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#ritirata tattica
sauolasa · 2 years
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La bandiera ucraina torna a Lyman. Russi in "ritirata tattica"
Le truppe ucraine costringono alla ritirata e ipotecano il controllo totale dell'importante snodo ferroviario del Donbass. Tragica la sorte di un convolgio umanitario a Kyrylivka
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giancarlonicoli · 1 year
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14 set 2023 17:47
NE VEDREMO DELLE BELLE – NICOLA GRATTERI DIVENTA CAPO DELLA PROCURA DI NAPOLI – E’ STATO ELETTO AL PRIMO TURNO DAL PLENUM DEL CSM (A SUO FAVORE HA VOTATO PERSINO FORZA ITALIA, PARTITO DA CUI PROVIENE GIANCARLO PITTELLI CHE DEL METODO GRATTERI È LA VITTIMA GIUDIZIARIA PER ECCELLENZA) – A VOTARE CONTRO I CONSIGLIERI PROGRESSISTI DI AREA (“SI COMPORTA COME UN PADRE PADRONE”) – LO SCONTRO SULLE TOGHE FANNULLONE E IL TWEET DI CARLO TARALLO (LA VERITA’): "A NAPOLI IMPAZZA IL "GRATTERI E VINCI": SCOPRI LA FACCIA DEL PRIMO POLITICO CHE ACCHIAPPERÀ UN AVVISO DI GARANZIA” -
A Napoli impazza il "Gratteri e vinci": gratta il cartoncino e scopri la faccia del primo politico che acchiapperà nu bell avvis 'e garanzia !!! — Carlo Tarallo (@TaralloCarlo) September 14, 2023
Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” - Estratti
Dopo la ritirata tattica dalla corsa per la Procura di Milano e la sconfitta bruciante in quella per la Procura nazionale antimafia, Nicola Gratteri diventa capo della Procura di Napoli. Ma più dell'esito della votazione del Csm, scontato da un paio di mesi, sono le modalità e le reazioni a dare il senso della nomina.
Gratteri è passato al primo turno a larga maggioranza, con 19 voti tra cui quello del vicepresidente Fabio Pinelli. E la sua incoronazione a capo della procura più grande d'Europa, con 111 pm, è stata salutata da un plauso politico che abbraccia tutto l'arco costituzionale: Pd e Renzi, M5S e persino Forza Italia. Il partito da cui proviene quel Giancarlo Pittelli che del metodo Gratteri è la vittima giudiziaria per eccellenza: arrestato e sotto processo nel maxiprocesso Rinascita Scott, su di lui pende una richiesta di condanna a 17 anni per concorso esterno, in quanto accusato di essere anello di congiunzione tra ‘ndrangheta, mafia e massoneria.
(...)
Enrico Letta lo volle consulente a Palazzo Chigi; Matteo Renzi addirittura ministro della giustizia, ma il suo nome fu depennato dalla lista per mano del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
(...) Nell'audizione al Csm ha suscitato sconcerto l'esposizione del suo metodo, sperimentato a Catanzaro e che intende replicare a Napoli: lotta ai pm fannulloni, accentramento carismatico, minaccia di «derattizzare» la polizia giudiziaria che non si adegui. «Non troverà lavativi», «Si comporta come un padre padrone», «Un uomo solo al comando», hanno detto i consiglieri progressisti di Area, che non l'hanno votato. Delle interrogazioni parlamentari sul caso Pittelli, ha detto che sono «dettate ai deputati dagli imputati agli arresti domiciliari», provocando le proteste alla Camera del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti.
Ora viene il difficile. Napoli non è Catanzaro. Trent'anni fa respinse un mastino come Agostino Cordova. Gratteri in Procura non troverà comitati di accoglienza con ghirlande floreali. Gli uffici giudicanti sono ossi duri. E l'avvocatura ha grande tradizione. Ma Gratteri, al di là della corazza rude, ha già dimostrato flessibilità e arguzia che hanno stupito anche colleghi sussiegosi e sospettosi. Da Reggio Calabria a Milano.
IL PM ANTI ’NDRANGHETA CHE DIVIDE POLITICI E COLLEGHI «AL LAVORO SENZA OROLOGIO»
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” - Estratti
«Mi criticano perché vado troppo in televisione o vado troppo a fare convegni e conferenze e io rispondo: “Voi avete la barca e io non ce l’ho, voi andate in barca ad agosto e io vado a parlare nelle scuole o a presentare libri”. Ognuno col suo tempo libero fa quello che vuole». Quando lavora, invece, «dal lunedì al sabato io sono allenato a fare cinque-sei-dieci riunioni in un giorno, entro la mattina alle 8,15 ed esco la sera, mangio pure in ufficio e mentre mangio c’è quello che viene a parlarmi e io gli dico “Dì tu che poi ti rispondo”, per abbattere i tempi. La Procura è questa, non puoi lavorare con l’orologio, io non ce l’ho».
(...)
Un magistrato conosciuto in tutto il mondo non solo per le inchieste che lo hanno portato in ogni continente, per i blitz da decine o centinaia di arresti, per i maxi-sequestri di droga, ma anche per la sua attività di conferenziere. Oltre trent’anni di lavoro serrato in Calabria — prima a Locri e Reggio Calabria dove divenne procuratore aggiunto, e dal 2016 come procuratore di Catanzaro — che gli hanno garantito popolarità e stima, e ora gli consentono di entrare nel club delle «grandi Procure», quelle che contano. E che però gli sono pure valsi attacchi dall’interno e dall’esterno della magistratura. Ai quali lui ha sempre risposto a tono.
«Ci sono diffamatori di professione, ma ci sono anche migliaia di persone a cui abbiamo dato speranza, e ora la gente denuncia. Io ho due o tre giornali che mi diffamano quotidianamente — ha detto ancora al Csm —, ma c’è una certificazione del 2022 dove si attesta che non c’è nessuna ingiusta detenzione, dal 2016, attribuibile alla Procura di Catanzaro. Ovviamente non posso rispondere ad avvocati, indagati o imputati agli arresti domiciliari che chiamano in Parlamento e dettano interrogazioni parlamentari».
(...)
La sinistra giudiziaria, raccogliendo qualche preoccupazione proveniente proprio dalla Procura (e dall’avvocatura, in verità), ha paventato il rischio di affidare l’ufficio inquirente più grande d’Europa (9 aggiunti e 102 sostituti) a un «capo-padrone» uso ad allontanare investigatori e collaboratori non graditi. Sebbene lui stesso abbia spiegato al Csm di sapere e volere fare il gioco di squadra: «La cosa importante è il coinvolgimento di tutti, se dobbiamo lavorare un punto di incontro sull’indagine lo troviamo, l’importante è che tutti devono lavorare. L’unica cosa che non consento è che nell’ufficio ci sia un venti per cento di magistrati che non lavora, che qualcuno arrivi in ufficio alle 10 di mattina, o che arrivi martedì mattina e se ne vada giovedì pomeriggio. Questo non lo consento a nessuno».
Sembra di sentire la premier Giorgia Meloni quando ha detto ai suoi parlamentari: «So chi di voi lavora e chi no, chi sostituisce i colleghi in commissione e chi sta sempre con il trolley in mano, quando voi avete fatto una cosa io ne ho già fatte due». Invece è il nuovo procuratore di Napoli.
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Filorussi ammettono ritirata da Robotyne, 'scelta tattica'
‘Occupate le alture dominanti vicino al vilaggio’source
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abr · 4 years
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Houston, qui PD, abbiamo un problema - Partecipare a un governo insieme alla «destra sovranista», condizione che, proprio nell'ultima direzione nazionale, si era escluso con toni apodittici, è un problema grosso come una casa. Per ragioni che sono sotto gli occhi di tutti: Salvini sono i decreti immigrazione, (disturbare i manovratori europei "trattando" con loro), la flat tax, Salvini è la ragione per cui era nato il Conte 2.  Tatticamente, poi, sarebbe la terza ritirata nel giro di pochi giorni (dopo «mai più con Renzi» e «avanti con Conte»). Naturale che, a caldo, la reazione è di imbarazzo e preoccupazione. Come faremo a spiegarlo? Come faremo a concordare una linea economica, come faremo di fronte ai primi sbarchi? Il premier incaricato ha rassicurato tutti che la sintesi la farà lui. Ma lo sgomento resta. Prima o poi si andrà a votare. La paura è che il prezzo, per il Pd, sarà altissimo. Come fu dopo Monti. Senza contare che crollano i film che in molti si erano fatti su ministeri, caselle, nomi. Subito è apparso chiaro, però, che la strada era tracciata, alternative non ce ne sono.
https://www.liberoquotidiano.it/news/politica/26130644/nicola-zingaretti-matteo-salvini-governo-draghi-peggior-scenario-possibile-panico-pd-appoggio-esterno.html
Non si andrà a votare, ci vorrebbe una congiunzione astrale di quelle che una ogni millennioo; evabbé, però un certo qual godimento è ancora possibile, grazie agli apprendisti stregoni del Pd. 
Han mandato avanti RottamaRenzi per togliergli le castagne dal fuoco ma riescono lo stesso a rimaner scottati. A Zinga quattro-assi-di-un-colore-solo non rimane che continuare a usare l’unica tattica che conosce: immersioooone, quota periscopio. 
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I tedeschi si stanno riposando dietro le linee del fronte Orientale, le loro tende sono in riga. Tutto è in ordine nella quieta e immobile notte. È freddo, e la neve ghiacciata scricchiola sotto gli stivali di una guardia. Guardando in alto, nota che la neve inizia a cadere 
Improvvisamente un rumore perfora la quiete della notte, un urlo proveniente da un altro mondo, e un “woosh” come se qualcosa di gigantesco e velocissimo si muovesse nell’aria. 
Era forse una risata di donna, quella che si è sentita in lontananza? 
Non c’è rumore di motori, e improvvisamente la guardia tedesca perde la calma e inizia a ansimare “ Die Nachthexen” . 
In un lampo il mondo diventa un’esplosione di fuoco e cenere, e due altre grandi forme attraversano l’aria senza emettere rumore. 
Si sentono le risate di queste creature sovrannaturali dissolversi nell’aria. La guardia si riprende e inizia a urlare all’intero campo, ancora mezzo addormentato “Die Nachthexen, Die Nachthexen!” ( Night Witches). 
Nell’aria tre aerei del 588esimo del reggimento bombardieri. 
Finito l’attacco vengono accesi i motori. E tempo di tornare a casa, riarmare gli arerei e rifornirli di carburante per una nuova missione. 
Una volta atterrate le bombardiere vengono salutate dal commissario Yevdokia Rachkevich. Il 588esimo bombardieri e un reggimento speciale, composto da sole donne provenienti da tutta la Russia, tra i 17 e i 26 anni. 
E sono incazzate come solo le donne possono esserlo contro i nazisti. Dopo un duro corso, sono riuscire a far parle del reggimento 588. 
Alle donne davano divise da uomo, dentro le quali le donne non entravano, e gli arerei in dotazione, Polikarpov PO-2 ( soprannominato dai piloti russi Kerosinka per la sua tendenza ad incendiarsi, dato che era fatto di legno e stoffa) , inoltre questi cosi erano cosi rumorosi da essere chiamati “macchine da cucire” ( nessuno ha mai sentito una macchina da cucire industriale, ma se vi e capitato, potete testimoniare come faccia effettivamente casino). 
Arrivare sopra la contro aerea con questi cosi era come telefonargli per dirgli dove stavi.
Ma come detto in precedenza, quelle erano donne incazzate ( inovaiate) coi nazisti, e quindi  trasformarono lo svantaggio in un vantaggio. 
Primo decisero di volare alto, per restare nascoste. Ma dopo aver fatto le prove capirono che piu di un tot. In alto non ci arrivavano e che “ Coso volante incendiario” faceva casino anche in alto. Quindi optarono per la notte. Ma gli aeroplani facevano casino soprattutto di notte, e allora decisero di andare all’attacco di notte, e arrivate ad una certa quota, spegnere i motori, in modo da non essere udite. 
Grazie alla portata degli aerei fatti di legno e stoffa con un motore appiccicato con la colla vinilica, la riaccensione era immediata, e la capacita di manovra pure, molto più facile di un aereo di ferro.
In questo modo queste ragazze ad un segnale concordato in quota, spegnevano i motori, e ad una certa altezza dal suolo sganciavano le bombe, creando un inferno in terra. 
Poi ri accendevano e volavano via. 
Inosservate, perfette. Impeccabili nel bombardare. 
Dormivano di giorno, e combattevano di notte.  Questo coraggio innaturale, e la loro tattica micidiale, gli fece guadagnare il nome di “ Night Witches” 
Il generale dell’aviazione tedesca Joannes Steinhoff ( che nell’apprendere di un nuovo attacco delle Night Witches possiamo immaginare che avesse la faccia di Hitler nel noto meme) disse “ Noi non possiamo semplicemente accettare che la flotta che ha fatto più danni dell’aviazione tedesca era composta di fatto da donne”
Queste donne non temevano nulla. 
32 donne tra piloti e navigatori, non tornarono mai a casa. 588th bombardieri divenne uno dei reparti più decorati dell’esercito sovietico. Facendo più di 23.000 missioni in volo, lanciando più di 3,000 tonnellate di bombe ( con delle cazzo di macchine da scrivere incendiarie auto combustionanti). 
23 Night Witches furono decorate come “ Eroine dell’Unione Sovietica” . Il reparto fu chiuso sei mesi dopo la fine della guerra, e non autorizzato a volare nella parata della vittoria ( perché si, i russi dicono di aver vinto la WW2). 
Dopo il 1956, quando si fu ritirata Yevdokia Rachkevich si prese carico di rintracciare dove fosse il corpo di ciascuna delle ragazze che era stata abbattuta, per segnare il posto e porgere il suo rispetto a una di quelle incredibilmente coraggiose “ Night Witches”. 
Liberamente tradotto da: youtube.com/watch?v=5YPo8zDkvy4
Fonti storiche: 
https://en.wikipedia.org/wiki/Night_Witches
https://en.wikipedia.org/wiki/Yevdokiya_Rachkevich
https://it.wikipedia.org/wiki/Polikarpov_Po-2
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Vigneti editoriali per il 18 settembre 2022: La politica dell'immigrazione, la ritirata della Russia, il dolore economico #Vigneti #editoriali #settembre #politica #dellimmigrazione #ritirata #della #Russia #dolore #economico #vistoe1 #vistoe1 #vistousa #vistostaiuniti #vistoamerica #visto #immigrazione
Vigneti editoriali per il 18 settembre 2022: La politica dell’immigrazione, la ritirata della Russia, il dolore economico #Vigneti #editoriali #settembre #politica #dellimmigrazione #ritirata #della #Russia #dolore #economico #vistoe1 #vistoe1 #vistousa #vistostaiuniti #vistoamerica #visto #immigrazione
Vigneti editoriali per il 18 settembre 2022: La politica dell’immigrazione, la ritirata della Russia, il dolore economico “Mercoledì il governatore della Florida Ron DeSantis ha portato due aerei di immigrati a Martha’s Vineyard, intensificando una tattica dei governatori repubblicani per attirare l’attenzione su quelle che considerano le politiche di confine fallite dell’amministrazione Biden”,…
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ermatmblr · 3 years
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Li allena un geniale romano, esteta e snob della panchina, maestro di tattica. Dal 1946 Fulvio Bernardini è stato l’unico a spezzare l’egemonia milanese-torinese, con lo scudetto della Fiorentina 1956 vinto con dodici punti di vantaggio sul secondo posto e una finale di Coppa Campioni scippatagli a casa del Real Madrid. Ironico, intellettuale, libero pensatore, è di destra ma rispetto al suo datore di lavoro il rapporto con il fascismo è stato un po’ più conflittuale: nel 1935, mentre guidava a Roma in Piazza Venezia, quasi aveva speronato una Lancia Astura color blu che non gli permetteva il sorpasso, ignaro che a bordo di quell’auto ci fosse Benito Mussolini. Gli era stata ritirata la patente, e per riaverla gli era toccato recarsi a Villa Torlonia e farsi battere a tennis dal Duce, sopportandone la severa accoglienza: «Ha imparato a guidare?».
Il misterioso caso del settimo scudetto del Bologna | L'Ultimo Uomo
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bergamorisvegliata · 4 years
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MAI PIU'
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"Bergamorisvegliata" non è solo scoprire nuove realtà contemporanee, ma anche personalità di alta cultura e di notevole impegno letterario come Alessandro Baricco: scrittore, drammaturgo, sceneggiatore e critico d'arte, Baricco ha vinto il Premio Viareggio nel 1993.
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Questo "pezzo" di disarmante semplicità, bene illustra quella che è la surrealità e la drammaiticità della situazione attuale che ci si trascina ormai da più di un anno, ed è stato scritto per "ilpost", quotidiano attivo "online" e al quale link potete trovare l'articolo dello stesso Baricco.
https://www.ilpost.it/2021/03/09/baricco-mai-piu/?fbclid=IwAR0469NmtPc3yRV4NSvXNVG2VhtDNUymzOvJqIJRbg1JBdVBr5j_wVTw84I
Mai più, prima puntata
«Esiste un’intelligenza non novecentesca? La stiamo formando da qualche parte, in qualche scuola, in qualche azienda, in qualche centro sociale? Abbiamo ragione di pretendere che emerga in superficie nella gestione del mondo, e di pretenderlo con una rabbia pericolosa?»
(E di questa altra morte quando parliamo?, la morte strisciante, che non si vede. Non c’è Dpcm che ne tenga conto, non ci sono grafici quotidiani, ufficialmente non esiste. Però ogni giorno, da un anno, lei è lì: tutta la vita che non viviamo, per non rischiare di morire. Meno male che non la stiamo contando, che non la misuriamo in numeri: non riusciremmo a guardarli, dal disastro che racconterebbero, farebbero impallidire quelli già tragici della prima morte, gli unici che abbiamo la forza di guardare negli occhi. Contiamo i cuori che si fermano negli ospedali, ma non quelli che se ne vanno, che semplicemente se ne vanno. E di questo commiato silenzioso, mansueto, collettivo, generale, vertiginoso, scandaloso, quando parliamo? Adesso.
Ciò che sta succedendo è che umani capaci di vivere non lo fanno più. Non viaggiano, restano a casa, lavorano senza incontrarsi, non si toccano, non si occupano dei loro corpi, conservano pochissime amicizie e al massimo un amore; da tempo riservano al solo ambiente famigliare, notoriamente tossico, gesti come abbracciarsi, lasciarsi guardare in faccia, dividere il pane; disponendo di artisti capaci di generare emozione e bellezza, non li incontrano più; possiedono bellissime opere d’arte ma non le vanno a vedere, e musica raffinatissima che non vanno ad ascoltare; non mandano più i figli a scuola, e d’altronde neanche a fare sport, feste e gite; non escono dopo il tramonto, quando è festa si chiudono in casa. Stanno dimenticando, a furia di non farli, gesti che ritenevano importanti, o quanto meno graziosi: applaudire, urlare, andare lontano, insegnare girando tra i banchi, limonare con qualcuno per la prima volta, andare dai nonni, suonare uno strumento per un pubblico, discutere con gente di cui puoi sentire l’odore, ballare, fare una valigia, andare a sposarsi accompagnati da tutti quelli che ti vogliono bene, giocare a bowling, scambiarsi il segno della pace a Messa, uscire da casa senza sapere ancora dove andare, camminare in montagna, respirare nel buio di un cinema, tenere la mano a qualcuno che muore. Sistematicamente, e con grande determinazione, predicano la solitudine, la scelgono e la impongono, come valore supremo: lo fanno anche con coloro a cui non era destinata affatto, come i ragazzi, i malati e le persone felici. Completano questa grandiosa ritirata dal vivere facendo un uso massiccio e ipnotico di oggetti, i device digitali, che erano nati per moltiplicare l’esperienza e ora risultano utili a riassumerla in un ambiente igienizzato e sicuro. Per concludere: vivono appena.
Ufficialmente è una decisione lucida, razionale. Sorpresi da una pandemia, rinunciano a vivere per non morire. Ma non è così semplice, come l’ingorgo logico dovrebbe costringere a capire. Mi prendo la responsabilità di provare a descrivere la cosa in un altro modo: una certa ottusa razionalità meccanica si è a tal punto fissata sulla soluzione di un problema, da perdere di vista il quadro più complessivo della faccenda, vale a dire quel che chiamiamo il senso della vita. È già successo ripetutamente con le guerre del secolo scorso: l’ossessiva applicazione razionale alla soluzione di un problema (lì spesso era politico/sociale) portava regolarmente a un crollo del valore della vita umana e a una colossale mortificazione del diritto all’esperienza e alla felicità. È un errore che conosciamo, è generato dall’indugiare eccessivo su un frammento, nell’incapacità di avere uno sguardo generale, più alto, più dall’alto. Un deficit di intelligenza. Può portare a veri disastri quando si smetta di ascoltare la vibrazione del mondo, il suo respiro reale, e si finisca per fidarsi solo di quegli avatar che chiamiamo numeri. Di solito, quando ciò accade, ci si appella alla grande capacità che gli umani hanno di soffrire. Tatticamente è una mossa feroce, ma corretta. Detta un compito, inevitabile e giusto.
Così soffriamo, ubbidendo, di questo soffrire, ognuno a modo suo, in ordine sparso, ormai logorati, sempre meno lucidi. Di tanto in tanto troviamo sollievo nel pensare, nel ragionare, trovandovi una radura clemente, socchiusa in questo strano viaggio.)
Rimesse in sella dalla pandemia, le élites novecentesche se ne stanno ben salde ai tavoli di comando della cosa pubblica, dirigendo le operazioni strategiche contro il virus. Ancora una volta si stanno esibendo nel loro numero preferito: there is no alternative, il famoso TINA. Qualsiasi cosa decidano, la ragione per cui lo fanno è sempre la stessa: non c’è altra possibilità. Ma è vero?
Per cercare un risposta, prendiamo un esempio circoscritto. Una decisione tra le altre. Chiudere le scuole. Mentre scrivo, ad esempio, in Piemonte, dove vivo, si sta decidendo di chiudere le scuole di ogni ordine e grado per le prossime tre settimane. Spiegazione: there is no alternative. Ma è vero? Più o meno credo di sapere la risposta: se costruisci la scuola in quel modo, se ti fidi di quella particolare comunità scientifica, se gestisci una Regione in quel modo, se disponi di un sistema sanitario fragile, se l’educazione ti sembra meno essenziale che la produzione del reddito, allora è vero: non c’è alternativa, devi chiudere.
E adesso concentriamoci su quel se.
La figura logica è chiara: se io sbaglio una serie di gesti, arriverà un momento in cui fare una cosa sbagliata sarà l’unica cosa giusta da fare. Traduciamola nel nostro contesto: quella che per brevità chiameremo intelligenza novecentesca non trova soluzioni che non siano obbligate perché quel che sta giocando è un suo finale di partita, la posizione dei pezzi è da tempo determinata da strategie decise nel secolo corso, i pezzi persi non si possono più recuperare, e la stessa postura mentale del giocatore non è adatta a giocare contro un avversario che, invece, muove con una tattica completamente nuova.
Risultato: there is no alternative.
Dato che la cosa porta inevitabilmente a enormi sofferenze collettive, in buona parte gratuite, diventa un gesto di necessaria rabbia sociale interrogarsi su un punto che ormai, per quel che capisco io, è diventato IL punto: esiste un’altra intelligenza, più adatta alle sfide che ci aspettano? Esiste un’intelligenza non novecentesca? La stiamo formando da qualche parte, in qualche scuola, in qualche azienda, in qualche centro sociale? Abbiamo ragione di pretendere che emerga in superficie nella gestione del mondo, e di pretenderlo con una rabbia pericolosa? Tutte queste domande ne portano in grembo un’altra, istintiva, quasi naturale: non è che per caso l’intelligenza che stiamo cercando è in realtà sotto gli occhi di tutti, ha già preso il potere, e non è altro che quella che chiamiamo intelligenza digitale? Siamo quindi presi in trappola nella morsa tra Draghi e Zuckerberg? Is there any alternative?
Vorrei provare a scrivere un testo, su queste cose. A puntate. Poche. Questa è la prima.
-un ringraziamento alla redazione de "il Post.it" per la gentile concessione
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L’assedio al commissariato del Terzo Distretto di Minneapolis
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Traduzione da https://it.crimethinc.com/2020/06/10/the-siege-of-the-third-precinct-in-minneapolis-an-account-and-analysis
Un resoconto e un’analisi
L’analisi che segue è stata sviluppata a partire da una discussione che ha avuto luogo davanti al commissariato del Terzo Distretto quando le fiamme guizzavano dalle sue finestre, nel Giorno 3 dell’Insurrezione per George Floyd a Minneapolis. Avevamo raggiunto un gruppo di persone i cui visi, illuminati dal fuoco, irraggiavano gioia e meraviglia per la strada. Persone di varie etnie sedevano fianco a fianco parlando del valore tattico dei laser, dell’etica della condivisione, dell’unità interrazziale nella lotta contro la polizia, e della trappola dell’innocenza. Non vi erano disaccordi: tutt* avevamo individuato le stesse cose come quelle che ci avevano aiutato a vincere. Migliaia di persone stanno condividendo l’esperienza di simili battaglie. Noi speriamo che preserveranno la memoria di come combattere. Ma l’istante del combattimento e la celebrazione della vittoria non sono commisurabili alle abitudini, agli spazi e ai legami della vita quotidiana e della sua riproduzione. È sconvolgente quanto sentiamo l’evento già distante da noi. Il nostro proposito è di preservare la strategia che si è dimostrata vincente contro il commissariato del Terzo Distretto di Minneapolis.
La nostra analisi si focalizza sulle tattiche e la composizione della folla che ha assediato il commissariato del Terzo Distretto nel Giorno 2 dell’insurrezione. L’assedio si è prolungato all’incirca dalle quattro del pomeriggio fino alle prime ore della mattina del 28 maggio. Noi riteniamo che la ritirata strategica della polizia dal commissariato del Terzo Distretto nel Giorno 3 sia stata una vittoria dell’assedio del Giorno 2, che ha sfiancato il personale e le riserve del Distretto. Siamo stati presenti al combattimento che ha preceduto l’evacuazione il Giorno 3, siamo arrivati proprio quando la polizia stava andandosene. Eravamo in giro per la città in un��area dove la gioventù si batteva corpo a corpo con la polizia mentre cercava di razziare un centro commerciale - di qui la nostra focalizzazione sul Giorno 2.
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Contesto
L’ultima rivolta popolare contro il Dipartimento di Polizia di Minneapolis aveva avuto luogo in risposta all’assassinio di polizia di James Clark il 15 novembre 2015. Erano state due settimane di tumulti, fino al 2 dicembre. Gli assembramenti avevano ripetutamente affrontato la polizia a colpi di scambi di proiettili; tuttavia, la risposta alla sparatoria si era coagulata in una compunzione del vicino commissariato del Quarto Distretto. Organizzazioni come il NAACP e la neonata Black Lives Matter avevano affermato il loro controllo sulla folla che si riuniva; e spesso erano venute in attrito con i giovani ribelli non affiliati che preferivano lo scontro diretto con la polizia. Gran parte della nostra analisi si appunta su come i giovani ribelli afrodiscendenti e ispanici dei quartieri poveri e operai hanno colto l’occasione di ribaltare questo rapporto. Pensiamo che questa sia stata una condizione determinante dell’insurrezione.
George Floyd è stato assassinato dalla polizia all’incrocio tra la 38esima Strada e la Chicago Avenue fra le 20.20 e le 20.32 di domenica 25 maggio. Le manifestazione contro l’assassinio sono cominciate il giorno dopo sul luogo stesso del delitto, dove era stata convocata una veglia. Vari convenuti si sono avviati in corteo verso il commissariato del Terzo Distretto a Lake Street all’incrocio della 26esima, dove i ribelli hanno attaccato i veicoli della polizia nel parcheggio.
Questi due siti sono diventati punti di riferimento significativi. Diversi gruppi comunitari, organizzazioni, liberal, progressisti, e gente di sinistra si sono concentrati sul luogo di veglia, mentre chi voleva configgere si è ritrovato generalmente intorno al commissariato. Questo ha significato una distanza di due miglia tra due folle davvero diverse, una divisione spaziale riprodottasi anche in altre aree della città. Chi è andato a fare gli espropri si è scontrato con la polizia in zone commerciali sparse fuori dalla sfera d’influenza delle organizzazioni, mentre molti dei cortei della sinistra hanno escluso gli elementi combattivi con la sperimentata tattica della “polizia di pace” in nome di un’avversione identitaria al rischio.
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Il “Soggetto” dell’Insurrezione per George Floyd
Nella nostra analisi, il soggetto non è una razza, né una classe, né un’organizzazione, e neanche un movimento, ma è una folla. Ci concentriamo sulla folla per tre ragioni. Anzitutto, ad eccezione degli street medics, nessun partecipante era precedentemente organizzato. La vittoria è stata ottenuta grazie a individui e gruppi indipendenti che hanno coraggiosamente interpretato ruoli complementari e che hanno saputo cogliere le opportunità che si presentavano loro.
I primi assembramenti sono stati per certo chiamati da un’organizzazione afroamericana, ma tutte le azioni che hanno sconfitto materialmente il commissariato sono stati intraprese dopo la fine di questa dimostrazione e da gruppi di persone fuori da qualsiasi affiliazione o sigla. In quel momento, non si è vista praticamente alcuna delle familiari facce di autoproclamati leader comunitari e spirituali. La folla ha potuto trasformare la situazione liberamente. Le organizzazioni fanno sempre affidamento sulla stabilità e la prevedibilità al fine di potere mettere in opera strategie che richiedono molto tempo per essere elaborate. Di conseguenza, i leader delle organizzazioni possono essere minacciati da cambiamenti bruschi nelle condizioni sociali, che possono rendere irrilevanti le loro organizzazioni medesime. Le organizzazioni - anche quelle autoproclamate “rivoluzionarie” - hanno interesse a sopprimere la rivolta spontanea per reclutare invece chi è scontento e infuriato. Non importa se si tratti di un eletto, di un leader religioso, di un “organizzatore comunitario”, o di un rappresentante della sinistra, il messaggio alla folla indisciplinata è sempre lo stesso: aspettate.
La forza che ha trionfato sul Terzo Distretto è stata una folla e non un’organizzazione giacché i suoi obiettivi, i suoi mezzi e la sua composizione interna non erano regolati da un’autorità centralizzata. Questo si è rivelato benefico, dal momento che la folla è ricorsa di conseguenza a opzioni già pratiche ed è stata libera di creare inedite relazioni interne per adattarsi al conflitto in atto. Espandiamo questo aspetto nella sottostante sezione titolata “Lo schema della battaglia e la Composizione”.
La forza nelle strade del 27 maggio era situata in una folla perché i suoi componenti avevano poche aderenze all’ordine esistente che è amministrato dalla polizia. Fatto cruciale, una tregua tra bande è stata chiamata dopo il primo giorno di sollevazione, neutralizzando le barriere territoriali alla partecipazione. La folla proveniva in gran parte dai quartieri afro e ispanici operai e poveri. Questo è stato particolarmente vero per coloro che hanno bersagliato la polizia e vandalizzato ed espropriato negozi. Coloro che non si identificano come “titolari” del mondo che li opprime sono molto più portati a combatterlo e farne sacco quando se ne presenta l’opportunità. La folla non aveva interesse a giustificarsi con gli spettatori ed era scarsamente interessata a “significare” alcunché ad alcuno all’infuori di sé stessa. Non c’erano segni o discorsi solo slogan al servizio dei compiti tattici di “gasarsi” (“Fuck 12!”) e d’interrompere la violenza della polizia esibendo una “innocenza" strategica (“Hands up! Don’t shoot!”).
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Ruoli
Abbiamo visto le persone interpretare i seguenti ruoli:
Supporto medico
Esso include gli street medics e i medici che hanno garantito triage e prime cure in centri comunitari riconvertiti a due isolati di distanza dal commissariato. In altre circostanze potrebbe accadere nei locali di una qualche ONG, in magazzini o in luoghi di culto alleati del movimento. Un gruppo di medici potrebbe anche invadere ed occupare un luogo per la sola durata degli scontri. Gli street medics non hanno interferito con le scelte tattiche della folla e hanno curato tutti coloro che ne avevano bisogno.
Controllori dei canali radio (della polizia) e operatori di canali Telegram
Adesso è una pratica comune in molte città degli Stati Uniti, ma le persone che monitoravano i canali radio della polizia prestando orecchio alle notizie importanti hanno giocato un ruolo cruciale nel creare un flusso d’informazioni dalla polizia alla folla. È quasi certo che nel complesso la maggior parte della folla non ha praticato in sicurezza l’uso dei canali Telegram. Consigliamo i ribelli di installare l’app Telegram su telefoni usa e getta per rimanere informati evitando che gli StingRay della polizia (false antenne di telefonia cellulare) traccino i loro dati personali.
Manifestanti pacifici
Le tattiche non-violente dei manifestanti pacifici hanno supportato due scopi tradizionali ed uno inedito:
Hanno creato uno spettacolo di legittimità, intensificato man mano che diminuiva la violenza della polizia.
Hanno creato una prima linea che bloccava i tentativi della polizia di avanzare quando si schierava davanti al commissariato.
In aggiunta, in una piega imprevista degli eventi, i manifestanti pacifici hanno fatto scudo a chi lanciava oggetti contundenti.
Ogni qualvolta la polizia minacciava l’uso dei lacrimogeni o dei proiettili di gomma, i manifestanti pacifici si allineavano davanti a loro con le mani in alto, scandendo “Hands up, don’t shoot!”. Qualche volta piegavano il ginocchio a team, ma tipicamente solo durante relative pause negli scontri. Quando gli sbirri si schieravano fuori dal commissariato, le loro file si ritrovavano spesso a fronteggiare una linea di manifestanti “non-violenti”. Questo ha avuto l’effetto di stabilizzare temporaneamente lo spazio del conflitto e di offrire agli altri elementi della folla un bersaglio stazionario. Per quanto ci siano stati alcuni manifestanti pacifici che hanno intimato rabbiosamente alla gente di non lanciare cose, sono stati pochi e si sono andati calmando nel corso della giornata. Ciò è stato probabilmente dovuto al fatto che la polizia ha cominciato da subito a sparare proiettili di gomma contro chi lanciava oggetti, il che ha infuriato la folla. Da notare che spesso si è dato il caso inverso - siamo abituati a osservare le tattiche più conflittuali usate per proteggere chi pratica la non-violenza (es., a Standing Rock e a Charlottesville). L’inversione di questo rapporto a Minneapolis ha garantito una maggiore autonomia a coloro che adottano tattiche di scontro.
Squadre di lancio
Le squadre di lancio hanno usato bottiglie di vetro, pietre e rare Molotov contro la polizia, e sparato fuochi d’artificio. I lanciatori non agivano sempre in gruppo, ma farlo li ha protetti dal diventare bersagli dei manifestanti non-violenti che volevano dettare le tattiche alla folla. Le squadre di lancio hanno perseguito tre scopi:
Hanno stornato la violenza della polizia dagli elementi pacifici della folla durante i momenti di escalation.
Hanno pazientemente indotto l’esaurimento delle riserve di munizioni antisommossa della polizia.
Hanno costituto una minaccia all’integrità fisica della polizia, rendendole più costoso avanzare.
Il primo giorno dell’insurrezione, ci sono stati attacchi su diversi Suv della polizia parcheggiati nel commissariato del Terzo Distretto. Questa attitudine si è confermata subito il Giorno 2, iniziando con il lancio di bottiglie di vetro sui poliziotti posizionati sul tetto del commissariato del Terzo Distretto e lungo l’edificio. Dopo che la polizia ha risposto con lacrimogeni e proiettili di gomma, le squadre di lancio a loro volta hanno iniziato a usare sassi. Elementi della folla hanno smantellato la piattaforma in pietra di una fermata d’autobus e l’hanno spaccata per rifornire di ulteriori proiettili. Il calar della notte ha visto l’uso di fuochi d’artificio da parte di qualcuno, che si è generalizzato nei Giorni 3 e 4. Alcuni “Boogaloos” (accelerazionisti del Secondo Emendamento) avevano a loro volta brevemente usato fuochi d’artificio il Giorno 1, ma da quanto abbiamo visto in seguito si sono per lo più ridotti a guardare seduti dai margini. Infine, va notato che la polizia di Minneapolis usava “marcatori verdi”, pallottole di gomma che esplodevano inchiostro verde per contrassegnare i violatori della legge ai fini di successivi arresti. Una volta che è diventato chiaro che il dipartimento di polizia aveva limitate capacità di fare fronte alla sua minaccia e, di più, che la folla poteva vincere, coloro che erano stati inchiostrati hanno avuto ogni incentivo a battersi come diavoli per sconfiggere la polizia.
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Puntatori laser
Nella grammatica del movimento di Hong Kong, coloro che adoperano i puntatori laser sono chiamati “maghi della luce”. Come nel caso di Hong Kong, del Cile e di altri luoghi nel 2019, alcuni sono arrivati pronti con puntatori laser per attaccare le capacità ottiche della polizia. I puntatori laser implicano uno specifico rapporto rischi/rendimenti, dal momento che è molto facile tracciare le persone che li usano, anche quando operano di notte in una folla densa e attiva. Coloro che usano i puntatori laser sono particolarmente vulnerabili se mentre operano in piccoli assembramenti cercano di colpire singoli poliziotti o (soprattutto) elicotteri della polizia: ed è lo stesso anche se l’intero quartiere sta conducendo un esproprio in massa (l’uso diurno di laser ad alta frequenza dotati di mirini resta non verificato, almeno per quanto ne sappiamo). Ma il vantaggio dei puntatori laser è immenso: essi compromettono momentaneamente la visione della polizia sul terreno e possono disabilitare i droni di sorveglianza interferendo con i loro sensori a infrarossi e con le videocamere di orientamento. In quest’ultimo caso, un drone fatto continuativamente oggetto di un puntamento laser può finire per atterrare ed essere distrutto dalla folla. Ciò è accaduto più volte nei Giorni 2 e 3. Se una folla è particolarmente densa e difficile da discernere visivamente, i laser possono essere usati per allontanare gli elicotteri della polizia. Questo è stato dimostrato con successo il Giorno 3 subito dopo l’evacuazione del Terzo Distretto da parte della polizia, come pure nel Giorno 4 nei pressi della battaglia del Quinto Distretto.
Barricatori
I barricatori hanno costruito barricate con i materiali a portata di mano, inclusa una impressionante barricata che ha bloccato la polizia sulla 26sima strada poco a nord della Lake Street. In questa occasione la barricata era stata assemblata con un treno di carrelli da supermercato e di una postazione di raccolta dei carrelli stessi da un vicino parcheggio, e con cassonetti e barriere della polizia, infine con pannelli di compensato e materiali per muratura da un cantiere edile. Al Terzo Distretto, la barricata ha fornito una utile copertura per gli attacchi con puntatori laser e i lanci di pietre, servendo anche come naturale punto di riferimento della folla per raggrupparsi. Al Quinto Distretto quando la polizia è avanzata a piedi contro la folla, decine di persone hanno riempito la strada di più barricate consecutive. Per un verso, questo ha dato il vantaggio di fermare l’ulteriore avanzata della polizia, consentendo intanto alla folla di raggrupparsi fuori dalla portata delle pallottole di gomma. Tuttavia, è diventato rapidamente chiaro che le barricate scoraggiavano la folla dal riprendersi la strada, e sono state parzialmente smantellate in modo da facilitare una seconda pressione sulle linee della polizia. Può essere difficile coordinare difesa e attacco in una sola mossa.
Sound Systems
Casse e motori delle auto hanno fornito una colonna sonora che ha vivacizzato la folla. L’inno del Giorni 2 e 3 era “Fuck The Police” di Lil’ Boosie. Ma una novità che non avevamo mai visto prima è stata quella di usare i motori per potenziare il frastuono e “svegliare” la folla. Ciò è iniziato con un pick-up con una marmitta modificata, parcheggiato dietro la folla e di coda. Quando le tensioni con la polizia sono salite ulteriormente ed è stato evidente che gli scontri stavano per ricominciare, il conducente ha spinto i giro del motore al massimo e l’ha fatto ruggire fragorosamente sulla folla. Altre auto modificate simili si sono poi aggiunte, come pure alcune moto.
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Espropriatori
Espropriare funziona in tre direzioni. Primo, libera risorse per curare e nutrire la folla. Il primo giorno, i ribelli hanno cercato di prendere il negozio di liquori proprio accanto al commissariato del Terzo Distretto. Il loro successo è stato di breve durata, gli sbirri sono riusciti a riprenderne possesso. All’inizio della fase di stallo del Giorno 2, un gruppo di persone ha dato segno della propria determinazione scalando fino al tetto l’edificio del negozio per schernire la polizia dal tetto. La folla ha salutato quest’umiliazione, che implicitamente segnava l’obiettivo per il resto della giornata: dimostrare l’impotenza della polizia, demoralizzarla, e spossarne le capacità.
Circa un’ora dopo, è iniziato l’esproprio del negozio di liquori e di un Aldi un isolato oltre. Se la maggioranza dei presenti partecipava all’esproprio, era pur chiaro che alcuni si incaricavano di renderlo strategico. Gli espropriati all’Aldi hanno recuperato un’immensa quantità di bottiglie di acqua, bevande sportive, latte, barrette proteiche e altre merende e assemblato grosse quantità di queste risorse agli incroci stradali delle vicinanze. Oltre al negozio di liquori e all’Aldi, il Terzo Distretto era vantaggiosamente vicino a un Target, un Cub Foods, un negozio di scarpe, un discount, un Autozone, un Wendy’s, e vari altri esercizi. Una volta che la pratica dell’esproprio è iniziata, tutto questo è divenuto immediatamente parte della logistica dell’assedio della folla al Distretto.
Il secondo luogo, l’esproprio ha sollevato il morale della folla creando solidarietà e gioia in un atto condiviso di trasgressione collettiva. L’atto del dono e lo spirito di generosità sono diventati accessibili a tutti, in un positivo contrappunto agli scontri corpo a corpo con la polizia.
Terzo e più importante, l’esproprio ha contribuito a mantenere ingovernabile la situazione. Nel momento in cui l’esproprio si diffondeva per tutta la città, le forze di polizia si ritrovavano sparpagliate. Il loro tentativo di mettere in sicurezza obiettivi strategici non faceva che rendere liberi gli espropriatori di dilagare in altre aree della città. Come un pugno scagliato contro l’acqua la polizia si è ritrovata frustrata da un avversario che si espandeva esponenzialmente.
Fuochi
La decisione di dare fuoco agli esercizi espropriati può essere apprezzata come tatticamente intelligente. Ha contribuito a deperire le risorse della polizia, dal momento che i vigili del fuoco forzati a estinguere continuamente incendi di strutture in tutta la città richiedevano ingenti scorte di polizia. Questo ha impattato duramente sulla loro abilità di intervenire in situazioni di esproprio in svolgimento, rispetto alle quali nella maggioranza dei casi non sono mai intervenuti (ad eccezione dei centri commerciali e del magazzino Super Target sulla University Avenue). Ciò ha funzionato diversamente in altre città, dove la polizia ha optato per non scortare i pompieri. E forse spiega perché i manifestanti sparavano in aria davanti ai veicoli antincendio durante i riot di Watts.
Nel caso del Terzo Distretto, l’incendio di Autozone ha avuto due conseguenze immediate: prima, ha forzato la polizia a scendere in strada e stabilire un perimetro attorno all’edificio per i vigili del fuoco. Se ciò ha diminuito l’attrito sul fronte del commissariato, ha però sospinto la folla su Lake Street, inducendo subito dopo un esproprio diffuso e una moltiplicazione degli scontri in tutto il quartiere. Sospendendo la forza magnetica del commissariato, la risposta della polizia all’incendio ha indirettamente contributo a fare dilagare la rivolta nella città.
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Lo schema della battaglia e la “composizione”
Chiamiamo assedio le battaglie del secondo e del terzo giorno intorno al commissariato perché la polizia è stata battuta per logoramento. Lo schema della battaglia era considerato da una intensificazione costante puntellata di salti di qualità dovuti alla violenza della polizia e dall’espansione del conflitto nell’esproprio e negli attacchi ad edifici aziendali. La combinazione dei ruoli sopra elencati ha aiutato a creare una situazione che era ingovernabile dalla polizia, per quanto la polizia fosse tenacemente determinata a contenerla. La repressione richiesta da ogni sforzo di contenimento intensificava la rivolta e la sospingeva ulteriormente nell’area circostante. Dal Giorno 3, ogni struttura privata nel dintorni del commissariato del Terzo Distretto era stata distrutta e la polizia non aveva che un “regno di ceneri” da esibire come trofeo dei suoi sforzi. Restava solo il loro commissariato, un obiettivo solitario con risorse erose. I ribelli giunti sul posto il Giorno 3 hanno trovano un nemico ridotto allo stremo. Restava da dare solo un’ultima spinta.
Il giorno 2 dell’insurrezione era iniziato con un corteo: i manifestanti erano nelle strade, mentre la polizia si attestava in cima al suo edificio con un arsenale di armi antisommossa. Lo schema dello scontro ha iniziato a prendere forma durante il corteo, quando la folla ha tentato di scalare i muri di recinzione del Distretto per vandalizzarlo. La polizia sparava pallottole di gomma e i portavoce del corteo invitavano alla calma. Dopo un può e dopo altri discorsi, la gente ha tentato ancora. Quando la salva di pallottole di gomma è arrivata, la folla ha risposto con pietre e bottiglie. Questo ha dato il via ad una dinamica di escalation rapidamente accelerata una volta sciolto il corteo. Qualcuno faceva appello alla non-violenza e cercava di interferire con chi tirava cose, ma la maggior parte delle persone non si è nemmeno sognata di discutere. Erano per lo più ignorati o qualcuno in risposta diceva sempre la stessa cosa: “Questa storia della non-violenza non funziona!”. In effetti, nessun lato di questo dissidio aveva del tutto ragione: come il corso della battaglia ha dimostrato, entrambe le parti avevano bisogno l’una dell’altra per realizzare il fatto storico di ridurre il Terzo Distretto in cenere.
Importante qui è notare che la dinamica cui abbiamo assistito il Giorno 2 non implicava l’uso della non-violenza e dell’attesa della repressione per fare degenerare la situazione. Al contrario, un certo numero di persone si sono esposte moltissimo per sfidare la violenza della polizia e provocare l’escalation. Una volta che la folla e la polizia si erano inserite in uno schema di intensificazione del conflitto, l’obiettivo della polizia era di espandere il suo controllo territoriale a raggiera intorno al commissariato. Quando la polizia decideva di avanzare, iniziava con il lancio di granate assordanti sulla folla e sparando pallottole di gomma contro chi tirava oggetti, innalzando barriere, e lanciando gas lacrimogeno.
L’intelligenza della folla si è mostrata quando i partecipanti hanno velocemente appreso cinque lezioni nel corso della lotta.
Primo, è importante restare calmi davanti alle granate stordenti, visto che non provocano danni fisici se si è ad una distanza di più di cinque piedi. Questa lezione si estende ad un principio più generale rispetto alla crisi governamentale: non entrare in panico, perché la polizia userà sempre il panico contro di te. Si può reagire rapidamente restando più calmi possibile.
Secondo, la pratica di sciacquare gli occhi infiammati dal gas lacrimogeno si è diffusa rapidamente dagli street medics al resto della folla. Usando bottiglie d’acqua prese dai negozi espropriati, molte persone nella folla erano in grado di imparare e rapidamente eseguire il lavaggio degli occhi. Persone che lanciavano pietre un minuto dopo potevano essere osservate mettersi a curare gli occhi di altre nelle vicinanze. La conoscenza medica di base ha aiutato a costruire la fiducia della folla, portandola a resistere alla tentazione del panico e della calca, e così poter tornare sul campo di battaglia.
Terzo, forse la più importante scoperta tattica della folla è stata che quando si è forzati dal gas lacrimogeno a ritirarsi, si deve riempire il prima possibile lo spazio abbandonato. Ogni volta che la folla ritornava al Terzo Distretto, tornava più arrabbiata e più determinata a fermare la polizia o a farle pagare il maggior prezzo possibile per ogni passo che facesse.
Quarto, per usare il linguaggio di Hong Kong, abbiamo visto la folla praticare la massima “Sii acqua”. Non solo la folla era in grado di tornare rapidamente a riempire spazi dai quali era stata costretta a ritirarsi, ma quando era forzata ad allontanarsi, a differenza della polizia non cercava di fissare un controllo territoriale. Quando poteva, la folla tornava negli spazi dai quali era stata forzata a ritirarsi dal gas lacrimogeno, ma quando necessario, scorreva lontano dall’avanzata della polizia come una forza distruttiva torrenziale. Ogni avanzata della polizia sfociava nel risultato di un maggior numero di negozi sfasciati, saccheggiati e dati alle fiamme. Questo ha significato che la polizia era perdente sia che scegliesse di restare assediata sia che respingesse la folla.
Infine, la caduta del Terzo Distretto ha mostrato tanto il potere dell’ingovernabilità come obiettivo strategico quanto gli strumenti di azione della folla. Le squadre di lancio possono distrarre il fuoco della polizia da coloro che praticano non-violenza. Gli espropriatori possono aiutare e sostenere la folla e insieme disorientare la polizia. Di converso, coloro che combattono corpo a corpo con la polizia possono generare opportunità per gli espropri. I maghi della luce possono fornire alle squadre di lancio una temporanea opacità accecando la polizia e disabilitando droni e videocamere di sorveglianza. Chi pratica non-violenza prende tempo per chi barrica, il cui lavoro allevia poi il bisogno di non-violenza per assicurare la linea del fronte.
Vediamo qui che un folla internamente diversa e complessa è più potente di una folla omogenea. Usiamo il termine composizione per nominare questo fenomeno di massimizzazione della diversità di pratiche complementari. Essa è distinta dall’organizzazione perché i ruoli sono volontari, gli individui possono passare dall’uno all’altro di essi, e non vi sono leader ad assegnarli o coordinarli. Le folle che si formano e combattono attraverso la composizione sono più efficaci contro la polizia non solo perché tendono ad essere più difficili da controllare, ma anche perché l’intelligenza che le anima risponde e si adegua alla situazione reale sul campo, anziché in accordo a concezioni precostituite di ciò cui una battaglia “dovrebbe” assomigliare. Non sono le folle “composizionali” sono maggiormente in grado di affrontare la polizia in battaglie di logoramento, ma sono maggiormente in grado di avere la fluidità necessaria a vincere.
Come osservazione conclusiva su questo, possiamo contrapporre la composizione all’idea di “diversità di tattiche” usata dal movimento alter-globalista. “Diversità di tattiche” era l’idea che gruppi differenti, nel corso di un’azione, dovessero usare mezzi differenti in tempi o spazi differenti con un obiettivo condiviso. In altre parole “tu fai te e io faccio me”, ma senza alcuna attenzione a come io possa agire in maniera complementare alla tua e viceversa. Diversità di tattiche è il nome in codice attivistico di “tolleranza”. La folla che si è formata il 27 maggio davanti al Terzo Distretto non ha “praticato la diversità di tattiche”, ma si è messa insieme connettendo tra loro differenti tattiche e ruoli in uno spazio-tempo condiviso che ha messo ogni partecipante in grado di dispiegare ciascuna tattica richiesta dalla situazione.
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L’ambiguità di violenza e non-violenza nelle prime linee
Siamo stati abituati a vedere le tattiche più conflittuali usate come scudo a coloro che praticavano non-violenza, come a Standing Rock e a Charlottesville o nella figura del front-liner ad Hong Kong. Tuttavia, il rovesciamento di questa relazione divide le funzioni del “front-liner militante” (à la Hong Kong) in due ruoli separati: fare scudo alla folla e agire controffensiva. Ciò non è mai giunto al livello di una strategia esplicita nelle strade; non c’erano appelli a “proteggere i lanciatori”. Nel contesto USA, dove la non-violenza e le collegate narrative sull’innocenza sono profondamente radicate nelle lotte contro il razzismo di stato, non è chiaro se tale strategia potrebbe funzionare esplicitamente senza squadre di lancio che prendano sulla propria testa per prima il rischio materiale. In altre parole, sembra quasi che unire tattiche balistiche e non-violenza a Minneapolis sia stato reso possibile da una percezione tacitamente condivisa dell’importanza del sacrificio nello scontro con lo stato, che ha forzato entrambe le posizioni a spingersi oltre le proprie paure.
Ma questo percezione condivisa del rischio non va così lontano. Mentre i manifestanti pacifici probabilmente hanno guardato ai loro gesti come simboli morali contro la violenza della polizia, le squadre di lancio hanno visto questi stessi gesti in modo indubbiamente differente, anzitutto come protezioni, o come opportunità materiali strategiche. Qui di nuovo, possiamo vedere la forza che la strada della composizione gioca nelle situazioni reali, facendo rilevare come renda possibile che comprensioni completamente differenti della stessa tattica possono coesistere l’una accanto all’altra. Ci combiniamo senza diventare la stessa cosa, ci muoviamo insieme senza comprenderci l’un l’altro, e tuttavia questo funziona.
Vi sono limiti potenziali nel dividere le funzioni di prima linea in questi ruoli. Anzitutto, non si mette in discussione la valorizzazione del sacrificio nelle politiche della non-violenza. In secondo luogo, si lascia nell’ambiguità il valore dello scontro a distanza prevenendo la sua condensazione in un ruolo stabile davanti alla folla. Resta indubbio che il Terzo Distretto non sarebbe caduto senza tattiche balistiche. Tuttavia, siccome la prima linea era identificata con la non-violenza, l’importanza spaziale e simbolica dei lanci era implicitamente secondaria. Questo ci porta a chiederci se non sia sia reso più facile alla contro-insurrezione di farsi strada nel movimento attraverso la “polizia comunitaria” e i suoi corollari: l’auto-sorveglianza delle manifestazioni e dei movimenti affinché si mantengano nei limiti della non-violenza.
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Verifica dei fatti: un necessità cruciale per il movimento
Noi crediamo che il maggiore pericolo posto davanti al movimento attuale fosse già presente alla Battaglia del Terzo Distretto - nello specifico, il pericolo delle voci incontrollate e della paranoia. Riteniamo che la pratica del “fact checking” sia cruciale per il movimento attuale al fine di ridurre al minimo la confusione sul campo e la sfiducia interna sulla sua stessa composizione.
Abbiamo ascoltato una litania di voci impazzite durante il Giorno 2. Ci veniva detto ripetutamente che rinforzi di polizia erano sulla via di chiuderci in trappola. Venivamo avvertiti da fuggitivi della folla che unità della Guardia Nazionale erano “a venti minuti di marcia”. Una donna bianca accostava con la sua auto vicino a noi e gridava “LE CONDUTTURE DEL GAS NELL’AUTOZONE INCENDIATO STANNO PER ESPLODEREEE!!!”. Tutte queste voci si sono rivelate false. In quanto espressioni di un’ansia allo stadio del panico, esse hanno sempre prodotto lo stesso effetto: spingere la folla a dubitare della sua forza. Era come se alcuni componenti della folla stessero facendo esperienza di una forma di vertigine al cospetto della forza che stavano comunque contribuendo a forgiare.
È necessario interrompere le voci ponendo domande a chi le ripete. Vi sono domande semplici che possiamo porre per fermare l’espandersi della paura e delle voci che hanno l’effetto di indebolire la folla. “Come lo sai?”, “Chi te lo ha detto?”, “Qual è la tua fonte d’informazione?”, “Si tratta di un fatto verificato?”. “Questa conclusione sembra infondata; quali elementi hai per formulare un giudizio?”.
Accanto alle voci, vi è anche il problema di attribuire un’importanza sproporzionata a certe forme del conflitto. Giunti al Giorno 2, una delle storie dominanti era la minaccia dei “Boogaloo boys” che erano apparsi nella giornata precedente. Ciò ci aveva sorpreso poiché non li avevamo incontrati il Giorno 1. Ne abbiamo visti una mezza dozzina il Giorno 2, ma si erano relegati ai bordi di un evento che li sormontava. A dispetto della loro proclamata simpatia per George Floyd, una coppia di loro più tardi è rimasta a guardia di un esercizio per difenderlo dagli espropri. Ciò ha mostrato i limiti non solo della loro asserita solidarietà, ma anche del loro intuito strategico.
Infine, ci siamo svegliati il Giorno 3 con cosiddetti report sul fatto che provocatori della polizia o agitatori esterni si fossero resi responsabili della distruzione del giorno prima. Target, Cub Foods, Autozone, Wendy’s, e un condominio costruito già per metà erano andati tutti in fiamme entro il termine della notte. Non possiamo escludere la possibilità che un certo numero di forze ostili abbiano cercato di screditare la folla accrescendo la distruzione di proprietà. Se fosse vero, tuttavia, sarebbe innegabile che il loro piano ha fallito spettacolarmente.
In generale, la folla guardava a questi fuochi supremi con ammirazione e consenso. Anche la seconda notte, quando il condominio in costruzione era completamente collassato, la folla si era seduta davanti ad esso sulla 26esima e vi era rimasta come se fosse riunita intorno a un falò. Ogni incendio di edificio contribuiva all’abolizione materiale dello stato presente delle cose e la riduzione in cenere era diventata il suggello della vittoria della folla. Anziché prestare ascolto alle voci su provocatori e agitatori, troviamo plausibile che gente oppressa per secoli, che è povera, e che raschia il fondo di una Seconda Grande Depressione, preferirebbe dare fuoco al mondo piuttosto che sopportare la vista del suo ordine. Noi interpretiamo gli incendi degli edifici come significanti il fatto che la folla sa che le strutture della polizia, della supremazia bianca, e di classe, si basano su forze ed edifici materiali.
Per tale ragione, riteniamo che dovremmo valutare la minaccia posta da possibili provocatori, infiltrati e agitatori sulla base di come le loro azioni aumentino o sminuiscano la forza della folla. Abbiamo imparato che dozzine di edifici in fiamme non sono abbastanza per sminuire il “sostegno pubblico” al movimento - pur se prima nessuno lo avrebbe immaginato. Tuttavia, coloro che filmano componenti di una folla attaccare proprietà o infrangere la legge - non importa se volendo intenzionalmente informare le autorità giudiziarie - costituiscono una minaccia materiale alla folla, dal momento che oltre a diffondere confusione e paura, rafforzano lo stato mettendogli a disposizione informazioni.
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Post Scriptum: visioni del(la) Comune
Sin dal testo di Guy Debord del 1965, “Il declino e la caduta dell’economia spettacolare-mercantile”, vi è stata una ricca tradizione memorialista dell’emergenza di vita sociale comunalista durante i riot. I riot aboliscono i rapporti sociali capitalisti, rendendo possibili nuove relazioni tra le persone e le cose che danno forma al loro mondo. Qui le nostre prove.
Quando il negozio di liquori è stato aperto, a dozzine ne sono usciti con casse di birra, che swaggando hanno messo in terra per chiunque ne volesse. La birra prescelta dalla folla è stata la Corona.
Abbiamo visto un uomo venire con calma fuori dal negozio con le braccia cariche di bottiglie di whiskey. Ne dava una a ciascuna persona che incrociava sul cammino per raggiungere gli scontri. Alcune bottiglie lasciate vuote sulla strada sono state in seguito lanciate contro la polizia.
Mentre edifici andavano in fiamme tutt’intorno a noi, un uomo camminava e diceva, senza rivolgersi a nessuno in particolare, “Quella tabaccheria non era male per le sigarette sciolte… oh beh. Che si fottano”.
Abbiamo visto una donna spingere un carrello carico di Pampers e di bistecche verso casa. Un gruppo in pausa a fare merenda e bere acqua all’incrocio è scoppiato in applauso quando è passata lei.
Dopo che un gruppo aveva aperto l’Autozone, la gente si è accomodata dentro fumando una sigaretta mentre osservava dalla finestra sulla strada la battaglia tra la polizia e i ribelli. La si poteva osservare indicare a dito qualcuno di volta in volta tra le polizia e nella folla, parlando e gesticolando col capo. Vedevano le stesse cose che vedevamo noi?
Abbiamo fatto shopping di scarpe nel magazzino di un Foot Locker espropriato. Il pavimento era coperto da muro a muro di scatole di scarpe distrutte, fodere e calzature. La gente gridava il numero di piede di ogni paio di scarpe che trovava. Ci abbiamo messo un quarto d’ora per trovarne giusto uno adatto, poi ci ha raggiunto il rumore della battaglia e siamo filati.
Il Giorno 3, i pavimenti di un supermercato parzialmente incendiato erano coperti da dita di acqua e un nauseabondo miscuglio di cibi tirati via dagli scaffali. Nondimeno, si poteva vedere gente in calosce rimestare tra i rimasugli come se stessero scegliendo tra le offerte. I raccoglitori si aiutavano l’un l’altro a scavalcare gli ostacoli pericolosi e dividevano i loro bottini una volta fuori.
Quando la polizia si è ritirata, una giovane donna somala vestita in abiti tradizionali ha festeggiato svellendo un mattone dal giardino e tirandolo senza cerimonie nel vetro di una fermata del bus. I suoi amici - anche loro vestiti tradizionalmente - hanno levato i pugni e danzato.
Un uomo incappucciato a torso nudo correva accanto al commissariato in fiamme e agitava i pugni, gridando “COVID IS OVER!” mentre a venti piedi di distanza alcune ragazze si facevano un selfie insieme. Invece di dire “Cheese!” Dicevano “Death to the pigs!”. I laser fendevano il cielo oscurato dal fumo puntando un elicottero della polizia sopra di noi.
Stavamo passando davanti a un negozio di liquori in corso di esproprio, allontanandoci dalla migliore festa del pianeta. Una madre e due adolescenti sono scesi dall’auto chiedendo se fosse rimasto qualche buon cicchetto. “A iosa! Prendete qualcosa!”. La figlia ha sorriso a trentadue denti e ha detto “Si va! Ti aiuto io mamma!”. Si sono infilate le mascherine da COVID e sono entrate.
Un giorno più tardi, prima dell’assalto al Quinto Distretto, c’è stato un saccheggio di massa nel quartiere di Midtown. Ci è venuto incontro un ragazzino di non più di sette od otto anni incontro con in mano una bottiglia di whiskey dalla cui collo usciva uno straccio: “Avete da accendere?”. Abbiamo riso e risposto, “A cosa vuoi dare fuoco?”. Ha indicato una pizzicheria amica e gli abbiamo chiesto se non potesse trovare “un obiettivo nemico”. Si è voltato immediatamente verso la US Bank dall’altra parte della strada.
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paoloxl · 5 years
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Si ribaltano i rapporti di forza, ma il quadro rimane pressoché identico allo scorso 4 marzo: il populismo viaggia attorno al 50% dei voti, mentre l’unica alternativa politico-elettorale ad esso continua ad essere rappresentata dalle forze liberali, Partito democratico in primis, minoritarie ma non irrilevanti. Eppure, nonostante il campo continui ad essere sostanzialmente diviso in due, non tutto è perfettamente uguale a se stesso. Valutando i risultati in tutta Europa, appare chiara la ritirata politica del “populismo di sinistra”. Non tanto in Italia, dove questo veniva rappresentato contraddittoriamente dal M5S, quanto nel resto del continente. Nella Francia “sconvolta” dalle proteste dei Gilet Jaune, dove cioè si presentava la situazione migliore per capitalizzare elettoralmente una protesta sociale non predeterminata dentro i confini della reazione, France Insoumise di Mélenchon prende il 6%. A capitalizzare è solo il populismo “di destra” della Le Pen, anche questa volta primo partito transalpino. Nella Gran Bretagna della Brexit a capitalizzare la lotta alla Ue è la destra populista di Farage, col suo 32%, mentre il “compagno” Corbyn si ferma al 14% fallendo totalmente il suo patetico agnosticismo di non appoggiare né la Brexit né il “remain”. In Spagna Podemos si ferma al 10%, superato persino da Ciudadanos. E così via. In sintesi, queste elezioni sanciscono il fallimento di una torsione democratica e coerentemente antiliberista del populismo. Una lezione da valutare con grande attenzione. Tornando al nostro paese, l’ex centrodestra sfiora il 50% dei voti. E’ un evento anch’esso. Neanche nella più rosea delle stagioni berlusconiane l’insieme delle forze conservatrici raggiungeva tale risultato. Se mai questa opzione dovesse trovare uno sbocco politico effettivo, e quindi governare, avremmo per la prima volta un esecutivo di centrodestra a trazione reazionaria, con Salvini premier. Anche questa, una novità non da poco conto, visto che un governo di questo tipo farebbe impallidire persino le “democrazie illiberali” di Visegrad. Spostando il focus dalla politica che conta alle curiosità cabalistiche, va ancora una volta sottolineato lo stazionamento nell’irrilevanza tanto delle destre quanto delle sinistre “radicali”. Le prime fagocitate in tutto e per tutto da Salvini. Le seconde incomprensibili al genere umano. Nella Riace di Mimmo Lucano la Lega prende il 30% – primo partito – e Lucano il 2% – ultimo partito: insegnerà qualcosa tutto questo? Non crediamo: cosa può la realtà di fronte alle convinzioni ireniche della sinistra?
E’ inevitabile chiedersi a questo punto cosa fare. Di fronte a un paese ideologicamente di destra (ma lo era anche con Renzi al 40%, e non a caso), che decide coscientemente di premiare l’opzione politica più regressiva, bisogna in qualche modo attrezzarsi. Se la via dell’intelligenza col nemico liberale è preclusa, va comunque escogitata una tattica di sopravvivenza che non passi per l’onanismo degli zerovirgola, non si ritiri dalla politica in favore di particolarismi di ogni tipo e, al tempo stesso, affronti con realismo la situazione. Non crolla il mondo, ma finisce certamente un mondo: quello dell’irrealtà entro la quale una certa sinistra si ostina a perseverare. Ma è così da molti anni ormai. Anche in questo caso non servirà da lezione.
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Storia della guerra - 17: La Rivoluzione Americana
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Storia della guerra - 17: La Rivoluzione Americana
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La Rivoluzione Americana
di Piero Visani
Nella storia della guerra moderna, la Rivoluzione Americana (1776-1783) occupa un posto di rilievo perché segna il classico punto di passaggio tra i conflitti di tipo settecentesco e la ricomparsa di quelli a carattere ideologico. Nella crescente insofferenza dei coloni americani contro il dominio britannico e le sue pressanti esigenze fiscali, erano già presenti, del resto, tutti gli elementi di una fase politica nuova, nella quale la rivendicazione dei diritti di cittadinanza poteva arrivare fino alla scelta di impugnare le armi per farli rispettare.
  Lo “sparo che risuonò nel mondo intero” venne esploso a Lexington, cittadina a poche miglia da Boston, nelle prime ore del mattino del 19 aprile 1775, quando una colonna di truppe inglesi mandate in ricognizione per controllare e disturbare l’attività delle milizie locali, venne affrontata dai “minute men” (uomini mobilitabili con un preavviso brevissimo) che costituivano la punta di lancia delle medesime. Lo scontro che ne seguì fu paradigmatico di tutto quanto avvenne nei successivi anni di guerra: in una prima fase, i miliziani tentarono di affrontare i soldati britannici in un’azione regolare, combattuta in ordine chiuso, ed ebbero ovviamente la peggio. Tuttavia, non appena decisero di cambiare tattica e di tempestare la colonna britannica con il fuoco esploso a distanza ravvicinata da gruppi di tiratori in ordine sparso che cercavano di sfruttare ogni riparo offerto dal terreno, presero rapidamente il sopravvento e costrinsero le truppe inglesi a una precipitosa ritirata in direzione di Boston, infliggendo loro gravi perdite. Se si visita il “Battle Road Trail”, compreso in parte all’interno del “Minute Man National Historical Park” di Concord, è possibile ripercorrere ancora oggi la strada imboccata dai soldati inglesi in ritirata e non è difficile comprendere come, bersagliati da tre lati, si siano trovati in grave difficoltà.
  Anche il cinema ci può aiutare: nel film “Revolution” di Hugh Hudson, Donald Sutherland impersona un sergente maggiore inglese che guida con successo un classico attacco in ordine chiuso del suo reggimento contro la fanteria americana, e la travolge, mentre “Il patriota” di Roland Emmerich ci mostra uno spiritato Mel Gibson condurre azioni di guerriglia contro gli occupanti britannici, poi tutte le asprezze della guerra civile tra rivoluzionari e “lealisti” come Banastre Tarleton, e infine la crescente capacità dell’esercito regolare statunitense di affrontare con successo le “giacche rosse” anche in campo aperto.
  È in America, dunque, che nasce la moderna figura del “cittadino-soldato”, dell’uomo che impugna le armi per difendere un ideale, una causa, una visione del mondo e uno stile di vita. Abituato ad un’esistenza a contatto con la natura, passata a coltivare la terra, spesso ricco di un’esperienza militare fatta combattendo i francesi e/o i pellerossa, il miliziano statunitense è un uomo che ha dimestichezza sia con le armi da fuoco sia con le armi bianche. Ottimo tiratore, perché la caccia costituisce una delle sue principali forme di sostentamento, conosce bene anche il terreno su cui opera e ha appreso dagli indigeni forme di mimetizzazione e di combattimento in ordine sparso che diventano, ancora una volta, componenti essenziali – quali moltiplicatori di forza – di una guerra asimmetrica combattuta dal più debole contro il più forte.
  Queste punture di spillo, in apparenza pressoché ininfluenti, si dimostrarono alla lunga molto debilitanti per un esercito come quello britannico, numericamente scarso e costretto ad operare a migliaia di chilometri dalla madrepatria, con linee di rifornimento lunghissime. La debolezza numerica, infatti, impediva ai generali di Sua Maestà di esercitare un adeguato controllo del territorio e tale mancato controllo consentì a George Washington di disporre del tempo necessario a trasformare un eterogeneo aggregato di milizie in un esercito regolare, istruito alle tattiche convenzionali dai preziosi consigli di un esperto straniero come il generale prussiano von Steuben.
  Proprio questa flessibilità nel passare con disinvoltura dalla guerra di guerriglia al conflitto convenzionale, e viceversa, costituì una delle cause della vittoria finale statunitense: la capacità di combattere una guerra regolare, infatti, e di ottenere vittorie importanti come quella di Saratoga (ottobre 1777), quando un intero esercito inglese venne costretto alla resa, consentì ai rivoltosi di legittimare la nascita di un nuovo Stato e di ottenerne non solo il riconoscimento sul piano internazionale ma di stipulare anche alleanze, a cominciare da quella con la Francia, desiderosa di prendersi una rivincita dopo le sconfitte subite nella Guerra dei Sette Anni e pronta a scendere in campo controla Gran Bretagna (giugno 1778). Al tempo stesso, nelle non poche occasioni in cui le truppe regolari statunitensi vennero sconfitte sul campo dagli inglesi, trovarono sempre una via di fuga nel passaggio dalla guerra convenzionale a quella irregolare: gli stessi uomini che erano stati battuti dai britannici, infatti, potevano spogliarsi delle divise e trasformarsi in cittadini apparentemente neutrali, ma pronti a colpire con azioni improvvise le lunghe e fragili linee di rifornimento delle forze di Sua Maestà.
  In questo modo, la Gran Bretagna si trovò a combattere più conflitti contemporaneamente, e in tutti risultò soccombente: sul piano delle operazioni non convenzionali, non aveva forze a sufficienza per garantirsi il controllo del territorio, anche se, grazie all’appoggio dei “lealisti”, cioè dei coloni americani fedeli alla corona britannica, poté con il tempo sviluppare forme abbastanza sofisticate di controguerriglia. In queste ultime, divenne evidente che la guerra ideologica non aveva nulla a che fare con quella degli eserciti tradizionali, ancora animata da spirito e tradizioni cavalleresche: i due contendenti, infatti, si abbandonarono a violenze e atrocità molto gravi, dato che l’essere portatori ciascuno di visioni del mondo antitetiche faceva sì che nessuno fosse disposto a riconoscere all’altro una qualche forma di legittimità. Sul versante delle operazioni di tipo convenzionale, per contro, George Washington si rese conto rapidamente che la vittoria finale poteva essere ottenuta solo se l’accolita di miliziani al suo comando fosse riuscita a diventare, nel più breve tempo possibile, un esercito regolare in grado di affrontare con successo gli inglesi in campo aperto. L’essere riuscito a conseguire, in tempi relativamente brevi, questo decisivo obiettivo, benché i suoi uomini fossero pochi, male armati, privi di munizioni e di un adeguato sostegno logistico e sanitario, fu certamente un suo grande merito.
  Il nuovo esercito americano non era probabilmente all’altezza di quello nemico, ma rappresentava la più valida testimonianza che gli USA stavano diventando uno Stato e – come tali – potevano legittimamente aspirare a contrarre alleanze internazionali, a cominciare da quella con la Francia. L’appoggio di Parigi – inutile dirlo – rappresentò un fattore determinante del successo finale della rivoluzione americana, non tanto per il piccolo contingente terrestre (circa 7.000 uomini) che sbarcò nel luglio 1780 sul continente americano per aiutare l’esercito statunitense, quanto perché la flotta francese rese ancora più difficili le attività operative della “Royal Navy”, già costretta ad uno sforzo notevole per il controllo di alcuni porti da utilizzare come base di supporto logistico per le truppe di Sua Maestà. L’entrata in campo della Francia, del resto, stava a significare che la rivoluzione americana aveva ormai assunto una dimensione internazionale e aveva perso le caratteristiche di un conflitto intestino.
  Sottoposti alla convergente pressione del nuovo esercito statunitense e della poderosa flotta francese, gli inglesi, preoccupati del fatto che anche la Spagna e i Paesi Bassi avevano tratto vantaggio delle loro difficoltà per entrare in guerra, nell’evidente intento di recuperare i territori coloniali perduti nel corso dei conflitti precedenti, si trovarono sempre più in difficoltà ad alimentare il loro sforzo bellico in America settentrionale e persero progressivamente interesse per una guerra che appariva ormai perduta. Già nell’ottobre 1781, con la resa delle truppe britanniche a Yorktown, in Virginia, le sorti del conflitto apparvero segnate, ma ci vollero ancora quasi due anni prima che venisse firmata la pace di Parigi (settembre 1783), con la quale la Gran Bretagna riconobbe l’indipendenza delle sue 13 ex-colonie d’oltreoceano.
  Mancavano meno di sei anni allo scoppio della Rivoluzione francese, ma il vento di un’epoca nuova aveva cominciato a spirare con forza, tanto in campo politico quanto militare: nel momento in cui la guerra cessava di essere una sorta di gioco convenzionale tra sovrani con interessi e appetiti diversi, ma che si riconoscevano una reciproca legittimità, e si trasformava in una lotta tra visioni politiche alquanto diverse, quando non radicalmente antitetiche, in cui cresceva il ruolo riservato ai singoli cittadini e alle loro forme di manifestazione politica, l’intera natura del conflitto si apprestava a sperimentare una radicale trasformazione. La Rivoluzione Americana ne aveva fornito qualche indizio, ma il 1789 avrebbe apportato grandissime novità.
  PIERO VISANI
http://derteufel50.blogspot.de/
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saleggdbshoes-blog · 5 years
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italianiinguerra · 6 years
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«Abbiamo avuto l’onore di scontrarci con i Cavalleggeri di Alessandria»
questo il commento in tono ammirato del maresciallo Tito a proposito dei fatti d’arme che tratteremo in questo post.
Ancora adesso a oltre 75 anni da questi fatti, molti conoscono come ultima carica della cavalleria della seconda guerra mondiale e forse dell’intera storia bellica mondiale, quella del «Savoia Cavalleria» avvenuta il 24 agosto 1942 a Isbuscenskij in Russia. Un attacco alla sciabola che permise di rompere l’accerchiamento dei nemici ed evitare una disfatta. Un misto di capacità di manovra, tattica ed eroismo da far esclamare agli sbalorditi tedeschi, solitamente parchi di complimenti, «Noi queste cose non sappiamo più farle».
In realtà l’ultima battaglia di un reggimento a cavallo si svolse un paio di mesi dopo, il 17 ottobre 1942, a Poloj in Croazia, e fu proprio questa l’ultima carica della cavalleria nel corso del secondo conflitto mondiale. Un attacco reso necessario da una serie di errori dell’alto comando, che preferirono per questo far cadere una sorta di «velo d’oblio» sul sacrificio dei cavalleggeri del 14° Cavalleggeri d’Alessandria.
L’episodio si inserisce in un ciclo di operazioni, iniziato il 1° ottobre contro le formazioni partigiane operanti nella zona, che dura sino al 23 ottobre. Non stiamo a dilungarci sulle operazioni che ai svolsero quei giorni e andiamo dritto al 17 ottobre 1942 tema del presente post.
In quei giorni il  14º Cavalleggeri di Alessandria era inquadrato nella 1^ divisione celere “Eugenio di Savoia”, composta oltre che dal 14°, dal reggimento “Cavalleggeri di Saluzzo”, dallo squadrone carri L ” S. Giusto ” e rinforzato da una sezione di artiglieria ippotrainata da 75/27 della divisione “Re”. La divisione era costituita dai seguenti reparti:
Comando
L’organico del reggimento era il seguente: Squadrone Comando 3 Squadroni Cavalleggeri di Alessandria 1 Squadrone Cavalleggeri di Lodi 5° Squadrone mitraglieri XII Gr. app. Cavalleggeri di Alessandria XIII Gr. smv. controcarro da 47/32 Cavalleggeri di Alessandria VII e XII Btg. Movimento stradale Cavalleggeri di Alessandria III Gr. Carri L6 Cavalleggeri di Alessandria IV Gr. Carri L6 Cavalleggeri di Alessandria
Al sorger del sole del 17 di ottobre 1942, il 14º reggimento, guidato dal colonnello Antonio Ajmone Cat con una colonna di artiglieria ippotrainata, il 3º squadrone carri su L6/40 e l’ 81° battaglione Camicie Nere divisionale, muoveva verso Primislje in una normale operazione di controllo quando, nelle prossimità del fiume Korana, un manipolo di partigiani Jugoslavi esplosero dei colpi di grosso calibro dalle alture circostanti, uccidendo subito un ufficiale e un cavalleggero e ferendo diversi uomini e cavalli.
Dopo un leggero ripiegamento del 14°, che però ha dato tempo ai partigiani di riorganizzarsi e di appostarsi nelle alture vicine, alle 13.00, il reggimento si mosse in formazione a losanga, rinforzato dal 40º squadrone di supporto con carri e pezzi d’artiglieria. Alle 14.30, questo raggiunse Poloj e si schierò nella valle in ordine di combattimento, poiché le alture erano tenute dai partigiani, e subito iniziò un violento scontro a fuoco.
Alle 17.00 si accentuò la pressione avversaria, così il generale Lomaglio, comandante della 1ª Divisione Celere “Eugenio di Savoia”, ordinò dal comando di proseguire per Primislje e mandò sul posto il generale Mazza, vicecomandante la divisione. Alle 18:30 Lomaglio, col far del buio, decise di far ritirare le forze a Perjasica, ma ormai i partigiani aspettavano questa mossa. Il colonnello Cat mandò in scoperta il primo squadrone del capitano Antonio Petroni con lo squadrone comando e quello dei mitraglieri.
Nel frattempo il terzo squadrone, sfoderate le sciabole, si lanciò alla carica dei partigiani che scendevano dalle alture a sinistra, mentre il secondo faceva lo stesso dal lato opposto; in retro guardia il quarto squadrone del capitano Vinaccia caricò ripetutamente per coprire la ritirata dell’artiglieria e degli automezzi: il capitano cadde nello scontro, ma le perdite partigiane furono nettamente superiori. I pochi partigiani rimasti, a questo punto, decisero di organizzare un terzo sbarramento, ma una poderosa carica di sciabole riuscì a spezzare l’accerchiamento formatosi e a metterli in fuga.
L’impeto, la decisione e la rapidità dell’azione sconvolse i piani dell’ avversario e fece in modo che le truppe che seguivano il Reggimento non avessero perdite. A fine battaglia, in tarda serata, il 14º Cavalleggeri contava 129 caduti, 9 ufficiali, 4 sottufficiali, 116 soldati e 160 cavalli e una settantina di feriti, pesantissime le perdite partigiane Per il Regio Esercito non fu solo una vittoria strategica ma anche tattica.
I cavalleggeri rientrarono vittoriosi la mattina del 18 ottobre a Perjasica, accolti dagli alti comandi con tutte le glorie, nonostante l’amarezza per aver perduto nello scontro il regio stendardo che accompagnò quel reparto durante tutta la sua storia. I tanti atti di valore individuali sono ricompensati con 12 Medaglie d’Argento al Valor Militare, altre di Bronzo e Croci di Guerra.
I caduti furono, per ordine dei partigiani ai civili del luogo, subito seppelliti, onde evitare possibili epidemie. In fosse affrettatamente scavate furono calati, insieme, partigiani, soldati italiani e cavalli. Tutti i caduti italiani furono privati, delle uniformi, delle armi, delle munizioni e dell’equipaggiamento; impossibile, quindi ogni successivo riconoscimento di salme. Si é potuto capire che tutti i prigionieri vennero uccisi e le camice nere anche seviziate.
La carica di Poloj fu una azione di grande importanza, in tutti gli aspetti, pur non essendo scaturita dalla autonoma decisione del suo comandante ma quasi imposta dall’alto, per eseguire un ordine; eseguita in maniera esemplare dai soldati italiani. Secondo analisti militari e strateghi, le alte perdite avrebbero potuto essere evitate o quantomeno ridotte se il combattimento fosse stato condotto liberamente dal comandante sul campo.
Difatti su questa carica, dopo un galvanizzamento generale, venne quasi immediatamente steso un velo di imbarazzato silenzio. Divulgare completamente le circostanze in cui avvenne avrebbe messo in luce le manchevolezze dei comandi e la leggerezza con cui venivano impartiti gli ordini. Si preferì pertanto continuare a parlare della carica del «Savoia Cavalleria» a Isbuscenskij come dell’ultima carica e fare calare il silenzio sull’episodio di Poloj.
La bandiera del reggimento, che dopo lo scioglimento nel 1979 è conservata nel museo del Vittoriano, aspetta ancora quella medaglia d’oro che solo il presidente della Repubblica, motu proprio, potrebbe conferire. La burocrazia cieca, le tante delusioni e le omissioni sospette non hanno piegato ancora i reduci che, hanno anche restaurato a loro spese la chiesetta di Poloj, dove sono sepolti i caduti. Sarà una battaglia dura, ma chi ha sostenuto una carica di cavalleria (e poi, dopo l’armistizio, il calvario nei campi di prigionia tedeschi) ce la può fare.
«Abbiamo avuto l’onore di scontrarci con i Cavalleggeri di Alessandria» «Abbiamo avuto l'onore di scontrarci con i Cavalleggeri di Alessandria» questo il commento in tono ammirato del maresciallo Tito a proposito dei fatti d'arme che tratteremo in questo post.
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Israele, Pazner: “Per Netanyahu è stata una ritirata tattica ma ora il negoziato è ad alto rischio"
Intervista all’ex ambasciatore israeliano a Roma. “Il mancato reintegro del ministro della Difesa dimostra che Netanyahu non è disposto a cedere” source
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jamariyanews · 6 years
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Se non capiamo la lotta di classe, non capiamo niente
di Ken Loach e Lorenzo Marsili – 21 agosto 2018 Il regista cinematografico britannico Ken Loach è una delle voci più celebrate del cinema del nostro tempo. Un artista profondamente impegnato e uno di un pugno di registi a essere insignito due volte della prestigiosa Palma d’Oro. Il lavoro di Loach affronta spesso temi sociali e politici. La sua opera ha attraversato la guerra civile spagnola (Terra e Libertà), lo sciopero degli addetti alle pulizie di Los Angeles (Pane e Rose), l’occupazione dell’Iraq (L’Altra Verità), la guerra d’indipendenza irlandese (Il vento che accarezza l’erba) e il lato coercitivo dello stato sociale (Io, Daniel Blake). Mentre la cosiddetta “rivolta populista” ha innescato un grande dibattito sul ruolo delle disuguaglianze economiche e dell’esclusione sociale, Ken Loach è stato uno dei più grandi narratori della coscienza della classe lavoratrice e delle sue trasformazioni sotto il neoliberismo. In questa conversazione con il giornalista e attivista politico italiano Lorenzo Marsili, Loach guarda al ruolo dell’arte in momenti di trasformazione politica, all’evoluzione della classe lavoratrice, al significato oggi della lotta di classe e al fallimento della sinistra nell’ispirare un cambiamento radicale. L’intervista è stata registrata durante le riprese di DEMOS, un documentario di prossima uscita nel quale Lorenzo Marsili percorre l’Europa indagando la solidarietà internazionale dieci anni dopo la crisi finanziaria. Lorenzo Marsili: Il dibattito sul ruolo dell’arte nel cambiamento politico ha una lunga storia. Oggi stiamo chiaramente attraversando un momento di grande trasformazione geopolitica e di disorientamento globale. Qual è la sua visione del ruolo che la creatività può avere in un momento simile? Ken Loach: In generale penso che nell’arte ci sia solo la responsabilità di dire la verità. Qualsiasi frase che cominci con “l’arte dovrebbe…” è sbagliata, perché si basa sull’immaginazione o la percezione di persone che scrivono o dipingono o descrivono o svolgono quelli che sono i diversi ruoli dell’arte. Dobbiamo affermare i principi fondamentali di modi attraverso i quali le persone possano vivere insieme. Il ruolo degli scrittori, degli intellettuali e degli artisti sta nel considerare questi come i principi chiave. Questa è la visione lunga della storia, della lotta, così anche se si deve fare una ritirata tattica è importante essere cosciente che resta una ritirata e i principi chiave sono quelli che dobbiamo tenere in mente. Questo è qualcosa che possono fare le persone che non sono coinvolte nelle tattiche giorno per giorno. LM: Nel suo lavoro l’elemento umano non è meramente un’illustrazione della teoria, ma incarna realmente e diviene l’elemento politico. Sarebbe d’accordo che l’arte ha il potere di mostrare che, alla fin fine, ci sono esseri umani dietro i grandi processi economici e politici? KL: Assolutamente. La politica vive nelle persone, le idee vivono nelle persone, vivono nelle lotte concrete che le persone conducono. Determina anche le scelte che abbiamo e le scelte che abbiamo, a loro volta, determinano il genere di persone che diventiamo. Il modo in cui le famiglie interagiscono non è un qualche concetto astratto di madre, figlio, padre, figlia: ha a che fare con le circostanze economiche, il lavoro che fanno, il tempo che possono passare insieme. L’economia e la politica sono collegate al contesto in cui le persone vivono le loro vite, ma i dettagli di quelli vite sono molto umani, spesso molto divertenti o molti tristi e in generale pieni di contraddizioni e complessità. Per gli scrittori con i quali ho collaborato e per me, il rapporto tra la commedia della vita quotidiana e il contesto economico in cui quella vita ha luogo è sempre stato molto significativo. LM: Dunque c’è un rapporto dialettico tra il modo in cui l’economia trasforma il comportamento umano e il modo in cui il comportamento umano, specialmente attraverso l’azione collettiva, trasforma le relazioni economiche. KL: Prenda una persona che lavora. La famiglia di lui o di lei funziona o cerca di funzionare, ma individualmente non hanno forza perché non hanno potere. Sono semplicemente una creatura di quella situazione. Ma io penso davvero che il senso di forza collettiva sia qualcosa di molto importante. E’ qui che cominciano le difficoltà. Non è facile raccontare una storia in cui la forza collettiva sia immediatamente evidente. D’altro canto è spesso rozzo e sciocco terminare ogni film con un pugno chiuso in aria e un appello militante all’azione. Questo è un dilemma costante: come si fa a raccontare la storia di una famiglia della classe lavoratrice, tragicamente distrutta dalle circostanze economiche e politiche, e non lasciare la gente nella disperazione? LM: Una cosa che io trovo dare speranza persino in un film tetro come Io, Daniel Blake è che vediamo l’apparato coercitivo dello stato, ma vediamo anche la resilienza di una certa solidarietà umana: i poveri si aiutano tra loro e la gente si ferma ad applaudire quando Daniel Blake scrive un graffito feroce fuori dal centro per l’impiego. Suggerisce che non siamo stati interamente trasformati in homo economicus: che c’è ancora resistenza contro la mercificazione della vita. KL: Sì, questo è qualcosa che i commentatori della classe media non colgono: i lavoratori … sono presi in giro anche se ridono. Nelle trincee la storia è più amara ed è lì che vediamo la resistenza, anche nei luoghi più bui. Ma in particolare abbiamo avuto questa crescita dei banchi alimentari dove è offerto cibo per beneficienza e si vedono i due volti pubblici della nostra società. In Io, Daniel Blake quando la donna consegna il pacchetto di cibo a una donna che non ha nulla, non dice “Ecco il tuo cibo caritatevole”, ma dice invece “Posso aiutarti con la spesa?” Da un lato c’è quella generosità e dall’altra c’è lo stato che si comporta nel modo più consapevolmente crudele, sapendo che sta spingendo la gente alla fame. La società capitalista è colta in questa situazione schizofrenica e sta a noi organizzare la solidarietà. LM: Spesso sembra che quella tradizionale alienazione economica si sia trasformata in un’alienazione nei confronti dello stato. Pensa che questo sia al centro di fenomeni come l’ascesa del nazionalismo, della xenofobia, persino della Brexit? Oltre a rendere capri espiatori i migranti c’è forte anche questa sensazione che “non c’è nessuno che mi difenda”. KL: Sì, penso in effetti che il clima che il populismo di destra indica è un fallimento della sinistra… in modo simile agli anni ’20 e ’30. I partiti di destra si presentano con una risposta semplicissima: il problema è il tuo vicino, il tuo vicino è di colore diverso, il tuo vicino cucina cibo che ha un odore diverso, il tuo vicino ti sta rubando il lavoro, il tuo vicino è dentro casa tua. Il pericolo è che questo è appoggiato dalla stampa di massa, tollerato e promosso da emittenti come la BBC che, ad esempio, ha dato a Nigel Farage e ai suoi compagni tutto il tempo in onda che volevano. LM: Il centro del suo lavoro è sempre stato la solidarietà della classe lavoratrice. Lei ha vissuto la transizione dal capitalismo sociale postbellico all’arrivo del neoliberismo. Come ha visto trasformarsi la solidarietà di classe in questo periodo? KL: La cosa maggiore è stata la riduzione del potere dei sindacati. Negli anni ’50 e ’60 erano divenuti forti perché le persone lavoravano in organizzazioni sociali come fabbriche, miniere o moli e a quel punto era più facile organizzare sindacati. Ma quelle vecchie industrie sono morte. Oggi la gente lavora in un modo molto più frammentato. Siamo più forti quando possiamo fermare la produzione, ma se non siamo organizzati sul punto di produzione, siamo decisamente più deboli. Il problema è che oggi la produzione è così frammentata e che con la globalizzazione la nostra classe lavoratrice oggi e nell’Estremo Oriente o in America Latina. LM: I lavoratori in bicicletta a chiamata di Deliveroo o Foodora potrebbero neppur considerarsi dei lavoratori. KL: Sì, o lavorano in franchising o sono cosiddetti “lavoratori autonomi”. E’ un grosso problema. E’ un problema di organizzazione per la classe lavoratrice. LM: Pensa che il concetto di classe abbia ancora senso? Molti non si considererebbero della classe lavoratrice anche se sono poveri e a volte si sentono decisamente miserabili. KL: Credo che la classe sia fondamentale. Cambia semplicemente forma col cambiare delle richieste di una manodopera diversa da parte del capitale. Ma si tratta ancora di forza lavoro. Ed è tuttora sfruttata e continua a fornire surplus di valore ancor più intensamente che in passato. Cosa più importante, se con capiamo la lotta di classe, non capiamo nulla. LM: E’ una delle grandi sfide di oggi: riavviare la lotta in mezzo a una popolazione frammentata che non si concepisce come parte di un gruppo. KL: E’ una sfida alla nostra comprensione. E’ stato molto buffo: recentemente parlavo con alcune persone molto carine in Giappone che stavano scrivendo un articolo e io insistevo sulla necessità di capire la classe e il conflitto. Una donna molto carina mi ha detto: “Mostreremo il suo film ai funzionari del governo giapponese” e io ho detto “Beh, perché?” e lei ha detto “Beh, per far loro cambiare idea” e io ho replicato “Ma questo è il punto che ho appena sostenuto! Non cambieranno idea, sono impegnati a difendere gli interessi della classe dominante e non vanno persuasi, vanno cacciati!” E’ un punto molto difficile da superare quando l’idea di far funzionare il sistema è così profondamente radicata. Questa è una delle terribili eredità della socialdemocrazia che dobbiamo combattere. LM: E’ una forma efficace di controllo sociale, quando i tuoi sottoposti ritengono di poter parlare con te e che tu terrai conto delle loro preoccupazioni. KL: E’ per questo che dobbiamo resuscitare l’intera idea di rivendicazioni di transizione. Dobbiamo avanzare richieste che siano assolutamente ragionevoli sulla base degli interessi della classe lavoratrice. LM: Vorrei arrivare alla conclusione, ma noto che lei una volta ha condotto una campagna a favore del Parlamento Europeo. KL: Me l’ero dimenticato. LM: E’ interessante per me come l’Europa non sia mai stata realmente oggetto di dibattito qui in Gran Bretagna. Improvvisamente, dopo la Brexit, tutti parlano dell’Unione Europea ed è diventato l’argomento più dibattuto dopo il calcio. Sente che ci sia ancora speranza di costruire una democrazia transnazionale o è semplicemente troppo tardi? KL: Davvero non conosco la risposta. Ma penso realmente che la solidarietà internazionale sia chiaramente importante. Può essere organizzata all’interno dell’Europa? Non lo so. La struttura dell’Unione Europea è veramente molto complicata; è difficile vedere come introdurre il cambiamento senza ripartire da zero. Ovviamente ogni cambiamento deve essere avallato da ogni governo e sappiamo tutti quanto difficile sia la pratica di tale processo. Chiaramente abbiamo bisogno di un’Europa diversa, basata su principi diversi: sulla proprietà comune, la pianificazione, l’allineamento delle economie, la sostenibilità e in generale lavorando per l’uguaglianza. Ma semplicemente non possiamo farlo mentre è data priorità alle grandi imprese, è data priorità al profitto e mentre il sistema legale dà priorità al profitto. Effettuare tale cambiamento va al di là della mia competenza. Yanis Varoufakis mi assicura che si può fare. Sono certo che ha ragione. Ho fiducia in lui, ma non so come. Lorenzo Marsili è cofondatore di European Alternatives e uno degli iniziatori del movimento paneuropeo DiEM25. Il suo libro più recente è ‘Citizens of Nowhere’ (University of Chicago Press, 2018).                   Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/if-we-dont-understand-class-struggle-we-dont-understand-anything/ Originale: The Nation traduzione di Giuseppe Volpe Traduzione © 2018 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3. Preso da: http://znetitaly.altervista.org/art/25656 https://ift.tt/2NFFd2f
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mariuskalander · 7 years
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Con i grillini non si deve dialogare, né trattare, né stipulare accordi. Il loro obiettivo è di logorare il cdx, con la solita tattica della mano tesa e poi ritirata, per formare un governo col PD-derenzizzato tra 100-150 gg. Direttive atlantiche con regia di Mattarella.
— Federico Dezzani (@FedericoDezzani) March 22, 2018
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