#sala dei soli
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Sala dei Soli, Castello di San Giorgio | Palazzo Ducale, Mantua, Italy, XVI century VS Clown face
#palazzo ducale#mantova#rinascimento#renaissance#gonzaga#mantua#sala dei soli#grottesche#giulio romano#emoticon#emoj#clown#face#clown face
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Non sapere cosa fare nel Paese reale.
Oggi parliamo brevemente di due fatti che sono accaduti non lontano da qui. Il primo è il tentato omicidio nell'Appennino reggiano di una persona con problemi mentali seguito - così dicono i giornali - dagli assistenti sociali. Il taglio dell'articolo sui media locali che descrivono il fatto in una comunità con pochi abitanti è il seguente: questo dava noia a tutti, nessuno ha fatto niente, poi uno dopo un diverbio ha sbroccato e lo ha massacrato a sprangate.
Che se ci fermiamo un attimo a pensare quanti passaggi ci sono tra "malato di mente va ad abitare in frazione appenninica" e "abitante del luogo lo sfonda di sprangate in testa" in cui la situazione avrebbe potuto essere gestita meglio dalle istituzioni ci vengono fuori tre film con Joaquin Phoenix che fa il Joker e un paio di libri.
E' andata così, spallucce, la bobina continua a girare.
Cambio di inquadratura: signora di 62 anni che vive nell'appartamento di sopra dei genitori di una conoscente, l'appartamento appartiene a loro e lei è in affitto. Le viene comunicato con anticipo di vari mesi come da condizioni da contratto di affitto che deve lasciare l'appartamento. Risposta "Io non me ne vado". I coniugi decidono di aiutarla trovando in zona appartamenti simili allo stesso prezzo. "Dovete buttarmi fuori. Auguri". Si inizia ad avvertire un crescente sfregamento di mani da parte di avvocati vari. Nel mentre l'inquilina in attesa di uno sfratto esecutivo che avverrà non si sa quando cambia atteggiamento e inizia a fare rumori entrando e uscendo di casa, di sera, di notte, all'alba.
Questi due signori sui settanta attualmente sono esasperati e mortificati perchè mai avrebbero immaginato uno scenario simile.
Cosa manca o è mancato in entrambi gli scenari?
Tutte le volte che lo Stato attraverso i propri esponenti ha esortato al difendersi e farsi giustizia da soli ha implicitamente ammesso la propria debolezza, assenza ed impotenza.
La bobina gira a vuoto, dissolvenza, buio in sala.
Schermo nero.
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Non so se è perché devo guidare all'andata e al ritorno, ma quando arrivo nella rsa dove lavoro mi sento al sicuro. Inizio a fare le mie cose e non penso più a niente, non che quando non sono a lavoro penso a qualcosa di specifico, ultimamente ho il cervello troppo saturo per riuscire a fare un pensiero anche solo minimamente articolato, però c'è molta pesantezza, molta ansia, e una sorta di paralisi che non mi fa fare altro che o fissare il vuoto o dormire. Invece quando arrivo nella rsa tutto si disperde, resta una pressione nella testa, magari un tono basso, ma guardo ciò che ho intorno e allora mi distraggo.
A me piace infatti osservarli e mi piacerebbe anche capirli se non parlassero in dialetto. La cosa che più li lega, oltre alla malattia, è la forte concentrazione che hanno. Sono molto focalizzati, non so bene su che cosa ma pochissimi di loro sembrano svampiti, la maggior parte invece è molto concentrata. Ci sono i casi diciamo meno gravi dove magari ormai vivono nel "loro mondo" ma camminano e riescono ad essere anche chiacchierini e vivaci: Venanzio o Venazio non riesco a capire, è un po' il burlone del gruppo va sempre di qua e di là, chiede se può aiutare, ieri andava dietro ad una ASA e le voleva portare il sacco della spazzatura, poi dice che ha sempre mal di pancia così ieri chiedeva all'infermiere qualcosa per il mal di pancia, l'infermiere gli diceva "Sì ora te la do" ma a Venanzio non gliela si fa e allora "non prendermi in giro"; poi c'è Mina o Nina anche qua non ho capito, lei dice che era una barista ed infatti a volte gli fa trovare le sedie sul tavolo o lava le mani nel water, lei fa sempre avanti e indietro molto indaffarata e concentrata, non si capisce cosa vuole dire perché emette perlopiù dei balbettii e l'altro giorno voleva togliermi il mop per lavare a terra; qualche altra signora poi si prende la borsa e cammina con la borsa come se fosse lì solo in visita; pio c'è Anna, un signora forte che l'altro giorno spazzava a terra e si incazzava perché gli camminavano sopra e allora iniziava a dire qualcosa che sembrava poco carino in bergamasco; poi ci sono almeno un paio di Marie una chiede sempre cosa deve fare adesso e voleva fare la pizza in bagno ma non sapeva come, l'altra invece è una donnina piccola dal viso rotondo che sembra una bambina e se ne esce sempre dicendo "che vita di meerda" e lo dice sempre sorridendo. I primi giorni che sono arrivata c'era una signora molto chiacchierona che a quanto pare era arrivata anche lei da poco, era ordinata nell'aspetto e parlava tantissimo con tutti ed era molto concentrata nel discorso che faceva pure se abbastanza sconnesso, adesso invece sentivo il medico parlare con la famiglia che le avevano cambiato il farmaco ed era per questo che era abbattuta ma se ne sta seduta in silenzio sulla sedia col capo chinato e anche l'aspetto è trasandato.
Si vedono infatti spesso anche scene strazianti: c'è ad esempio una signora che gira sempre disperata, l'altro giorno era venuta a trovarla non so chi forse il marito e allora lei ansimava e come a voler piangere e farfugliava qualcosa ed il marito le teneva il viso tra le mani guardandola intensamente negli occhi preoccupato e impietosito nel vederla così; alcuni poi li tengono legati sulle sedie forse per impedire loro di alzarsi perché non ce la fanno a stare in piedi da soli e non lo capiscono; altri invece sono in una carrozzina di quelle elettriche molto alte, come una signora che la mettono sempre nella seconda sala da pranzo e ogni volta che arrivo mi segue fissa in quello che faccio con lo sguardo che sembra incuriosito, poiché sulla sedia a rotelle non sempre può seguirmi con lo sguardo e quando non mi guarda più sembra molto assorta nei suoi pensieri, poi si accorge nuovamente della mia presenza e mi guarda e muove le labbra molto lentamente come se volesse dirmi qualcosa, ieri allora le ho sorriso e lei ha ricambiato facendomi un sorriso così bello che mi ha commossa. Anche le Asa o Oss che sono sembrano molto gentili pure se a volte ricevono dei dispetti o delle brutte parole, alcune soprattutto sembrano dispiaciute di vedere quelle persone in quello stato, li trattano come dei bambini ma non come degli stupidi.
Questo forse è il primo luogo di lavoro che non vorrei lasciare, infatti penso spesso che se potessi permettermi un part time resterei volentieri qua. Nonostante addetta alle pulizie non vengo schifata da nessuno, mi salutano quasi tutti anche i familiari e hanno rispetto per quello che faccio. Mi sono anche riscoperta chiacchierina: a volte scambio qualche parola coi malati, altre volte con qualche assistente. Fino ad ora insomma questo posto mi ha fatto bene.
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Recap prima seconda terza quarta (quinta) serata:
• morandi sta andando forte apre tutte le porte fa jogging in sala mentre amadeus millanta una maratona musicale velocissima (qualcuno ci ha creduto? Io no)
• ariete e sangiovanni quello vero abbastanza underwhelming sorry
• will canta con un tale
• elodie frega una borsetta dalla platea SAPEVO CHE AVEVO FATTO BENE A SCEGLIERTI AL FANTASANREMO SII. Se ne va pure rifacendo le scale tutto per il fanta dajee
• la borsetta l'ha più ridata? Chi lo sa.
• Peppino? Peppino.
• breaking news ama fa coming out come uno swiffer sul palco dell'ariston
• comica effettivamente comica, miracolo
• il direttore d'orchestra di olly con un piccolo benji nel taschino aaaaaaaaaaaa🥹🥹
• lazza e morandi are besties, we get it
• ultimo in versione babysitter di eros che si scorda il testo rip
• tananai in his lesbian softboi era, biagio approved, 15k, oneshot, slow burn, music au
• chiara francini signorina cencini amo lei la sua borsetta il suo modo di fare le sue ALI le sue virtù tutto
• shari canta in corsivo bocciatissima
• arisa sul palco tipo addetto dello zoo che cerca con le unghie e con i denti di arginare grignani e farlo andare a tempo inutilmente.
• minutino serio
• CON LE MANI CON LE MANI CON LE MANI CIAO CIAO throwback thursday friday
• SONO O NON SONO IL CAPITAN UNCINOO
• sketch dei poltronesofà e intanto tutti a cercare freneticamente su google se pure loro siano FRATELLI o se si possa prendere la route full homo visto che erano soli in un camerino chiuso su un sofà insieme
• j-ax l'altro 31 e fedez palesemente scappati dalla stessa gabbia dello zoo non so
• ovviamente giorgia e elisa cantano luce e la platea ascende improvvisamente al cielo come esseri superiori
• i coladimasplash infilano uno splashetto pure oggi nelle cover 🌊
• ah si il mio fandom-in-law si li conosco (pubblicità di mare fuori)
• i vestiti della signorina cencini sono i veri mvp della serata
• signorina cencini e gianni, 20k, fastburn, threesome, eventual marriage
• cugini di campagna falsettano in falsetto as is their due
• mengoni non era necessario infierire sugli altri dall'alto della tua classifica con il coro gospel e let it be a sta maniera suu
• the aria da diciottesimo in this crociera si sta davvero facendo sentire stasera (it's milano bangkok for me)
• gianmaria era pupo la prima sera e resta pupo pure oggi niente da fare
• niente mr rain insipido era e insipido rimane
• madame che canta de andré con l'autotune? In my sanremo? More likely than you think. No ma scherzi a parte a me è piaciuta stasera.
• rosa chemical & l'altra tizia living their best life with the matching extra lashes, the most on fleek eyeliner ever, one (1) tiny boot lick and sus objects in hand by rosa i see u 👀
• oh no oh god la rai ha fatto una pubblicità su benigni che parla di biblically accurate sex asdfghjkl
• i modà e le vibrazioni mi vibrano to sleep ma whisky è molto furbo risale la montagna la pioggia lo bagna ecc ecc morale ancora non andrò a dormire
• anna oxa resuscita l'unica canzone che potrebbe vagamente salvarla aka un'emozione da poco, ma il canto greco finale davvero non era necessario, giuro anna, come se avessi accettato guarda
• ore l'una meno dieci: sethu fa il gioco delle sedie con gente. I dont even know anymore a questo punto
• ah levante happened a una certa hmmm
• apro gli occhi e amadeus ha un grembiule. Sbatto le palpebre e qualcuno sta cantando di nuovo. Mhhh penso che io stia inziando ad accusare il sonno qui
• oddio sta cantando qualcuno ma non so chi è mamma non so chi è sono face blind i know l'ho capito non ne riconosco uno chi sei datemi un indizioo
• AH ERA LDA grazie ama non ci sarei mai arrivata da sola
• mara sattei la scambio troppo con sheri regà non è colpa mia non riconosco nessuno😭😭.
• intanto tutti smollano i fiori al primo che passa asap tipo patata bollente, pure dopo che abbiamo rotto a tutta la rai per farli dare a tutti, io boh
• Fiorello mood della vita stile hobo con la copertina di pile la cuffietta della spazzatura e il piumone indossabile tattico
• colla zio rivalutati. Perhaps, saliti.
• hhhhh monologo di mamma non pancina idk sonno sonno sonno
• uuuh classifica NO MA DAI GIORGIA SOLO QUARTA CON LUCE È UN FURTO REGA ok il mengonisweep ma giorgia almeno seconda doveva essere suuuu
• classifica parte 2 la vendetta: quella vera mengoni ultimo lazza mr rain giorgia
E niente buonanotte a tutti pure A CHI NON DOVREBBE STARE DOVE STA IN CLASSIFICA MA VBB notte
Bonus: quota di mamme invocate in questa puntata: idk, uncountable
#sanremo 2023#sanremo#ops sto recap è venuto quasi più lungo della puntata di stasera sorryyy#sono prolissa ik 😭#recap quarta serata sanremo 2023
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Questa sera una collega del nuovo posto di lavoro mi ha detto una cosa che mi ha scioccato. "Tu devi capire che loro sono dei mostri", riferendosi agli anziani della casa di riposo, in risposta al mio "Bisogna cercare di capirli, sono anziani, soli, stanno qui dentro...". Ovviamente lì per lì non ho reagito, sono l'ultima arrivata, non posso permettermi di fare polemica. Poi non è proprio nel mio carattere. Anche qui, sono sempre io quella sbagliata. Perché perdo tempo per far fare due bocconi in più al paziente allettato che non ha voglia di mangiare. Perché scambio due chiacchiere con quello che ha deciso di rimanere in stanza invece di scendere nella sala comune e mi dedico qualche minuto in più a fare un'igiene più accurata e a fare un massaggio con un po' di crema idratante su una pelle che mi sembra molto secca. Perché quando li giro nel letto sono sempre estremamente delicata, anche se così ci mettono un po' di più ad eseguire il movimento. Perché quando gli lavo il viso, lo faccio con una carezza. E non perché ho qualche cosa di speciale, ma semplicemente perché anche io ho avuto paura e lì, in quel momento, trovare una persona gentile e che mi ha rassicurato, per me ha fatto tutta la differenza del mondo. Perché un piccolo sgarbo in un momento in cui ti senti fragile ti può far crollare tutto addosso. Perché lo so cosa vuol dire sentirsi soli e persi. E non me ne frega niente se all' operatore che viene dopo di me, diranno che è lui il migliore o il più bravo. A me importa aver offerto un po' di conforto, un po' di serenità, un momento di svago e tranquillità. Aver alleviato un dolore di qualunque tipo o aver prevenuto l'insorgere di qualche complicazione. Per me la vita non è passare da un nemico all' altro, non è un costante "Noi contro loro". Per questo certe cose mi lasciano senza parole e con un gran senso di tristezza.
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Avvocato!
Finalmente, dopo tanti studi, realizzo il mio obiettivo. Non in uno studio legale tutto mio. Non ancora per lo meno.
Nello studio di un amico di mio padre. Mi ha accolto volentieri, con molto affetto. Lo credo: mi conosce da sempre, da bambina praticamente, è un vecchio micio di famiglia.
Vecchio per la durata della amicizia. Lui è un 55 enne niente male. Bel fisico, ancora senza pancia per fortuna. Bel sedere. Ha una bella moglie, e pare che le sia fedele.
Non mi preoccupa. So come far girare la testa a un maschio.
Con lui non è difficile. All’inizio i suoi sguardi le mie gambe duravano un battito di ciglia e più rari. Poi forse si è sentito più sicuro, o gli è diventato più difficile resistere alle mie pose provocanti, e allora gli sguardi sono diventati più frequenti. Ma sempre timidi.
Chissà quanto lo imbarazzo venendo in studio con vestiti aderenti, gonne corte, calze velate, tacchi a spillo. Ha anche provato, un giorno, a dirmi d8 essere più castigata. Tutto un giro di parole, ho fatto finta con tutto il finto candore di cui sono capace di non capire. H cambiato discorso.
Il mio gioco si è fatto più audace ogni giorno di più. Entrare nella sua stanza, con una scusa qualsiasi. Sedermi accavallando le gambe. Sfiorarlo quando siamo vicini. Sono arrivata a sfiorargli la gamba con il piede durante una riunione, facendogli perdere il filo del discorso, con mio grande divertimento.
Ma non mi dice nulla.
Quando ho capito di averlo cotto a puntino ho messo in atto il mio piano.
Quel giorno, nella sala riunioni, eravamo rimasti soli io e lui. Mi seggo sul tavolo. Accavallo le gambe. Vedo il suo pomo d’Adamo agitarsi. Una goccia di sudore scivolargli sulla guancia. Un tonfo sulla moquette, prima una scarpa, poi l’altra.
Oh, fingo che tutto sia involontario. Con un sorriso gli chiedo se me le raccoglie e mi aiuta.
Trema, ma obbedisce. Ha un piedino tra le sue mani, e sembra ipnotizzato.
Quando gli metto la mano tra i capelli, poi dietro la nuca, e spingo, si fa docilmente guidare tra le mie cosce.
Non devo dirgli nulla. Chissà quanto aveva sognato quel momento. Le sue labbra premono sul nylon dei collant, indossati per questa occasione senza mutandine.
Non devo dirgli niente, comincia a leccare, come il cucciolotto docile che è. Le mie cosce si serrano intorno al suo viso.
- Da oggi metti il mio nome prima del tuo nella targa dello studio legale, vero?
Il suo viso fa su e giù. Forse è solo per leccarmi meglio, ma penso che abbia voluto dire di sì.
Bene. Farà comunque quello che gli dirò di fare.
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PACCO , DOPPIO PACCO E CONTROPACCOTTO
Per tre anni Donna Giorgia, madre e cristiana, ha portato in giro per l’Italia la sua commedia di maggior successo: “ Arza er culo da quer divano”. Atto unico scritto a tante mani (Confindustria, commercianti , artigiani, imprenditori, professionisti e classe politica quasi al gran completo (meno 5S, padri del RDC). La critica ha recensito l’atto unico sperticandosi in lodi. Giornali, Talk tv, media vari, web, tutti a riportare l’entusiasmo che s’era scatenato nel Paese. Un monologo su una scena semplice e scarna. Qualche divano intorno al palco dove era seduta un po’ di gente comune: qualche pezzente, qualche donna madre, qualcuno intorno ai 60anni e un bel gruppetto di ragazzi dal fisico invidiabile. Sempre muti, sempre senza poter dire niente e al centro del palco, lei, L’implacabile difensore di chi sputa sangue per pochi euro, di chi si fa chilometri e chilometri pur di andare a lavorare. Di chi si adatta a tutto, dalla cucchiara alla vanga. Lei a puntare il dito contro quell’esercito di “scansafatiche” , di relitti sociali profittatori e sanguisughe di chi suda e campa del proprio lavoro. Per tre anni sempre toni più altisonanti, sempre una tensione di grande allarme e il finale sempre uguale, lei a ringraziare tra inchini e braccia alzate e l’intera platea in sala che urla ad alta voce: “ a zappareeeee! Devono andare a zappareee!! Insomma, un tripudio di consensi.
Poi, Donna Giorgia, anche madre e cristiana è scesa dal palco e s’è presentata alle elezioni. Le vince e come primo atto decreta la fine del RDC per il 31/luglio-2023. Corsi di formazione e tutti a lavorare. A lavoraree!
Ieri, quelli che gli avevano scritto l’atto unico, hanno scritto il secondo atto per Donna Giorgia:
Per gli inabili al lavoro, e per tanti altri, ci sarà il MIA, nuova riformulazione del RDC. 500 euro mensili e contributo per l’affitto. Stessa cosa per i giovani che vivono soli. Insomma, per l’80% dei vecchi percettori non cambierà niente. Per il restante 20% avranno 100 euro in meno al mese (salvo emendamenti migliorativi.) .A questo si è aggiunto il terzo atto della commedia: 200mila permessi per extracomunitari altrimenti agricoltura, turismo ed industria chiuderanno per mancanza di lavoratori.ma, ma, ...ma..ma non era tutta colpa di chi stava seduto sul divano se non si trovavano lavoratori? @ilpianistasultetto
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“ La mattina del 3 marzo 2004 la porta 537 si aprì e Kelly Warfield uscì dalla Segreta. La aspettavano nella sala d’attesa la madre e il figlio (per cui aveva ottenuto un permesso speciale), che andò a casa con lei. Il pomeriggio di quello stesso giorno ritornò all'USAMRIID*, dove i colleghi organizzarono una festa di fine isolamento, con tanto di discorsi e palloncini colorati. Parecchi mesi più tardi, dopo un periodo di sospensione, una lunga serie di analisi del suo sistema immunitario, di esami e supervisioni al limite dell'offensivo, oltre a una certa insistenza da parte sua, ottenne nuovamente il nullaosta per entrare nei laboratori di livello 4. Poteva tornare a stuzzicare la bestia che avrebbe potuto ucciderla. «Non ha mai pensato di non tornare a lavorare su Ebola?» le chiesi. Rispose di no. «Perché le piace tanto il suo lavoro?». «Non lo so di preciso» disse, e si fermò un attimo a riflettere. «Perché proprio Ebola? In fondo fa al massimo un centinaio di vittime all'anno». Non è una malattia di impatto globale e nonostante i toni apocalittici di certi autori è probabile che non lo diventerà mai. Per Warfield l’interesse aveva basi scientifiche. Per esempio, era affascinata dal fatto che un organismo tanto semplice fosse tanto letale. Ha un genoma minuscolo, quanto basta per costruire le sole dieci proteine che servono a formare le strutture di sostegno e a farlo replicare (un herpesvirus, per contro, ha una complessità genetica circa dieci volte superiore). Nonostante ciò il virus Ebola è feroce, capace di uccidere un uomo in soli sette giorni. «Come può una cosa così insignificante e rudimentale essere così orribilmente pericolosa?» si chiedeva Warfield. «Lo trovo davvero affascinante». “
* Istituto di ricerca sulle malattie infettive dell’esercito statunitense: un laboratorio per la guerra biologica riconvertito alla ricerca sulle malattie e sulle biodifese con sede nel Maryland.
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David Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, (Traduzione di Luigi Civalleri; collana La collana dei casi), Edizioni Adelphi, 2014.
[ Edizione originale: Spillover. Animal Infections and the Next Human Pandemic, W.W. Norton & Company, Inc., 2012 ]
#David Quammen#Luigi Civalleri#pandemie#epidemie#saggi#divulgazione scientifica#scienza#saggistica#citazioni#ebola#malattie infettive#biologia#divulgazione#USAMRIID#letture#guerra tossicologica#guerra biologica#armi biologiche#NATO#scienze naturali#libri#leggere#Covid#Coronavirus#USA#Stati Uniti d'America#zoonosi#spillover#COVID-19#virus
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Yuriko Tiger personal facebook post 2/1/2024
Un giorno mi piacerebbe molto parlarvi di come vengono fatti questo “concerti virtuali” perché mi sto rendendo conto che il mio “mondo” è così alieno all’esterno, che a volte lo do un po’ per scontato. Visto che non posso farvi vedere il live dal mio telefono, vi metto il link nei commenti. Al momento sono andata a tre live: Towa, Watame e #usadapekora e sono stati tutte e tre molto diversi tra loro. La domanda che si chiederanno in molti è: “Ma quindi vai in una sala da concerto a vedere uno schermo” “Sni” Ovviamente non uscirà mai la persona “dentro” l’avatar o la magia del #Vtubers sparirebbe in quanto 90% del loro appeal è proprio che usano un’avatar per stremmare e fare concerti! In realtà penso di saperne un po’ troppo rispetto alla gente normale perché la mia azienda è specializzata in “ballerini” (capite che intendo). Quindi riconosco ad occhio quando una cosa è pre-registrata, solo loro a cantare e ballare oppure metà e metà ma normalmente la gente non se ne rende conto. (Pensate che capisco spesso pure che ballerini usano a volte) e non quindi posso confermarvi che dipende dall’artista stesso. Un buon 70-40 diciamo ma per i veri appassionati: Son sempre loro. (Perché si. Nessuno vuole vedere micky mouse senza maschera.) Per assurdo (davvero assurdo), Pekora è una delle mie preferite ed è il live che mi è piaciuto “meno” perché era molto meglio vederselo a casa che non in un’arena grande quanto il Tokyo Dome. Era “troppo” perfetto. Towa e Watame, hanno utilizzato delle band dal vivo con loro “dietro” quindi si sentiva che “era lì” e ci sono stati un sacco di stonature, sbagli ect. Ma onestamente è quello che apprezzo di più di un live perché la differenza tra un Vtuber e Hatsune Miku (ad esempio) è che dietro c’è una persona. Non è un ologramma ma una persona che decide di utilizzare un’immagine di un manga/anime (sto cercando di spiegarlo per i noob eh). Al posto della sua faccia. In Giappone non è poi così raro visto che c’è SEMPRE stata questa cultura da #Utaite e l’artista numero uno è #Ado di cui nessuno sa chi è. Utilizzano delle apparecchiature che non penso sia reperibili in Europa perché non è “uno schermo” e per dare più profondità, l’avatar sullo stage risulta un po’ “piccolo” rispetto al normale però mi chiedo come sarebbe vedere una cosa simile in un altro contesto (a nessuno fregherebbe nulla dei #Vtuber purtroppo ma pensate a qualche collab con degli artisti). Allora perché uno ci va?l’esperienza dal vivo è sempre diversa in questi live molto vanno da soli e nessuno si sente a disagio appunto perché riesci a percepire un po’ Di profondità a differenza di quando lo guardi in live. l’atmosfera unica dei concerti #Idol (guardatevi #OshiNoKo su Netflix). Penlights, Cori, Frasi durante le pause.. Sono cose che da noi non esistono proprio. È più per stare lì a supportare l’artista con una tua luce e movimento, che tutto il resto. Sono mezza addormentata e potrei aver scritto male qualcosa ma spero sia un pochino più “chiaro”. Per me, è molto divertente. Può sembrare una stronzata per tanti ma se per questo anche vedere palleggiare un pallone per me potrebbe esserlo. In ogni molto “dietro” ci sta una programmazione della madonna ed è bello capirlo fino in fondo.
#Watame Tsunomaki#Vtuber#Hololive#Facebook#Meta#ユリコ・タイガー#ユリコタイガー#Yuriko Tiger#Yurikotiger#Yuriope#「エレ」#エレ#「ERE」#Ere7rock#Ere#ERELAST#Psykhere#EronoraMono#Eredalle#Yuriko tiger Is Not Mai Waifu!#Fan Blog#Fan Page
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E ieri sera mi è capitata una cosa che per me è stata la prima volta: ero al cinema da solo. Non da solo nel senso che ci sono andato da solo, che ogni tanto lo faccio, da sempre, o almeno da quando avevo vent’anni, no… ero al cinema da solo nel senso che nella sala c’ero solo io, se escludiamo il proiezionista che, ok, stava chiuso nel suo sgabbiotto. E così, sarà perché era uno strano mercoledì di inizio marzo in seconda serata, e che il film era già in sala da tre settimane e in più la proiezione era l’unica in lingua originale, ma, ecco, ero arrivato in orario, avevo parcheggiato, avevo prenotato il mio posto alla cassa, bello centrale, D8, in quarta fila perché mi piace sempre stare un po’ davanti, avevo preso una birra e dei popcorn, ero entrato, dieci minuti dopo mi ero girato, non c’era nessuno, non arrivava nessuno, ero da solo. Dopo era iniziato il film, mi era anche piaciuto, nonostante le brutte recensioni che avevo letto in giro. A un certo punto mi era caduto un popcorn, mi sentivo a disagio, un imbrattatore di sale cinematografiche, non ero mica tranquillo, e alla fine del primo tempo mi ero guardato intorno, ero sempre da solo, mi ero piegato, l’avevo cercato, il popcorn caduto, l’avevo trovato sotto il seggiolino davanti e me l’ero messo in tasca. E alla fine, quando ero lì che aspettavo la scena dopo i titoli di coda, mi sentivo un un po’ un coglione. E quindi, niente, ho deciso che d’ora in poi provo a non lamentarmi più della gente che parla a voce alta, che commenta, che guarda il telefono, che whatsappa, che schiamazza, che mangia le patatine cercandole scrocchiando fino in fondo al sacchetto, che rutta, che russa, che eccetera. Perché, ci ho messo del tempo, ma ho capito che il cinema è un’esperienza sociale e che fino a poco tempo fa, quando nei cinema c’erano più persone, eravamo fortunati. E che invece per fare quello che ho fatto ieri sera, guardare un film in un bel silenzio, da soli, senza nessuno che disturba, bastano poi un televisore molto grande e una buona connessione. (presso SpaceCity Multisala) https://marcomanicardi.altervista.org/la-solitudine/
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Nessuno ti conosce come me -Geto Suguru
!TW! Character Death, Description of Anxiety and Violence.
A quell’ora tarda la sala-caffè era silenziosa, privata delle chiacchiere scambiate fra colleghi e dal borbottio incessante della vecchia macchina per il caffè.
Tacendo ascoltava il ronzio costante dei neon accesi nell’ufficio accanto che di tanto in tanto veniva interrotto dal trillo cristallino della bottiglia di sakè contro le due tazzine di vetro scuro, un paio di sospiri e un tonfo secco sul legno appresso all’altro.
Erano rimasti per gli straordinari, indifferenti a dover fare le ore piccole, c’erano solo loro due seduti al tavolo rotondo che si trovava immediatamente a destra varcato l’ingresso della sala, non troppo lontano dalla credenza ad angolo dalla quale si erano procurati il liquore.
Una delle quattro pareti, quella a loro dinanzi, era intagliata da una larga finestra che dava unicamente vista verso la città buia: lontane e calde brillavano le vetrate degli altri palazzi, invece al posto della luna un alto lampione verde filtrava a bande all’interno della caserma. Riuscivano a vedere nella penombra della sala grazie a questo e alla luce che superava la soglia della stanza adiacente, dove avevano lavorato poco prima.
Avevano scambiato a malapena due parole, sostituito la loquacità di cortesia con shot di sakè. Questa volta era il suo turno di riempire i bicchieri e Geto lo lasciò fare perdendosi a fissare la luce che danzava oziosamente sulla superficie del liquore versato.
«Potremmo anche dirlo, no?» borbottò posando la bottiglia e circondando la propria tazzina con le dita della mano sinistra, sollevò lo sguardo ed incontrò quello incuriosito del corvino; «Sappiamo tutti che è stato 🀰🀰🀰 ad uccidere 🀰🀰» disse con ovvietà prima di mandare giù qualche sorso.
«Sono stato io ad ucciderlo» replicò infastidito dai suoi modi saccenti, l’orgoglio gli stampò un leggero ghigno sulle labbra alla reazione sconvolta del collega; «Non 🀰🀰🀰» ribadì per fugare ogni dubbio.
Geto assaporò quegli attimi come il più spietato dei predatori.
Sinistramente vi trovava qualcosa di affascinante in quelle iridi dilatate dalla paura, nel terrore che scatenava quell’animalesco istinto di sopravvivenza di cui gli uomini pavoneggiano stupidamente la dimenticanza.
Il battito cardiaco accelera, i muscoli si irrigidiscono, la sudorazione aumenta per avvisare con il proprio acre odore i simili nei paraggi… sfortunatamente per lui erano soli.
«Perchè?» domandò posando il bicchiere sul tavolo così da celare il tremore nervoso delle dita.
Il corvino sospirò scettico sull’importanza di una sua risposta; «Per tutta la merda che ci ha fatto passare» accontentò ugualmente l’esigenza umana di voler capire anche quando non ce n’è davvero alcun bisogno.
«Ora va meglio?» vanificò le promesse della vendetta e Geto non si interessò minimamente se le sue intenzioni fossero dettate dalla pura curiosità o se invece lo avrebbero portato a presentarsi come paladino della giustizia.
«No, ma mi sono divertito» ammise freddamente sorridendo, «Sono sempre stato consapevole che uccidendo 🀰🀰 le cose non sarebbero potute cambiare così come ero pienamente cosciente del mio desiderio di vederlo morto» spiegò scolando tutto d’un fiato il sakè rimanente; «Ho solo fatto ciò che potevo realizzare fra le due constatazioni, capisci?»
Rimase in silenzio incapace della qualunque, a fatica gli pareva pure di respirare: l’aria si era fatta pesante e stantia aleggiava, ricordando il tanfo di morte. Forse era l’impressione di vedere il sangue tingere di vermiglio le mani del corvino oppure…
Percepì lo stomaco cedergli, una sensazione di vuoto lo colpì bruscamente quando realizzò di aver lasciato la pistola all’interno del cassetto della scrivania in ufficio.
Simile ad una preda costretta all’angolo, immaginò se stesso correre fuori di lì, disperato lanciarsi sulla scrivania e maledire l’obbligo di sette caratteri come codice di sicurezza mentre impacciato dal panico armeggiava contro i tasti-
CODICE ERRATO
riprova più in fretta,
CODICE ERRATO
riprova, dai andiamo, forza, sbrigati!
CODICE ERR–
-la volata contro la nuca sudata.
Essere freddato alle spalle come il vile degli esseri.
«Perché me lo hai confessato?» forzò la lingua asciutta a staccarsi dal palato per pronunciare quelle parole, la gola secca gli complicò maggiormente la respirazione.
Geto inclinò appena il capo sulla sinistra e sorrise cortese.
Gli mostrò quello stesso sorriso che mostrava a tutti quotidianamente, quello così ampio da strizzare i suoi occhi scuri a mandorla affilandoli ancora di più... ma questa volta non allungò la mano verso la bottiglia per servire un altro shot di sakè.
«Potremmo anche dirlo, no?»
🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰🀰
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Tre giri di chiave e poi abbassò la maniglia.
Fu sorpreso nel ritrovare l’albino seduto alla scrivania, indaffarato dalle verifiche di fine trimestre. Si spogliò del cappotto nero e lasciò le scarpe ordinate nel genkan, silenzioso indossò le ciabatte e camminò verso di lui.
La piccola abat-jour faceva brillare d’argento le sue lunghe ciglia, che sfioravano i vetri degli occhiali rettangolari, accarezzava dolcemente il suo profilo rendendo teneri i segni lasciati dalla stanchezza accumulata nell’arco della giornata.
Anche Geto era esausto e dalla stessa mattina in cui aveva lasciato casa, non aveva fatto altro che sperare di ritornarci il prima possibile.
«Satoru, che ci fai ancora in piedi?» gli baciò il capo, mentre con una mano gli coccolò amorevolmente la schiena. Sorrise nel sentirlo abbandonarsi al tocco, rilassare le spalle tese curve in avanti, abbandonare la penna fra le dita e sollevare il viso fino a sfiorargli il naso con il suo.
«Erano rimasti pochi compiti da correggere e volevo finirli per sbarazzarmene al più presto» mugolò assonnato, ma ricambiò la sincera piega sulle labbra.
«Mh, non dovresti sforzare così i tuoi bei occhietti» lo riprese giocosamente, suscitando una sua piccola risata.
Per Gojo n’era valsa la pena dato ch’era riuscito ad accoglierlo tornare dal lavoro. Lo lasciò sfilargli gli occhiali e avvolgerlo in un abbraccio per sollevarlo da quella sedia, che era oramai diventata scomoda sotto il suo sedere. Avvolse le lunghe gambe attorno al suo bacino e sentì cliccare l’interruttore dell’abat-jour ma vedeva già nero perché le palpebre si era chiuse da sole, non appena si era ritrovato avvolto dal suo calore.
Non ebbe alcun timore nel sapere che il corvino si stava muovendo nella totale oscurità dell’appartamento per raggiungere la camera da letto, si fidava del fatto che mai avrebbe permesso che toccasse suolo e poi adorava la sua forza: nonostante la differenza di altezza, Geto non faceva alcuna fatica a prenderlo in braccio e trasportarlo con sé e gli piaceva tanto quella premura che sapeva di quell’infanzia che avrebbe voluto avere ma che non aveva mai avuto… fra le sue braccia, appeso al torace dell’altro, come un koala su di un albero, si sentiva incredibilmente vulnerabile ma al sicuro, protetto e amato.
«Nooooo» piagnucolò rifiutandosi di lasciarlo andare, non appena la sua schiena toccò il materasso.
«Torno subito, dammi solo due minuti per cambiarmi, ‘Toru» gli baciò la guancia e delicatamente lo convinse a slegare gli arti di dosso.
«Sbrigati Suguru, vedi che conto eh!» lo minacciò mettendo il broncio.
Il sonno sfidò la piccola promessa, eppure il corvino riuscì ad affiancarlo prima che si addormentasse davvero e cancellò immediatamente la sua infantile smorfia con un’amorevole Buona notte sussurrato a fior di labbra.
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Il compleanno dei morti
si festeggia da soli
in un segreto
che non fa scalpore.
I pasticcini sono moniti e puntelli
di cose fatte
e indietro
e spente;
i salatini, polpastrelli
esausti
che mollano la presa;
i cappellini degli invitati ignari
sono abusi
di fantasie.
E sui bicchieri bianchi
sparsi
alla tavola dei restanti
c’è scritto:
perché
perché
perché,
da non confonderci.
Al compleanno dei morti, i regali
implodono sulle vetrine da fuori
sono colori che ti piacevano
e ossessioni tue
e prese in giro che se tu fossi...
Ma non sei.
Al posto
degli applausi, stare zitti;
al posto delle orecchie
da tirare, gli occhi
che sono cento o forse
uno solo, immenso;
dei cappotti sul letto,
un vago freddo;
delle risate in sala
una fitta;
al posto degli auguri,
una poesia non letta.
Beatrice Zerbini
In comode rate - Poesie ed Eventuali
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Quando si lamentano che centocinquanta euro a persona al ristorante per il giorno di natale sono tanti, non hanno capito che in verità sono pure pochi: vogliono essere serviti e riveriti – facendo pure storie – nei giorni festivi? Pagassero e pure assai. Perché il cibo non si prepara da solo, i piatti non si lavano da soli, la sala non si prepara da sola, i piatti non arrivano davanti al muso dei lor signor porci da soli. I soldi vi devono uscire dal culo per le feste.
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Ossigeno - 15
15. Fraintendimenti
Sveva scese dal taxi ancora frastornata e assonnata. Aveva dormito durante tutto il viaggio e aveva ancora bisogno di riposo, ma la sua amica Rosa l'aspettava per cena. Le era sembrato che Zlatan ci fosse rimasto male quando gli aveva detto di avere dei programmi per la serata, ma di sicuro aveva interpretato male la sua espressione. Perché mai sarebbe dovuto rimanerci male? A meno che... Zlatan non volesse invitarla ad uscire. E questa si che era una stupidaggine. Però, a pensarci bene, non le sarebbe dispiaciuto per niente uscire con lui. L'idea di loro due insieme, da soli, le piaceva parecchio. Più di quanto volesse ammettere. Entrando in casa, si accorse che sotto la porta c'era una busta bianca. La raccolse e la rigirò tra le mani. Non c'era scritto nulla. Dentro vi trovò una lettera. Di Logan. Si sedette sul divano e la lesse.
Sveva, amore mio Dopo la nostra ultima telefonata ho deciso di venire a Milano perché volevo che capissi quanto ti amo e che per te farei qualsiasi cosa. Mi è stato detto che eri partita con tuo fratello, so che non vuoi più parlare con me e quindi non mi resta che lasciarti queste poche righe. Ho fatto la cazzata più grande della mia vita e ne pagherò le conseguenze per sempre. Ti ho persa, lo so, ed è solo colpa mia. Non ti chiederò di perdonarmi e di cercare di recuperare il nostro rapporto, ci ho pensato a lungo e tu hai ragione, meriti di essere felice. È dura per me dirti queste cose e lasciarti andare ma voglio solo che tu stia bene e che non soffra più per un pezzo di merda come me. Vorrei però che tu sapessi che ti amo e ti amerò per sempre. Nel mio cuore ci sarai sempre e solo tu, mia dolce e piccola Sveva.
E così era ritornato a Milano... Sveva chiuse la lettera e la ripose in un cassetto del mobile basso in sala, fece un bel respiro e andò a prepararsi per la cena. Faceva ancora troppo male, ma Logan ormai era un capitolo chiuso della sua vita.
Zlatan aveva trascorso l'intera nottata a pensare a Sveva. Non capiva perché fosse così attratto da lei ma non poteva fare a meno di ricordare la sensazione che aveva provato quando era stato sul punto di baciarla. Una sensazione mai provata prima, sapeva solo che quello che stava per fare era la cosa più giusta che potesse fare. Se solo Mark non li avesse interrotti... Ma ora era inutile pensare ai se, ora voleva solo che lei gli concedesse un appuntamento. Solo una sera, una cena, per capire cosa veramente voleva da lei e per accertarsi di essere ricambiato almeno in minima parte. Un bacio, voleva poggiare le labbra sulle sue e assaggiarla. Moriva dalla voglia di baciarla. Si vestì e uscì, diretto a casa di Sveva. Lei però non c'era. Si rese conto di non avere nemmeno il suo numero di cellulare e fu costretto a chiamare Ignazio. «Ehi Zlatan.» «Ciao Igna. Senti... mi puoi dare il numero di tua sorella? L'ho cercata a casa ma non la trovo.» «Certo. Stamattina è in clinica. Cosa le devi dire?» «Ehm... ecco, volevo portare la mia maglia ad un bambino che ho conosciuto quando sono stato lì.» «Okay, la trovi lì comunque. Ti mando un sms con il numero.» «Grazie. Ci sentiamo più tardi.» «Ciao Zlatan, a dopo.» Un minuto dopo Zlatan stava attendendo che Sveva rispondesse al telefono e si accorse di essere agitato e ansioso di sentire la sua voce. Quando rispose, non sapeva più cosa dire. «Ciao Sveva, sono Zlatan.» «Ciao Zlatan! A cosa devo questa telefonata? Devi dirmi qualcosa?» «No... volevo solo chiederti se ti andava di prendere un caffè con me.» «Molto volentieri. Però sono in clinica, ti va di prenderlo qui da me?» «Certo. Arrivo subito.» «Okay, a tra poco.» Impaziente di raggiungerla, Zlatan sfrecciò a tutta velocità per le strade di Milano e un quarto d'ora dopo era nel parcheggio della clinica. Le aveva preso anche un mazzetto di roselline rosse e emozionato come un teen ager al suo primo appuntamento si infilò in ascensore e salì al reparto di neurologia. La prima persona che incrociò era un'infermiera. Gli chiese chi stesse cercando e lui stava per dirle che aveva un appuntamento con la dottoressa Abate, quando la vide. Era nella ludoteca e stava giocando con alcuni bambini. Zlatan si avvicinò alla vetrata e bussò piano. Sveva alzò lo sguardo verso di lui e gli sorrise. La vide alzarsi e salutare i bambini, uno ad uno. «Ciao Zlatan» lo salutò uscendo dalla ludoteca. «Ciao Sveva. Non volevo disturbarti...» «Che disturbo» gli sorrise «ti stavo aspettando.» Rimasero occhi negli occhi per parecchi secondi, poi Zlatan abbassò lo sguardo sulle sue mani e si ricordò di averle portato dei fiori. Glieli porse, un po' impacciato. «Queste sono per te.» «Cosa... oh Zlatan, non dovevi.» Le prese e Zlatan la osservò mentre socchiudeva gli occhi e ne respirava il profumo. Dalla sua espressione seppe di aver fatto la scelta giusta. «Grazie.» «Non c'è di che. Allora...» stava per chiederle come stava ma fu interrotto. «Dottoressa.» Sveva si girò verso l'infermiera che l'aveva chiamata. «Sì?» «Questi sono i risultati delle sue analisi e di là c'è il dottor Marcocci che vorrebbe parlarle un attimo.» «Grazie mille, ora arrivo.» Guardò Zlatan. «Scusami un attimo Zlatan, puoi aspettarmi nel mio ufficio? Faccio subito.» «Non ti preoccupare, posso aspettare.» «Conosci la strada, vero? Ah, già che ci sei, puoi poggiarmi questi sulla scrivania?» Gli diede i fogli che le aveva appena portato l'infermiera e si avviò con lei. Zlatan percorse il corridoio opposto e si fermò davanti all'ufficio di Sveva. Prima di aprire la porta diede uno sguardo alle carte che aveva in mano. Non voleva fare l'impiccione ma l'occhio gli cadde su un foglio in particolare. Sopra c'era scritto: Test di Gravidanza. Questi sono i risultati delle sue analisi. Test di gravidanza. Sveva aveva fatto un test di gravidanza? Entrò in ufficio con il cuore a mille e senza pensarci due volte aprì il foglio ripiegato per leggere il risultato. Positivo. Sveva era incinta. E di chi era? Di Mark? No, era impossibile. Allora doveva essere dell'ex fidanzato di Sveva. Magari proprio quello che aveva visto con lei in quello stesso ufficio. Sconvolto dalla scoperta che aveva fatto, si lasciò cadere sulla sedia e fissò il vuoto davanti a sé fino a quando non si aprì la porta. «Eccomi. Scusami per il piccolo imprevisto...» Zlatan scattò in piedi. «Devo andare.» «Di già? E il nostro caffè?» «Magari un'altra volta. Scusami» corse fuori.
Sveva rimase a guardare Zlatan che si allontanava nel corridoio, imbambolata. Non riusciva a capire cosa avesse potuto sconvolgerlo tanto. Era stata così felice di vederlo, così felice che l'avesse chiamata... E ora era praticamente scappato. Si sedette alla scrivania e guardò il mazzo di rose poggiato in un angolo. Cosa diavolo gli era preso? Perché era andato via così? Sospirò e si allungò per prendere le analisi che quella mattina aveva fatto Valentina, la compagna di Ignazio. Aprì il primo foglio e sorrise. Per sicurezza controllò anche le analisi del sangue. Prese il telefono e chiamò subito Valentina. Quella sera avrebbero festeggiato l'arrivo di un altro bebè, suo fratello stava per diventare di nuovo padre.
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Sabbia sulle cosce
Sabbia sulle cosce. Gratta, gratta, a volte fa male, ma è così piacevole! L'ho sempre adorata. Stare lì, così, accovacciata nella buca sabbiosa che ho ricavato tra una sdraio e l'altra, mi fa sentire un animale. Una creatura del mare, tipo una foca, o un granchio. Una primitiva. E, oh mamma, quanto mi piacerebbe esserlo davvero. Un ammasso di cellule, ciccia, ossa e muscoli con nessun altro scopo se non quello di vivere.
E giocare, ovviamente. Selvaggia, rumorosa, sufficiente a me stessa. Invece ho dieci anni e quando questa estate cederà il posto all'autunno inizierò la scuola media. Ne ho una gran voglia, a dire il vero! È roba da grandi, un salto verso il domani, un'idea bellissima e nuovissima. Qualcosa che fa un po' paura, sì, ma che mette a disagio solo perché ancora non la conosco. Ne sono certa. Come quella sera di qualche mese fa, quando i miei stavano guardando "The Village" e io sarei già dovuta essere addormentata, al sicuro nella mia cameretta. Solo che non lo ero. Avvolta nel pigiamino blu, ero scivolata silenziosa come un furetto dal mio letto al corridoio; da lì, avevo provato a fare capolino dalla mezza parete che si affaccia sulla sala. Era tutto buio, ma le facce di mamma e papà erano illuminate dalla luce rossastra del film.
Mi ero messa sulla punta dei piedi per vedere lo schermo anch'io. Ed eccolo lì, il mostro di "The Village"! Era sbucato all'improvviso proprio mentre mi stavo sporgendo per curiosare. Ero tornata nel lettino con la coda tra le gambe, spaventatissima. Ma in realtà non avevo visto chissà cosa, giusto uno scorcio. Un microsecondo di quel mostro prima di scappare via. Mi aveva spaventata, molto, e mi era rimasto in testa per tutta la settimana, con quel suo mantello rosso, gli artigli e le zanne.
L'avevo anche disegnato, a un certo punto, da tanto era forte il bisogno di buttarlo fuori dalla mia mente! Mamma aveva visto il disegno e se n'era accorta. Mi aveva chiesto se per caso volessi parlarne e rivedere quella scena insieme a lei e papà, per far andare via la paura. Avevo detto sì e così avevamo fatto. Wow, a vederlo bene quel mostro non faceva per nulla spavento. Anzi, mi era sembrato quasi carino. Avevo sempre avuto un debole per le creature bizzarre. Sicuramente poteva venirne fuori un bel costume di carnevale per l'anno successivo.
Ecco, sono sicura che andare alla scuola media sarà proprio così. Mi sento nervosa e preoccupata, ma solo perché devo abituarmi e guardare tutto da vicino per la prima volta. Sarà fantastico; una cosa da grandi.
Sabbia sulle cosce. Mi metto a sedere e continuo a scavare, a giocare con la poltiglia sabbiosa che mi si forma nelle mani che ho appena immerso nel secchiello. Stravaccato sulla sdraio più vicina, c'è il nonno. Legge il giornale, borbotta qualcosa che non sento — c'è talmente tanto rumore lì, tra coccobello e la musica sparata a tutto volume dalle casse dei bagni 52. Sull'altra sdraio, la nonna. Si abbronza, i grandi occhiali da sole leopardati le coprono quasi tutta la faccia.
Sono loro i miei compagni di vacanza a Riccione. Mamma e papà sono ancora a casa, ci raggiungeranno più avanti. Mi mancano un po', ma diventare grandi è anche questo, no? Cavarsela da soli. Come una primitiva. Come una foca, o un granchio.
E, in fondo, non è per nulla male. Anche se…
Gratta, la sabbia gratta. Ora un po' più di prima, la sento sfregare sulla pelle delicata dietro le ginocchia: mi dà fastidio. La mia schiena è sudata. Da quanto tempo sono lì tutte quelle goccioline di sudore? Boh. Ma quanto rumore!
Pusch mi, en den giast tuch me, til ai chen ghet mai, satisfachton, satisfachton…
Quella canzone tutta agitata e dal suono che mi ricorda un po' le caramelle acide mi piace anche, parecchio, ma è tipo la quinta volta che oggi la mettono su e adesso inizia a trapanarmi le orecchie come non aveva mai fatto prima, mi entra giù nel collo e mi fa tremare le spalle. È troppo.
Quella sensazione pulsante corre da lì fino alla pancia e poi un po' più in basso, verso un punto a cui non penso quasi mai, se non per gioco o quando guardo i documentari sugli animali e a un certo punto il narratore spiega come avvengono gli accoppiamenti e le nascite dei cuccioli. Una piccola fitta proprio al centro, poi quel dolore sconosciuto si sdoppia e si sposta verso i fianchi. Ma come è possibile? Non mi era mai successo prima che il mio corpo avesse male in più punti contemporaneamente, non in quel modo.
Oh. Forse ho capito.
"Nonna?"
"Che c'è, Martinina?"
"Devo andare in bagno, posso? Mi scappa la pipì."
"Vai, vai."
Ma non è vero che mi scappa la pipì. Le toilette sono all'ingresso della spiaggia, proprio vicino agli spogliatoi e alle cabine dove William il bagnino mette tutti gli oggetti smarriti che ritrova sulla spiaggia dopo l'orario di chiusura. Entro in quella libera: dentro c'è odore di caldo, sabbia bagnata, sudore e acqua sporca. Non è certo gradevole, ma non direi che sia una puzza brutta; fa anche quella parte dell'estate e di Riccione. Mi abbasso la parte sotto del costume e mi siedo sul gabinetto. È tutto così buio, ma un po' di sole filtra in linee sottili dai tagli verticali della porta verniciata di bianco: guardo l'interno del costume.
Sangue. Sangue? Una macchiolina tutta rosa, pallida, sembra quasi un gioco di luce. Ma non è un gioco, è sangue vero. E il rosso sulla carta igienica che uso subito dopo me lo conferma.
Le mie cose. Urrà! Viva! Wow! Sono felicissima! Che emozione! Sono appena diventata una signorina. Mamma me ne aveva parlato. E anche nonna, anche se in un modo un po' da persona vecchia. Non sono impreparata, ho più o meno capito di che cosa si tratta e che cosa significa quando arrivano. Sapevo che le avrei avute anche io, prima o poi, ma mi sembrava una cosa fin troppo da ragazza grande: un'idea lontana, distante dalla mia vita di bambina che ancora gioca con il secchiello e fa le vocine per dare vita ai suoi pupazzi a forma di cavalli e draghi. E, invece, eccole lì, nelle mie mutandine. Sono una piccola donna.
Plic, plic. Un'altra scossa tiepida mi strizza la pancia e altro sangue scivola via da me, cadendo nell'acqua del water. Oh, ma allora è proprio una roba seria, qui c'è da dirlo a qualcuno. Mi pulisco come posso, tiro su il costume e torno dai miei nonni; felice, orgogliosa, con il cuore che mi batte a mille.
Ci affrettiamo a tornare in hotel, manco stessimo scappando dall'arrivo di un tornado. Nonno viene spedito prontamente a comprare degli assorbenti in farmacia — tornerà più tardi con quattro confezioni di marche diverse, due da me inutilizzabili, una troppo ingombrante, l'altra più o meno adatta; e anche dei cioccolatini.
Nonna si occupa di me. Mi dà un ricambio, mi spiega come lavarmi, mi chiede se sto bene. E io sto bene, eccome. Questa è una giornatona, è appena successa una cosa talmente importante che non riesco ancora a crederci. Chiedo a nonna di poter usare il cellulare per chiamare la mamma e dirglielo. Però, quando la voce di mamma tocca le mie orecchie e sento la curiosità elettrica di mia nonna agitarsi sopra la mia testa, in attesa che io mi sbrighi a dare la notizia, la mia euforia viene meno.
C'è qualcosa che non va. Qualcosa che non quadra. Io voglio dirlo alla mamma, ma le mie guance diventano tutte rosse e calde. Sento una sensazione spiacevole pizzicarmi la nuca, gli occhi e la gola. Non mi è estranea, l'ho già provata prima, quando le maestre mi rimproverano per qualcosa davanti a tutti o gli zii chiedono che io reciti la poesia di Natale davanti a tutti subito dopo aver mangiato gli struffoli e prima di scartare i regali. Imbarazzo. Vergogna. Che strano, non mi ero mai imbarazzata per qualcosa che riguardasse il mio corpo. Mai. E poi, perché nonna continua a darmi dei colpetti di gomito, esigendo che io dica quello che è successo? Che fastidio! E se non volessi dirlo? E se volessi che sia una cosa solo mia? Perché non può essere solo mia? Cos'è, se una cosa esce da te allora diventa di tutti?
Beh, comunque glielo dico, ovvio.
"Oggi ho ripassato le tabelline. Ho fatto un po' di matematica con nonna. Ah, e… e… emisonovenutelemiecose, ciao!"
"COSA?!"
È divertente, in fin dei conti. Sento mia madre inchiodare con la macchina — sta tornando a casa — e balbettare qualcosa, tutta agitata ed emozionata. Seguono un po' di coccole fatte a voce, parole di conforto, congratulazioni, domande e qualche lacrima. Mamma è buona, non vuole sottrarmi quel momento importante che, a voler ben vedere, appartiene solo a me. Ma certe cose deve dirmele, è così che funziona il mondo. Deve dirmi che sono diventata signorina. Deve dirmi che ora ogni mese sarà così. Deve dirmi che è tanto, tanto felice per me. Deve dirmi che sono entrata nel club delle ragazze grandi. Deve, e lo fa con dolcezza.
Ed è bello sentirsi così speciali, grazie a quelle parole. Ma l'imbarazzo non se ne va.
Quel pomeriggio non andiamo al mare. Nonno se ne sta nella hall, a leggere il giornale e chiacchierare. Nonna e io ce ne stiamo in piscina. O meglio, siamo sedute a un tavolino vicino alla piscina. Lei beve un caffè, io un succo alla mela. La pancia mi fa un po' male, ma non è per nulla insopportabile. Anzi, mi fa quasi piacere sentire un dolore nuovo: quei pizzicotti che arrivano dall'interno mi ricordano che tutto sta funzionando proprio come dovrebbe e mi incuriosisce scoprire tutte queste sensazioni che il mio corpo di signorina può provare.
"Martinina," fa mia nonna, "ora sei una donnina, lo sai, sì?"
"Certo!"
"Ora sei diversa. E stai attenta, perché anche gli uomini sanno che sei diversa."
"Eh?"
"Ora puoi avere figli. E gli uomini ti vedono."
Ma in che senso? La guardo aggrottando le sopracciglia, con i baffetti sporchi di succo. Lei si sporge per pulirmi con un tovagliolo e fa un gesto generico verso gli altri tavolini vicini al nostro.
"Mah, tipo quello, quello ti guarda."
Quello è un uomo, in effetti. Un signore che non ho la minima idea di quanti anni abbia, potrebbe averne trenta come anche sessanta, per me sono tutti uguali, con quei pantaloncini del costume sempre blu o grigi, i nasi un po' scottati e le gambe pelose. L'ho già visto prima, è un ospite dell'hotel e gli piace stare in piscina. Mi sta guardando, è vero. E non è la prima volta, ora che ci penso. Mi ha guardata anche ieri, e l'altroieri. Mi guarda quando aspetto che le crepes siano pronte a colazione. Mi guarda quando rido alle battute degli animatori la sera. Mi guarda quando gioco nell'acqua della piscina. Ma, ehi, che problema c'è? Anche io guardo le cose attorno a me.
Ma adesso è diverso. Mi guarda. E io lo guardo. Lo guardo e vedo il nemico. Vedo il pericolo. Ed è un nemico diverso da quelli che nascono durante i giochi di fantasia che faccio ancora con i miei amici al parco o nel cortile della scuola. Quelli sono finti, iniziano e finiscono quando voglio. Dietro di essi ci siamo solo noi, i bambini, e noi ci conosciamo, ci fidiamo della bontà dei nostri compagni. Io mi fido di loro. I "facciamo finta che" funzionano, in fondo, perché so che Matteo, Samira o Anna non vogliono farmi male per davvero. Farsi male non è divertente e mette nei guai. È un gioco, solo un gioco. Mi fido di te, tu ti fidi di me, e i nemici sono solo una maschera spaventosa da mettere e togliere tra mille risate.
Ma quello è un nemico diverso. È un nemico vero. Non finisce e non inizia. Non finge. Non gioca. Non ha maschere. È, semplicemente è, un pericolo. Lo sento.
È stato risvegliato dal mio sangue, come una bestia magica? L'ho creato io, quel pericolo, con la macchiolina rosa nel mio costume, o è sempre esistito? Se fossi ancora senza macchia e senza sangue, sarebbe diverso? Non lo so, io davvero non lo so.
"Non dare confidenza, sai, agli uomini che non conosci. Non puoi, ora."
"Ok."
Di nuovo, imbarazzo. Vergogna. Torno a dare attenzione al mio succo alla mela. Sento una gocciolina umida scivolare sull'assorbente. Più quel sangue esce, più ho la sensazione che un velo si stia alzando. Mi sembra di vedere le cose in modo diverso, un po' come quando mi diverto a mettere e togliere e mettere e togliere gli occhiali da sole leopardati di nonna: quelli hanno le lenti rosate e il mondo sembra fatto di zucchero filato e sciroppo quando li indosso. Poi quando li tolgo tutto torna normale, tendente al grigio. Ecco, è così: è come se avessi cambiato le lenti. Ora tutto sembra più vero, concreto, reale, presente. Io sono presente, lui è presente. Il mio corpo è reale, il suo sguardo è reale.
"Nonna, sai che non ho ricoperto la buca con la sabbia? L'abbiamo lasciata tutta aperta."
"Vabbè, Martinina, ci pensa William."
"Magari domani la trovo ancora lì, per giocare."
"Certo."
E spero davvero sia così. Spero che la buca sarà ancora lì. Così potrò accovacciarmi, come una creatura del mare, tipo una foca, o un granchio. Una primitiva. Oh mamma, quanto mi piacerebbe esserlo davvero. Un ammasso di cellule, ciccia, ossa e muscoli con nessun altro scopo se non quello di vivere. Sufficiente a me stessa
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