#ritualità femminile.
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pier-carlo-universe · 12 days ago
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Uscito il libro di Valentina Geissler e Paola Minussi “Rituali Armonizzanti con gli Arcani”, 7 trattamenti di benessere ispirati a 7 Archetipi del Femminile tratti dai Tarocchi di Marsiglia
Paola Minussi, autrice già nota per le sue opere precedenti, e Valentina Geissler sono in uscita con Rituali Armonizzanti con gli Arcani (Amazon), un libro che ci conduce in un viaggio originale e avvincente alla scoperta di sette esperienze di benessere e bellezza. Due donne molto diverse tra loro, a partire dall’età anagrafica, ma entrambe curiose e capaci di collaborare per fondere le…
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booksinprogressmilano · 2 years ago
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Travestimento
Marialba Russo
Postcart, Roma 2016, 84 pagine,  fotografie in b/n,  21 x 31 cm, ISBN  9788898391493
euro 35,00
email if you want to buy [email protected]
Marialba Russo, tra il 1975 e il 1980, realizza una serie di ritratti nell’ambito della cultura del travestimento in Campania, in cui l’antropologia culturale dialoga con il progetto artistico.
“Uomini abbigliati e truccati da donna, per i quali travestirsi vale un po’ come spogliarsi: è un modo di liberarsi dal consueto e dal quotidiano, di spingersi oltre le colonne d’Ercole del genere e della categoria. Un modo che, seppur vissuto inconsciamente e nell’ambito di una festa carnevalesca di oggi, affonda le sue radici in una selva di antichi miti e di riti transculturali che avevano lo scopo di riconnettere gli opposti. coincidentia oppositorum qui significa far riaffiorare sulla superficie del corpo e della comunità le possibilità di un dialogo effettivo tra le polarità di maschile e femminile, ritualità magica per favorire la fertilità ed esorcizzare la morte; sono coincidenze che travalicano i confini geografici e che si riflettono in una modalità operativa arcaica per cui il superamento del genere sessuale, che rivive oggi nel travestitismo uomo-donna di sagre e carnevali di questo tipo, porta in sé la memoria segreta di remoti riti propiziatori e apotropaici che avevano la funzione di connettere con il sacro, il divino e il magico.”
06/04/23
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blogexperiences · 8 months ago
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MIF di Muravera - DOMUS ARDET. Mostra personale di Ak2deru
Il Museo dell’Imprenditoria Femminile di Muravera è lieto di annunciare la mostra personale “Domus Ardet” di Ak2deru. L’esposizione sarà visitabile dal 1 agosto al 15 ottobre 2024 e promette di offrire un’esperienza immersiva unica, che esplora le profondità dell’essenza umana. La mostra trasporta i visitatori in un mondo simbolico, immersivo, dove il senso della ritualità è esplorato attraverso…
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sguardimora · 9 months ago
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Ieri sera, in occasione della festa di riapertura del teatro con la prova aperta di Collettivo Cinetico, è stata inaugurata la nuova esposizione nel foyer D.E.A., dal titolo Succulente.
Questa mostra è particolare perché le immagini sono tavole tratte dall’omonima graphic novel di Annalisa Trapani che ha curato i testi e Laura Nomisake che ha invece disegnato le tavole.
È un fumetto che mi sembra riprenda quel filone del fumetto auto prodotto che dagli anni ‘70 in avanti si concentra in particolare sulla tematica della ricerca dell’identità, declinata in questo caso in una dimensione del femminile.
Si tratta di una sorta di storia di formazione: è l’esperienza di crescita e di consapevolezza di un’adolescente come altre, in un certo qual modo in linea tematicamente anche con il lavoro che vedremo a breve. Non c’è una narrazione vera a propria ma a partire dal primo racconto più lineare Mausoleo, la storia si decostruisce nei due racconti successivi, Breccia e La Perla Lemniscata, dove la fa da padrone la poesia e un montaggio minimalista tra parole e immagini, costituite da un equilibrio tra spazi vuoti e linee tracciate nel bianco o dal nero.
Leggendo questo tre racconti mi è sembrato che negli ultimi due si rende visibile la processualità dell’esperienza di crescita e consapevolezza di sè della protagonista del primo racconto. E questo stato di visibilità, di resa appunto visibile di una trasformazione, è dato da una sorta di radiografia interna del corpo e della mente della protagonista.
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[ph. Mauro Baratti]
E ciò emerge chiaramente anche nel disegno. Se in Mausoleo c’è a livello cromatico un equilibrio tra il bianco e il nero, nei due racconti seguenti sembra di entrare nella testa, nel corpo della protagonista: in Breccia è il nero a dominare mentre in Pietra Lemniscata il bianco ha il sopravvento sulle linee nera. È un passaggio. Dal caos alla luce.
In Mausoleo utilizzando la ritualità del camminare, del viaggio attraverso spazi e paesaggi onirici, la protagonista scopre pian piano qualcosa di più di se stessa. C’è la metafora del fiore, che unisce maschile e femminile superando la dualità, il binarismo, semi e piante resistenti fin dal titolo e che permeano le tavole simboleggiando l’autodefinizione e il riconoscimento di un essere che cerca di smarginarsi da ciò che l’educazione e più in generale la società impone ai corpi.
Siamo in un luogo a metà tra il sonno e la veglia, dove la protagonista, ricercando forse tra i resti dell’infanzia per decifrare chi è oggi, si ritrova oltre le pieghe e i limiti imposti. È in sostanza una storia di autodeterminazione di un corpo femminile.
La mostra sarà visitabile fino all’inizio di agosto nei giorni di apertura del teatro o scrivendo a [email protected]
In consultazione e in vendita ci sarà anche la graphic novel Succulente.
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autolesionistra · 5 years ago
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Cronache Vacanziere Tardive #2
La pipì in mare
Non abbiamo dati certi sulle abitudini dell'Homo habilis ma è plausibile che la nobile arte di pisciare in mare sia contestuale alla sua comparsa sul pianeta, circa due milioni e mezzo di anni fa.
Questo fenomeno storicamente non ha portato a conseguenze di rilievo se si tralascia la posizione oltranzista di mio zio che si rifiuta di frequentare l'alto adriatico d'estate sostenendo che rapporto fra il numero di gente che piscia in mare e la volumetria delle acque non possa garantire una balneazione salubre. Argomentazioni forse non sostenute dalla letteratura scientifica ma onestamente non mi sento di contraddire chiunque voglia evitare l'alto adriatico a prescindere dalle motivazioni.
Dopo intense osservazioni di bagnanti dovute all’essermi scordato più volte di portarmi dietro il libro che stavo leggendo arrivo alla conclusione che l'attività orinatoria marina presenti spiccate differenze di genere: se da un lato è più complicato stabilire quando un maschio stia dando un suo personale contributo alle acque (fatti salvi alcuni casi in cui l'operazione pare comporti l'urlare agli amici "state lontani, sto pisciando"), il genere femminile rispetta una ritualità rigidamente codificata che andremo ad analizzare.
La donna si alza dalla sua compagnia ombrellonifera, che sia il fidanzo, la fidanza o il gruppo di amici e senza proferir parola si dirige verso il mare. I due elementi che caratterizzeranno l'intera durata dell'operazione sono lo sguardo assorto e fisso verso l'orizzonte, come ad inseguire una sehnsucht lontana o a prepararsi ad un dibattito filosofico con Umberto Galimberti, e l'andatura lenta e solenne da sacerdotessa di un culto pagano.
Raggiunta la battigia, il soggetto entra in acqua con lo stesso passo regale apparentemente imperturbabile a sbalzi termici, fino a raggiungere il livello cintola (momento che tradisce un po' lo scopo dell'intera operazione perché nessun essere umano sano di mente trova qualche tipo di sollievo dall'immersione in un liquido fermandosi alla panza). Opzionali alcune operazioni di dissimulazione tipo l’accenno ad alcuni passetti o l’immersione di una mano in acqua come a suggerire una possibile indecisione fra il raggiungere la Tunisia a piedi o a nuoto. Ma è un’illusione: espletato il bisogno, avviene il compassato ritorno alla base con un ultimo gesto rivelatore, l’aggiustamento del pezzo di sotto del costume che vista la lentezza di marcia non si sarebbe potuto spostare manco se fosse stata una di quelle mutande di carta che ti danno nei centri benessere.
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bibliotecasanvalentino · 4 years ago
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In Biblioteca puoi scoprire autori e opere che non conoscevi o di cui avevi sentito parlare ma che ancora non avevi avuto modo di leggere. Ed è per questo che abbiamo deciso di dedicare un angolo alla scoperta di questi "tesori nascosti".
Oggi l'opera e l’autrice prescelte sono: "Donne che corrono coi lupi" di Clarissa Pinkola Estés.
Più che un libro, una rivelazione, un viaggio di scoperta attraverso una dimensione di consapevolezza, appartenenza e mistero. Pagine a formare una storia che è calzata perfettamente alle vicende, alle esperienze ed al vissuto appartenente non solo al mio orizzonte personale, ma anche vicino al sentire di chi questo libro (tantissimo tempo fa, ormai!) me l’ha consigliato e, infine, regalato.
Personalmente, fatico ad accostarmi a letture considerate “cult”, casi letterari, indicati quasi come panacea e rimedio certo, con la “pretesa” di migliorare e cambiarti la vita, “attaccandosi” alle tue abitudini, al modo stesso in cui ti affacci e stai al mondo. Tuttavia, ci sono libri che entrano in punta di piedi, avanzano in un sussurro e più che depositarsi tra le braccia, ti fanno inciampare, capitando d’intralcio. Costituiscono un pungolo e favoriscono curiosità e domande, sollevando dubbi e accendendo la riflessione: un insinuarsi delicato ma “rapace” all’attenzione del lettore. È questo il caso dell’opera della psicanalista junghiana, Clarissa Pinkola Estés, la quale affronta in modo originalissimo l’intuizione della Donna Selvaggia, intesa come forza psichica potente, istintuale e creatrice, lupa ferina e al contempo materna, ma soffocata da paure, pudore, insicurezze e stereotipi.
Senza alcun intento dottrinale o marcatamente didascalico, l’autrice si fa interprete di pagine dense, ricche, indimenticabili, un capolavoro di arte, poesia, psicologia e spiritualità. E lo fa attraverso l’espediente narrativo della fiaba e del mito, aspetto che ho apprezzato moltissimo, considerando, da sempre, importante e prezioso tutto quel ricco materiale e quel patrimonio costituito dai racconti popolari, i miti e le fiabe. Proprio attingendo alle narrazioni appartenenti alle più varie tradizioni culturali, il momento della lettura può diventare, in questo caso, anche il luogo del sogno e del reale, del naturale, del ferino e del primordiale, quasi un ritorno all’origine, in una visione spiccatamente femminile, resa sì dalla sensibilità di una donna che scrive di e per donne, ma non solo. L’autrice, di origini ispano-messicane, fonda con questo saggio una vera e propria psicanalisi del femminile, costruita intorno allo straordinario archetipo della Donna Selvaggia, affrontando le tappe di iniziazione della vita di una donna, e cioè quei momenti decisivi e critici (nel senso di cambiamento e trasformazione) che segnano in vario modo le tappe di crescita e sviluppo della psiche femminile. Il tutto è però reso in modo particolare, avvincente, in modo tale da avvicinare e trattenere il lettore, e cioè, raccontando delle storie. Del resto, ogni storia riporta alla luce e narra qualcosa di antico e ancestrale, ha il potere e il profumo di balsamo rinvigorente, lenisce e placa le ferite dell’animo. “Le storie sono medicine dell’anima e portano ancora oggi messaggi profondi e antichi”, come ricorda l’autrice. Alcune delle vicende qui suggerite appartengono al repertorio classico del folklore o del mito, come “Il Brutto Anatroccolo”, “La Piccola Fiammiferaia”, “Barbablù” o il mito di Demetra, altre, invece, sono ascrivibili a culture e paesi meno noti ma non per questo meno affascinanti (“La loba”, “Vassilissa”, “La donna scheletro”, etc.).
La Pinkola Estés non solo è psicoterapeuta, ma anche “cantadora”, sa essere “suadente” affabulatrice, nonché studiosa e appassionata di folklore popolare, un interesse che l’ha portata a compiere numerosi viaggi alla ricerca di tradizioni, culti, ritualità e leggende, che costituiscono il vero bottino racchiuso entro le “rumorose” pagine di questo saggio. E sono fogli rumorosi poiché sollevano domande, scuotono più che placare, offrono una cura (mai definitiva), alzando quel vento sottile che induce ad ascoltare e tacere. È un rimando e un invito all’approfondimento e al raccogliersi, attraverso la lettura dei vari capitoli in cui è suddivisa la narrazione, capitoli ciascuno dei quali incentrato su una o più storie, a suggerire e incontrare il pensiero, il commento, la riflessione dell’autrice. Se è vero, come detto, che ogni storia risuona di un’eco lontana, un riverbero che rapisce e racconta di accadimenti distanti nel tempo, nello spazio e anche, a volte, lontanissimi dal proprio scorcio culturale, tuttavia, ogni storia può diventare la propria storia, con più di un punto di contatto con il quotidiano, grazie a continui spunti di riflessione. L’aspetto più interessante di questa narrazione, a mio avviso, è il suo lasciare più domande che risposte, il tracciare una rotta non già preordinata e immutabile, il segnare un sentiero con la consapevolezza di potersene allontanare e con la possibilità di intraprenderne ramificazioni differenti accettando il rischio di non volgersi indietro.
Qualche cenno sull’autrice… Clarissa Pinkola Estès (Indiana, 27 gennaio 1945) è una scrittrice, poetessa e psicoanalista statunitense, specialista in disturbi post-traumatici. Nata da una famiglia ispano-messicana, all'età di 4 anni è stata adottata da una famiglia ungherese. È cresciuta nei pressi della frontiera del Michiana, a nord del Midwest. Verso la fine degli anni sessanta è emigrata a occidente, verso le Montagne Rocciose, dove è vissuta a contatto con persone provenienti dalle più svariate parti del mondo. Si è laureata in psicologia etno-clinica e si è poi specializzata in psicologia analitica. È stata direttrice del C.G. Jung Center di Denver. Nei quattro anni successivi al massacro alla Columbine High School si è occupata del sostegno psicologico alla comunità. Dopo l'11 settembre 2001 ha lavorato con i sopravvissuti e con i familiari delle vittime della costa occidentale e orientale degli Stati Uniti. Recensione a cura di Rita Pagliara
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I talenti e i saperi delle donne sarde: Mariangela Porcu e l’arte del filet
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«da piccola, guardavo mia nonna che rammendava lenzuola, a me sembravano scritture e quando lei mi chiedeva scherzosamente di leggerle, io inventavo storie». Maria Lai
Una tela, un tessuto incompiuto e un filo …
Riecheggia all’improvviso un nome antico, che pensavo di aver cancellato definitivamente e sepolto dalle tante faccende affaccendate di tutti i giorni... dubito di aver più incontrato, se non nel periodo da topidabibliotecasottointerrogazione cioè tutti i cinque anni del liceo classico...  le Parche o anche le Moire che al liceo ritrovavamo nei testi di latino e greco, le figure mitologiche e che un po’ incutevano paura, la cui tradizione iconografica rimanda a tre tessitrici, una con in mano il fuso, l’altra il filo e infine le forbici…
Ed è la sacralità della donna la chiave di lettura delle tre figure, un tempo attribuita alle dee, colei che genera la vita, ma anche colei che intreccia i destini dell’Umanità, ne è sentinella e guida …. ruolo che appartiene nel nostro piccolo a tutte noi ..certo, forse un po’ più a chi è madre…
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Mi capita qualche volta, non sovente, di vivere situazioni e avere come la sensazione che non siano casuali; magari lontane tra loro nel tempo tuttavia sentirle accomunate da un unico comun denominatore…. Così… Solo pochi giorni fa discorrevo su Maria Lai con un’amica attrice che la interpreterà, dei suoi fili, le trame e di quell’universo femminile che palesa un complesso mondo interiore e misterioso, dove la ritualità, la creativa esplodono in modo straordinario.
E ancora, qualche settimana prima, lo stesso tema e un’altra donna, Chiara Vigo, che ho avuto modo di incontrare personalmente, l’unica maestra di bisso, con la sua arte … dove magia, mistero, saperi millenari si fondono …  
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Oggi … osservo muovere le sue mani mentre con abilità intrecciano i fili e costruiscono le trame della rete… mi lascio cullare da un ritmo ancestrale eppur così familiare, mentre il tempo e lo spazio si confondono e le immagini di simboli pagani e cristiani insieme scorrono nella mia mente: ed ecco un mondo antico sempre pronto a riemergere, da cui non ci separiamo mai, semplicemente perché fa parte di noi, di quella memoria che viaggia attraverso i secoli come segreti di origine divina che le nostre madri ci hanno trasmesso con il nome di “tradizione”.
È uno strano incontro, perché alla fine non faccio domande: è piuttosto fatto di  silenzi, immaginazione, di richiami a quella Sardegna tanto amata, fatta di storie, di emozioni, speranze … semplicemente osservo, ascolto rapita.
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Mariangela, è come un fiume in piena, mi racconta la sua arte, il filet sardo, o meglio il merletto con la tecnica a “filet” (rete ricamata), che ha iniziato a studiare e interpretare circa diciotto anni fa. Si tratta di un’antica tecnica d’intreccio a rete annodata, un’autentica rete usata ancora oggi dai pescatori …. che vedo comporre davanti a me. 
È sorridente e accogliente, vitale e creativa, forte della sua conoscenza e aperta a nuovi orizzonti.  Si definisce una piccola artigiana, e in questo suo chiarimento sento tutto l’orgoglio di attaccamento alla terra. Mi mostra alcuni suoi lavori, in particolare le ultime creazioni, meravigliosi gioielli, borse e cuscini matrimoniali, ricami. Le sue produzioni seguono una linea assolutamente moderna e accattivante, con elementi stilistici e simbolici antichi che reinterpreta con creatività e abilità. 
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È entusiasta dei suoi risultati: ha un obiettivo, trasmettere il knowhow alle giovani generazioni (ha già avviato dei laboratori con le scuole) con la volontà di non disperdere questo sapere, veicolando il messaggio che anche il filet possa rappresentare un modello di nuova occupazione, ovviamente un lavoro faticoso e complesso, non adatto a tutte… non solo un passatempo per signore.
Nel suo laboratorio non siamo sole, è presente un gruppo di allieve che attraverso l’associazione imparano l’antica tecnica.
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Creazioni di estremo fascino, ricercate, con intarsi delicati e complessi che sanno di storia e contemporaneità. 
Trasmettono significati simbolici, memorie, valori. Ne indosso alcune.
Sto scoprendo attraverso il blog un mondo straordinario fatto di piccoli artigiani, quasi nascosti agli occhi dei più, che riflette l’immagine di Cagliari come una bella città viva e originale, complessa, ricca di contraddizioni e laceranti conflitti tra antico e moderno, da cui si generano talenti ed eccellenze.
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Ritrovo il ruolo dell’artigiano quale custode di codici millenari, che è anche infaticabile innovatore, capace di valorizzare i propri talenti e le peculiarità, di fare il futuro, ovvero rileggere e interpretare quella tradizione che si fa progetto. Un mondo che ci dimostra come l’artigianato possa rappresentare un autentico fattore di ricchezza produttiva, di identità e insieme di sviluppo del nostro territorio.
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“Tanti mi dicono ‘ma perché tu fai queste cose assurde?’ perché l'arte fa sempre cose assurde... Non c'è un perché... per esistere” (Maria Lai)
Mariangela Porcu
Trina, Il giardino del ricamo, Pirri
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mauriziomarzano · 8 years ago
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(Vanesas Beecroft, V74)
Il cammino delle Certose, da Padula passando per Napoli, fino a Capri, con uno sguardo all'arte contemporanea.
La certosa di San Lorenzo a Padula è una delle più grandi d’Europa: la costruzione venne avviata nel 1306 e completata nel 1779. Nel 1807, durante il decennio murattiano, l’ordine certosino fu soppresso e il complesso venne depredato. A cavallo delle due guerre mondiali fu usata come campo di prigionia. Adibita poi a sede museale, dal 2002 al 2004, con la rassegna Le Opere e i Giorni ideata da Achille Bonito Oliva, ha acquisito una collezione d’arte contemporanea allestita nelle celle, una volta abitate dai frati. Il complesso sarà ancora attraversato dall’arte contemporanea grazie al progetto Il Cammino delle certose. I percorsi dell’anima (fino al 21 ottobre), che mette in relazione San Lorenzo con la certosa di San Giacomo a Capri e San Martino a Napoli.
A Padula il percorso si snoda a partire dell’antica cucina dei monaci con la videoproiezione di Giovanni Anselmo Particolare (1972/1991), quindi la tela di Michele De Luca lungo il corridoio da cui si accede al chiostro grande. E ancora l’installazione di Lucilla Catania, in blocchi di terracotta, sistemata nel passaggio coperto tra il cimitero antico e il chiostro. Nel quarto del priore i moduli di Salvatore Emblema degli anni Settanta, i lavori di Ettore Spalletti e due tele di Claudio Palmieri. I dipinti di Sandro Sanna sul tema della luce sono nell’Archivium.
Nella corte dei granai l’installazione permanente di Maria Dompè Altum silentium, creata modellando lo spazio lungo le tonalità del verde, utilizzando il rumore dell’acqua e alcuni reperti lapidei appartenenti alla certosa. In occasione della mostra è stato ripristinato l’Orto dei semplici con essenze ed erbe officinali che riprendono la tradizione dell’ordine certosino. Infine, nella sala del Tesoro, il video girato da Vanessa Beecroft racconta la performance VB82 – Thirteen Christs, che si è tenuta lo scorso 14 luglio: nel refettorio tredici performers immobili su un tavolo mentre la processione di trecento interpreti hanno sfilato dall’ingresso della certosa fino al chiostro grande. Stasera, in occasione dell’inaugurazione della mostra, ci sarà il concerto di Markus Stockhausen.
A San Martino il filo conduttore è l’episodio biblico di Giuditta e Oloferne a partire dall’interpretazione che ne dà Luca Giordano nel 1704 nella volta della cappella del Tesoro. Di Luca Giordano sono esposti, per la prima volta nelle sale della certosa, tre studi preparatori: Giuditta e Rebecca, provenienti dagli Uffizi di Firenze, Abramo e Isacco salgono sul monte dalla Società napoletana di Storia patria. Le opere seicentesche (Carlo Saraceni, Artemisia Gentileschi, Guido Cagnacci, Jacopo Ligozzi, Giovanni Francesco Guerrieri) dialogano con i maestri del contemporaneo. La mostra, così, accosta Concetto spaziale di Lucio Fontana (1949) a Saraceni e Guerrieri, ragionando sul taglio come cesura e come fisicità del gesto. Femme Couteau di Louise Bourgeois (2002) evoca invece il tema della mutilazione ma ribaltata sul corpo femminile. La metafora del taglio torna anche nel Grande Ferro di Alberto Burri. Concludono il percorso le opere di Luca Maria Patella, Giacinto Cerone e Paolo Mussat Sartor.
Nella Certosa di San Giacomo a Capri al centro dell’esposizione c’è il dialogo tra spiritualità differenti: da un lato le istallazioni del grande volume Leviticusdi Hermann Nitsch, che riflette sulla ritualità e sui misteri dei culti religiosi; dall’altro le incisioni di Vittorio Pavoncello dai libri della bibbia ebraica. Infine in mostra due opere di Vettor Pisani, Isola d’oro e Isola d’argento, realizzate pensando ai dipinti di Karl Diefenbach, esposti a Capri.
Altro qui: http://www.artribune.com/arti-visive/2017/07/lestate-italiana-di-vanessa-beecroft-dalla-certosa-di-padula-a-firenze/
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paoloxl · 8 years ago
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Quella non è una carezza Le mani non richieste dell'uomo bianco che salvano la donna nera dalla sue isteria: le immagini coloniali che cancellano la lotta Lasciamo che le parole appartengano ai loro luoghi e ai loro momenti. Restituiamo le carezze alla spensieratezza della complicità. Alcune le lasceremo tra i nostri ricordi infantili, altre le potremo portare sulla pelle d’oca delle lenzuola. Accarezzate chiunque vogliate nel mondo, usatele, queste mani, per esprimere l’affetto e la curiosità che scuotono le nostre giornate. Ma non strappiamo le parole dai loro significati. Perché le mani di quell’uomo sul volto di Genet erano tutto tranne che una carezza. Sono state usate e abusate già così tante parole su questo gesto, che urge tornare agli strumenti necessari per riconoscere la violenza, soprattutto laddove si cela dietro mani diverse. Le manganellate sono sì dolorose, e chi ha assaggiato almeno una volta la gelida potenza di un idrante conosce l’arroganza con cui si impone. Ma le mani di un uomo sul corpo di una donna, quando non richieste, non possono essere l’espiazione per queste violenze. Non c’è contraddizione né discontinuità tra il razzismo e gli abusi della celere in piazza Indipendenza e quel gesto che in tanti, troppi, hanno chiamato conforto. Non c’è alcuna mela sana qui, è il terreno da cui l’intero frutteto si è nutrito ad essere marcio. Purtroppo non possiamo lasciar correre, perché un paese intero si sta lavando la coscienza sul corpo di una donna e sulla sua rituale mediatizzazione. Primo dell’obiettivo dell’Ansa, prima di Repubblica e dei giornalisti che citano l’eros e thanatos di Freud, già in origine quel gesto non era confortevole, né naturale, né neutro. Sono neutre le mani di uno sconosciuto che ci tocca nel centro di una piazza? Sono forse neutre le mani di un uomo su una donna? Certo esse possono esprimere dolcezza, stimolo, passione, e allora non saranno neutre. Ma altrettanto non lo possono essere quando controllano, impongono, soffocano. E sono mai state neutre le mani di un poliziotto su un corpo indifeso? Le mani di una guardia su un corpo in lotta? Quelle di un europeo su di un africano? Il potere irrompe sui nostri corpi, li piega, li allontana, li plasma, li fa cozzare, a volte li tocca con mano diretta. La violenza dell’imposizione, del paternalismo e della pietà (nella più disincantata delle accezioni) con cui quell’uomo ha messo le mani sul volto di Genet è proporzionale all’irruenza dell’alba infame che si accompagna ad uno sgombero spietato. Quelle mani rinchiudono il volto di Genet, la chiudono nel suo ruolo sociale di creatura fragile, bisognosa perché donna, lasciando fuori la dignità del suo lottare. La compassione dell’uomo costringe le lacrime ad essere ammissione di sofferenza, negando la rabbia delle urla appena uscite dalla bocca della donna. L’allegoria è immediata: ecco l’uomo che tocca la donna e la salva dalla sua isteria. Poi la prende per mano e la porta via, verso la calma. E per rispettare la nostra ritualità l’hanno sbattuta in prima pagina, volto senza voce e senza storia dell’ennesimo capitolo di storia scritto su un corpo femminile. L’unico spazio mediatico previsto per una donna (africana, povera, per giunta in lotta) è quello delle mani non richieste del poliziotto bianco su di lei. Spazio per il suo racconto non ne rimane. La donna nera è pubblicamente riabilitata dalla mano dell’uomo bianco e in una catarsi collettiva la sporcizia della sua pelle è contaminata dalla purezza del white man, così esistenzialmente consapevole del peso del suo compito di redenzione. La nazione festeggia sulle sue prime pagine, perché la donna è ora presentabile, sopita e ripulita, tra quelle due parentesi bianche. È la luce, è la pace! E anche questa sera si può evitare di porsi domande. Genet la voce l’ha esaurita in piazza Indipendenza, i giornali si sono presi solo l’utile opportunità del colore della sua pelle nel momento giusto, ma chi ha voce e occasione deve ricostruire la storia. Quanti soldati italiani hanno toccato donne eritree durante il colonialismo? Quante donne africane nei secoli sono state toccate da mani bianche e si sono sentite dire “dai non piangere”? Quante donne africane continuano a essere toccate da mani bianche ogni notte? Mai che queste mani abbiano chiesto il consenso... La storia che ci impegniamo a raccontare noi non è semplice e lineare come quella degli scribacchini da clickbait. Non c’è alcuna catarsi e lasciamo Freud ad occuparsi della piccola Dora. Noi raccontiamo delle donne che si ribellano e combattono, in Italia come in Eritrea, ovunque nel mondo esse si trovino, per essere libere da violenze ed ingiustizie. Donne che stanno in prima fila non per assenza degli uomini, ma perché nulla vieta - uomini o meno - che una donna voglia e possa stare in prima fila, con coraggio, a fronteggiare un esercito mandato a distruggere. Ricordiamoci di raccontare queste storie e di farlo in tante, perché saranno troppi i riflettori che vorranno costruire una versione a loro più utile. Raccontiamole ogni giorno, affinché diventi pratica abituale riconoscere l’oppressione dietro ogni maschera, anche la più magnanima. Perché ogni giorno sia una lotta per non farci vincere dal dilagante patetismo paternalistico. Perché io davanti a quella foto non mi commuovo, sento le viscere contorcersi e mi incazzo. Quella non è una carezza, è lo sfregio del potere sulla pelle di una donna. Ed è una violenza.
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wearefragileartists · 6 years ago
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Fragile Artists e Festival del Silenzio 2019 presentano:
>>>> 2 MAGGIO_ FRAGILE_  performance di danza urbana >>> Materia, corpo e una ragazza, Fragile, in un angolo dimenticato dal mondo. Un luogo importante, un rifugio per ritrovarsi. Fragile si presenta in un susseguirsi disomogeneo di immagini vivide che appartengono alla ritualità della sua vita, azioni necessarie a farla sentire viva. In un stato di fibrillazione continua e consapevole, Fragile ricerca il disequilibrio per trovare una sua intima verità. >> ore 19.00, durata 20' > luogo Isola Pepe Verde >>>> 4 e 5 MAGGIO_ FeMale_ installazione performativa >>> Un'indagine su Femminile e Maschile intesi come opposti simbolici che convivono dentro di noi in costante dialogo. Abbiamo intervistato e fotografato uomini a noi "cari" e li abbiamo stampati come Manifesti. Danza e fotografie si contaminano in una installazione performativa in cui i ritratti maschili sono abitati e animati dai nostri corpi femminili >> ore 16.45, durata 3 h > luogo Comune di Milano - Fabbrica del Vapore
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spaziozut · 6 years ago
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Danza creativa Fabritia D’intino “WANNABE” & Federico Scettri Jenny Mattaioli “L.O.V.E. | Landen On a Virtual Earth” Lucia Guarino “RETIRO” Durata 1ora e 30 minuti
BIGLIETTO UNICO 5 €
Info e Prenotazioni Biglietteria Regionale dalla 16 alle 20
tel.07557542222
FABRITIA D’INTINO WANNABE Wannabe è una collaborazione tra la coreografa Fabritia D’Intino e il musicista Federico Scettri, sul rapporto tra danza e musica nella cultura contemporanea. Cosa muove i corpi di oggi? L’immaginario di riferimento è quello della televisione, delle discoteche e dei videoclip. Una normalità fatta di ripetizioni che ci seducono, ci attraggono e ci influenzano e in cui il corpo femminile esiste solo in versione iper-sessualizzata. Così esposti a modelli irreali, forzati ed artificiali veniamo spinti verso la riproduzione e l’esaltazione di un virtuosismo quasi pornografico. La scelta artistica è quella di accogliere tale spinta in una ricerca ossessiva verso un essere altro. La cultura pop occidentale diventa così base contemplativa del corpo in movimento in un viaggio fisico di riconoscimento e liberazione dai codici che ci appartengono e rappresentano. Wannabe è il motore ad andare oltre i propri limiti. Una celebrazione del mainstream che ci nutre e ci muove, malgrado noi. Wannabe nasce nel 2016 all’interno del progetto Sounding di Young Jazz Festival e Déjà Donnè, con il supporto di Spazio ZUT! Nel 2017 diventa un progetto indipendente e vince il ​premio (In)Generazione promosso dalla Fondazione Fabbrica Europa ed il ​premio ​Tu 35 Expanded promosso dal ​Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci​. JENNY MATTAIOLI L.O.V.E. | Landen On a Virtual Earth coreografia e ideazione Afshin Varjavandi L.O.V.E. è un’indagine sulla ‘persona’, tradotta in una potente e virtuosa indagine contemporanea sul corpo. Il lavoro si appoggia non a caso sull’interprete-performer, caratterizzata da una fluidità e una fisicità a tratti astratte ed aliene: come l’acronimo del titolo, “atterrata su una Terra virtuale”, leitmotiv e tacito accordo tra la danzatrice e il coreografo, collaboratori fedeli sin dall’infanzia di Jenny. “Chi siamo noi?”: questa la domanda ricorrente che Jenny interpreta come una portavoce dell’Umanità, incarnando una sensibilità femminile che accomuna una minoranza degli umani, sensibilità che si rivela ogni qual volta siamo spinti ad amare in una terra spesso sorda e cieca, o a cantare in uno spazio insonorizzato, o, come Jenny, a danzare in assenza di gravità. Il tempo e lo spazio sono circostanze e suggestioni, ma, a volte, il corpo e la forma non rispondono fedelmente a queste condizioni. Catalizzatrice e magnetica, Jenny dice di vivere il palcoscenico come se fosse una propria realtà parallela, dove danzare è semplicemente raccontare la vita. LUCIA GUARINO RETIRO concetto e coreografia - Lucia Guarino musica – DJ Pinchado , Pulsar luci – Antonio Rinaldi ...“we must take seriously the idea that public space is a question”... Rosalyn Deutsche La riflessione sviluppa i tre elementi dello spazio: il privato, il pubblico e il momento che intercorre tra i due, il “tuffo” come estremo atto di libertà e coraggio o come accettazione del proprio fallimento. L'incanto è nella sua estetica e l'obiettivo è quello di interpretare l'immagine del ribaltamento del corpo e della cristallizzazione della spirale dinamica che avviene un attimo prima dello “schianto”. L'attimo dove la bestialità e la ragione, tra vertigine, ritualità e coraggio, si incontrano. Il modello, che si riferisce al “Cry for help”, descrive una strategia dell'individuo: attirare l'attenzione su di se e produrre un cambiamento immediato nell'ambiente delle persone a cui è rivolta la comunicazione.
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tracycoltello · 7 years ago
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LEE Il progetto si sviluppa attraverso l’utilizzo del linguaggio performativo e fotografico, nonostante il background pittorico.  Le apparizioni in vari luoghi descrivono il carattere itinerante del lavoro, un viaggio costante verso posti densi di memoria storica, antropologica e personale per sfuggire ai non-luoghi livellanti tipici della globalizzazione (vedi foto). Ciò è ben esplicitato nell’azione di catturare luoghi densi di memoria e altamente connotati. Più di una semplice migrazione, lo spostamento include in sé la ricerca di un nuovo luogo da creare già a partire dai precedenti, dove la memoria, l’identità collettiva e individuale cercano una nuova dimensione in cui esistere contemporaneamente. Lee, il fantoccio che mi accompagna e mi accompagnerà in vari luoghi, è il surrogato di una presenza, è utopico. Non ha sesso (non a caso il suo nome è utilizzato sia al maschile che femminile), nasce da alcuni algoritmi informatici per creare le figure umane. Nasce dalla virtualità, realtà parallela senza tempo, sospesa e dilatata, caratterizzata dallo spazio immateriale. Ho deciso di dargli forma, rendendolo materiale e facendolo uscire dalla virtualità. Attraversando questa soglia, Lee crea un’estensione corporea che si spoglia da qualsiasi significato culturale e si apre verso una nuova ritualità. Nel progetto si legge un certo sarcasmo verso la nostra società liquida, nel reinterpretare i rapporti effimeri fra le persone e le cose, nell’impossibilità di costruire qualcosa di stabile per il futuro. Lee è il surrogato di una presenza che cancella la nostra solitudine, un momento di tenerezza contro la realtà disumana e alienante. Lee agisce come un oggetto/fenomeno transizionale (vedi Donald Woods Winnicott ) creando uno spazio buono, in cui ci tiene compagnia, proprio come farebbe un orsacchiotto con il suo bambino. Lee è un rimando al passato, come il giocattolo dell’infanzia attualizzato nel presente, crea uno “spazio comfortevole”. Uno spazio utopico, ubiquo, inesistente materialmente, ma presente nei legami che si creano tra le persone: il passato, le esperienze, la memoria e i ricordi. Un luogo ideale, poco importa se reale o virtuale, in cui si crea una nuova dimensione etica ed estetica. Nei luoghi dove ho cominciato le performance ho avuto un buon feedback dalle persone, che volevano uno scatto con Lee, di cui erano incuriositi e interessati, scettici o sorpresi, impauriti o affascinati, increduli e sospettosi, inteneriti e partecipativi. Lee è il tramite con cui possiamo proiettare nel futuro la performance e l’azione condivisa, dove il pubblico interagisce attivamente, catturando questo momento per sempre con il mezzo fotografico, realizzato anche da un semplice cellulare, uno dei nuovi oggetti transizionali del mondo post moderno e post industriale che abitiamo.
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persinsala · 8 years ago
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Dodicesima edizione della lucida follia di Gaetano Coccia, Francesco O. De Santis e Antonella Parrella: il Festival Troia Teatro, luogo concreto e ideale dove «la cultura è uno strumento attivo e l’atto artistico ha […] il dovere di provocare il pensiero».
Là dove i Monti Dauni sposano l’Alto Tavoliere e la Puglia nasconde uno dei suoi tanti gioielli, la città di Troia, da ben dodici anni si svolge un festival emblematicamente dedicato all’«incontro tra le arti, fusioni delle lingue, incrocio di culture».
Un «festival vero, come lo si intendeva una volta: appuntamenti concentrati in pochi giorni, prime assolute, debutti, produzioni create per il Festival, la città come luogo di spettacolo», un contesto in cui le arti perfomative si incontrano alla «ricerca di nuove forme artistiche, di nuovi linguaggi, di nuovi punti di contatto tra artisti e fruitori dell’arte, una ricerca artistica libera e senza costrizioni», come a costituire un munifico crocevia espressivo, tanto alto nelle intenzioni quanto ambizioso nelle finalità.
È il progetto di un festival «perfettamente in armonia con la popolazione di Troia» (leggi l’intervista di Francesco Chiaro) che ormai da oltre una decade innerva senza invasività le abitudini di un piccolo comune, trovando una cittadinanza ben disposta a essere attivata alla partecipazione da parte di organizzatori cui, allora, riconosciamo quale primo e non scontato merito quello di aver saputo coinvolgerla in questa reale e non chiacchierata chiamata alle arti.
Uno borgo splendido, la cui fondazione risale alla leggenda, attraente per la collocazione architettonica e paesaggistica, e che abbiamo scoperto in grado di assicurare valore aggiunto alle sue molteplici rappresentazione e «tante attività collaterali tutte gratuite» (i documentari dell’HANDMADE doc fest a cura di Maurizio Borriello, l’arte di strada, Talking About – incontro tra spettatori e artisti a cura di Teatri 35, laboratori per adulti e bambini). Nonostante l’ambizione audace e visionaria dei suoi ideatori, Festival Troia Teatro non sembra affatto anelare ai contorni dell’utopia; esso, piuttosto, è un evento non lontano dalla realtà perché consapevole di quanto sia arduo il connubio (e, allo stato dell’arte, non del tutto raggiunto all’unisono) tra la qualità del progetto (la «resistenza alla logica della cultura passiva, dei raduni di grandi masse in serate di consenso, degli scambi, delle autocelebrazioni, di vetrine senza qualità») e la sua effettiva realizzazione.
Assistiamo alle ultime due giornate di programmazione con in scena il futuro vincitore del Premio Eceplast, Verso Une Flèche della Compagnia Tecnologia Filosofica/Il Corpo Rituale, e l’atteso Panenostro della Compagnia Ragli.
Particolamente suggestivo il tema di questa edizione, il rito nella sua accezione più vasta e, volendo, meno specialistica. Non solo «riti di passaggio, riti di guerra, riti di iniziazione, riti individuali e riti collettivi, riti pubblici o privati», ma anche «una consuetudine, una procedura, una necessità, il thè, la sigaretta, la playstation.». Il rito «come caduta o come rifondazione […] come rappresentazione, come catarsi, come messa in scena […] come trasfigurazione del reale, come possibilità di liberare le energie della collettività».
Uno spettro di riflessione, dunque, ampio e perfetto per Verso Une Flèche, «installazione performativa sull’archetipo della freccia» che, nata privata per un solo individuo, è stata presentata frontale e pubblica nel Cortile del Palazzo Vescovile, una location inopportunamente turbata dai rumori degli adiacenti locali e, di conseguenza, non particolarmente funzionale per l’auspicato invito della Compagnia Tecnologia Filosofica/Il Corpo Rituale a «prendere parte all’esperienza».
Una scena essenziale (sullo sfondo un paglione di paglia intrecciata come bersaglio e in primo piano un cumulo di stracci da cui, nei momenti conclusivi, emergerà con primordiale e precaria gestualità la «complicità di Sara Girardo») e uno sviluppo breve e lineare hanno caratterizzato Verso Une Flèche quale libero ed evocativo disegno di un ambiente ancestrale. In esso, prima dell’abbandono agli indefiniti «paesaggi sonori di pensieri e parole» di Paolo De Santis, Francesca Cinalli dipanerà un gioco acustico e simbolico – rispettivamente – con una lunga foglia di palma e una freccia per così cercare di abbattere i grandi ostacoli che la (de)formazione della razionalità occidentale (la dialettica tra i concetti, il primato della conoscenza, etc) pone preventivamente alla percezione di quell’alterità orientale cui la coreografia fa riferimento, ossia l’apertura al vuoto come precondizione per «una meditazione sul maschile e il femminile; chi è la vittima, chi il carnefice, l’istinto primordiale della caccia; il tallone di Achille; la freccia di Eros; queste ed altre suggestioni».
Al netto delle sbavature di una grammatica incerta nell’essere criptica nelle coreografie, ma didascalica nei costumi, nella scenografia e nel finale (nonostante il sontuoso e straziante estratto dall’Oratorio di Alessandro Scarlatti), nonché timida nel porsi con poca profondità all’interno della domanda fondamentale da cui sorge («sono io che tendo l’arco o è l’arco che mi tende alla massima tensione?», Lo Zen e il tiro con l’arco di Eugen Herrigel), Verso Une Flèche riesce comunque a esibire più le potenzialità che le criticità della propria poetica, anche se l’aver riservato a un solo spettatore l’ascolto reale (tramite cuffie come da performance originaria) ha finito per consegnare al restante pubblico un grave senso di esclusione e marginalità.
Perplessità ben più strutturali accompagnano invece Panenostro, spettacolo vincitore del concorso Per Voce Sola del Teatro della Tosse di Genova.
Non è certo una pregiudiziale avversione al teatro di narrazione e di parola a muovere le (personalissime, of course) note negative di chi scrive: dal fantastico teatro dell’immaginifica Silvia Frasson all’amore senza compromessi del Don Milani di Luigi D’Elia, dallo straordinario Gente come uno di Manuel Ferreira al perfettibile Alfredino di Fabio Bando, la lista del teatro di tradizione di qualità, se non proprio di autentiche perle del genere, potrebbe tranquillamente continuare.
Panenostro è la storia di Giuseppe, un semplice e naif figlio e nipote di panettiere. Giuseppe, milanese ma orgogliosamente originario della Calabria, ovviamente ama fare il pane. La sua vita si identifica con la ritualità dell’impasto, dalla scelta degli ingredienti alla cura dei clienti. È dolcemente innamorato di Lisetta, al punto da dedicarle e nominarle un pane di propria invenzione. La sua vita è lo stereotipo di chi, seguendo pedissequamente le orme patriarcali, si alza presto, va al lavoro, progetta una bella casa e sogna una vita tranquilla in compagnia del pane e di Lisetta.
Al termine di questa netta, interminabile e pedante introduzione al personaggio, cui Andrea Cappadona dona (sic!) un italiano con costante intonazione calabra e sporadiche sentenze dialettali, Panenostro comincia a lasciar intravedere il proprio lato oscuro.
Il quartiere, i propri maestri (padre e nonno), il lavoro, ovviamente, non sono come Giuseppe li aveva sempre immaginati e Milano non è affatto una capitale morale. Dopo aver vissuto «senza falsità, ingenuo», Giuseppe, infatti, viene a sapere che «papà pagava e pure nonno pagava» e la sua «umiltà, palesata con la sottomissione remissiva all’imposizione malavitosa, lo rende inconsapevole finanziatore del meccanismo della onorata ‘ndrangheta calabrese radicata al nord». La reazione è dunque quella di chi decide senza aver realmente scelto, quella del silenzio di chi non denuncia e si fa connivente, accettando non solo di pagare un pizzo mensile, ma anche di vedere cambiate le proprie abitudini produttive (es. la scelta della farina da comprare).
Ma non è per questo che Giuseppe ci sta parlando dalla cella di un carcere. Come ampiamente prevedibile, il suo delitto, infatti, è ben altro. Volendo nobilitare la scelta registica, si potrebbe attribuire un senso di hybris al gesto con cui, di fronte all’ennesima prepotenza degli uomini d’onore, non riuscendo a sopportare l’affronto rivolto a quel pane che rappresentava ciò e colei che più amava al mondo (la Lisetta), Giuseppe decide di farsi giustizia con le proprie mani, infornare letteralmente i due aguzzini e, quindi, favorire il proprio arresto da parte di uno zelante commissario di polizia (suo storico cliente). Così come una componente tragica potrebbe essere (ben) nascosta nella scoperta che a essere spezzata da Giuseppe non sarebbe stata la legge degli uomini, ma quella della vita, e che al suo gesto di ribellione sarebbe seguita una punizione peggiore del male curato («soccombere alla giustizia per avere ucciso, lascia un debito: non avere giustizia»).
Purtroppo, nulla di autenticamente tragico potrà essere individuato in questo Panenostro che, pur essendo lodevole e sostenibile negli ideali di teatro civile e antimafia, si rivela retorico oltre i liveli di guardia e, di conseguenza, pesantemente moralistico. La ‘ndrangheta confusa (speriamo per colpa del caldo) in un passaggio con Cosa nostra, l’assenza di una autentica ritualità del pane che non fosse consegnata alla prolissa restituzione verbale (e a piccole scaramucce con farina e panettoni senza uvetta presentati in scena), la discutibile connotazione linguistica di un milanese se non di terza, quantomeno di seconda generazione (sarebbe stata ben più credibile una parlata lumbard), la preoccupante assenza di variazioni nel tono, negli sviluppi narrativi, nelle soluzioni di regia rispetto al canone di parola e la conseguente debolezza del climax e l’incapacità di destare l’attenzione sono elementi che concorrono all’edificazione di un contesto del quale ad allarmare non è tanto la noia per uno spettacolo che non si interessa del reale dal punto di vista teatrale ma solo letterale, quanto proprio quell’inconsistenza artistica con cui rende incredibilmente una macchietta il proprio contenuto.
Non possiamo, però, salutare questa edizione del Festival Troia Teatro senza un’ulteriore riflessione a margine. Perché, nonostante il relativamente poco tempo vissuto in loco, un aspetto è apparso chiaro ed evidente. Non sono mancati nomi di spessore, così come i carneadi per il grande pubblico, e la bellezza si è alternata alle delusioni; tuttavia il senso di un festival non può essere compresso alla sua programmazione o alla sua organizzazione, aspetti (in particolare quest’ultimo) su cui siamo convinti che Teatri35 continuerà a ragionare per rilanciare virtuosamente la propria azione di promozione di una cultura che possa parlare e agire nella società dall’interno e che sappia rinnovarsi senza piegarsi a vani e astrusi intellettualismi.
Giornate tirate fino a tardi in compagnia di una solare comunità finalmente di non sole maestranze e con cui far evadere la conversazione dalla tematica strettamente teatrale, non devono far passare in secondo piano chi (da Antonella a Monica, da Aldo a tutta l’allegra brigata di volontari) non sta sotto le luci della ribalta e non compare a caratteri cubitali nei comunicati stampa, negli articoli di giornali o delle riviste web, ma risulta fondamentale per la connotazione ecologica di una atmosfera di festa perfettamente riuscita e nel contribuire a un festival ormai pronto, ormai adolescente, a ritagliarsi un posto al sole nel panorama nazionale.
Perché, così come abbiamo ammirato tante piccole grandi occasioni andare in direzione ostinatamente contraria rispetto all’ingenua convinzione che esistano luoghi esclusivi perché istituzionali (da Ad Arte a Calcata alla prima edizione dell’ormai terminato corso di Andrea Cigni a Chiusi, da Collinarea al Mittelfest, da Santarcangelo a Volterra), anche a Troia viene efficacemente promossa la volontà affatto banale che «il teatro si possa fare ovunque e […] in contesti sempre diversi».
L’assenza di voli pindarici, la disponibilità degli artisti, la partecipazione della collettività, di fatto l’attenzione ai legami tra pubblico e territorio, restituiscono alcune delle caratteristiche salienti di un progetto che speriamo possa avere gambe ancora più lunghe e robuste di quelle mostrate finora e su cui Teatri35 sta investendo senza sosta; caratteristiche che, forse, potranno far storcere il naso ai radical che pontificano disfacendo le tele altrui senza aver mai provato a farne una propria, che vedono solo la Cultura con la maiuscola e a propria immagine e somiglianza, sempre pronti a fare la voce grossa in attesa della propria torta da mangiare (magari in termini di workshop o visibilità), ma che lasciano assolutamente ben sperare per il futuro e la mission di questo piccolo, grande festival.
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Festival Troia Teatro 2017
Accabbai Troia Teatro Copia
Ftt17 02 Pirro Laboratorio Origami 05
Ftt17 02 Pirro Licia Lanera The Black’s Tales Tour 20
Ftt17 02 Pirro Maurizio Borriello Workshop Costruzione Imbarcazione 06
Ftt17 02 Pirro Presentazione Xii Edizione 11
Ftt17 03 Pirro Francesco Ottavio De Santis 03
Ftt17 03 Pirro Nicolas Boria Camera Oscura Ambulante 23
Ftt17 04 Pirro Artisti Strada Fuoco 54
Ftt17 04 Pirro Dopofestival Movida Night 69
Ftt17 04 Pirro Premio Skantinato 58 50
Ftt17 05 Pirro 27
Ftt17 05 Pirro Talking About Teatri 35 05
Ftt17 05 Pirro Trasformazione Animata38
Ftt17 05 Pirro Vetrina D’artista 33
Ftt17 06 Pirro 12
Ftt17 06 Pirro Appiccicaticci 32
Ftt17 06 Pirro Francesco Di Bella 50
Ftt17 06 Pirro Residenza 01
Ftt17 Foto Vincitori.pirro 25
Ftt17 Relatori E Vincitori Pirro 24
Ftt17 Verso Una Fleche Pirro 41
Ftt17 Verso Une Fleche Pirro 42
Ftt17 Vincitori E Staff Pirro 26
Matrici 2
Festival Troia Teatro XII edizione è andato in scena Troia, Foggia location varie organizzato dall’U.G.T. (Unione Giovanile Troiana), A.c.t! Monti Dauni Associazione Culturale & Turistica e Teatri35 Ass. Cult. Teatrale con il patrocinio della Regione Puglia e del Comune di Troia
Verso Une Flèche di Francesca Cinalli e Paolo De Santis con Francesca Cinalli e la complicità di Sara Girardo paesaggio sonoro Paolo De Santis produzione Compagnia Tecnologia Filosofica/Il Corpo Rituale
Panenostro con Andrea Cappadona testo e regia di Rosario Mastrota assistente alla regia Dalila Cozzolino scenografia di Marco Foscari produzione Compagnia Ragli
L’attenzione / Festival Troia Teatro Dodicesima edizione della lucida follia di Gaetano Coccia, Francesco O. De Santis e Antonella Parrella: il…
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tuttolionssicilia2015 · 8 years ago
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Visita Amministrativa, il Governatore Vincenzo Spata, del Distretto 108 Yb, incontra i Clubs Lions della Zona 26.
Un lunghissimo percorso, lastricato di mille emozioni incastonate in un gioiello di particolare iridescenza e pregio che in una parola, per i Lions del mondo, è il WE SERVE, questo è ciò che accade ritualmente durante ogni Anno Sociale e nel momento più significativo dello stesso: Il Governatore con al seguito l’intero Staff Distrettuale vanno in Visita Amministrativa nei Clubs distribuiti in nove Circoscrizioni di ben ventisette Zone; è il momento delle verifiche e dei progetti, il momento nel quale il Vertice distrettuale avvicina tutti i Clubs e li incontra nella maniera più diretta.
Solo il Presidente di Club può descrivere, nel dettaglio, il mix di emozioni che si sommano alla passione e l’orgoglio di appartenenza nei 45/50 minuti di durata di tale incontro; durante un Anno Sociale è l’unico momento in cui si troveranno di fronte lo Staff Distrettuale ed il vertice di Club; il Presidente di Club con al seguito il Suo Staff e il Direttivo a confronto con il Governatore, il Suo Staff e il vertice Distrettuale.
Alla visita, iniziata puntualissima alle ore 9:30, per il Distretto, oltre il Governatore Vincenzo Spata, hanno dato la loro presenza lo Staff distrettuale costituito dal Segretario Giuseppe Greco, dal Tesoriere Vincenzo Adamo, dalla Cerimoniere Rosalba Agliozzo, dal Vice Cerimoniere di area Filippo Salvato. L’organico al seguito del Governatore annovera anche il Vice Governatore Ninni Giannotta, il 2° Vice Governatore Vincenzo Leone, il Presidente della IX Circoscrizione Antonio Garufo, la Segretario di Circoscrizione Carola De Paoli e Il Presidente della Zona 26 Daniela Cannarozzo.
Ad uno ad uno i 4 Clubs si sono confrontati con i Rappresentanti del Distretto, si sono sviscerati tutti gli ambiti delle attività programmate, portate a termine e da realizzare; uno screenig a tutto tondo con lo scopo di apprezzare i livelli raggiunti in tutti i settori, che come tessere completano il mosaico articolato e complesso della vita di un Club nell’Anno Sociale di Riferimento.
Quattro i Clubs, che in ordine di anzianità crescente ed uno alla volta, hanno sperimentato la prova del 9 dell’Anno Sociale corrente. Cominciando dal Club Ravanusa – Campobello guidato dal Presidente Carmelo Paci e con al seguito il Segretario Giacomo Gatì, il Tesoriere Salvatore Paci, la Cerimoniere Daniela Cannarozzo e il Direttivo. Segue il Club Canicattì Castel Bonanno guidato dal Presidente Giuseppe Vella e con al seguito il Segretario Pietro Saia, il Tesoriere Giuseppe Lana (assente giustificato), la Cerimoniere Rosa Maria Corbo e il Direttivo. Segue ancora il Club di Licata guidato dal Presidente Agostino Balsamo e con al seguito il Segretario Nicolò La Perna , il Tesoriere Antonio Massimo Grillo, il Cerimoniere Rosario Bonvissuto.
Infine il Club più anziano della zona Canicattì Host guidato dal Presidente Tonino Milazzo e con al seguito il Segretario Salvatore Testa, il Tesoriere Stefano Lo Giudice, il Cerimoniere Antonino Ferraro. I Clubs hanno risposto e incassato l’approvazione a pieni voti.
La Visita Amministrativa è sempre un momento emozionante, ciò accade anche ai “ripetenti” e su questo, per l’appunto, ha fatto eco in un preciso momento la puntuale e attenta Segretario di Circoscrizione Carola De Paoli alla quale è stato tributato da tutti i Presidenti un compiacimento ed un ringraziamento per la “notevole” attività di collegamento tenuta per tutto l’Anno Sociale, risultando validissimo coadiutore del Presidente della IX Circoscrizione Antonio Garufo al quale vanno tributati ogni riconoscimento e apprezzamento per una condotta nel corso dell’Anno Sociale impeccabile e generoso di consigli, in piena sintonia con il Governatore e con una costante, instancabile e garbata presenza tra i Clubs.
Una deroga alla rigorosa prassi delle Visite Amministrative è stata materializzata dalla presenza dell’Assessore Comunale Enzo Di Natali in rappresentanza della Città di Canicattì, delegato dal Sindaco Ettore Di Ventura, tenutario, tra le tante deleghe, le Relazioni Istituzionali. L’incontro con il Governatore e lo Staff Distrettuale si è tenuto tra le due visite, è stata l’occasione per ascoltare il saluto della città e in nome e per conto del Sindaco.
L’Assessore Enzo Di Natali con il suo intervento ha colpito nel segno, la proprietà di linguaggio e le argomentazioni addotte, pertinentissime alla mission dei Lions, ha lasciato tutti i presenti convintamente e positivamente colpiti; la gratitudine ed il compiacimento del Governatore ha tracimato sino a darne ampia menzione in assemblea, incastonando, come pietra preziosa, l’intervento dell’Amministratore che ha dato sottolineatura alla costante e costruttiva cooperazione con i Clubs Lions della città ed in particolare con i diversi tavoli aperti finalizzati ad interventi sulla città e i cittadini amministrati, da parte dei Lions.
200 tra Soci Lions e accompagnatori sono sicuramente, solo a vederli, uno spettacolo, ecco cosa hanno potuto godere gli otto seduti al tavolo della presidenza, con alle spalle 5 labari e difronte i tanti accorsi all’invito dei Presidenti di Clubs nell’avvenimento sicuramente più importante dell’Anno Sociale. Alle Autorità Lionistiche già citate, in sala si è registrata la presenza del Past Governatore in sede Valerio Contraffatto, i Presidenti delle Zone 25 e 27 Gioacchino Cimino e Anna Sparacino oltre a numerosi Officer distrettuali; hanno partecipato altresì al seguito del Governatore l’immediato Past Governatore Francesco Freni Terranova e il Past Presidente del Consiglio dei Governatori Salvo Giacona.
Ebbene una grande festa lionistica farcita di tanta umanità; credo che vedere un così numeroso gruppo di Lions intonare dopo, l’inno Internazionale e quello Europeo, quello di Mameli fa accapponare la pelle. La ritualità del momento e i gesti da compiere mettono a dura prova la capacità anche dei più navigati ed esperti; ma dal tocco di campana del Presidente del Club più anziano a quello finale dato con mano ferma dal Presidente del Club più giovane, una serie di interventi disciplinati dall’autorevolissima, impeccabile e nel contempo dolcissima Cerimoniera Distrettuale che ha condotto, per l’appunto, la cerimonia con timone fermo.
Ascoltati gli Inni, il drappello dei Cerimonieri presenti hanno dato “vita” con la lettura a brani, conseguenziali, degli Scopi lionistici. La cerimonia entra nel vivo e con un momento lieto per l’intero Distretto, l’Ammissione di una nuova Socia da parte del Club Ravanusa Campobello la Signora Accascio Santina; un onore particolare ricevere lo spillino (il Distintivo Lions) direttamente dalle mani del Governatore, una cerimonia semplice ma significativa dove il Socio assume l’impegno di osservare un Comportamento Etico confacente con i principi lionistici e osservare gli Scopi del Lions Clubs International. Ancora un momento di grande soddisfazione per gli Amici di Ravanusa Campobello che dimostrano di essere in positiva controtendenza con una strabiliante crescita associativa.
A questo punto sempre in rigoroso ordine di anzianità arrivano gli interventi dei Presidenti di Clubs: il primo a prendere la parola è il Presidente Carmelo Paci che traccia velocemente i contenuti del programma sin qui svolto e sottolineando l’impegno profuso e gli ottimi risultati raggiunti proprio per la raccolta fondi per i Terremotati del Centro Italia. Il Presidente Paci ritiene di aver centrato, oltre i tanti Service che ha visto protagonista il Club, due importanti obiettivi ampiamente raggiunti e cioè quello della crescita associativa e quello della visibilità.
A seguire il Presidente del Club Canicattì Castel Bonanno Giuseppe Vella il quale nel suo intervento sottolinea l’ormai prossima data nella quale i Lions del Pianeta spegneranno le cento candeline dell’Associazione non governativa più grande del mondo. Gli incontri sono spesso forieri di ricordi e quindi portano alla memoria la “storia”. Certo qualcuno ha dovuto ricorrere anche ai ricordi di qualche socio più “adulto” e questa attenzione ci ha portati ad ascoltare le parole dell’esperiente per eccellenza il Lion più autorevole e di cui questo Distretto può portare il vanto: ovverosia il Former International President Giuseppe Grimaldi – il Lion Italiano con il vanto della Sua sicilianità che ha raggiunto il vertice dell’Associazione e ne ha curato la responsabilità. Queste considerazioni che precedono portano a valorizzare e apprendere dal passato per far meglio nel futuro; il Castel Bonanno è un Club che ha alle sue radici temporali il genere femminile e vive un’esperienza molto particolare: oggi i Lions accettano e auspicano più presenza femminile; nel passato le regole erano un po’ diverse e portarono quelle donne di carattere a costituire un Clubs di Lioness a Canicattì; oggi è scattata una molla che ha portato il Presidente indietro nel tempo, quando la prima Lioness di Sicilia e cioè Natina Seminara, del Club Termini Imerese Sicilia Host (1986) e poi dopo la convention di Taipei (1987), Socia fondatrice del Club Lions Termini Himera Cecere, incontra le due Lioness Clelia Guagenti Giardina e Carmelina Galatioto Li Calzi (e qui scatta in automatico un sentito applauso in ricordo di una bella e affascinante storia che ha arricchito il Lions International così come sottolineava il FIP Giuseppe Grimaldi) che da Lioness fondarono il Club e lo traghettarono fino al marzo 1989 con altre Lioness come Luisa Barra Insalaco, Marisa Cantini Nicosia, Maria Cardella Paci (oggi assente giustificata), Emilia Elia Aronica e Carmelina Cucurullo Di Benedetto e ricevono la Charter del Lions Club Canicattì Castel Bonanno (Oggi è facile dire in coro: “Viva le donne”!!!”).
Ora prende la parola il Presidente del Club di Licata Agostino Balsamo il quale rappresenta ciò che il Club ha saputo esprimere in questo particolare Anno Sociale del Centenario; questo Club ha espresso veramente tanto e bene, portando, egregiamente, in porto iniziative consolidate nel tempo come il Memorial Rosa Balistreri. Il Presidente Balsamo esprime tutto il suo entusiasmo per i riscontri positivi ottenuti nella odierna Visita Amministrativa ed esprime altresì grande compiacimento per il lavoro di squadra che hanno messo in essere i quattro Clubs della Zona 26 sotto la vigile e attenta guida del Presidente Daniela Cannarozzo. I Riconoscimenti ai Soci del Club, in particolare quelli che hanno raggiunto il traguardo dei 30 e 40 anni dimostrando gratificandoli che la “continuità” ed il “credo” dimostrati con la “costanza” e la “tenacia” rappresentano quello zoccolo duro che aiuterà sicuramente a produrre ancora un ottimo WE SERVE.
Chiude il poker il Presidente del Club Canicattì Host Tonino Milazzo il Club più anziano; Milazzo apre l’intervento sottolineando l’importanza di questi incontri, utili alla crescita e alla coesione. L’incisività dell’azione verso il bisogno ed i più deboli è funzione dell’amalgama. Il Presidente Milazzo ribadisce che per continuare il nostro motto, il WE SERVE è necessario concentrarsi e unire ogni sforzo al fine di attuare le quattro sfide del Centenario nelle quattro macro aree (Fame, giovani, vista e ambiente). Il Suo intervento guarda alla memoria e annuncia una iniziativa in onore del compianto Socio Antonio Li Calzi scomparso prematuramente al quale intestare nella Villa Comunale la donazione di una altalena per disabili.
A questo punto iniziano gli interventi dei rappresentanti del Distretto prendendo la parola il secondo Vice Governatore Vincenzo Leone, felice di essere per la prima volta in questa splendida realtà, incontrare i Clubs che dimostrano tutto il loro calore ed il senso di ospitalità; concetto che viene ripreso dal Vice Governatore Ninni Giannotta che invece spesso si è trovato con questi Clubs raccogliendo la positività che esprimono. Interviene anche l’Immediato Past Governatore Francesco Freni Terranova che ricorda invece di essere stato da Cerimoniere Distrettuale 10 anni prima in questa sala e apprezza molto il lavoro di coesione.
Tutti all’unisono esortano Tutti a non abbassare la guardia ed esprimere un buon lionismo adeguato alla tradizione dei Clubs. Prende la parola Salvo Giacona Past Presidente del Consiglio dei Governatori il quale con il suo illuminato intervento propone quel lionismo verace fatto di impegno e lavoro tenendo sempre presenti ed imprescindibili quei valori propri di un Lion e cioè: La Dignità, l’Armonia e la Tolleranza imprescindibili connotazioni che rendono il Lion leader indiscusso nella sua naturale prospezione verso il bene comune e croce rossa per il bisogno che non sono fatti solo di indigenza ma sempre più spesso dalla perdita di valori civili e morali. Valori che i Lions devono sostenere con il buon esempio.
Infine il Governatore Vincenzo Spata visibilmente soddisfatto per aver chiuso bene con le Visite Amministrative, questo lungo percorso che si concluderà definitivamente con la visita al Lions Club di Enna. Il Governatore si compiace dell’ottima accoglienza e riprende la bellissima impressione colta con il saluto portato dall’Assessore Comunale Enzo Di Natale a comprova della sinergia dei Clubs di Canicattì con l’Amministrazione Comunale; Chiede di lavorare anche e soprattutto con il cuore, quinto punto cardinale di questa bussola umana che immagina con il pensiero, l’intelligenza al Nord, le mani che lavorano ad est ed ovest, a sud i piedi che ci servono a camminare e raggiungere i nostri obiettivi ed in fine il quinto e più importante il cuore che guida in direzione del bisogno; luogo dove non può mancare il la presenza fattiva di tutti i Lions.
Giuseppe Vella
Zona 26 Visita Amministrativa, il Governatore Vincenzo Spata, del Distretto 108 Yb, incontra i Clubs Lions della Zona 26.
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