta a subire questo strazio. La verità è che la cifra stilistica media, l’asticella della dignità, la percezione del gusto e l’estetica condivisa hanno perso qualsiasi ritengo, hanno rinunciato a ogni freno inibitore, così ciò che fino a venti anni fa era meno dello scarto delle bobine oggi è diventato esperimento, ricerca scientifica, derivato d’introspezione, indagine socio-artistica. E a nulla valgono gli impietosi paragoni col passato, quando provando a spiegare alle nuove generazioni la sofferenza da cui proveniamo lo si fa con una canzone di Francesco de Gregori («meno male che c’è sempre uno che canta e la tristezza ce la fa passare, se no la nostra vita sarebbe come una barchetta in mezzo al mare, dove tra la ragazza e la miniera apparentemente non c’è confine, dove la vita è un lavoro a cottimo e il cuore un cespuglio di spine», da La ragazza e la miniera), perché nessuno ha più tempo per ascoltare questi dinosauri. La missione è quella di favorirne l’estinzione, aprendo le porte di un mondo digitale, inespressivo e anaffettivo in cui la canzone – intesa come esperienza/fenomeno – riveste la stessa utilità dei prolungamenti delle unghie: umiliare la natura, nasconderne i prodigi. Come i bari fanno col talento.
Davide Grittani
* Davide Grittani (Foggia, 1970) ha pubblicato i reportage “C’era un Paese che invidiavano tutti” (Transeuropa 2011, prefazione Ettore Mo e testimonianza Dacia Maraini) e i romanzi “Rondò” (Transeuropa 1998, postfazione Giampaolo Rugarli), “E invece io” (Biblioteca del Vascello 2016, presentato al premio Strega 2017), “La rampicante” (LiberAria 2018, presentato al premio Strega 2019 e vincitore premio Città di Cattolica 2019, Nicola Zingarelli 2019, Nabokov 2019, Giovane Holden 2019, inserito nella lista dei migliori libri 2018 da “la Lettura”del Corriere della Sera). Editorialista del Corriere del Mezzogiorno, inserto del Corriere della Sera. Dirige la collana “Dispacci Italiani (Viaggi d’amore in un Paese di pazzi)” per l’editore Les Flaneurs.
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Daiii sono curioso postacelo
Non mi era mai capitato di sentirmi come quella volta. Forse era la pioggia incessante che cadeva forte sulle nostre teste, forse l'imbrarazzo che provavo quella sera aveva un peso enorme su tutto ciò che provavo. O forse la tua presenza mi dava prurito dappertutto, come se alla mia pelle desse fastidio la tua lontananza e mi stesse punendo con brividi ovunque.
La sera in cui mi innamorai di te me la ricordo ancora, nonostante la voragine che sento nel mio petto ogni volta che mi torni in mente, nonostante il male allucinante tu resti ancora scritto sulla mia pelle come l’inchiostro di un tatuaggio. La volta in cui capii che avevi rapito il mio amore, e con esso tutta me stessa, io ti stavo consolando. Io mi innamoravo e tu mi parlavi di lei. Di quanto fosse la più bella, la più simpatica, la più allegra, la ragazza che aveva il tuo cuore e di quanto ti facesse soffrire. E avevi gli occhi che brillavano più di una stella mentre mi parlavi di lei, mi erano così entrati dentro che non avevo il coraggio di dirti che l'avevo vista con un altro, non avevo il coraggio di sgretolare la tua felicità nel tentativo di avere la mia.
Dentro di me immaginavo di essere al suo posto, immaginavo quanto sarebbe bello averti al mio fianco. Cercavo di immaginare quanto fosse bello avere il tuo profumo sulla mia pelle, allo svegliarsi con un tuo messaggio, a stare con te mentre piangi perchè solo con me puoi essere chi sei realmente; a quanto sarebbe bello passare la notte con te, anche solo per dormire.
Ma tanto lo so che se avessi a disposizione una notte con te non dormirei solo. Ci farei l'amore con te. L'amore che non fa più nessuno, ti toglierei i vestiti piano per paura di farti del male, adorerei sentite la tua pelle calda a contatto con la mia perennemente fredda e avere il tuo profumo addosso. Ti farei sentire tutto quello che provo con un solo bacio, o almeno ci proverei perchè non so se ci riuscirei per quanto è immenso.
Quando capii che mi ero innamorata di te volevo dirtelo, mi immaginavo che sarebbe finita come in quei film che guardavamo spesso insieme e che non prendevi mai seriamente nè le mie lacrime nè il finale. Immaginavo la corsa a casa tua fregandomene della pioggia, vedevo già la tua faccia disorientata dopo per costretto a uscire di casa e convinto ad ascoltarmi, sentivo già il ti amo urlato al mondo intero e il sapore del bacio sul viottolo di casa tua. Invece, quella sera, rimasi in piedi davanti a te, incapace di formulare una frase nella mia testa che non sia 'lo amo'. Lo amo ma lui ama un'altra; mi sono detta subito dopo. E ti giuro che volevo urlare, volevo piangere, volevo prendere a pugni quella faccia da fesso che ti ritrovavi. Ti volevo picchiare per avermi permesso di provare qualcosa per te, per non esserti innamorato di me, te la volevo far pagare per amare lei. Sperai, sperai tanto che fosse solo un sogno. Sperai di svegliarmi e ridere dei miei stessi pensieri. Mi sentii stupida quando un moto di gelosia mi invase. Gelosia che non potevo provare, non per te. Mi sentii stupida quando ripetei quella frase nella mia testa nel tentativo invano di scacciare quei pensieri che tanto mi facevano del male.
Quella sera mi sentii cambiata, sentii che qualcosa era cambiata dentro di me. Avrei voluto correre a casa per andare davanti allo specchio che c'era nella camera di mamma per vedere il mio riflesso. Ma guardai in basso e mi vidi nella pozzanghera creata dalla pioggia e sorrisi tristemente a me stessa con la consapevolezza di essere la stessa. Stessa sensazione di non sentirmi all'altezza in confronto a lei, stesso sentimento di repulsione nei miei confronti, stesso corpo che non bastava neanche a me. Forse erano le mie interiora ad essere cambiate o forse lo era il mio cuore, forse nutriva di nuovo qualcosa. O forse mi feci soltanto prendere dal sentimento che provavo per te.
La sera in cui capii di essermi innamorata di te ebbi paura. Paura per il mio cuore già spezzato troppe volte, paura di un sentimento troppo grande per me e troppo nuovo. Ebbi paura anche di guardarti negli occhi, temendo che tu potessi capirlo e allontanarmi. Paura della delusione nei tuoi occhi, perchè tu sei stato chiaro quel giorno, mi avevi avvertito. “Non innamorarti di me, per nessuna ragione.” Me lo dicesti con tale preoccupazione che io allora non capivo e te lo promisi, te lo promisi con tutta me stessa. E ti giuro che io ci ho provato a non pensarti in quel modo, ho provato ad uscire con altri ma ogni volta che li guardavo negli occhi sentivo che non era il posto per me, sentivo di tradire il sentimento tanto grande che provavo. Mi sono sentita sporca e tradita ma così tanto innamorata che mi sono messa a piangere per i troppi sentimenti contrastanti.
La sera in cui mi innamorai di te pioveva, tu piangevi e io ti consolavo. Non ti importava di essere sotto la pioggia, di essere bagnato fradicio e in rischio di una broncopolmonite. Ti importava solo e esclusivamente di lei, non di me o di te ma della sola persona che ti faceva soffrire. In testa avevo solo un pensiero: baciarti. Ero così intenta nell'immaginare il tuo sapore sulle mie labbra che non mi accorsi che avevi smesso di parlare e mi fissavi esattamente come facevo io. Ero così impegnata nel pregare il mio cuore di smetterla di battere così forte che non mi accorsi che tu non c'eri più. Eri scappato, forse eri andato da lei, forse avevi capito tutto ciò che provavo e sei scappato, realizzando la mia più grande paura.
Non so cosa ti era preso in quel momento so solo che l'ultima conversazione che abbiamo avuto era su di lei, non su di noi.
Moristi il 10 agosto. Il giorno del mio compleanno.
Non lo festeggio più sai? Ogni sorriso che ricevo mi ricorda te, te e l'amore della mia vita, te e i tuoi occhi, te e il tuo sorriso, te sotto quella dannata macchina che ti ha portato via da me, te sotto la pioggia, te sotto i miei occhi morto e circodato di sangue.
La sera in cui mi innamorai di te avrei voluto tanto baciarti, avrei voluto avere il coraggio per farlo.
Al tuo funerale lei non venne ma c'erano tutti. Tua mamma aveva gli occhi rossi per il troppo pianto, bastava guardarla per capire che era distrutta dal dolore. Si vedeva che l'unico suo desiderio era andarsene a via, lontana da tutte quelle frasi convenzionali e da tutte quelle finte lacrime, eppure eccola li in prima fila.
Io mi sedetti in seconda, accanto a quella che mi prese di mira in prima media, te la ricordi? Fu la prima volta che mi rivolgesti la parola, l'unico a difendermi e non ti ho mai ringraziato per quello. Ora io e lei ci salutiamo quando ci incontriamo e ci sorridiamo, forse le cose stanno migliorando tra di noi.
Io non parlai, come quella sera ebbi paura delle mie emozioni. Ebbi paura di scoppiare a piangere davanti a tutti, ebbi paura di morire anch'io con te.
Sono passati due anni, ancora mi manchi come se fossi la diciottenne di quella sera e credo che mi mancherai per il resto della mia vita. Sai, dopo la tua morte ho ripreso gli studi, credo di aver cercato di toglierti dalla mia mente con le tante parole che ora so a memoria, come ricordo a memoria il tuo profumo, la tua voce, la sensazione dei tuoi abbracci. Credo di essere andata avanti. Ti penso ancora ma ora ho un ragazzo che amo e che mi ama.
Gli ho parlato di te e della nostra storia mai vissuta, dei nostri film che non guardo più nessuno perchè li ritengo ancora una cosa solo per noi; gli ho parlato di quella sera, dei miei pensieri, delle tue parole.
Gli ho raccontato di quando ci stendevamo a guardare le stelle per allontanare la tristezza di uno dei due, gli ho raccontato delle tue storie che mi raccontavi per telefono per farmi addormentare durante le notti senza luna. Gli ho raccontato di te, di come mi facevi sentire, di come mi parlavi di lei e delle mie emozioni. E ha ascoltato senza fiatare, ha capito e l'ha accettato. Ieri sera mi ha accompagnato al cimitero; era vicino a me quando la tristezza si è impossessata del mio corpo mentre ero di fronte la tua tomba. Era con me mentre ti raccontavo di come procedeva la mia vita senza di te, e sta al mio fianco sempre. Giorno e notte. Mi manchi, ma ora, dopo due anni, sto finalmente bene davvero.
(è di tre anni fa)
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SULL’ANALFABETISMO DELLA MUSICA ITALIANA
Ci sono sempre state le hit, ma quelle imposte dalle radio durante l’estate post Covid – la più rarefatta e sospesa dell’ultimo secolo – oltre a rinsaldare i nostri vincoli affettivi con la mediocrità sembrano aver individuato la loro funzione sociale: sono diventate il piccone con cui demolire quel che resta della lingua italiana, il machete con cui smembrarla a beneficio di una comunicazione orizzontale, istantanea, indistinguibile e quindi informe.
[...] «Dateci parole poco chiare, quelle che gli italiani non amano capire, basta romanzi d’amore, ritornelli, spiegazioni, interpretazioni facili – diceva Fossati – ma teorie complesse e oscure, lingue lontane servono, pochi significati, titoli, ideogrammi, insegne, inglese, americano slang». Si argomenta spesso della crisi della letteratura, del vuoto intorno al cinema e della mancanza di coraggio dell’arte italiana, ma la verità è che dalla musica pare non ci si possa aspettare altro che disgregazione, chiacchiericcio, volgarità più o meno esplicite, analfabetismo a rigorosa misura di social. Ma guai a scambiarla per sottocultura, al contrario questa potrebbe essere la nuova frontiera della dignità autoriale con cui viene chiesto di fare i conti agli interpreti del nostro tempo, e chi non risponde «presente» o è tagliato fuori o è un dinosauro (come chi scrive).
La morte di una lingua.
Per brevità (ovvero banalità), velocità di trasmissione e universalità del messaggio, le canzoni post Covid sono diventate l’espressione più allarmante della deriva del Paese e della Lingua, nonostante questa rimanga tra le più belle, complesse e tradotte al mondo. Ma forse è proprio questo il demonio contro cui combattere, il padre nobile e ingombrante da abbattere. Forse alle nuove generazioni di produttori e compositori non va giù proprio questo, l’insopportabile paragone con un passato impietoso sotto troppi aspetti: nobiltà della missione, qualità del prodotto, straordinaria ricchezza artistica, inarrivabile varietà di proposte, mercato che oggi semplicemente non c’è. Va da sé che l’unica espressione culturale con cui ingaggiare un confronto, nel tentativo di riuscire a vincerlo, per paradosso è proprio l’ignoranza. Volendola tracciare con una parabola, la flessione della ricerca linguistica all’interno delle canzoni moderne, si dovrebbe scavare un fossato, interrarsi in un bunker atomico. Indifendibile, squallida, quasi sempre sessista anche se nessuno dei Benpensanti della Domenica lo fa notare. A larghi tratti analfabeta, quasi sempre composta da una manciata tra sostantivi, aggettivi e pronomi (massimo dieci, sempre gli stessi), ampiamente intrisa di offese gratuite, nomi e marche importati da lingue straniere. Né militante né consunta, né vissuta né scaltra. Una lingua traslucida, abbandonata per eccesso di frequentazione. Una lingua al consumo, usa e getta come le carte prepagate. Una lingua fantasma, nemmeno codice di riconoscimento. Avvertimento lampeggiante, segnale di insipienza riconoscibile da tutti e da lontano. Una lingua svenduta al massimo ribasso, umiliata come se di null’altro si potesse parlare che di stronzate, perché alla gente ignorante (stando al marketing alla base della concezione di questi capolavori) bisogna rivolgersi con cose ignoranti (ecco perché una signora che storpia il nome scientifico del ceppo di un virus su una spiaggia italiana, mixata e debitamente masterizzata fa più download di Alberto Angela). E in questo deserto nessuno chiede uno sforzo di creatività, nemmeno a quelli che invece avevano colpito – o ci avevano provato – per la loro audacia. «E comunque si balla, come bolle nell’aria. E si tagga la faccia, che è riaperta la caccia. E comunque si bacia, l’italiana banana…» canta Francesco Gabbani nel Sudore ci appiccica, mentre Diodato fotografa la solitudine che ci siamo lasciasti alle spalle con «lo vedi amico arriva un’altra estate, e ormai chi ci credeva più, ché è stato duro l’inferno ma non scaldava l’inverno, hai pianto troppo questa primavera» (tratto da Un’altra estate). Non fanno meglio Ermal Meta e Bugo, con Mi manca: «E mi manca aspettare l’estate, comprare le caramelle colorate. E mi manca (mancano, sarebbe plurale) le strade in due in bici. Mi manco io, mi manchi tu. E mi manca una bella canzone (sinceramente, anche a noi!)».
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Bene intesi, nessuno pretendeva la chiave d’interpretazione dell’umanità. Ma forse è proprio dentro la musica, nelle note più spensierate di questi testi privi di urgenza e tensione morale, che la pandemia sembra aver riposto tutte le banalità che ha succhiato infilando una cannuccia sulle nostre teste. «Blocco a volte sembro ancora triste, il testo è vero sai che mamma è fiera, fumo sopra ai sedili di un Velar, penso a quando il successo non c’era – Shiva in Auto blu – fa i soldi appena diciottenne, in qualche modo sotto quelle antenne, in quanti cambiano lo sai anche tu…», con un seguito quasi mai inferiore ai 20 milioni di follower. Che la lingua non esista più lo si capisce da gemiti, monosillabi e vomiti che ormai sono diventati testo e non pretesto, overdose di egocentrismo, autoerotismo più esasperato di quello di certi scrittori. «Lui si porta i libri di Kafka – profetizza J-Ax nella sua Bibbia estiva, quella di quest’anno si chiamava Ostia lido – ma poi studia solo ogni culo che passa». E poi la ricostruzione delle giornate tipo in cui riconoscersi tutti, non solo gli adolescenti ai quali questi pezzi sarebbero destinati. «Mi chiedi com’è passare le giornate a stare sul divano, con un caldo allucinante che mi scioglie, non dormo più la notte, ventilatore in fronte, e questa casa sembra proprio un hotel – scrive Giulia Penna in Un bacio a distanza –. Latine, il bel Paese, pizza pasta e mandolino, tu portami del vino, ché forse in questo pranzo non t’arriva manco il primo».
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Come nei decreti “Mille proroghe” in cui insieme alla manovra finanziaria finiscono anche le sanatorie sui profilattici scaduti, in questa deriva consumista sono finite umiliazioni («ay papi non mi paghi l’affitto (…) Mamma lo diceva, sei carino ma non ricco»: Giusy Ferreri ed Elettra Lamborghini, La Isla); icone di plastica («tu fra queste bambole sembri Ken, ti ho in testa come Pantene»: Baby K e Chiara Ferragni, Non mi basta più);l’ostentazione della povertà («Nelle tasche avevo nada, ero cool, non ero Prada»: Mahmood, Sfera Ebbasta e Feid, Dorado); e la nemesi, sotto forma di insofferenza verso gli eccessi di comunicazione («Te lo spacco quel telefono, oh-oh, l’ho sempre odiato il tuo lavoro, oh»: Elodie, Guaranà).
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Ferie d’Agosto.
In una memorabile scena del bellissimo film con cui Paolo Virzì ha anticipato di almeno un ventennio il funerale politico del Paese, cioè Ferie d’Agosto, Ennio Fantastichini (capo famiglia di Destra) dice a Silvio Orlando (capo delegazione di Sinistra) queste parole: «La verità è che nun ce state a capì più un cazzo manco voi, ma da mo’…». Che non solo è vero, ma fotografa alla perfezione la saturazione di un pubblico in cui chi prova a dire «no» è condannato all’emarginazione, alla solitudine, alla gogna. «Se c’è una cosa che mi fa spaventare, del mondo occidentale, è questo imperativo di rimuovere il dolore. Secondo me ci siamo troppo imborghesiti – dice Dario Brunori in Secondo me – abbiamo perso il desiderio, di sporcarci un po’ i vestiti, se canti il popolo sarai anche un cantautore, sarai anche un cantastorie, ma ogni volta ai tuoi concerti non c’è neanche un muratore».
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Certo non mancano le eccezioni, taluna musica riesce ancora a incarnare l’essenza di una missione a cui non solo i chiamati all’appello rispondono (cit. Leo Longanesi). Così come non mancano le ambizioni, le lezioni di scienza e coscienza di chi mette insieme la musica al più antico insegnamento degli umani, il sapere (penso al progetto Deproducers, lo straordinario tentativo di deprodurre, appunto, la musica attraverso l’ausilio della scienza); ma si tratta di oasi che al cospetto delle cover patinate, delle tracce inascoltabili imposte dalla tv e dalla pubblicità, dinanzi al muro di intolleranza al bello eretto soprattutto da alcune etichette musicali, non arriva alla grande platea. E non ci arriva perché non racconta una mutazione, non arriva perché non riesce a essere antidoto a tutto il peggio prodotto in questi anni, segnatamente in questi mesi.
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A pensarci bene la pandemia non c’entra, al contrario come noi è costretta a subire questo strazio. La verità è che la cifra stilistica media, l’asticella della dignità, la percezione del gusto e l’estetica condivisa hanno perso qualsiasi ritengo, hanno rinunciato a ogni freno inibitore, così ciò che fino a venti anni fa era meno dello scarto delle bobine oggi è diventato esperimento, ricerca scientifica, derivato d’introspezione, indagine socio-artistica. E a nulla valgono gli impietosi paragoni col passato, quando provando a spiegare alle nuove generazioni la sofferenza da cui proveniamo lo si fa con una canzone di Francesco de Gregori («meno male che c’è sempre uno che canta e la tristezza ce la fa passare, se no la nostra vita sarebbe come una barchetta in mezzo al mare, dove tra la ragazza e la miniera apparentemente non c’è confine, dove la vita è un lavoro a cottimo e il cuore un cespuglio di spine», da La ragazza e la miniera), perché nessuno ha più tempo per ascoltare questi dinosauri. La missione è quella di favorirne l’estinzione, aprendo le porte di un mondo digitale, inespressivo e anaffettivo in cui la canzone – intesa come esperienza/fenomeno – riveste la stessa utilità dei prolungamenti delle unghie: umiliare la natura, nasconderne i prodigi. Come i bari fanno col talento.
Davide Grittani
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27 giu 2020 15:23 “SE AVESSI AVUTO LA TESTA DI TOTTI E DEL PIERO, NON SAREI STATO ALVIERO CHIORRI” – BOMBASTICA INTERVISTA DI GIANCARLO DOTTO AL “MARZIANO” EX SAMP - "IL CALCIO ANNI 80? AD AVELLINO NEL SOTTOPASSAGGIO SPEGNEVANO LA LUCE E PICCHIAVANO. A CARLETTO MAZZONE GLI HANNO SPENTO UNA SIGARETTA IN FACCIA - IL PIÙ CATTIVO? PASQUALE BRUNO. FISCHIO D’INIZIO, PALLA ALTROVE, LUI MI ASPETTA COL GINOCCHIO ALZATO E MI DÀ UNA STECCA MICIDIALE. IL NO ALLA NAZIONALE, LE DONNE ("DALLA CINTOLA IN GIU' NON ERO MALE..."), LA DEPRESSIONE, CUBA. IL PIÙ FORTE DI TUTTI? GIAMPAOLO MONTESANO" - QUANDO ANTOGNONI GLI DISSE: "BASTA RAGAZZINO, HAI ROTTO I COGLIONI" - QUELLA SERA CON ANNA OXA - VIDEO
Giancarlo Dotto per il Corriere della Sport
A tavola con il Marziano e l’Incredibile Hulk. Due amici per la pelle. Un fumetto della Marvel? No, una giornata decisamente ben spesa. Due ex calciatori rari, che non frequentano i calciatori e non leggono le biografie dei calciatori. Lui e l’altro. L’altro, l’incredibile Hulk, è uno di poche parole ma, quando mi parla di lui, il Marziano, diventa lirico, si scioglie come un savoiardo nel caffelatte. La prima volta in una trattoria a Testaccio. “Ho avuto la fortuna di giocarci contro. Anche oggi, a distanza di anni, se fai il suo nome con molti giocatori dell’epoca si scatena l’inferno. Un talento allucinante. Non puoi non incontrarlo.
La leggerei di corsa una sua intervista. Vorrei sapere tutto delle sue fughe, delle sue donne, dei suoi viaggi a Cuba. Un giorno faremo un libro a quattro mani e si chiamerà: “Cosa significa essere genoani e cosa significa essere doriani”. Lui, Alviero Chiorri, è romano, mezzo cubano, doriano nella pelle. Ci scommetto il mio gatto persiano, non lo faranno mai questo libro. Alla fine vincerà la pigrizia. Ma continueranno a dirselo fino alla fine dei loro giorni, davanti a un calice di bianco. Nessuno dei due si prende così sul serio da pensare che immaginare un libro significhi scriverlo davvero. Di Alviero mi aveva detto cose ispirate anche Franco Baldini nel suo loft a via Margutta, davanti a un cartoccio di supplì e morsi di nostalgia filanti. “Uomo raro, Alviero, calciatore unico. Lo devi incontrare. Non mi faccio vivo con lui da tempo. Chiedigli perdono da parte mia”. Chiaro il messaggio. Devo incontrare il Marziano.
Appuntamento al “Don Chisciotte”. Un vecchio casolare affacciato sull’Aurelia, tra Palidoro e Passo Oscuro subito dopo lo svincolo per Fregene. Mare e mulini a vento a parte, potrebbe essere la Mancia di Cervantes, piccoli borghi, castelli, anime forti e solitarie, in qualche caso perdute. Un Far West assolato. Paolo, il proprietario del ristorante, mi prenda un colpo, è il Sancho Panza di Gustave Dorè. Lo riconosco anche senza somaro. Il “Don Chisciotte” è il ritrovo di Alviero e dei suoi amici.
A portarmi da lui è l’altro. Che non sente ragioni. Me lo dice a modo suo, affettuosamente minaccioso. “Non voglio apparire, l’intervista è tutta sua, io non c’entro nulla”. Lo chiameremo dunque l’Incredibile Hulk, perché gli somiglia, specie quando gonfia il collo, e perché se ne va in giro quel giorno dentro una coraggiosa giacca verde muschio. L’elegantone di sempre. Pronto a strapparsi le vesti e a colorarsi di verde alla prima mischia. Questa volta non ne ha bisogno. “Me sembri un’oliva ascolana…”, lo accoglie il Marziano. Via le mascherine da Covid, seguono cinque ore di allegro convivio, in un viavai di cozze gratinate, gamberoni, calamari, vongole, lupini, paccheri, baccalà, vino, molto vino, scotch scozzese, amari, molti amari, e rum in omaggio al cubano.
Il Marziano alias Alviero è un uomo schivo. Alviero non ha a niente a che fare con quella genia di pazzoidi, eccentrici, un po’ sbruffoni, un po’ fanfaroni che imperversano nel calcio italiano di quegli anni, settanta e ottanta, non ancora malato di tatticomania. Sublimi, sfrontati, e ingovernabili anarchici palla al piede, sulla scia del più sfrontato di tutti, George Best. Meroni, Vendrame, Dolso, Vieri padre, Zigoni, per citarne alcuni. Alviero parla sottovoce, al limite dell’udibile, nella speranza di non essere udito. Come un tra sé.
Un personaggio per quanto è lontano dall’esserlo. L’essere stato tanti anni lontano da Roma ne fa un romano d’altri tempi, come solo Pasolini ha raccontato. Un Franco Citti dallo sguardo buono, un fustacchione di sessant’anni pervaso da qualcosa che sta tra la timidezza e la gentilezza. Anacronismo puro. Il codino che gli spunta dalla nuca. Due tatuaggi sulle braccia. Il terzo ce l’ha dipinto in faccia: “Perché?”. “Perché siete qui? Perché v’interessate a me?”. Ci mette quasi un’ora a liberarsi di quel “perché”. Hulk ci dà una mano con le sue muscolari invasioni di campo.
“Normale” è la parola che gli viene più facile, ma non come la usano Totti e affini, vacuo intercalare tra un eventuale concetto e l’altro. Nel caso di Alviero “normale” è quello che è, un aggettivo che descrive l’uomo. Alviero è tanto normale da risultare eccezionale. La normalità è la sua pazzia. “Il mio miglior amico? Enzo il tabaccaio. Non mi ha mai chiesto una cosa di calcio”. È un arguto battutista, Alviero, fulminante come solo i romani. Le battute sono il suo modo di stare in società. Ma è lo sguardo che lo racconta. Disarmante per quanto è nudo. Ti supplica: “Lasciami stare, lasciami alle mie battute”. E ti dice, però, anche: “Insisti, abbi pazienza, ne ho di cose da raccontare, magari un giorno avrò voglia di farlo”. Devono solo crearsi le condizioni giuste. Quasi mai si creano.
Il calciatore da spiaggia. “Giocavo nei campi di seria A come giocavo da ragazzo in spiaggia con gli amici”. Alviero Chiorri lascia a trentadue anni con la maglia della Cremonese. I suoi anni migliori da calciatore. Fisicamente integro. Lascia, nel senso più estremo della parola. Sparisce nel morbido nulla dei tropici. “Non ne potevo più del calcio. Quella non era la vita che volevo vivere. Quelle regole, quelle attese, quelle pressioni. A novembre parto per Cuba per una vacanza di venti giorni e sono rimasto 24 anni”. Dici Chiorri e dici talento. Ma anche indisciplina. Leggi di lui e senti dire: strano, ingestibile, una dannazione per gli allenatori, avesse avuto la testa di Del Piero e Totti... Lui ascolta, cose che è abituato ad ascoltare.
“Se avessi avuto la loro testa, non sarei stato Alviero Chiorri. Per il resto sono un ragazzo normale, anche se so che me la porterò addosso tutta la vita questa nomea di tipo strano. Penso a quello che combinava Balotelli a diciotto anni. Le mie stranezze, al confronto, sono poca roba”.
Romano di Valle Aurelia, tifoso romanista, “Era la Roma di Ciccio Cordova, Amarildo e Del Sol. Andavo in curva sud con mio zio. I calciatori erano minuscoli visti da lì”. Nato nel ’59, l’anno della rivoluzione di Fidel Castro. “E guarda caso finisco a Cuba. Tu dici che è un caso?”. Giovanissima preda dei tanti osservatori. “Mi prese la Sampdoria a sedici anni. Mi aveva preso anche la Roma., c’era Perinetti allora, ma scelsi la Samp. Mi avevano fatto capire che alla Roma, in quel periodo, o eri forte forte o giocavano solo i raccomandati”. Lui non si è mai reso conto di essere “forte forte”. “Così dicevano, ma io non mi rendo conto neanche adesso. Le cose che facevo in campo erano le stesse che facevo per strada. Il mio modo di giocare non è mai cambiato”. L’Incredibile Hulk ha appena spolpato un gambero e inizia a fischiettare “Tristezza, per favore vai via”. Sardo di sangue, genoano di pelle, lo fa ogni volta che il Marziano nomina la Samp.
I treni perduti. “Mi dà fastidio quando mi dicono che avrei potuto fare molto di più. Sarà anche vero, ma alla fine ho fatto quello che dovevo. Avessi avuto un procuratore come quelli di oggi, uno come Mino Raiola, forse sarebbe stata una storia diversa. Non ero Maradona e nel calcio di oggi non sarei nemmeno preso in considerazione. O forse sì, sarei stato un buon esterno sinistro alla Totti nel calcio di Zeman. Un allenatore appassionante anche se un po’ estremo. Una volta gli feci gol da metà campo”.
Come direbbe il suo amico Flavio Bucci, venuto a delirare e poi a morire da queste parti: “E pensare che ero partito così bene…”. Alviero, non ancora Marziano, è in serie A, con la maglia del Bologna, a diciassette anni. Mai a suo agio nella tribù dei Piedi Calcianti. “Non ero maturo, finito in una situazione più grande di me. Sì, poi qualche errore l’ho fatto”.
Hulk, al suo fianco, addenta il pacchero e interviene a gamba tesa. “Non mi sembra che ‘sta maturità sia mai arrivata…”. Il Marziano annuisce, senza un filo di fastidio. “Sono rimasto lo stesso di allora, con qualche anno in più”. I treni perduti. Almeno tre. Il primo. “Le occasioni le ho avute, ma è sempre successo qualcosa. La prima volta fu colpa mia. Fui convocato per i mondiali in Tunisia con la Nazionale Juniores. Una squadra forte, avevamo appena vinto il torneo di Montecarlo. Mi rifiutai di andare perché avevo già prenotato al mare con gli amici.
C’era Italo Allodi. Mi cacciò da Coverciano con i carabinieri. L’ho sicuramente pagata. Da allora m’hanno segato dal giro azzurro e quando fui in ballo per la Nazionale di Bearzot mi fermò la pubalgia. Il secondo treno. E poi il terzo, il più carico di rimpianto, se Alviero fosse capace di rimpianti. “Ero già dell’Inter. Voluto da Bersellini con cui avevo esordito in serie A con la Samp. Mantovani non mi volle vendere. Loro prendono Beccalossi al posto mio e vincono lo scudetto.
Mai dato importanza io ai soldi. Con Mantovani ho sempre firmato in bianco. Anche Dino Viola mi voleva alla Roma, ma non se ne fece nulla...Rimpianti zero. Mi ritengo un uomo fortunato, che ha fatto nella vita quello che gli piaceva fare, che voleva solo essere normale in un mondo che non aveva niente di normale. Un mondo che non era il mio”. L’Incredibile Hulk torna alla carica. Il mite Marziano incassa. “Hai giocato nella Sampdoria, non è che c’è da sentirsi così fortunati…”.
Chiorri sparsi. “L’esordio in coppa Italia contro la Fiorentina. Ero un ragazzino incosciente, mi marcava Roggi ma non mi prendeva mai, quel giorno mi riusciva di tutto. Mi si avvicinò Antognoni: “Ragazzi’ ora basta, falla finita, hai rotto i cojoni”. I derby di Genova. Violenza allo stato puro. “La mia bestia nera era Fabrizio Gorin, il biondo, un mastino, non a caso non ho mai segnato nei derby. Oltre a menare come un fabbro, limava i tacchetti.
Era un’usanza di quegli anni. Dentro i tacchetti di legno c’erano quattro chiodi martellati che, a furia di limarli, spuntavano fuori. Quando prendevi una scarpata, il sangue si sprecava, la carne rimaneva attaccata al tacchetto”. Il Marziano, lo trovi su youtube se non sei abbastanza vecchio, era un dribblomane, la vittima da manuale per quei sadici truccati da calciatori… quando riuscivano a prenderlo. “M’hanno gonfiato come una zampogna. Entrate da dietro, gomitate, botte, minacce. Ad Avellino, quello di Sibilia, nel sottopassaggio spegnevano la luce e ti menavano proprio. A Carletto Mazzone gli hanno spento una sigaretta in faccia. All’epoca era permesso tutto, ogni domenica una battaglia. Le ho prese, ma non ho mai reagito. Avevo imparato che funzionava così”.
“Il più cattivo? Pasquale Bruno. Io a Cremona, lui al Toro. Fischio d’inizio, palla altrove, lui mi aspetta col ginocchio alzato e mi dà una stecca micidiale. Hai presente il Tardelli su Rivera di quel Juventus-Milan? Uscii con un ematoma gigante. Il più forte marcatore? Vierchowod di gran lunga. Soffriva solo Aguilera e Montesano. Gli unici falli li faceva solo perché arrivava troppo veloce sulla palla”. Ne ha incrociati in quindici anni di fenomeni veri e presunti. “Bruno Giordano e Roberto Baggio erano dei mostri. Il compagno più forte?
A parte Roberto Mancini, Anders Limpar. Fece un anno con noi alla Cremonese e poi vinse la Premier con l’Arsenal. Un altro era Macina. Dei tre al Bologna, lui, io e Mancini, era il più dotato. Quello sì era strano forte, non io. S’è perso per strada. In quegli anni si sprecavano i fenomeni. Tecnicamente, era un livello molto superiore. Gente come Claudio Sala e Bruno Conti si sprecava. Giampaolo Montesano, il più forte di tutti. Uno così non si è mai più visto. Non lo dico io, lo dice Vierchowod, che pure ha marcato Maradona”.
Non tantissimi gol, ma ogni gol una storia da raccontare. “Il più bello? Quello a Bordon, allora al Brescia. Palla quasi ferma al limite dell’area, arrivo e gli faccio lo scavetto, non so se Totti era nato… Quello al Messina. Ero in panchina con la tuta. C’era una punizione da battere. Mi hanno spogliato di corsa in tre. Entrai a freddo e feci gol all’incrocio. Dopo, non ho più toccato palla”. Calciatori come il Marziano non calavano. Sparivano proprio dal campo, come risucchiati da un buco nero. “Il mio allenatore? Mondonico alla Cremonese in serie A. Quando dava la formazione: giocano Alviero e altri dieci. Compagni da ricordare. Liam Brady e Trevor Francis alla Samp. Grandi professionisti, molto seri. Magari avessi imparato da loro…Il più pazzo? Giuliano Fiorini era un matto vero. Un casinista simpaticissimo, da prendere a piccole dosi. Le notti erano tutte le sue…
Non ho mai frequentato i calciatori, non m’interessava, erano una razza a parte e io preferivo stare con i miei amici. Un imprenditore piuttosto che uno spazzino.
Non mi piaceva ostentare lo status del calciatore. Nei ristoranti e nei negozi volevo pagare. Mi dovevano trattare come un cliente qualsiasi. L’unica debolezza, una Ferrari 348. La comprai per duecento milioni dell’epoca. Feci una cazzata. Con quei soldi, nel ’90 potevo comprare due appartamenti… No, del calcio non mi manca nulla. E non mi dire di partecipare a partite da vecchie glorie, a meno che non ci sia qualche beneficienza vera”.
Cuba, il ventre amico. “A Cuba vivo, qui sopravvivo”. Il Marziano ha il dono della sintesi. “Lì, fu come tornare alle origini. Non mi conosceva nessuno, le persone mi frequentavano per quello che sono, non perché ero un calciatore. La prima volta, non sapevo neanche dove fosse Cuba. M’innamorai dal primo giorno. Un mondo a parte, spiegarlo è difficile, lo devi vivere. Non c’hanno una lira e tutti che ballano, cantano. Gli italiani andavano lì per le donne, ma era l’ultima cosa che m’interessava. Ne avevo più in Italia.
Per me Cuba era proprio staccare. Cominciai a fare tre mesi lì e uno in Italia. Una vita normale, il mare, gli amici, i libri. Libero, senza pressioni. Quando tornavo in Italia soffrivo il contrasto. Tutti di corsa, facce tristi. Se non sali sulla ruota, ti schiacciano. E, se sali, non sei più libero di scendere. A Cuba non esiste il tempo. Ci vediamo alle nove, ma non si sa di che giorno, di che mese, di che anno. Non devi cercare la profondità. Come stare a Cinecittà. Tornai in Italia per stare vicino a mia madre e a mio padre malato. Ora, mi accontento di andarci una volta l’anno”.
Le donne. “Lì a Cuba era una caciara. Oggi per me sono un tema di fantasia. Dalla cintola in giù non ero male e dalla cintola in su che ho fatto danni”. Il Marziano è tale anche quando si tratta di amore in senso lato. Tre figli da tre donne diverse. Due cubane e un’italiana, la moglie storica che vive a Genova con il figlio titolare di un negozio di frutta e verdura. Le due ex cubane le ha portate in Italia. Vivono serenamente tutti nello stesso palazzetto, lui, le cubane, mamma Lucia, i due figli. Una al piano di sopra, una al piano di sotto, lui in mezzo.
Un Harem a Passo Oscuro? Il contrario. “Vivo solo da dieci anni, loro fanno la loro vita, hanno i loro compagni. Non potevo lasciare a Cuba le madri dei miei figli”. Tre donne, tre figli. Qualsiasi altro uomo sulla faccia della terra sarebbe stato raso al suolo da rancori, beghe legali, richieste sanguinose. Lui no, nel mondo di Alviero i conflitti non fanno radici. Non perché gli scivolino addosso. Al contrario. Di lui senti che puoi fidarti, anche quando sbaglia. Un libro aperto. Uno raro, da cui non ti devi difendere. “Le donne fondamentali della mia vita? Mamma, donna vecchio stampo, e mia sorella Tiziana, l’unica che non mi tradirà mai. Ha un’adorazione per me. E poi mia figlia Nicole, l’amore della mia vita”. Uomo di principi, l’ingestibile Alviero. Fa la spesa alla mamma anziana e porta i figli a scuola. “Sono stato un padre assente, soprattutto con il più grande”. Quando dice, come fosse la cosa più normale: “Sono sempre stato fedele alle mie donne….”, tutti sghignazzano al tavolo, a cominciare dall’ineffabile Hulk. Lui è serio. “Te lo giuro sui miei figli. Nessuno mi obbliga, se scelgo una donna, la rispetto. Le adoro le donne, ma avere oggi un’altra storia mi spaventa. A parte che nessuna mi vuole più”.
La depressione. “A Cremona ho dato il meglio da calciatore. Avevo accettato di fare questo mestiere come va fatto, non solo in partita, nei ritiri, negli allenamenti. Luzzara, il presidente, pronto a farmi un nuovo contratto di tre anni. Era il ’90. Qualcosa scatta nella mia testa. Il buio totale. Avevo trent’anni e pensai di chiudere con il calcio ”. Una crisi depressiva da spavento. “L’apatia totale, il rigetto di tutto, a cominciare dal calcio. Non mi allenavo, non mangiavo, da 77 chili ero sceso a 66. Facevo pensieri strani, vedevo mostri. Sono stato ricoverato in clinica due mesi. M’hanno riempito di pasticche, sono arrivato a pesare 90 chili. Sono rientrato, sei mesi dopo, nello spareggio a Pescara per la promozione in A. Si va ai rigori. Sbaglio il mio. Mi cade il mondo addosso. Rampulla, il portiere, mi fa in un orecchio: “Non ti preoccupare, adesso ne paro due”. Andò così e salimmo in A”.
“Le cause? Non ho mai capito. Un giorno il tappo salta e vai a fondo. Non succede a quelli che hanno solo certezze. Mi mettono paura quelli. Forse il peso dell’aver sopportato tanti anni un mondo che non era il mio. Le invidie, le pressioni, il confronto con gli altri. Non mi divertivo più. Non ritrovavo più me stesso. Anche quando mi facevano i cori e venivo osannato, mi chiedevo sempre “perché?”. Sta di fatto che quando c’era lui in campo, il Marziano, succedeva sempre qualcosa. Per tutti, ma non per lui. “Qualcuno mi disse che forse la causa scatenante veniva da lontano”. Esita. Abbassa la testa. Poi me lo pianta in faccia quel suo sguardo buono. “Questa non l’ho mai raccontata…
Avevo diciotto anni e guidavo con il foglio rosa e un patentato al fianco, Lupini, un mio compagno di squadra. Andavamo a Bogliasco per l’allenamento. All’altezza di Nervi, uno gira secco per fare una conversione e mi taglia la strada. Il botto. Lo choc. Scesi dalla macchina e feci un chilometro a piedi, all’indietro. Non avevo colpe, ma fu devastante. Lui morì per le ferite. Non me la sono sentita di andare a salutare la giovane moglie…Adesso sono i miei figli a tenermi in vita. Loro sono il mio più grande rimorso. Cerco di farmi perdonare, ci provo. Sono stato egoista. Li ho trascurati. Soprattutto il primo, Simone. Un ragazzo d’oro con una mamma spettacolare”.
Alla fine. Ci si alza da tavola e si torna in maschera più allegri e più instabili di quando ci eravamo seduti. Finisce con il Marziano che canta “Una carezza della sera” dei New Trolls (“Tifosi sfegatati della Samp. Ricordo Anna Oxa, era fidanzata con uno di loro…Bellissima”, dice con un lampo fuggevole di malizia) e il sempre più Incredibile Hulk che delira di rose gialle e di tulipani neri, i suoi fiori preferiti. Il Marziano mi saluta con il suo sguardo buono: “L’articolo, se vuoi farlo, bene, se no va bene lo stesso, mi ha fatto piacere conoscerti”. Sì, una giornata spesa bene.
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“Non mi era mai capitato di sentirmi come quella volta. Forse era la pioggia incessante che cadeva forte sulle nostre teste, forse l'imbrarazzo che provavo quella sera aveva un peso enorme su tutto ciò che provavo. O forse la tua presenza mi dava prudito dappertutto, come se alla mia pelle desse fastidio la tua lontananza e mi stesse punendo con brividi ovunque.” La sera in cui mi innamorai di te me la ricordo ancora, nonostante la voragine che sento nel mio petto ogni volta che mi torni in mente, nonostante il male allucinante tu resti ancora scritto sulla mia pelle. La volta in cui capii che avevi rapito il mio amore, e con esso tutta me stessa, io ti stavo consolando. Io mi innamoravo e tu mi parlavi di lei.
Di quanto fosse la più bella, la più simpatica, la più allegra, la ragazza che aveva il tuo cuore e di quanto ti facesse soffrire. E avevi gli occhi che brillavano più di una stella mentre mi parlavi di lei, mi erano così entrati dentro che non avevo il coraggio di dirti che l'avevo vista con un altro, non avevo il coraggio di sgretolare la tua felicità nel tentativo di avere la mia.
Dentro di me immaginavo di essere al suo posto, immaginavo quanto sarebbe bello averti al mio fianco. Cercavo di immaginare quanto fosse bello avere il tuo profumo sulla mia pelle, allo svegliarsi con un tuo messaggio, a stare con te mentre piangi perchè solo con me puoi essere chi sei realmente e quanto sarebbe bello passare la notte con te, anche solo per dormire.
Ma tanto lo so che se avessi a disposizione una notte con te non dormirei solo. Ci farei l'amore con te. L'amore che non fa più nessuno, ti toglierei i vestiti piano per paura di farti del male, adorerei sentite la tua pelle calda a contatto con la mia perennemente fredda e avere il tuo profumo addosso. Ti farei sentire tutto quello che provo con un solo bacio, o almeno ci proverei perchè non so se ci riuscirei per quanto è immenso.
Quando capii che mi ero innamorata di te volevo dirtelo, mi immaginavo che sarebbe finita come in quei film che guardavamo spesso insieme e che non prendevi mai seriamente nè le mie lacrime nè il finale. Immaginavo la corsa a casa tua fregandomene della pioggia, vedevo già la tua faccia disorientata dopo per costretto a uscire di casa e convinto ad ascoltarmi, sentivo già il ti amo urlato al mondo intero e il sapore del bacio sul viottolo di casa tua. Invece, quella sera, rimasi in piedi davanti a te, incapace di formulare una frase nella mia testa che non sia ‘lo amo’. Lo amo ma lui ama un'altra mi sono detta subito dopo. E ti giuro che volevo urlare, volevo piangere, volevo prendere a pugni quella faccia da fesso che ti ritrovavi. Ti volevo picchiare per avermi permesso di provare qualcosa per te, per non esserti innamorato di me, te la volevo far pagare per amare lei.
Sperai, sperai tanto che fosse solo un sogno. Sperai di svegliarmi e ridere dei miei stessi pensieri. Mi sentii stupida quando un moto di gelosia mi invase. Gelosia che non potevo provare, non per te. Mi sentii stupida quando ripetei quella frase nella mia testa nel tentativo invano di scacciare quei pensieri che tanto mi facevano del male.
Quella sera mi sentii cambiata, sentii che qualcosa era cambiata dentro di me. Avrei voluto correre a casa per andare davanti allo specchio che c'era nella camera di mamma per vedere il mio riflesso. Ma guardai in basso e mi vidi nella pozzanghera creata dalla pioggia e sorrisi tristemente a me stessa con la consapevolezza di essere la stessa. Stessa sensazione di non sentirmi all'altezza in confronto a lei, stesso sentimento di repulsione nei miei confronti, stesso corpo che non bastava neanche a me. Forse erano le mie interiora ad essere cambiate o forse lo era il mio cuore, forse nutriva di nuovo qualcosa. O forse mi feci soltanto prendere dal sentimento che provavo per te.
La sera in cui capii di essermi innamorata di te ebbi paura. Paura per il mio cuore già spezzato troppe volte, paura di un sentimento troppo grande per me e troppo nuovo. Ebbi paura anche di guardarti negli occhi, temendo che tu potessi capirlo e allontanarmi. Paura della delusione nei tuoi occhi, perchè tu sei stato chiaro quel giorno, mi avevi avvertito.
Non innamorarti di me, per nessuna ragione.
Me lo dicesti con tale preoccupazione che io allora non capivo e te lo promisi, te lo promisi con tutta me stessa. E ti giuro che io ci ho provato a non pensarti in quel modo, ho provato ad uscire con altri ma ogni volta che li guardavo negli occhi sentivo che non era il posto per me, sentivo di tradire il sentimento tanto grande che provavo. Mi sono sentita sporca e tradita ma così tanto innamorata che mi sono messa a piangere per i troppi sentimenti contrastanti.
La sera in cui mi innamorai di te pioveva, tu piangevi e io ti consolavo. Non ti importava di essere sotto la pioggia, di essere bagnato fradicio e in rischio di una broncopolmonite. Ti importava solo e esclusivamente di lei, non di me o di te ma della sola persona che ti faceva soffrire. In testa avevo solo un pensiero: baciarti. Ero così intenta nell'immaginare il tuo sapore sulle mie labbra che non mi accorsi che avevi smesso di parlare e mi fissavi esattamente come facevo io. Ero così impegnata nel pregare il mio cuore di smetterla di battere così forte che non mi accorsi che tu non c'eri più. Eri scappato, forse eri andato da lei, forse avevi capito tutto ciò che provavo e sei scappato, realizzando la mia più grande paura.
Non so cosa ti era preso in quel momento so solo che l'ultima conversazione che abbiamo avuto era su di lei, non su di noi.
Moristi il 10 agosto. Il giorno del mio compleanno.
Non lo festeggio più sai? Ogni sorriso che ricevo mi ricorda te, te e l'amore della mia vita, te e i tuoi occhi, te e il tuo sorriso, te sotto quella dannata macchina che ti ha portato via da me, te sotto la pioggia, te sotto i miei occhi morto e circodato di sangue.
La sera in cui mi innamorai di te avrei voluto tanto baciarti, avrei voluto avere il coraggio per farlo.
Al tuo funerale lei non venne ma c'erano tutti. Tua mamma aveva gli occhi rossi per il troppo pianto, bastava guardarla per capire che era distrutta dal dolore. Si vedeva che l'unico suo desiderio era andarsene a via, lontana da tutte quelle frasi convenzionali e da tutte quelle finte lacrime, eppure eccola li in prima fila.
Io mi sedetti in seconda, accanto a quella che mi prese di mira in prima media, te la ricordi? Fu la prima volta che mi rivolgesti la parola, l'unico a difendermi e non ti ho mai ringraziato per quello. Ora io e lei ci salutiamo quando ci incontriamo e ci sorridiamo, forse le cose stanno migliorando tra di noi.
Io non parlai, come quella sera ebbi paura delle mie emozioni. Ebbi paura di scoppiare a piangere davanti a tutti, ebbi paura di morire anch'io con te.
Sono passati due anni, ancora mi manchi come se fossi la diciottenne di quella sera e credo che mi mancherai per il resto della mia vita. Sai, dopo la tua morte ho ripreso gli studi, credo di aver cercato di toglierti dalla mia mente con le tante parole che ora so a memoria, come ricordo a memoria il tuo profumo, la tua voce, la sensazione dei tuoi abbracci.
Credo di essere andata avanti.
Ti penso ancora ma ora ho un ragazzo che amo e che mi ama.
Gli ho parlato di te e della nostra storia mai vissuta, dei nostri film che non guardo più nessuno perchè li ritengo ancora una cosa solo per noi; gli ho parlato di quella sera, dei miei pensieri, delle tue parole.
Gli ho raccontato di quando ci stendevamo a guardare le stelle per allontanare la tristezza di uno dei due, gli ho raccontato delle tue storie che mi raccontavi per telefono per farmi addormentare durante le notti senza luna.
Gli ho raccontato di te, di come mi facevi sentire, di come mi parlavi di lei e delle mie emozioni. E ha ascoltato senza fiatare, ha capito e l'ha accettato. Ieri sera mi ha accompagnato al cimitero; era vicino a me quando la tristezza si è impossessata del mio corpo mentre ero di fronte la tua tomba. Era con me mentre ti raccontavo di come procedeva la mia vita senza di te, e sta al mio fianco sempre. Giorno e notte.
Mi manchi, ma ora, dopo due anni, sto finalmente bene davvero.
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L’addio dei The Cranberries: «Dedicato a Dolores, sarà il nostro ultimo album»
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L’addio dei The Cranberries: «Dedicato a Dolores, sarà il nostro ultimo album»
L’addio dei The Cranberries: «Dedicato a Dolores, sarà il nostro ultimo album»
Senza Dolores O’Riordan, i The Cranberries non esistono più. L’album «In the end» che verrà pubblicato il 26 aprile sarà l’ultimo della band: «Non suoneremo mai più dal vivo e non ci saranno altri album con materiale inedito. Dobbiamo accettare la realtà per quello che è».
L’addio dei Cranberries: «Dedicato a Dolores, sarà il nostro ultimo album»
A lei e alla sua voce indimenticabile è dedicato «In The End», l’album che mette la parola fine alla storia della band The Cranberries. Il disco è la raccolta di brani registrati nel 2017, quando il gruppo stava sviluppando un progetto parallelo a «Something Else», versione acustica dei loro più grandi successi. I Cranberries hanno raccontato che stavano cercando nuove strade, un nuovo modo di fare musica. Un percorso tragicamente interrotto dalla scomparsa di Dolores O’Riordan: «Dolores era entusiasta dall’idea di registrare questo disco e portarlo dal vivo sul palco», ha detto Noel Hogan, compagno di O’Riordan sul palco e nella vita. Dopo essersi presi del tempo per guarire dal dolore del lutto, la band ha ripreso in mano i testi e le canzoni registate. «Abbiamo ripreso in mano i demo e abbiamo visto che erano canzoni forti. Così siamo tornati in studio con Stephen Street il nostro produttore storico», racconta ancora Noel Hogan, aggiungendo che pur essendo un momento pieno di emozione e un grande regalo per i fan della band, è anche un «momento triste, perché Dolores non è qui ed è la fine della band, di un’esperienza così importante nelle nostre vite». Una volta ultimato l’album, i primi ad ascoltarlo sono stati proprio i familiari di Dolores. La madre non è riuscita a sentirlo, ma i fratelli hanno dato il via libera «e hanno pensato che lei ne sarebbe stata orgogliosa».
«I Cranberries erano quattro persone e senza lei non può essere la stessa cosa».
Molti critici hanno già visto nei testi, gli ultimi scritti da Dolores, dei presagi di morte, la tristezza che la accompagnava e il dolore che portava dentro. Mike Hogan, il bassista, chiarisce però che riflettono esperienze che la cantante aveva vissuto in precedenza, spiegando che era arrivata ad un momento sereno della sua vita, e che mettere in musica le sue ferite passate era una forma di terapia e di guarigione. Testi forti, intensi, che hanno portato alla creazione di un album commovente ed emozionante, anticipato dal singolo «All Over Now», nel cui video non appare nessuno della band. Una scelta precisa, rispecchiata anche nella copertina, dove si vedono 4 bambini con degli strumenti. «Nessuno di noi apparirà mai nei materiali di questo album. I Cranberries erano quattro persone e senza lei non può essere la stessa cosa» hanno spiegato, allontanando anche l’idea di fare un tour con un ologramma, soluzione che era stata suggerita ma che hanno trovato «allucinante al solo pensiero».
(Credits immagine di copertina: Instagram thecranberries)
L’articolo L’addio dei The Cranberries: «Dedicato a Dolores, sarà il nostro ultimo album» proviene da Giornalettismo.
«In the end» sarà il capitolo conclusivo della band dopo la scomparsa della cantante il 15 gennaio 2018
L’articolo L’addio dei The Cranberries: «Dedicato a Dolores, sarà il nostro ultimo album» proviene da Giornalettismo.
Gaia Mellone
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7 giu 2020 09:09
DIO È MORTO E GUCCINI VOTAVA PSI - ''MAI STATO COMUNISTA, HO SCRITTO UNA CANZONE PER CHE GUEVARA MA NON CI SAREI ANDATO D'ACCORDO - CONTE NON MI DISPIACE - MIO PADRE NON MI HA MAI ABBRACCIATO IN VITA SUA. IN TV VEDO GENTE CHE SI LAMENTA DI FAMIGLIE ANAFFETTIVE. IO NON HO MAI AVUTO REGALI. MAI FESTEGGIATO IL COMPLEANNO. GUAI SE LASCIAVO QUALCOSA NEL PIATTO: IL BABBO ERA STATO IN CAMPO DI CONCENTRAMENTO'' - LA FANTASTICA BARZELLETTA DI BAGLIONI, IL PAPA, LE DELUSIONI D'AMORE E LA MORTE: ''A 80 ANNI INIZI AD AVERE DUBBI DELLA TUA IMMORTALITÀ''
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Aldo Cazzullo per il ''Corriere della Sera''
Francesco Guccini, qual è il suo primo ricordo?
«Un pacco di fichi secchi arrivato dalla Grecia. Me lo mandava mio padre Ferruccio, soldato della seconda guerra mondiale».
Lei è nato quattro giorni dopo la dichiarazione di guerra del Duce.
«Il babbo aveva già combattuto in Africa nel 1935. Fu subito richiamato. Dopo l’8 settembre venne fatto prigioniero a Corinto e portato in campo di concentramento: prima a Leopoli, poi ad Amburgo. Con lui c’erano Giovanni Guareschi e Gianrico Tedeschi, l’attore. Rifiutarono di combattere per i nazisti; ma della prigionia mio padre non parlava mai. Tornò nell’agosto del 1945».
Come fu il vostro incontro?
«Prima arrivò una cartolina da Milano, con la foto di una fontana. La ritagliai, mi diedero un sacco di botte. C’era scritto: “Sono un commilitone di Guccini, mi incarica di dirvi che sta rientrando a casa”. Era una domenica, ero con mia madre Ester alla messa delle 11, qui a Pavana, quando entrò in chiesa la prozia Rina, la moglie del prozio Enrico, con il grembiule, gridando: “Sta arrivando Ferruccio!”. Me lo vidi davanti con lo zaino e la divisa».
Cosa fece suo padre per prima cosa?
«Si spogliò e si gettò nel bottaccio, il serbatoio d’acqua del mulino. Gli chiesi: “Babbo, mi insegni a nuotare?”. Lui mi buttò in acqua. Rischiai di affogare».
Non la abbracciò?
«Mio padre non mi ha mai abbracciato in vita sua. Ogni tanto in tv vedo persone che si lamentano: “Ho avuto una famiglia anaffettiva, da bambino mi facevano pochi regali…”. Io non ho mai avuto regali. Non ho mai festeggiato il mio compleanno. Guai se lasciavo qualcosa nel piatto: il babbo era stato in campo di concentramento, il cibo era sacro».
Un regalo di Natale suo padre gliel’avrà pur fatto…
«Una volta mi regalò “Senza famiglia” di Hector Malot: libro di una tristezza allucinante. Un venditore ambulante l’aveva convinto a comprarlo. Un altro Natale mi passò un rasoio elettrico con cui non si trovava bene».
Un rasoio? A Guccini?
«Fino a trent’anni non portavo la barba. Mi feci crescere barba e capelli quando tornai dall’America, ma non per motivi politici. Non era la contestazione, era una delusione d’amore».
E sua mamma cosa le regalava?
«Mia mamma non mi ha mai regalato niente».
Il prozio è quello della canzone “Amerigo”, che andò negli Stati Uniti?
«Lui. In America si iscrisse al circolo socialista Giordano Bruno. Era il fratello giovane di mio nonno Pietro. Lo ricordo biascicare un po’ di inglese».
Portava “un cinto d’ernia che sembrava la fondina per la pistola…”.
«Si era rovinato la schiena in miniera, ma per me era un eroe del Far West, come quelli dei film. A Pavana c’era il cinema. E in pochi chilometri c’erano cinque sale da ballo: liscio, ma anche boogie-woogie e ritmi latini, samba e rumba. Erano passati gli americani, e pure i soldati brasiliani. Dopo la guerra c’era una voglia di ballare che faceva luce. Un po’ come adesso, che la gente sta esplodendo per uscire di casa e andare da tutte le parti».
Della guerra cosa ricorda?
«La linea gotica passava subito a Nord di Pavana. Gli americani avevano messo le tende attorno al mulino dei nonni. Avevano quattro carri armati: sparavano ogni giorno a orari regolari, pareva che i carristi andassero in ufficio. Io ero sempre in mezzo a loro: è evidente che mi mancava il padre. Canticchiavo le prime canzoni: Lay that pistol down, che pronunciavo leichepistoldà: l’ho risentita in un film di Woody Allen, Radio days. In cambio mi diedero i gradi da sergente e il cioccolato, che mangiavo di nascosto in riva al fiume, che era in realtà un torrente, il Limentra. E mi fecero assaggiare una bevanda scura, misteriosa, buonissima: la coca-cola. Un mondo radicalmente diverso da quello dei tedeschi».
Ricorda anche loro?
«Vagamente. Due dormivano nell’androne del mulino, sotto un tavolo. Avevano sempre una fame terribile, razziavano tutto, pretendevano frittate gigantesche da venti uova. In casa avevamo un maialino: riuscimmo a sottrarglielo e a nasconderlo in una casetta. Una mattina fummo svegliati da un’altra pattuglia tedesca. Tememmo per il maialino; invece cercavano i prigionieri russi che erano scappati. Uno era finito nel campo di granturco dei nonni: ferito a una gamba, fu caricato in una gorgola, enorme paniere per il trasporto del fieno, e condotto in una capanna, dove lo recuperarono i partigiani».
E il maialino?
«Fu sacrificato per nobili scopi».
Suo padre era toscano di Pavana, sua madre emiliana di Carpi. Come si incontrarono?
«Mio padre aveva vinto un concorso alle Poste di Modena. Mamma aveva tre fratelli e tre sorelle. Un suo collega, zio Walter, era fidanzato con una di loro, e disse al babbo: vieni a Carpi con me, ci sono un mucchio di donne. Arrivarono in bicicletta. Ricordo quando andavamo a trovare i nonni, che parlavano solo dialetto emiliano: mio padre restava in disparte. Tutti pensavano che fosse serio, severo; in realtà non capiva una parola. Un po’ serio però lo era. Dava del voi a sua mamma».
I partigiani come li ricorda?
«C’era di tutto. Un’amica mi mostrò il tavolo bucherellato dai proiettili con cui una banda di irregolari aveva ucciso suo padre, comandante partigiano: arrivarono, bloccarono il paese, Gaggio Montano, assediarono la caserma dei carabinieri, spararono. Fu una guerra civile, ne accaddero di tutti i colori. Intendiamoci: io ho sempre tifato per i partigiani, preferivo i libri di Bocca a quelli di Pansa; però ho sempre approfondito anche le testimonianze dell’altro fronte, ho letto i libri di Pisanò».
L’hanno criticata per la sua versione di Bella ciao, in cui si augura che i partigiani portino via Salvini, Berlusconi e la Meloni. Che le ha risposto: dove ci vorrebbe portare Guccini?
«Hanno la coda di paglia: subito hanno pensato a piazzale Loreto. Ma io non avevo intenzioni malevole. Mi basta mandare Salvini al mare con il mojito, e restituire Berlusconi alle sue tv e alle sue fidanzate. Nel frattempo la Meloni potrebbe spezzare le reni alla Grecia».
Lei cosa vota?
«Pd».
E prima?
«Partito socialista».
Non Pci?
«Non sono mai stato comunista. Tutti credono che lo sia; ma non è vero. Anche Igor Taruffi, il consigliere regionale di Liberi e Uguali cui ho dato due volte l’endorsement, era convinto che fossi comunista; quando gli ho rivelato la verità ci è rimasto malissimo. Mi viene da dire, come a quei razzisti che sostengono di avere molti amici di colore, che ho molti amici comunisti. Ma lo stalinismo non poteva piacere a uno come me: libertario, azionista. I miei eroi sono i fratelli Rosselli e Duccio Galimberti, che in realtà si chiamava Tancredi: Tancreduccio. Semmai, lo dico con grande ritegno, mi sentivo anarcoide. Avvertivo il fascino dell’anarchia, dal punto di vista romantico più che reale».
E scrisse la Locomotiva.
«Una suggestione letteraria, non politica».
Ma ha composto anche una ballata per Che Guevara.
«Appunto. Il ribelle che lascia la Cuba di Castro e il potere per continuare a combattere. In Mozambico, in Bolivia, dove lo ammazzarono. Ma se avessi discusso con il Che, non ci saremmo trovati d’accordo. Tra l’altro è nato il 14 giugno. Come me e come, purtroppo, anche Trump».
Mai un corteo, mai uno scontro con la polizia?
«Nel ’68 avevo 28 anni, ero già grande. Un corteo l’ho fatto ad Amsterdam. Partii con un amico per andare a conoscere i provos, che ci portarono a una manifestazione non autorizzata contro la guerra del Vietnam. Ci spiegarono che la polizia li avrebbe attaccati, e quindi sarebbe stato un grande successo. Avevo una chitarra, un giornalista mi chiese chi fossi, cominciai a suonare una canzone di Bob Dylan. Poi la polizia arrivò davvero. E ci caricò. Mi misi in salvo».
E adesso? Conte come lo trova?
«Non mi dispiace».
Con i 5 Stelle però lei è stato critico.
«Abbastanza. Mi sono sempre sembrati integralisti: troppo convinti delle proprie idee, troppo pronti a mandare gli altri sul rogo. Forse ora stanno cambiando. Io sono per il dubbio, non per la certezza. Tendo a farmi domande; diffido di chi coltiva sicurezze ferree, immarcescibili, a volte violente».
Ha conosciuto il Papa.
«Mi ha portato da lui il cardinale Zuppi, un grande personaggio. Francesco mi piace. Gli ho recitato la prima strofa di Martin Fierro, il poema nazionale argentino. Avrà pensato che fossi pazzo».
Quando comincia la musica?
«All’inizio dell’estate 1957. Il padre di un nostro amico, Pier Farri, possedeva due cinema a Modena e ogni tanto, preso da improvvisa generosità, ci invitava. Vedemmo un film dove una band suonava in un campo scout femminile: cinque ragazzi e tremila ragazze. All’uscita ci dicemmo: mettiamo su un complesso pure noi. Victor Sogliani, il futuro fondatore dell’Equipe 84, scelse il sax, che non aveva mai suonato in vita sua. Un altro affittò un contrabbasso. Pier, che era il più dovizioso di denaro, volle la batteria. Io comprai una chitarra con le 5 mila lire che mi passò mia nonna Amabilia».
La sapeva suonare?
«Imparai da solo. Me l’aveva costruita Celestino, un falegname di Porretta Terme, che mi aveva dato anche un quadernetto con i pallini che mostravano dove mettere le dita per gli accordi. Ero felicissimo: alla fine di quel pomeriggio sapevo già accompagnare due canzoni. Celestino poi emigrò in Olanda. Ora vive in Romagna, ogni tanto ci sentiamo».
Ha fatto il magistero per lo stesso motivo, le ragazze?
«Ma no. Era il liceo dei poveri. E durava un anno in meno: così avrei potuto lavorare prima. Purtroppo ho grandi lacune. Ho anche dato tutti gli esami all’università, ma non mi sono mai laureato: ho preferito suonare e gozzovigliare».
Quale fu il primo lavoro?
«Istitutore al collegio Villa Marina di Pesaro per orfani di post-telegrafonici. Un camerone enorme, un paravento, un letticciuolo. Una tristezza. E poi non amo il mare d’estate; figurarsi d’inverno. Per fortuna dopo due mesi e mezzo mi cacciarono».
E divenne giornalista.
«Due anni alla Gazzetta di Modena. Sognavo di fare lo scrittore. Un collega, un certo Cavicchioli, aveva pubblicato un romanzo, “Il volo del tacchino”: lo invidiavo moltissimo».
E’ vero che intervistò Modugno?
«Me ne vergogno ancora adesso. Ero giovane e saputello: lo attaccai; feci, come dicono a Bologna, lo sborone. Non pensavo affatto che la musica potesse essere il mio mestiere. Me ne andai perché mi pagavano poco: 20 mila lire al mese, lavorando tutti i giorni; e quando feci le prime due settimane di vacanze, mi dimezzarono lo stipendio. Guadagnavo molto di più sotto le armi».
Dove ha fatto il militare?
«Sottotenente a Trieste: 90 mila lire al mese, che mandavo per metà a casa, più 5 mila di indennità di frontiera. L’atmosfera era pesante. La notte gli sciavi, gli sloveni, scrivevano il nome di Tito sui muri della caserma».
Nel 1967 Caterina Caselli la fece esordire in tv.
«La Caselli era capitata a Porretta Terme subito dopo il successo di Sanremo. Qualcuno le disse che c’era un ragazzo che scriveva canzoni. Ascoltò Per fare un uomo, che poi ha cantato lei, e Auschwitz, che mi fece portare in tv. L’altro presentatore della trasmissione era Giorgio Gaber, che aveva invitato un ragazzo di Catania: Francesco Battiato. Non si chiamava ancora Franco».
Siete diventati amici?
«Con Gaber sì. Quando veniva a Bologna dopo lo spettacolo andavamo insieme da Vito. Non mi è piaciuto però che abbia scritto “la mia generazione ha perso”. Ha perso la generazione di mio padre, che si è fatto due guerre. Noi siamo figli del boom: abbiamo potuto studiare, siamo riusciti a fare quello che volevamo. Gaber era un ragioniere ed è diventato Gaber, io sono un maestro elementare…».
E Battiato?
Lo ritrovai al Club Tenco: era un barzellettaro formidabile. Come Bruno Lauzi. Io adoro le barzellette; ma ora non ce ne sono quasi più. Una delle migliori del mio repertorio me l’ha raccontata Baglioni. Anche se lui nega, perché si vergogna».
Quale barzelletta?
«E’ troppo lunga…».
Non può non raccontare la barzelletta di Baglioni.
«Sia; ma l’ha voluto lei. Va detta con l’accento toscano».
Vada per l’accento toscano.
«Favola morale di La Fontaine: la formica e la cicala. Tutte le formicoline lavorano nei campi, mentre le cicale cantano felici. Babbo formicolone ammonisce la su’ figliola: tu lascia che la canti; verrà l’inverno, la cicala ti chiederà il cibo, e tu niente: oh bischera, tu mangi quello che hai cantato! Viene l’inverno, e le formiche continuano a lavorare, tutte sudate, a riporre i fili d’erba, le molliche di pane. Finalmente ecco la cicala, di certo venuta a mendicare. La formicola si prepara la risposta – oh bischera, tu mangi quello che hai cantato! -; ma in realtà la cicala è venuta a salutare, tutta abbronzata e impellicciata. Con il canto ha fatto un mucchio di quattrini: il suo disco è primo in hit-parade, e lei è in partenza per le Hawaii; prima però farà tappa a Parigi. Al che la formicola le fa: oh cicala, se a Parigi trovi un certo La Fontaine, lo mandi affanculo a nome mio?».
Insospettabile Baglioni… Con De André invece che rapporto avevate?
Normale. Rispetto reciproco. Sono stato molto amico di Claudio Lolli, lui sì comunista convinto. Grande poeta, grandissimo autore di canzoni, meglio di me. Ha avuto la sfortuna di non riuscire ad accattivarsi il pubblico».
Anche con Dalla eravate amici?
«No, non sono mai stato veramente amico di Lucio. Vedevamo la vita in modo troppo diverso. Lui era molto cittadino, io abbastanza montanaro. Mi chiedeva: ma cosa fai tutto il giorno in montagna? E io gli rispondevo: niente. In realtà facevo un sacco di cose: camminavo, andavo a funghi… In città tiravo le 4 del mattino a giocare a carte. Mai d’azzardo, non si vinceva neppure un caffè. Briscola, tresette, scopone scientifico. E poi un gioco bellissimo e dimenticato, il tarocchino bolognese, che stiamo cercando di mantenere in vita, fondando una scuola… Però sulla barca di Dalla, a Capri, sono diventato amico di Zucchero».
Cosa ci faceva a Capri?
«Avevo cantato una canzone la sera prima. Andai sulla barca di Lucio a mangiare gli spaghetti, e c’era Zucchero, che componeva il suo disco. Lui ama comporre in luoghi esotici: Cuba, l’America. Io scrivevo a Bologna o a Pavana nel mulino dei nonni».
Ligabue?
«Non ci conoscevamo, mi chiamò lui per farmi recitare in Radiofreccia».
Vasco?
«Una sera capitò da Vito, per dirmi che era entusiasta dell’Avvelenata».
E lei?
«Io detesto l’Avvelenata. Una canzoncina. Non capisco perché abbia avuto tutto questo successo, mentre una canzone come Odysseus, che è ottocento volte meglio, ne ha avuto molto meno».
Odysseus è bellissima. Un Ulisse dantesco.
«Un mito letterario, un viaggio magico e misterioso, carico di simboli, di ritorni affascinanti, di personaggi incredibili. E’ una canzone sottovalutata. Composta in due giorni, anzi due pomeriggi».
In Gulliver invece lei scrive che “da tempo e mare non si impara niente”.
«Tutto quell’album, che si intitola Guccini, è dedicato all’inutilità di viaggiare. Ho un’amica che è stata in tutti i Paesi, ha anche piantato una bandierina sulla mappa; ma in ognuno è rimasta tre giorni. I veri viaggiatori erano i nobili inglesi del Grand Tour, o gli emigranti: gente che non sapeva quando e se tornava. Gli altri sono turisti continui».
Nello stesso album c’è un’altra canzone di culto, Argentina.
«Argentina è il racconto di un déjà-vu. Mi pareva di esserci già stato. Vedevo strade già conosciute, bar già frequentati. In qualcuno forse ero già entrato davvero. Non penso ad altre vite, ma a impressioni letterarie fugaci. Con Raffaella, mia moglie, abbiamo fatto anche un corso di tango».
La storia struggente di Scirocco è vera?
«Sì. E’ la storia di un amico poeta, da me soprannominato Baudelaire. Non riuscendo a decidere tra la sposa e la fidanzata, fu lasciato da entrambe. Se si fosse messo con quella nuova, forse sarebbe stato felice i primi tempi, ma poi avrebbe litigato. Meglio svanire nel ricordo. Meglio una cosa mai avvenuta, di una cosa che avviene e poi ti delude. Come Gozzano: le rose che non colsi. Le storie non finite, non concluse, conservano un sapore particolare. Se si fossero sviluppate magari sarebbero finite male; o in ogni caso sarebbero finite».
Qual è la delusione d’amore per cui si fece crescere la barba?
«Lasciai in Italia Roberta, la ragazza che sarebbe diventata la mia prima moglie, e fuggii in America con una mia allieva del Dickinson College di Bologna, Eloise».
E’ la vicenda di 100 Pennsylvania Avenue?
«Sì. Finì malissimo: l’italiano non era piaciuto. Fui processato dall’intera famiglia, con la madre che mi urlava: “I hate you”, ti odio!, ed Eloise che le rispondeva: “But I love him”, ma io lo amo!».
Anche “Il pensionato” è esistito davvero?
«Abitava accanto a me: io al 43 di via Paolo Fabbri, lui al 41. A casa sua, infilata in una vetrinetta, vidi una busta con la scritta: da aprire solo in caso di mia morte. La cosa mi colpì».
«E a poco a poco andrà via dalla nostra mente piena/ soltanto un’impressione che ricorderemo appena…».
«Un idraulico per scherzo fece la spia alla famiglia che abitava al numero 45. Una mattina presto vennero a bussare: “Sappiamo che farà una canzone sui vicini di casa. Noi preferiremmo non comparire…”».
Sul web c’è davvero la “foto sul pallaio” di lei e Cencio vicini: il nano con cui giocava a bocce.
«In realtà si chiamava Vincenzo, detto Cengio. Nella canzone divenne Cencio. Ci siamo persi di vista. Chissà se è ancora vivo. Lo spero, ma di solito i nani non vivono a lungo».
«In morte di S.F.» divenne «Canzone per un’amica». Chi è S.F.?
«Silvana Fontana, morta in un incidente stradale accanto al fidanzato, che si salvò: l’ho rivisto qualche anno fa. La notizia mi addolorò e scrissi la canzone in mezz’ora, con un errore di cui ancora mi vergogno: “Se presto hai dovuto partire”, invece di “sei dovuta partire”».
La ascolto da quarant’anni e non me n’ero mai accorto. Culodritto invece è la canzone dedicata a sua figlia, Teresa.
«Mi commuove cantarla. Ora con mia figlia il rapporto si è un po’ raffreddato».
Com’è la vita a ottant’anni?
«A volte non me li sento. Non sto male. Certo, ho perso agilità. Ma, a pensarci, quando mai sono stato agile? Purtroppo mi è andata via la vista, non riesco più a leggere libri. Li ascolto. Però l’audiolibro è un surrogato. Mi manca la carta: sottolineare, prendere appunti».
Come ha passato questi mesi?
«Come al solito: ho scritto, ho guardato la tv con Raffaella. Ci hanno fatto compagnia i nostri tre gatti, in particolare Bianchina, la trovatella cui avevano tagliato le orecchie. Mi è mancato uscire a cena con mia moglie, con gli amici. Ma ora si ricomincia».
In una canzone lei immagina di essere assunto in cielo con i suoi amici veri. Crede nell’aldilà?
«No. E’ un mio sogno panteistico. Ma i sogni non sono destinati tutti ad avverarsi; anche se mi piacerebbe tanto rivedere nonna Amabilia, nonno Pietro che morì quando avevo tredici anni, il prozio Enrico che morì quando ne avevo ventitré: ero militare e non mi diedero la licenza. E mio padre e mia madre».
La morte le fa paura?
«Adesso un po’ sì. L’uomo è l’unico animale che sa di dover morire; ma da giovane è convinto di essere immortale. A ottant’anni però comincia ad avere qualche dubbio».
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