#riservai
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esci il culo che dalla foto sembri una gran gnocca
ti esco una poesia di Robert Frost invece;
Due strade divergevano in un bosco d’autunno
e dispiaciuto di non poterle percorrere entrambe,
essendo un solo viaggiatore, a lungo indugiai
fissandone una, più lontano che potevo
fin dove si perdeva tra i cespugli.
Poi presi l’altra, che era buona ugualmente
e aveva forse l’aspetto migliore
perché era erbosa e meno calpestata
sebbene il passaggio le avesse rese quasi uguali.
Ed entrambe quella mattina erano ricoperte di foglie
che nessun passo aveva annerito
oh, mi riservai la prima per un altro giorno
anche se, sapendo che una strada conduce verso un’altra,
dubitavo che sarei mai tornato indietro.
Lo racconterò con un sospiro
da qualche parte tra molti anni:
due strade divergevano in un bosco ed io -
io presi la meno battuta,
e questo ha fatto tutta la differenza.
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La strada non presa
Robert Frost
Due strade divergevano in un bosco d’autunno
e dispiaciuto di non poterle percorrere entrambe,
essendo un solo viaggiatore, a lungo indugiai
fissandone una, più lontano che potevo
fin dove si perdeva tra i cespugli.
Poi presi l’altra, che era buona ugualmente
e aveva forse l’aspetto migliore
perché era erbosa e meno calpestata
sebbene il passaggio le avesse rese quasi uguali.
Ed entrambe quella mattina erano ricoperte di foglie
che nessun passo aveva annerito
oh, mi riservai la prima per un altro giorno
anche se, sapendo che una strada conduce verso un’altra,
dubitavo che sarei mai tornato indietro.
Lo racconterò con un sospiro
da qualche parte tra molti anni:
due strade divergevano in un bosco ed io -
io presi la meno battuta,
e questo ha fatto tutta la differenza.
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... da quel giorno lì, i miei mostri iniziarono a perseguitarmi senza mollarmi, e io, restai immobile ad osservali mentre, si impossessavano totalmente di me. Ad ogni uno dei miei demoni, senza agire, senza difendermi, riservai un posto speciale, del quale, assunsero il pieno controllo. Loro, avevano il pieno controllo di me, e io glielo lasciai fare.
Demoni... uno di essi portava un nome...
#frasi belle#frasi libri#il mio mondo#il mio sogno#libro23#scrivere#frasi italiane#parole#solitudine#notte
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음주공부중... #카리냐노델술치스 #술취해쓰 Reposted from @argiolaswinery Excellent score for our Is Solinas, Carignano del Sulcis Doc Riserva 2015, reviewed by Monica Larner for @wine_advocate, in the section "End of November 2019". #argiolaswinery #argiolas #robertparker #issolinas #carignano #carignano #carignanodelsulcis #riservai #doc #winery #wine #winelover #winelovers #redwine #instawine #madeinitaly #bestwine #winegram #enjoywine #experiencewine #winemoments #italianwine #winetasting https://www.instagram.com/p/CLhaTObBZBL/?igshid=15x9meukray5i
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Due strade divergevano in un bosco ingiallito, e dispiaciuto di non poterle entrambe percorrere restando un unico viaggiatore, a lungo indugiai fissandone una, più lontano che potevo fino a dove si perdeva tra i cespugli –
poi presi l’altra, ché andava altrettanto bene e aveva forse l'aspetto migliore, perché era erbosa e meno calpestata; sebbene, in realtà, il passaggio le avesse più o meno ugualmente consumate –
ed entrambe quella mattina erano ricoperte di foglie che nessun passo aveva annerite. Oh, mi riservai la prima per un’altra giornata! Eppure, sapendo come strada porta a strada, dubitavo che mai ci sarei tornato. –
Lo racconterò con un sospiro da qualche parte tra molti anni: due strade divergevano in un bosco, ed io –
io presi la meno battuta, e questo ha fatto tutta la differenza.
Robert Frost, La strada non presa –
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Sono tanti gli artisti che nel corso dei secoli dedicarono sculture, dipinti e affreschi a San Pietro e Paolo. Anch’io riservai loro un posto d'onore nel Giudizio Universale e due grandi affreschi nella Cappella Paolina. Quella che vedete a seguire è la Crocifissione di San Pietro restaurata da poco nella Paolina, non accessibile al pubblico in quanto è la cappella privata del pontefice, quella dove si conserva il Santissimo Sacramento. . . https://ift.tt/2ZUCfN5 . . #michelangelobuonarrotietornato #michelangelo #sanpietro #bellezza #inartwetrust #madeinitaly #lifestyle #paint #artblogger #storytelling #antoniettabandelloni #life #beauty #rinascimento #cappellapaolina #drawing #inartwetrust #sanpietroepaolo #roma #29giugno #madeinitaly — view on Instagram https://ift.tt/2ZlrPYe
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Mettersi in mostra
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Mi stavo volutamente attardando attorno al green della cinque quando, voltandomi indietro, vidi il ragazzo prendere possesso nervosamente dell’area di partenza. Piazzò la sua pallina sul tee con ostentazione, come a minacciare che, se avessi indugiato ancora, avrebbe comunque tirato. Allora, affrettandomi di lato, gli feci ampi cenni per invitarlo a raggiungermi. Si produsse in uno swing elegante e la pallina atterro' a centro green, a poca distanza dalla buca.
Lo osservai mentre si avvicinava. Era un bel ragazzo, ancora piu' affascinante che in fotografia. Portava la sacca in spalla con sciolta noncuranza; traboccava salute e gioventu', e ogni suo movimento era di un'eleganza innata.
Gli riservai un sorriso da piazzista, e con la licenza dei miei settant’anni gli porsi la mano e i miei complimenti per il bel colpo. Mormorò qualche banalità. Aveva occhi neri, inquieti. Insistette cortesemente perche' tirassi il mio approccio dal rough. Attese i miei tre desolanti putt, poi imbuco' la sua pallina con precisione.
Al tee successivo non gli proposi, come sarebbe stato opportuno, di proseguire da solo; né lui me lo chiese. Ebbi l'impressione che volesse scoprire chi fosse quel grasso ometto avanti con gli anni che non si era mai visto prima in quel circolo.
Mi concesse il primo colpo, poi tirò il suo drive un po' troppo a destra; non un gran colpo, per uno come lui. Ci incamminammo verso il rough alla ricerca della mia sfortunata pallina. Osservandolo di sottecchi potevo vederne la fronte aggrottata sotto i riccioli neri. Ero io a condurre il gioco, ed ero ben deciso a non cedere il vantaggio che avevo su di lui. Dopo che ebbe ascoltato le mie chiacchiere di rito per un paio di buche, si decise: - Lei non è socio di questo circolo, vero? -
Mi limitai a sorridere. Presi tutto il tempo che ci voleva - anzi, molto di più - per studiare un banale colpo di approccio, per poi far sprofondare la mia pallina nella sabbia di un bunker. Solo allora, senza neanche guardarlo, gli risposi con una voce che non si accordava più alla mia figura di ometto pacioso.
- La settimana scorsa su questo campo hai girato in meno di 50 colpi, vero?
Gli avevo parlato nella nostra lingua. Mi voltai a guardarlo: era raggelato dal terrore. Non oso' negare.
Si ravvio' nervosamente i capelli e si accertò che qualcuno non ci seguisse troppo da presso. Non c’era nessuno in vista: quel giorno le nuvole grevi di pioggia che muovevano da nord avevano dissuaso i pochi soci di quel circolo esclusivo.
- Perché lo hai fatto? Come ti sei permesso? - gli dissi con durezza.
Non riusciva a guardarmi. Potevo quasi *sentire il battito del suo cuore.
Fui ancora io a parlare, con un tono che non ammetteva repliche.
- Adesso seguimi.
Esitò. Aveva gli occhi pieni di lacrime.
- Ti prego - mormoro' - è proprio necessario…? Ti prego -
Non gli risposi, non ce n’era bisogno. Non potevo farci nulla, e lui lo sapeva: erano le Regole. Si era messo in mostra. Quel giorno era stato solo un giro a golf, ma era stato un rischio enorme: e se un altro giorno si fosse lasciato sfuggire...? No, noi non possiamo permetterci di correre un rischio simile. Non adesso. Non ancora. Non su questo pianeta.
- Andiamo - dissi, con voce piu' dolce.
In cielo si udi' il verso delle oche selvatiche. Ci voltammo entrambi a guardarle fino a che scomparvero a sud. Poi il ragazzo raccolse la sua pallina da terra e mi segui' obbediente, in silenzio, verso il boschetto intricato che ombreggia il green della nove.
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BITE ME - Cap 20
Un mese dopo il mio quasi matrimonio decidemmo di tornare nella città natale di Caleb per sistemare i suoi affari. Vendette villa Vatore nel giro di poche settimane, chiudendo definitivamente col passato. La vendita gli donò una cospicua somma di denaro, sufficiente a farlo vivere serenamente per molti anni a venire. Giunse così anche il momento di iniziare a pianificare seriamente il nostro futuro e, visto che entrambi eravamo amanti del sole, decidemmo di acquistare una casa nella stessa città dove ero cresciuta. Per me fu una gioia immensa tornare alle mie radici. Era come se non fossi mai andata via. La villetta era perfetta nel suo stile ispanico, con tinte accese e decori colorati. Aveva un ampio cortiletto con piscina, due camere da letto, due bagni e un grande caminetto in muratura. Necessitava di qualche ritocco estetico, ma nel complesso era la dimora ideale. Colsi l'occasione di passare a salutare tutti coloro che avevo conosciuto quando vivevo lì, per far sapere che ero tornata e avevo intenzione di restare. Per ultima riservai la mia visita alla donna che aveva aiutato mia madre che si rivelò entusiasta nel rivedermi sana e salva. Caleb mi accompagnò di buon grado, nonostante la donna avesse saputo che era stato lui la causa della mia rottura con Angus. Tuttavia lo accolse a braccia aperte, ringraziandolo di aver fatto tornare il sorriso allla sua "piccola scimmietta". "C'è un ultimo posto dove voglio andare, prima di tornare a casa" annunciai salendo in auto. Percorremmo la statale che portava fuori città e svoltammo sulla destra, prima dell'ultimo bivio. Il sole ancora alto e bollente faceva splendere l'asfalto davanti a noi e una leggera foschia di calore si alzava dalla terra battuta ai suoi lati. Sembrava essere passata un'eternità dall'ultima volta che avevo percorso quel lungo viale alberato e mi sentii in colpa per questo. Arrivammo davanti il grande cancello in ferro battuto, leggermente arrugginito dal tempo, e parcheggiammo l'auto. Il silenzio era assordante in quel luogo di riposo, interrotto soltanto dal rumore delle nostre scarpe che si muovevano sul terriccio. Migliaia di volti nelle fotografie ingiallite osservavano il nostro passaggio, sotto un cielo terso di metà pomeriggio. Qualche fiore appassito spuntava tra quelli appena colti, in un arcobaleno di colori, come quelli che reggevo tra le mani, chiusi in un involucro di carta bianca. Il sorriso di mia madre mi salutò appena mi inginocchiai davanti la lapide bianca e sistemai con cura i fiori nel piccolo vaso rosa. "Ciao mamma!" salutai, passando una mano sulla fotografia, come a volerle fare una carezza sul viso. "Ho portato Caleb con me, ma tanto tu lo conosci già!" annunciai, sorridendo verso di lui in piedi accanto a me. Caleb si inginocchiò poggiando una mano sulla lapide calda di sole. "è un onore per me" mormorò chinando il capo in segno di rispettoso silenzio.
Ci trattenemmo per un pò, seduti dinanzi la lapide di mia madre a parlare con lei, come se fosse stata accanto a noi ad ascoltare. Lasciammo il cimitero che il sole era quasi sulla via del tramonto e le ombre sinistre dei pochi cipressi presenti in quel luogo, cominciavano ad allungarsi facendoli apparire ancor più tristi di quanto non lo fossero normalmente. Saliti in macchina non potei che essere grata a Caleb di essermi stato accanto e di aver condiviso con me quel momento così intimo. Lui mi rammentò quanto fosse innamorato di me e che, da quel giorno, ogni cosa che riguardava me, riguardava anche lui. Fu allora che sentii di appartenere totalmente a qualcuno, nell'esatto istante in cui smettemmo di essere soltanto lui e me e divenimmo semplicemente noi.
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A month after my almost marriage, we decided to return to Caleb’s home town to settle his business. He sold Vatore villa within a few weeks, finally closing with the past. The sale gave him a large sum of money, enough to make him live peacefully for many years to come. So it was time for us to start planning our future seriously, and since we both loved the sun, we decided to buy a house in the same city where I grew up. For me it was an immense joy to go back to my roots. It was as if I had never left. The house was perfect in its Hispanic style, with bright colors and colorful decorations. It had a large courtyard with a pool, two bedrooms, two bathrooms and a large brick fireplace. It needed some aesthetic retouching, but overall it was the ideal residence. I took the opportunity to greet everyone I knew when I lived there, to let people know I was back and I was going to stay. Lastly, I reserved my visit to the woman who had helped my mother who turned out to be enthusiastic to see me again safe and sound. Caleb accompanied me willingly, although she knew that he had been the cause of my break with Angus. However, he welcomed him with open arms, thanking him for having returned the smile to his “little monkey”. “There’s one last place I want to go, before I get home,” I said, getting into the car. We drove along the highway that led out of the city and turned to the right, before the last fork. The still hot and high sun made the asphalt shine before us, and a slight haze of heat rose from the beaten earth at its sides. It seemed to have been an eternity since the last time I had walked that long tree-lined avenue and I felt guilty about it. We arrived in front of the large wrought-iron gate, slightly rusty from the weather, and parked the car. The silence was deafening in that place of rest, interrupted only by the noise of our shoes that moved on the dirt. Thousands of faces in yellowed photographs watched our passage, under a clear mid-afternoon sky. A few wilted flowers appeared among those freshly picked, in a rainbow of colors, like those I held in my hands, enclosed in a wrapping of white paper. My mother’s smile greeted me as I knelt in front of the white plaque and carefully arranged the flowers in the small pink vase. “Hello Mom!” I say goodbye, passing a hand on the photograph, as if to make a caress on her face. “I brought Caleb with me, but you already know him!” I announced, smiling at him standing next to me. Caleb knelt down, placing his hand on the warm, sunny headstone. “It’s an honor for me,” he murmured, bowing his head in respectful silence.
We stayed there for a while, sitting in front of my mother’s headstone talking to her, as if she were next to us listening. We left the cemetery that the sun was almost on the way to the sunset and the sinister shadows of the few cypresses in that place, began to lengthen making them appear even more sad than they normally were. Climbed into the car I could not but be grateful to Caleb for having been near me and having shared that intimate moment with me. He reminded me how much he was in love with me and that, from that day, everything that concerned me, also concerned him. It was then that I felt I belonged totally to someone, at the exact moment when we stopped being just him and me and we simply became ourselves.
poses @storybooksimblr-deactivated2018 @joannebernice @linasims @dearkims
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Mi sono innamorata di te una notte di primavera, detto così sembra romantico, invece no. Noi sole non siamo mai state, mi attaccavo a quei piccoli momenti di solitudine che ci prendevano, e anche quella volta fu ciò a fregarmi. Eravamo davanti a tutti, tu seguivi me, una bizzarria considerando tutte le altre in cui ero io a slittare tra le tue montagne insormontabili, e forse fu proprio la sensazione di stupore a farmi girare e trovarti lì dietro, bella come non mai. La mia parte razionale lo definirebbe l’errore più grande mai commesso invece ora che questo ricordo sembra nebbia vorrei tornare a riviverlo istante dopo istante, una volta ancora. Quel giorno non avevi nulla di speciale, eri sempre tu con i vestiti di sempre, con i capelli di sempre e lo sguardo di sempre, ai miei occhi però sei sembrata l’unica realtà che avessi bisogno di vivere, mi guardasti perplessa, e forse un po’ rimpiango le parole che ti riservai.
Avrei dovuto dirti che in quel preciso momento eri così bella piena del mio amore, e non lo feci... niente, ho detto.
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Il Covid-19 E Il “Paradigma Della Vittima” Enrico Galoppini Il Covid-19 E Il "Paradigma Della Vittima" Chi mi conosce sa, perché l'ha sentita dal vivo, di persona o al telefono, di una mia disamina fatta già a marzo, quando per non sembrare troppo "irriverente" o "esagerato" mi riservai di metterla per iscritto solo in seguito.
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Io non finii allora di predicare…” “Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno” (Mt 4, 23) Trovandomi nel solito mio stato, il mio dolce Gesù si faceva vedere tutto compiaciuto e con un contento indescrivibile, ed io gli ho detto: “Che hai Gesù? Buone nuove mi porti, che sei così contento?” E Gesù: “Figlia mia, sai perché sono così contento? Tutta la mia gioia, la mia festa, è quando ti vengo scrivere. Veggo vergare nelle parole scritte la mia gloria, la mia vita, la conoscenza di me che si moltiplica sempre più, la luce della Divinità, la potenza della mia Volontà, lo sbocco del mio amore; le veggo vergate sulla carta, ed io in ogni parola sento la fragranza di tutti i miei profumi. Poi veggo quelle parole scritte correre, correre in mezzo ai popoli per portare nuove conoscenze, il mio amore sboccante, i segreti del mio Volere. Oh, come ne gioisco, che non so che ti farei quando scrivi! E come tu scrivi nuove cose su ciò che mi riguarda, così io vo inventando nuovi favori per compensarti, e mi dispongo a dirti nuove verità per darti nuovi favori. Io ho amato sempre di più e ho riservato grazie più grandi a chi ha scritto di me, perché essi sono la continuazione della mia vita evangelica, i portavoce della mia parola; e ciò che non dissi nel mio Vangelo, mi riservai di dirlo a chi avrebbe scritto di me. Io non finii allora di predicare; io debbo predicare sempre, fino a che esisteranno le generazioni.” Ed io: “Amor mio, scrivere le verità che tu mi dici è sacrifizio, ma il sacrifizio allora si sente più duro e quasi non mi sento la forza, quando sono obbligata e mi costringono a scrivere le mie intimità tra te e me e ciò che riguarda me, che non so ciò che farei per non mettere penna su carta.” E Gesù: “Tu resti sempre da parte; è sempre di me che tu parli: ciò che ti faccio, l’amore che ti voglio e dove giunge il mio amore verso le creature. Questo spingerà gli altri ad amarmi, affinché anche loro possano ricevere il bene che faccio a te. E poi questo mischiare te e me nello scrivere è anche necessario, altrimenti si direbbe: ‘A chi... #DivinaVolontà #LuisaPiccarreta #FiatVoluntasTu https://www.instagram.com/p/B7AjXYYC7UZ/?igshid=1wri996a6d9zl
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La strada non presa (Robert Frost) Due strade divergevano in un bosco d'autunno e dispiaciuto di non poterle percorrere entrambe, essendo un solo viaggiatore, a lungo indugiai fissandone una, più lontano che potevo fin dove si perdeva tra i cespugli. Poi presi l'altra, che era buona ugualmente e aveva forse l'aspetto migliore perché era erbosa e meno calpestata sebbene il passaggio le avesse rese quasi uguali. Ed entrambe quella mattina erano ricoperte di foglie che nessun passo aveva annerito oh, mi riservai la prima per un altro giorno anche se, sapendo che una strada conduce verso un'altra, dubitavo che sarei mai tornato indietro. Lo racconterò con un sospiro da qualche parte tra molti anni: due strade divergevano in un bosco ed io - io presi la meno battuta, e questo ha fatto tutta la differenza. #robertfrost #strada #poesia #bosco #autumn #autunno🍁 #scelta #foglie #differenza #camminare #cammino #solitudine #filosofia #significato #originalità #unicità #viaggiatore (presso Basilicata) https://www.instagram.com/p/B5Pe1uvKY7J/?igshid=1qpya21wc9dyr
#robertfrost#strada#poesia#bosco#autumn#autunno🍁#scelta#foglie#differenza#camminare#cammino#solitudine#filosofia#significato#originalità#unicità#viaggiatore
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“Non amo comandare, non mi prendo sul serio, disprezzo i narcisisti, adoro Gaber, la politica mi sta sui cogl@@@@ e resto sempre un disgraziato di provincia”: Vittorio Feltri si confessa a Matteo Fais
C’è sempre una buona scusa per intervistare Vittorio Feltri: un suo libro, una dichiarazione, una lezione di stile. E anche quando non c’è, vale la pena inventarsela. Ascoltarlo è un’esperienza. Ogni intervista è, in prima istanza, uno spettacolo che allestisco, con la sua complicità, per me stesso. Certo, poi, penso anche a portare a casa qualcosa per i lettori. Prima di tutto, però, desidero divertirmi e non si può certo dire che lui mi neghi questo piacere. Questa volta il pretesto è la recente uscita di L’irriverente. Memorie di un cronista (Mondadori, 2019), in cui l’ultimo grande giornalista italiano continua a raccontare, come era stato anche con il precedente Il borghese, di personaggi e situazioni che hanno segnato la sua esistenza umana e professionale. Naturalmente, come sempre capita con una mente vulcanica, si parte con l’idea di attenersi a un tema, ma la genialità non si fa contenere e si ribella a qualsiasi richiesta stringente che voglia limitarla. Una cosa, comunque, è certa: anche questa volta, Vittorio Feltri è stato superlativo.
Direttore, il suo testo si intitola L’irriverente eppure, anche rispetto ai precedenti, lei sembra essere diventato, come dire, più sentimentale. Dalle sue righe, soprattutto quando racconta certi periodi dell’infanzia, di sua madre e suo padre, dei suoi gatti, traspare quasi un senso di dolcezza. È lei a essere cambiato, oppure anche il suo sentimento è irriverente?
Questo non lo so. Io sono una persona normale, ma senza inibizioni, che scrive ciò che ha in testa. Non mi faccio tante domande. Sentimentale non lo sono mai stato granché, però è chiaro che se evochi certe situazioni… Io, comunque, non cerco mai di mettermi al centro della scena. Mi basta trasmettere qualche emozione al lettore.
Mi ha colpito molto l’incontro che descrive nel libro con il Direttore Maurizio Belpietro – allora un semplice giornalista –, alla redazione di “Bergamo Oggi”. Mi piacerebbe che fosse lei stesso a raccontarcelo.
L’incontro fu divertente. Mi ricordo che entrai in un giornale disadorno e sull’orlo del fallimento, con un animo non particolarmente entusiastico. I giornalisti erano pochi e tutti tristi, convinti di dover celebrare a breve il loro funerale. Tra questi c’era un signore con degli occhiali molto spessi, un miope incredibile – successivamente si sottopose a un intervento chirurgico e ora ci vede benissimo, beato lui. Mi incuriosiva questo soggetto vestito in un modo diciamo un po’ particolare – perché è vero che l’abito non fa il monaco, però è la prima cosa che noti di una persona. Dopo qualche giorno capii che era assolutamente uno affidabile e cominciai a esaminarlo, ad affidargli qualche compito più importante che lui eseguì ogni volta in modo brillante. Da lì in poi divenne uno dei miei uomini di fiducia e lo portai con me quando diventai direttore di “L’Europeo”, poi a “L’indipendente” e infine a “Il Giornale” di Montanelli. Naturalmente, Belpietro maturò, diventò un bravo giornalista e mi sembra che lo sia tutt’ora.
Ma cosa la colpì, in prima istanza, del giovane Belpietro?
Mi colpì il fatto che fosse abbastanza taciturno e che trascorresse i pomeriggi chino sulla scrivania, senza rompere i coglioni – il che è una dote rara. Eseguiva il suo lavoro in modo egregio. Perciò, da quel momento, gli riservai una particolare attenzione. Credo di non aver sbagliato nella valutazione.
Meglio dirigere un giornale, o trovarsi in uno dei vari ruoli che ha ricoperto al “Corriere”?
Il lavoro che ho fatto più volentieri è stato quello dell’inviato, perché godevo della fiducia della Direzione e perciò facevo come preferivo. Presentavo delle proposte, tre alla settimana di solito. Due venivano bocciate, la terza approvata. Mi dedicavo a questa con grande passione e impegno. Credo che ciò si notasse dalla qualità del prodotto finale. Ancora oggi, quando vado a vedere i pezzi che facevo allora e che ogni tanto ripubblico su “Libero”, mi dico “cazzo, non sono più capace di scrivere così”.
Ho letto, a tal proposito, proprio un’intervista che lei fece a suo tempo a Montanelli e che ha ripubblicato di recente. Mi ha fatto venire in mente la nostra prima conversazione, I barocchismi mi rompono i coglioni. Credo che in essa venga fuori la vera essenza di Vittorio Feltri, come in quella che lei fece a Montanelli traspariva molto bene l’anima del grande giornalista… Ovviamente, sia detto questo considerando le dovute proporzioni.
Ma non esistono proporzioni. Le proporzioni dei coglioni sono più o meno uguali per tutti (ridiamo).
Tornerebbe mai in un grande giornale senza un ruolo di leadership?
A me della leadership non me ne frega un cazzo, onestamente. Non ho mai amato comandare, perché mi dà fastidio il rapporto con le persone. Solo che in ultimo non ho fatto altro nella vita, ma non per mia scelta. Quando mi hanno offerto la prima direzione, l’ho accettata con poco entusiasmo, attratto unicamente dallo stipendio. Quello di un giornalista qualsiasi può anche essere buono – io, al “Corriere”, guadagnavo decentemente –, però come direttore prendevo cinque volte tanto. Sì, sono stato indotto da quello più che dal lavoro, perché preferivo il ruolo di inviato. Oggi, sia chiaro, non sarei più in grado di farlo, perché bisogna viaggiare tanto. Io detesto gli aerei – se solo devo andare a Roma, bestemmio per venti minuti. Allora lo facevo e riuscivo a sopportare la nevrosi. Così ho girato il mondo. Ho fatto servizi ovunque: Cina, Messico, Corea, Africa. Ma, cosa vuoi, arrivato a quest’età, dell’Africa non me ne frega più un cazzo. Un tempo ero curioso, adesso preferisco stare nel mio ufficio e fare le mie cose. L’ufficio è come una sorta di corazza che ti dà la forza per continuare a vivere. Ho settantasei anni, però lavoro come quando ne avevo trenta, ma lo faccio da seduto, senza più andare a zonzo per il mondo. Quando scrivevo i pezzi al “Corriere” avevo tempo un giorno o due, quindi ci lavoravo molto e con maggiore impegno. Oggi, invece, per intenderci, ho scritto un fondo per “Tuttosport” in quattordici minuti. Capisci che in così poco tempo è difficile fare un capolavoro. Prima che mi chiamassi, ho preparato un pezzo sull’Ilva e ci ho messo un po’ di più, circa venti minuti. Poi lo rileggerò e, se ho scritto delle puttanate, correggo.
Leggendo dei suoi vari successi – penso, per esempio, al caso Enzo Tortora – e degli scontri avuti nelle redazioni di grandi quotidiani nazionali, mi sono chiesto quando si sia reso conto di essere diventato Vittorio Feltri, un caposaldo del giornalismo italiano.
Forse domani, perché fino a oggi non mi sono reso conto proprio di un bel niente. Non riesco a darmi delle arie. Ho bisogno di tutto l’ossigeno possibile, perciò non me ne avanza per darmi delle arie. In tutta onestà, comunque, non so quando ho svoltato. Forse quando il “Corriere” mi ha fatto fare l’inviato, perché da lì è nata l’ipotesi di dirigere “L’Europeo”. Nessuno altrimenti si sarebbe accorto di me, eppure avevo già lavorato sei o sette anni come caposervizio della politica, pur odiandola. Ti dirò di più, se c’è una cosa che mi sta sui coglioni è la politica – sempre la stessa cosa, le stesse formule. Mi hanno messo lì e l’ho fatto. Ho imparato molto sulla titolazione, sulla fattura del giornale. La scuola del “Corriere” mi è servita, devo riconoscerlo. Mi ha consentito di aprire gli orizzonti, ma senza cambiare la mia natura che è sempre stata quella di un disgraziato di provincia. Io vengo da Bergamo, non da New York… A ogni modo, la cosa che ho fatto meglio nella vita è stata guadagnare soldi. A fare i contratti mi insegnò Enzo Biagi, un maestro in tal senso – i suoi erano micidiali e mi chiedevo come cazzo facesse. Poi ho scoperto il segreto e da allora ne ho sempre ottenuti di buoni anche io. E mi meravigliavo di quello che incassavo, che mi consentiva di dare alla mia famiglia un agio di cui poi non ho realmente mai approfittato. Io vivo qui dentro tutto il giorno, per cui non ho molto tempo per spendere e spandere. Anche se bisogna dire che avere del denaro ti mette una quiete nell’animo che altrimenti non avresti. Poi che cazzo me ne faccio dei soldi? Niente! Anzi mi secca, perché non vorrei lasciare una sega ai miei figli. Gli ho già dato una casa a testa. Cazzo vogliono ancora da me?! Cercherò con mia moglie di sperperare un po’ di denaro negli ultimi anni. Non so come fare, ma se mi impegno sono certo che ci riuscirò.
Sia il precedente testo, Il Borghese, che l’ultimo uscito raccontano personaggi e incontri che hanno segnato la sua vita sul piano umano e professionale…
Non ho scritto questi racconti per mettere me stesso al centro di tutto. Non apprezzo il narcisismo e l’ostentazione mi infastidisce. Il fatto è che, per ogni personaggio che ho incontrato, ho citato degli aneddoti che credo siano inediti e possano interessare il pubblico. Io, poi, non pensavo neppure di fare il direttore, come ti dicevo, e invece ho iniziato da giovane, perché me lo hanno chiesto e allettato dal denaro ho accettato. Avevo anche un minimo di predisposizione per la fattura del giornale, ma quando devo parlare con qualcuno, dicendogli cosa fare, mi rompo le palle in modo incredibile. Non mi piace nemmeno dire alla mia segretaria di portami un caffè, perché me lo so fare da solo. Io non amo comandare. Anche in casa non ho mai fatto il ducetto. Non mi viene, è contro la mia natura.
Scusi, non vorrei aver capito male leggendo il libro, ma lei ha davvero suggerito un verso di Destra-Sinistra a Giorgio Gaber?
Non è che gliel’abbia suggerito, ma eravamo amici e ogni tanto ci trovavamo per fare quattro chiacchiere. Una sera mi scappa la pipì e gli dico “Scusa, Giorgio, devo assentarmi un attimo per andare al cesso che, come sai, è sempre in fondo a destra”. Lui, in quel momento, mi stava spiegando le differenze tra la destra e la sinistra. Gli è piaciuta la mia frase e l’ha inserita nel testo della canzone. Poi è vero che il bagno è sempre in fondo a destra, anche se non ho mai capito perché. Ma la cosa più divertente con Gaber è stata quando mi disse di sentirsi limitato, perché era un semplice ragioniere. Avrebbe voluto essere laureato in Filosofia e si iscrisse alla Statale. Ma faceva una fatica della Madonna, perché lavorava, e dare gli esami, a una certa età, diciamoci la verità, ti rompe anche i coglioni. Io, in modo molto amichevole, gli feci notare che la laurea non conta una sega. Tant’è che i premi Nobel italiani della Letteratura, a parte Pirandello, non erano laureati: né Montale, né Quasimodo, né la Deledda. Cazzo, lui si è impressionato. Non lo sapeva che anche Montale era ragioniere. Ha fatto delle ricerche, perché non mi credeva, e poi mi ha telefonato, dicendomi: “Ti ringrazio, perché mi hai liberato dall’ossessione di questa università di merda” (ridiamo).
(Sempre ridendo) Lei è il mio mito. Mi fa morire…
Mamma mia, mi fai arrossire, malgrado io il rosso non lo ami molto…
Come nella canzone di Gaber, Non arrossire…
(Feltri canta “Non arrossire”). Le so tutte. Io amavo Gaber. Mi divertivo con lui. Era uno di poche parole. Ci siamo conosciuti a una Festa dell’Unità, alla fine del suo spettacolo. Io avevo diciotto anni, lui ventuno. Dopo sette-otto anni, ci siamo incontrati nuovamente e siamo diventati amici. Andavamo nelle trattorie, per intenderci, mica in questi ristoranti stellati del cazzo.
Non posso fare a meno di notare, nei suoi libri come negli articoli, che, tra i vari momenti di humor e cinismo, torna sempre con una certa regolarità la questione della morte. È un Feltri molto umano e sensibile quello che fa i conti con la fine. Non le chiedo tanto della sua eventuale dipartita, ma dell’effetto che le fa vedere che la vita perde pezzi e che chi ha segnato la sua esistenza se ne va per l’eternità.
Nel futuro di tutti c’è una tomba. Non è che mi piaccia, ma bisogna ricordarselo sempre. È normale. Di fronte alla morte si prova uno strazio tremendo che uno cerca di amministrare in modo dignitoso, ma il dolore ti rimane dentro. Poi passa, per fortuna. Però, ogni tanto, il ricordo punge l’animo e il corpo, prende proprio allo stomaco.
Io, che la seguo costantemente su “Libero”, noto che con triste regolarità ripropone la questione della sua prima moglie…
Non è stata una esperienza gaia…
Ma scrivere serve a esorcizzare, o no?
Sì. Quando scrivi, essendo in intimità con te stesso, viene fuori quello che pensi e che provi.
Come si è sentito la prima volta che ha visto il suo nome su un giornale e come si sente adesso, dopo mezzo secolo di attività?
Adesso non sento più niente, anche se sono sempre curioso di vedere come va il mio pezzo. Le mie prime esperienze le ho avute a diciannove anni, scrivendo di cinema, arte di cui non capisco un cazzo, su “L’eco di Bergamo”. Ero estasiato dall’idea di poter scrivere, perché ho sempre pensato che sia come vivere due volte. Sai, un eccesso di vita mi fa bene. Anche adesso è così. C’è l’esistenza se vogliamo banale e rutinaria e poi quella che è la descrizione della realtà, quel surplus di vita. C’è poco da fare, tutti quelli che scrivono vivono due volte. Lo facciamo per questo, perché ci manca qualcosa e scrivendo ce lo prendiamo, con la nostra voglia di partecipare, di dire agli altri, con il desiderio di comunicare, di gridare al mondo che ci siamo.
Mi colpisce sempre una cosa: a differenza di come vogliono farla apparire in televisione, lei è molto più profondo.
Ma in tv, se sei profondo, rompi il cazzo a tutti. Meglio dire quattro cazzate, farli divertire, e finita lì (ridiamo).
Anche questo mi piace di lei, come riesce ad alternare il senso del tragico all’ironia. È una delle sue caratteristiche migliori…
Questa mattina ero ad Agorà e la conduttrice mi ha detto: “Ho visto che nel libro parla di suo padre e di sua madre. Suo padre è morto quando lei aveva sei anni. Avrà sofferto”. Le ho risposto che non ho sofferto, anzi sono stato contento. Di solito si hanno due genitori che rompono i coglioni, io ne ho avuto uno solo. Non mi piace mettermi lì a fare la retorica dell’orfano.
Nel libro scrive: “Ai miei giornalisti qualche volta rammento che scrivere non è come pisciare, ma devo ammettere che alcuni scrivono come se pisciassero. E lo fanno controvento”. Come non essere d’accordo…
È così. Quando si scrive bisogna pensare a quello che si sta facendo, non è che ti viene così come la pipì. Montanelli mi diceva sempre che non è importante avere un’idea per scrivere un pezzo, ma almeno mezza ci vuole.
C’è un erede, un nuovo Feltri a cui vorrebbe passare il testimone un giorno?
Secondo me ce ne sono tanti, però bisogna avere il temperamento per liberarsi dai pregiudizi, dalle manie che abbiamo noi che vogliamo sembrare sempre i primi della classe, quando invece eravamo i penultimi. Bisogna cercare di essere quelli che si è. Poi, se gli altri ti criticano, che vadano a fare in culo. Io, comunque, non mi sono mai preoccupato di avere un erede, perché quando finisco io che cazzo me ne frega di cosa succede a questo mondo.
(Scoppiamo a ridere) Non mi vedo la Fallaci sghignazzare in questo modo, mentre faceva le sue famose interviste con la storia.
Lei era di una bravura incredibile, ma si prendeva molto sul serio. Io non riesco a prendermi sul serio nemmeno quando mi pettino.
Direttore, ma lei non ci pensa proprio a mollare la presa e andare in pensione? Si sente di avere ancora molte cose da dire?
Io sono andato in pensione a cinquantacinque anni e ho fatto sempre dei contratti sui diritti d’autore. Voglio morire dietro la scrivania, così evito anche la permanenza in ospedale con le flebo e tutte quelle altre cose orribili. Adesso, scusami, ma mi fanno cenno di tagliare. Mi aspettano in televisione per un intervento. Sai, la solita stronzata. Ci risentiamo quando vuoi…
Matteo Fais
L'articolo “Non amo comandare, non mi prendo sul serio, disprezzo i narcisisti, adoro Gaber, la politica mi sta sui cogl@@@@ e resto sempre un disgraziato di provincia”: Vittorio Feltri si confessa a Matteo Fais proviene da Pangea.
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Due strade divergevano in un bosco d'autunno
e dispiaciuto di non poterle percorrere entrambe,
essendo un solo viaggiatore, a lungo indugiai
fissandone una, più lontano che potevo
fin dove si perdeva tra i cespugli.
Poi presi l'altra, che era buona ugualmente
e aveva forse l'aspetto migliore
perché era erbosa e meno calpestata
sebbene il passaggio le avesse rese quasi uguali.
Ed entrambe quella mattina erano ricoperte di foglie
che nessun passo aveva annerito
oh, mi riservai la prima per un altro giorno
anche se, sapendo che una strada conduce verso un'altra,
dubitavo che sarei mai tornato indietro.
Lo racconterò con un sospiro
da qualche parte tra molti anni:
due strade divergevano in un bosco ed io -
io presi la meno battuta,
e questo ha fatto tutta la differenza.
Robert Frost - La Strada Non Presa
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