#riscoprire l’amicizia
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Troviamo il Tempo per l'Amicizia: La Riflessione di Maura Mantellino. Recensione di Alessandria today
Un invito a riscoprire la bellezza delle piccole cose e il valore dell'amicizia autentica.
Un invito a riscoprire la bellezza delle piccole cose e il valore dell’amicizia autentica. Biografia dell’autrice.Maura Mantellino è un’autrice attenta e profonda, capace di trasformare riflessioni quotidiane in parole che risuonano nell’animo dei lettori. Attraverso i suoi scritti, esplora temi universali come l’amicizia, la solidarietà e il significato della felicità, offrendo spunti di…
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RISCOPRIRE GLI AMICI 50 ANNI DOPO IL DIPLOMA
L’amicizia è un valore che resiste al tempo e alle vicissitudini della vita. Lo dimostrano i tanti raduni di compagni di scuola che dopo molti anni si cercano e, anche grazie alle nuove tecnologie e ai social network, si riescono a riunire dopo una vita.
Ad Orbassano (Torino) in occasione del cinquantenario dal loro diploma si sono ritrovati gli ex allievi della classe quinta B dell’Istituto Tecnico per Geometri Guarino Guarini di Torino. Nel 1973 da ragazzi e avevano iniziato insieme un pezzo del cammino della loro vita prima di affrontare le loro storie, le famiglie, il lavoro, i figli, i nipoti. Sedici dei ventisette alunni che frequentavano la classe si sono ritrovati a distanza di cinquant’anni. La maggior parte abita ancora nel torinese mentre due di loro sono arrivati da lontano, uno da Verona e uno da San Benedetto del Tronto che non ha voluto mancare anche se in videochiamata a causa dell’alluvione. Ha preso parte alla rimpatriata anche l’insegnante di lettere che, giovanissima, aveva seguito la classe nel corso dell’ultimo anno.
Dopo il rituale appello, con applausi alla chiamata dei due compagni che non ci sono più, gli ex-ragazzi hanno passato insieme una giornata di ricordi, buon cibo e canzoni. “I professori dicevano che la nostra doveva essere prima di tutto Scuola di Vita”, dice uno di loro, “e così sono riusciti a insegnarci il rispetto dei valori umani e civili che fanno di un uomo un cittadino”. “E’ bello ed emozionante ritrovarsi così” prosegue un altro ex compagno di classe “come se il tempo non fosse passato, se non per i nostri volti decisamente più maturi.”
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Fonte: Pietro De Gregori
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Capire i sentimenti
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Questa volta, Vortici.it vuole invitarvi a scoprire o riscoprire il libro: Capire i sentimenti - Per conoscere meglio se stessi e gli altri (Mondadori) di Vera Slepoj, venuta a mancare recentemente.
Sentimenti, affetti, emozioni lo sappiamo, accompagnano la nostra esistenza influenzandone il percorso verso sviluppi più o meno felici. Eppure li abbiamo sempre vissuti come ineluttabili. Tale è il loro impatto sull'esistenza umana che, per comprenderne il senso, la natura, le dinamiche, sono state coinvolte le scienze umane e sociali, la medicina e perfino la biologia e la chimica del corpo. Da qualche decennio, invece, la psicologia ci ha insegnato a conoscerli, più che a dominarli come si voleva in passato. Nel bel mezzo di una miriade d'informazioni, tuttavia, ci siamo sentiti dire tutto e il contrario di tutto a causa di un’informazione farraginosa, imprecisa, spesso fuorviante. Mettere un po’ d’ordine nella conoscenza dei sentimenti appare ormai indispensabile a molti di noi: ed è ciò che offre questo libro, ricco di esperienze maturate nel diretto contatto con chi si rivolge allo psicologo per sbrogliare la matassa ingarbugliata del proprio mondo emotivo. Tentarne un'analisi descrittiva è lo scopo di questo libro, frutto di una vasta esperienza maturata in anni di studio e di pratica terapeutica. Vera Slepoj come psicologa, ha approfondito negli anni lo studio e la pratica dei sentimenti traendone appunto il libro "Capire i sentimenti", uno strumento importante per capire noi stessi e chi ci sta intorno. Ed ecco dunque una rassegna completa di sentimenti positivi (l’amicizia, l’amore, la simpatia, la socialità, la felicità) e negativi (l’angoscia, l’aggressività, la cattiveria, la gelosia, l’invidia, il narcisismo, o la paura, il senso di colpa, l’odio e la violenza). L'autrice ci invita a prestare una particolare attenzione ai sentimenti nelle età evolutive (l’adolescenza, la vecchiaia), quando l’identità di ciascuno elabora mutamenti essenziali. Esprime una sintesi dei sentimenti che travagliano la coppia e la famiglia. E introduce nella sua analisi una categoria di sentimenti spesso trascurati, eppure determinanti nella formazione dell’individuo, soprattutto oggi che la comunicazione di massa e la disgregazione delle culture ideologiche, etniche o religiose impongono sradicamenti e scelte che affondano troppo spesso nell’irrazionale: i sentimenti collettivi, come l’idea di civiltà e di progresso, il pensiero conservatore e rivoluzionario, l'integralismo e il fondamentalismo, che ci costringono a complesse mediazioni tra passato, presente, futuro. “Sui sentimenti si è costruita l’arte di ogni tempo, dalla musica alla poesia, dalla letteratura alla pittura. E i sentimenti sono qui, in noi, e lì, fuori di noi, e con i sentimenti dobbiamo confrontarci per conoscere chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando”. Leggi qui un estratto...
Vera Slepoj (1954 Portogruaro - 2024) è stata una psicologa e scrittrice italiana. Si è laureata in Psicologia presso l'Università di Padova nel 1977, si è poi specializzata in psicoterapia individuale e di gruppo e oggi è psicologa psicoanalista con diploma in sofrologia medica. Ha vissuto e lavorato tra Padova, Milano e Londra. Molte le attività che l’hanno impegnata negli anni: tra le altre, l’insegnamento presso l’Università di Siena, la presidenza della Federazione Italiana Psicologi dal 1989 e dell’International Health Observatory, la direzione di importanti scuole di formazione in psicologia. Autrice di pubblicazioni scientifiche e divulgative, partecipa a programmi televisivi e collabora con diverse testate, tra cui «Diva e donna». Alcuni dei suoi libri sono stati tradotti da case editrici internazionali, tra cui Payot. Ha pubblicato Capire i sentimenti (Mondadori 1996), Cara TV con te non ci sto più (insieme a Marco Lodi, Alberto Pellai che voi lettori avete conosciuto attraverso le nostre pagine e Franco Angeli 1997), Legami di famiglia (Mondadori 1998), Le ferite delle donne (Mondadori 2002), Le ferite degli uomini (Mondadori 2004), L'età dell'incertezza. Capire l'adolescenza per capire i nostri ragazzi (Mondadori 2008), La psicologia dell'amore (Mondadori 2015). Vera Slepoj si è spenta il 21 giugno 2024 a Padova. «Ci mancheranno il suo entusiasmo e la sua simpatia, così come la sua capacità di trattare in modo chiaro e divulgativo temi importanti come le relazioni affettive e altre complesse problematiche sociali.» così l'ha ricordata il sindaco di Padova Sergio Giordani su Repubblica. Scoprite la nostra rubrica Libri Consigliati Foto: https://www.lafeltrinelli.it/Immagine di copertina: freepik.com Read the full article
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Festival del Disegno 2023 a Milano
Dalla matita tutto si crea e tutto si trasforma e la nuova edizione del Festival del Disegno, a cura di Fabriano, che parte dal tratto di Lucio Schiavon, sempre in una continua metamorfosi tra infiniti mondi, personaggi, oggetti, case, mostri, volti e sorrisi. Il Festival è un’occasione per riscoprire la bellezza di un linguaggio universale, che non ha barriere, non esclude e lascia spazio all’immaginazione e si parte a Milano, sabato 16 e domenica 17 settembre e si prosegue in tutta Italia fino al 15 ottobre. Le due giornate di Milano sono previste nei cortili del Castello Sforzesco, grazie alla collaborazione con Comune di Milano - Cultura, dove ci saranno laboratori a per i più piccoli e, per i più grandi, un ricco programma di Atelier per imparare e confrontarsi con tanti artisti. Il Festival, che ha visto negli anni oltre 80.000 persone con la partecipazione di 80 artisti e 2.000 attività in più di 300 città italiane, è un’occasione per divertirsi, imparare, mettersi alla prova con tutte le tecniche tra pennelli, matite, pennarelli, forbici, pennini, inchiostri in un arcobaleno di colori e con ogni carta, insieme ad artisti, illustratori, fumettisti e calligrafi che con la loro mano esperta guidano alla scoperta di questo universo. L’invito è per: appassionati, professionisti, timidi ma curiosi, coraggiosi ma inesperti o entusiasti sperimentatori, tra bambine e bambini, ragazze e ragazzi e adulti. Tutte le attività sono gratuite e per gli Atelier d’artista è prevista la prenotazione presso l'Info Point nel Cortile del Castello i giorni stessi della manifestazione. Quest’anno insieme a Lucio Schiavon si potrà portare con se una linea oppure imparare a disegnare con la forbice usando la tecnica del collage guidati dalla creatività di Gio Pastori con cui realizzare coloratissimi insetti o far rivivere i giganti della preistoria con Davide Bonadonna, paleontologo e illustratore di dinosauri. Alberto Madrigal, amico della carta Fabriano, tornerà con un laboratorio tra fumetto e acquerello e accompagnati dall’immaginario alpino di Giorgia Pallaoro si potrà realizzare un bestiario di montagna, partendo dalla lettura di Il roseto di Re Laurino, mentre con Mattia Bonora si potrà divertirsi con la calligrafia e il lettering. Se Mara Cerri inviterà a raccontare l’amicizia attraverso un fumetto, partendo dalla sua graphic novel tratta dal romanzo di Elena Ferrante, con Luisa Callisto e Valentina Doati dell’Associazione SMED, Scrivere a Mano nell’Era Digitale si potrà creare un diario in cui raccogliere e organizzare emozioni e ricordi. Lo youtuber RichardHTT svelerà i segreti dei disegni che si nascondono in uno scarabocchio e Collezione Ramo presenterà Stefano de Paolis, protagonistainsieme a Irina Zucca Alessandrelli, curatrice della Collezione, di un talk dedicato alla tecnica del disegno con la punta d’argento. Un grande evento finale concluderà l’edizione 2023 con una lezione interattiva e aperta a tutti di Gianfranco Florio, illustratore di Topolino, che racconterà come nasce un fumetto coinvolgendo tutti i partecipanti. Read the full article
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LA LUCE DI MONREALE
Le parole possono descrivere e sedurre ma non possono bastare a evocare la bellezza della luce di Monreale. Quando entri nella cattedrale, i tuoi occhi, storditi dal sole che imbianca la piazza davanti ad essa ed abbagliati dal chiarore del portico di ingresso, restano per un attimo ciechi, per poi lentamente riscoprire la luce tenue che penetra dalle finestre, il suo esitare diventando penombra nelle navate laterali e quindi accendersi sull’oro dei cassettoni ed infine risplendere nella luminosità vetrosa e dorata delle tessere dei mosaici ed è come se un coro con migliaia di voci incominciasse in quel momento a cantare. A questo punto ti rendi conto dell’immensa bellezza di questo racconto descritto sulle pareti della cattedrale in cui rivive quella drammatica ed intensa storia d’amore che unisce l’uomo al suo Dio. Comprendi che Monreale è un cantico luminoso, dove artisti di origini e culture diverse hanno descritto quello che era stato appena abbozzato nelle parole scritte nelle antiche pergamene, quello che era solo accennato nei nomi dei racconti e delle storie bibliche. Le pareti della chiesa descrivono, definiscono, rendono certi ed evidenti, quanto nascosto nell’oscura intimità dei sacri e inaccessibili testi, dando alle nere parole colori e grazia, sensualità e forza, pietà ed amore. Ecco gli angeli dalle ali turchesi, ecco l’immensa Babilonia, i santi guerrieri i melanconici profeti, i potenti re, l’abbraccio dell’amore immenso e avvolgente del Pantocratore. Il tutto dettagliato in una sequenza continua, un film i cui fotogrammi sono fatti di pietre colorate unite dalla sola abilità umana. Ti senti un’anima cieca che attraverso gli occhi vede finalmente il mondo nella sua violenza, nelle sue terribili malattie, nelle incertezze, nelle rabbie e nel salvifico amore, tra le urla dei disperati e la continua ricerca di un amorevole misericordia. Il tuo stupirti e ammirare è la preghiera di un miscredente, la conversione di un insensibile alla grandezza dell’arte, all’abilità degli artisti, alla inesauribile ricerca di rendere concrete entità immateriali come la fede, l’amicizia, l’amore. Questo e non solo questo, è la luce che vedi dentro Monreale.
Words can describe and seduce but they cannot be enough to evoke the beauty of the light of Monreale. When you enter in the cathedral, your eyes, stunned by the sun that whitens the square in front of it and dazzled by the light of the entrance portico, remain blind for a moment, and then slowly rediscover the soft light that penetrates through the windows, its hesitation becoming twilight in the side aisles and then light up on the gold of the coffers and finally shine in the glassy and golden brightness of the mosaic tiles and it is as if a choir with thousands of voices began to sing at that moment. At this point you realize the immense beauty of this story described on the walls of the cathedral in which the dramatic and intense love story that unites man to his God relives. You understand that Monreale is a luminous canticle, where artists of origin and different cultures have described what had just been sketched in the words written in the ancient scrolls, what was only hinted at in the names of biblical stories. The walls of the church describe, define, make certain and evident what is hidden in the dark intimacy of the sacred and inaccessible texts, giving the black words colors and grace, sensuality and strength, pity and love. Here are the angels with turquoise wings, here is the immense Babylon, the holy warriors, the melancholy prophets, the powerful kings, the embrace of the immense and enveloping love of the Pantocrator. All detailed in a continuous sequence, a film whose frames are made of colored stones united by human skill alone. You feel like a blind soul that through your eyes finally sees the world in its violence, its terrible diseases, uncertainties, anger and salvific love, amidst the screams of the desperate and the continuous search for loving mercy. Your amazement and admiration is the prayer of an unbeliever, the conversion of an insensitive person to the greatness of art, to the skill of artists, to the inexhaustible search to make tangible, intangible entities such as faith, friendship, love. This and not only this, it is the light you see inside Monreale.
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"La rivoluzione possibile: l'amicizia
Se torno indietro, se cerco di collocare da dove sgorga la passione per il socialismo, che cosa la motiva, se cerco di cogliere che cosa caratterizza il suo nucleo eterno, l'esigenza perenne che lo caratterizza al di là dei contesti storici, trovo sempre una cosa semplice, infantile se volete: creare legami, vincoli di amicizia. E se c'è un motivo per cui ho trovato odioso il capitalismo, il neoliberalismo, è perché lo ho sempre considerato una macchina per dissolvere i legami: tra padri e figli, uomini e donne, giovani e anziani, bianchi e neri. Un odio verso ogni forma di legame, un tentativo di dissolverli, e di creare un mondo in cui ognuno è contro tutti, lontano dagli altri e da se stesso, lontano dalla propria vita. Un mondo in cui incontrare l'altro significa subito compararsi, definire la propria identità per comparazione.
In questo senso, il neoliberalismo, il suo veleno e la sua potenza distruttiva sono presente tra noi, dentro di noi, anche quando argomentiamo a favore del socialismo. Cosa sarebbe un socialismo senza legami di amicizia se non una gabbia insopportabile? E per questo, c'è una rivoluzione che possiamo fare, ora, subito, c'è qualcosa che trasforma la vita, senza aspettare il sol dell'avvenire, liberandoci da un'idea di storia come compimento, che non tiene, non ha mai tenuto, è stato solo il mito di un'epoca per non trasformare la vita.
Non so se abbiamo bisogno di egemonia, di controcultura. Sento che abbiamo bisogno di vincoli di amicizia, di riscoprire l'amicizia come fattore politico, come sapevano i greci, per i quali non era un fatto sentimentale, ma il nucleo del vincolo sociale e civile.
Ma certo dobbiamo ridefinirla, perché nel modo in cui è stata pensata vi sono elementi che vanno decostruiti, che la rendono pericolosa, che escludono, contano, distinguono tra amici e non amici, che costruiscono il concetto di amicizia attraverso la contrapposizione amico/nemico, e c'è della stranezza nel fatto che queste teorie siano divenute base di un pensiero che mira a scoprire il segreto dei vincoli.
Per Aristotele, per esempio, gli amici sono quelle persone che, pur essendo altre da noi, condividono con noi un nucleo di identità. Infatti, «l’amicizia perfetta è l’amicizia degli uomini buoni e simili per virtù» . Dunque, ciò che rende possibile un autentico rapporto con l’altro è quell’identità che nasce tra gli individui in quanto sono buoni e compiono azioni buone, poiché seguono la ragione invece delle passioni.
Questo modo di pensare l’amicizia come virtù politica, o come una virtù che dovrebbe dare sostanza a uno spazio politico altrimenti troppo formale, è stato, tuttavia, problematizzato da diversi punti di vista. Così, Bernard Williams ha denunciato l’incapacità della nozione aristotelica di amicizia di includere l’alterità e la diversità, dato che Aristotele «vedeva nell’amico un duplicato di se stesso» . In realtà, secondo Williams, dobbiamo pensare l’amicizia come una relazione tra esseri differenti e tra differenze di carattere, poiché questo produce una relazione di amicizia tra individui insostituibili. Mentre nell’impostazione classica l’altro può essere mio amico solo in quanto io e lui ci pieghiamo a una ragione universale e impersonale, l’amicizia rappresenta, secondo Williams, una forma di relazione tra esseri diversi e, pertanto, insostituibili. Infatti, «l’idea che non è possibile sostituire pari pari un tuo amico con un altro fa tutt’uno con la convinzione che da un lato neppure tu puoi essere sostituito e, dall’altro, che tu e il tuo amico siete diversi l’uno dall’altro» .
Anche Derrida ha avanzato perplessità sull’impostazione aristotelica, tentando di mettere in discussione lo “schema reciprocalista” presente nel modo aristotelico di pensare l’amicizia, dove «l’amico è un altro noi-stesso» , e dove dunque l’amicizia procede dall’amore di sé e non dall’amore per l’altro. In secondo luogo, Derrida ha notato che l’amicizia, in quanto concetto politico, sembra contenere una contraddizione performativa al proprio interno, dato che la “comunità di amici” sembra potersi costituire solo escludendo altri, cosicché nella comunità degli amici diviene difficile il «rispetto della singolarità o dell’alterità irriducibile» di ognuno, dato che quando gli amici vengono contati perdono la loro individualità, diventano numeri della maggioranza. Dall’altra parte, in questa conta, quel particolare altro che non rientra nella cerchia degli eletti diventa il non amico: il nemico.
Non so se ciò colpisca davvero l'impostazione aristotelica, che determina comunque il nostro modo di pensare l'amicizia. Credo che colpisca in ogni caso un concetto di amicizia che distrugge il legame invece di generarlo.
L'amicizia, dove emerge, crea nuova vita. L'amicizia non si oppone: apre alla vita. Può non combattere il potere, ma lo destabilizza con la sua stessa esistenza. Di nulla ha più paura il potere e il privilegio e l'ingiustizia che di uomini legati da vincoli di amicizia."
Vincenzo Costa
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“Io, Claudio, Zevi e Palladio...”-Architetti a Roma anni ‘60.In memoria di Claudio D’Amato
di Duccio Trombadori
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L’amicizia, la collaborazione, la comunità di esperienza vissuta e ideali coltivati con Claudio D’Amato risale al 1964, quando cominciammo a salire i gradini di Valle Giulia da giovani studenti di Architettura, apprendisti stregoni pre-1968, carichi di ‘astratti furori’ di tipo palingenetico e desiderosi di interventismo rivoluzionario sul piano intellettuale e morale.
Abbracciammo tutti, così sulle prime, le ambizioni di rinnovamento pedagogico annunciate e introdotte da Bruno Zevi; leggemmo avidamente i suoi libri, ne restammo colpiti e suggestionati per l’ efficacia semplificante che tracciava linearmente i passaggi storici dal ‘classico’ allo ‘anti-classico’ come chiave di volta dei tempi architettonici moderni.
Ma le crepe culturali del codice modernista (tra gli equivoci di razionalismo, costruttivismo, funzionalismo, organicismo, neo-purismo, eccetera) si facevano già sentire e mettevano dubbi tra gli spiriti più avvertiti, soprattutto tra coloro che reclamavano un maggior rigore disciplinare in nome di una idea di architettura preservata come arte ‘autonoma’ irriducibile a vaniloquio informale e tantomeno a deriva sociologico-economica.
Senza saper dare risposte adeguate a queste domande basilari, cominciammo però, un po’ alla cieca, un lavorìo di coscienza che imponeva calibrati distinguo: volevamo addirittura riformulare, per conto nostro, un ‘vocabolario architettonico’ in grado di rispondere all’ esigenza di rigore e rinnovamento sociale cui affidare una professionalità conseguente.
Questo esuberante trambusto ideologico accompagnò l’ inquieta formazione di tanti giovani nel passaggio difficile e traumatico degli anni ’60 al limitare del frastuono contestativo del 1968 che pregiudicò l’impianto della struttura universitaria mutandone sensibilmente funzioni e aspirazioni.
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Della ‘generazione anni 60’ Claudio D’Amato fu certamente tra i primi a prendere parte alla dialettica che oppose le personalità di Bruno Zevi, col suo pregiudiziale anti-accademismo, e Paolo Portoghesi, cultore di uno storicismo che metteva al centro la regola compositiva. Nascevano istanze revisioniste in materia di modernismo, tanto quanto si ripresentavano i valori fondanti e tradizionali della misura, della proporzione, della simmetria.
Un interesse ‘archeologico’ scevro da romanticismi ci faceva riscoprire con Vitruvio l’ ordine classico alla base del pensiero costruttivo (“nascitur ex fabrica et ratiocinatione") e rimettere in auge, con Canina, i Propilei di Villa Borghese, anticipando quasi un certo gusto postmoderno lontano a venire.
In questo clima di ripensamenti fu così che con Claudio D’Amato, Sergio Petruccioli e altri compagni di studio mi avvicinai ad una lettura ‘formalista’ (così Bruno Zevi) dell’ opera di Andrea Palladio che allora ci piaceva mettere in relazione con le mega-forme di archi e volute innalzate da Louis Kahn a Dacca e con l’ utopia geometrizzante di Le Corbusier a Chandighar.
Un viaggio di studio nelle provincie venete compiuto nel settembre del 1967 ci aprì alla conoscenza diretta delle grandi ville, delle basiliche, del Teatro Olimpico: disegnammo, inquadrammo angolature fotografiche, studiammo Maser e Poiana e tutto il resto come abbeccedari del nostro comune viatico spirituale ad una idea di architettura in grado di associare il permanente e il transitorio, o, se, si vuole, la ricerca di un ‘pensare italiano’ (storia, tradizione) che fosse al tempo stesso uno stimolo alla innovazione. Di quel viaggio sentimentale di formazione conservo memoria nitida, una foto mi riprende sulle gradinate del Teatro Olimpico mentre prendo appunti, e accanto a me Claudio D’Amato è puntualmente occupato a disegnare una angolatura, un particolare dirimente, una simbiosi di effetto luminoso e giuntura compositiva.
Fu un’ esperienza entusiasmante ed altamente formativa, di cui ancora oggi conservo la lezione estetica e artistica. Ne ero orgoglioso. Elaborai una tesi per l’esame di storia dell’ architettura che tuttavia non lasciò per nulla soddisfatto Bruno Zevi ( fin troppo ’formalista’ e ‘crociana’, mi disse). Quella critica, che veniva da un maestro che stimavo molto, ad onta della sua enfatica propensione anticlassica, fu per me una delusione cocente. Non mutai il mio modo di guardare l’ arte di Palladio (frutto di un filologismo degli elementi architettonici a parafrasi delle teorie di Galvano Della Volpe sullo ‘specifico’ dei linguaggi visivi) ma certamente fu a partire da quell’ incidente di percorso che iniziai a distaccarmi dall’ ambizione di diventare un teorico e tantomeno un ‘professionista’ della architettura, mentre più dirompente interveniva l’ esigenza morale di un impegno nella vita politica e nella lotta sociale, come poi avvenne in pieno 1968.
Claudio D’Amato non approvò la mia decisione di abbandonare la facoltà. Ne parlammo a lungo. Avevamo idee comuni ma davamo a quelle stesse idee soluzioni opposte. E così accadde. Diversamente da me, Claudio concentrò la sua vita nella formazione di sé come architetto, inseguendo un modello pedagogico da incarnare, punto di incontro quasi ‘inattuale’ tra storia, tradizione disciplinare e progettualità compositiva. Non si può dire che non sia stato coerente e non vi sia a modo suo riuscito. La nostra amicizia è stata contrassegnata in più di mezzo secolo da un periodico, continuo e vivace scambio di idee e di esperienze che sul piano artistico e civile hanno trovato sempre il modo di incontrarsi. Come se le premesse della formazione originale avessero comunque trovato il letto di un unico fiume in cui confluire.
A conferma di quanto detto c’è un numero della rivista Rassegna di Architettura e Urbanistica, dedicato nel 2004 alla formazione degli architetti negli anni Sessanta: vi si può leggere un prezioso memoriale scritto da Claudio D’Amato (titolo: ’Ideali architettonici’) dove in tralice figurano gran parte delle illusioni perdute, ma anche le idealità e le relative esperienze intellettuali e morali di cui ho già offerto un riassunto. A conclusione del suo resoconto autobiografico –che è anche la foto delle aspirazioni di una generazione- D’Amato se la prendeva, sul piano della didattica, in un primo momento con “i frutti avvelenati della politica destabilizzante di Zevi” (la ossessione ‘antiaccademica’ che pregiudicò secondo lui l’ ordinamento), e successivamente con gli effetti degenerativi delle facoltà di architettura seguiti al terremoto del 1968 ( fra questi, la fine dello sbarramento al biennio, la riduzione del numero degli esami). E ribadiva, per fissare i punti salienti di una possibile rinascita pedagogica, le seguenti priorità: culto della storia, continuità con la tradizione, culto della forma organicamente costruita e della geometria ad essa sottesa, convinzione piena della autonomia della architettura.
Tra il giovane D’Amato, rivoluzionario e ‘formalista’ degli anni Sessanta, e il D’Amato divenuto professore emerito di Composizione architettonica al Politecnico di Bari, vi era la distanza dell’ esperienza e del tempo che passa; ma non vi era divergenza di vedute e modo di sentire. Ad indicare la coerente ed esemplare linea di continuità operativa e teorica di Claudio D’Amato c’è quanto egli lascia come architetto, come insegnante, come assiduo organizzatore di cultura didattica finalizzata a tenere assieme una idea unitaria e organica della architettura, sintesi di storia, tradizione e ‘vita delle forme’.
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A proposito di questa intrinseca vitalità della morfologia conseguente alla compresenza delle tradizioni artistiche (Claudio fece subito suo all’atto della costituzione, il motto dell’INTBAU: “One World, many traditions”) vale la pena sottolineare come lo storicismo estetico di D’Amato non chiudesse alla innovazione, nel rispetto delle tecniche costruttive diverse, e degli incroci stilistici. Prova ne sia la sua attenzione dedicata al Mediterraneo, confronto e sintesi di civiltà, allo scopo di tramandare e preservare un sapere architettonico che, prima di ogni altra considerazione (tecnica, ambientale, etnica) è un atto di libera manifestazione spirituale.
Molto ancora ci sarebbe da aggiungere, più di quanto io non sia in grado di fare, sul valore di Claudio D’Amato come maestro, educatore ed accademico. A me preme ricordare come le nostre contiguità morali e intellettuali, cresciute nella Valle Giulia degli anni Sessanta, abbiano trovato la via di una convergenza nella elaborazione della mostra ‘Città di pietra’, curata da Claudio nel 2006 per la X Biennale di Architettura a Venezia, cui presi parte con un saggio intitolato “Misura italiana e identità europea”, sintonizzato sul rapporto di passato e presente nell’arte del nostro ‘900, tema che collimava con l’appassionata attenzione di D’Amato per le tradizioni costruttive e la stereotomia nell’insegnamento delle fisionomie stilistiche. Quella collaborazione confermò qualcosa di più della nostra amicizia, e cioè una sostanziale affinità culturale ritrovata ad onta del tempo.
Di Claudio D’Amato resterà la sua missione straordinaria di insegnante, ma soprattutto il pregio di un carattere passionale, a tratti perfino irruente, dell’ uomo che credeva nel valore non corrivo della progettazione architettonica, da lui intesa e concepita sempre quale forma significante o ‘guida archetipale’, suggello ed arbitrato essenziale di ogni forma di convivenza e civiltà. Non era un carattere facile. Esigente prima di tutto con sé stesso, era alieno dai luoghi comuni, disprezzava la faciloneria intellettuale, il ’progressismo’ esibito come passe-par-tout ideologico. Quando è mancato, il dolore per la perdita dell’amico è stato in buona parte alleviato dalla certezza che la sua opera pedagogica in architettura, condotta nei dettagli quasi fino all’ultimo giorno della vita, resterà per le generazioni future, come quelle ‘città di pietra’ che intendeva custodire e preservare a modello di stile ed impronta morale.
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Ho un sacco di roba repressa risalente ai tempi delle superiori, apparentemente. Prima che mandassi all’aria le sedute, la psicologa mi disse che il nocciolo della questione stesse tutto là, in quegli anni adolescenziali che hanno lasciato il segno e ancora mi rifiuto di lasciar andare. Perciò ne rivivo continuamente i ricordi, analizzandoli quasi ossessivamente nella speranza di riscoprire qualche dettaglio dimenticato o che possa essere sfuggito ai miei occhi, ma sia rimasto impresso nella memoria.
Avevo rimosso, ad esempio, l’abbandono da parte dell’unica persona che ebbe il coraggio di elevarmi a titolo di sua ‘migliore amica’; titolo ‘rubatomi’, poi, da una ragazzetta che, fisicamente, m’assomigliava un sacco e con la quale finirono col litigare prima ancora della maturità – roba di poco conto, se ci penso adesso, ma che allora mi spinse sull’orlo delle lacrime per mesi interi prima che riuscissi ad archiviare la cosa.
Avevo rimosso le frecciatine, non poi tanto velate, della compagna di classe più desiderata dai maschietti e ammirata dalle femminucce – quella che fossi convinta non avesse mai memorizzato il mio nome perché fossi tanto insignificante da non essere degna neanche d’essere ricordata, per poi realizzare che sapesse tutto di tutti e che lo facesse di proposito; quella che mi chiedeva, ridacchiando assieme alla sua allegra combriccola, a quale estetista andassi per farmi notare quanto fossi baffuta (e qui, purtroppo, ammetto che Giuliva – si, come l’oca – avesse ragione).
Avevo rimosso il gioco di sguardi con il ragazzo seduto in prima fila dall’altra parte della classe – quello con gli amici stronzi (‘Prince Charming’ compreso) che non ho mai sopportato; quello che sembrava si facesse trascinare dai suddetti, ma che da solo era cordiale e rivolgeva la parola a tutti. Fu l’unico a chiedermi l’amicizia su Facebook, quando ancora pensavo che per essere una persona degna di nota fosse importante averne un profilo. Chattammo una sola volta, quando mi scrisse un messaggio per chiedermi se ci avessero assegnato dei compiti d’inglese. Avrebbe potuto chiederlo a qualcun altro, magari più attento di me, ma non ci feci caso: gli dissi di no, poi chiusi la conversazione nonostante sembrasse stesse facendo uno sforzo per continuare. In classe, ogni tanto, lo sorprendevo a guardare nella mia direzione: detti per scontato che avesse una cotta per una mia amica, bellissima, seduta dietro di me – o che, al massimo, si fosse girato perché ero stata io a guardarlo per primo.
Avevo rimosso l’antipatia iniziale nei confronti di Sia, prima che facessimo amicizia grazie a molte passioni in comune – prima ancora che i suoi caldi occhi nocciola facessero sì che il mio stomaco si esibisse in una serie di fastidiosissime capriole, o che capissi per quale motivo il suo tocco mi facesse venire la pelle d’oca e mi castigassi per aver avuto l’audacia di provare qualcosa per una mia amica.
Avevo rimosso che venissi considerata una persona estremamente empatica e intuitiva – quando non avevo ancora iniziato a chiudermi a riccio nel tentativo di evitare di creare legami che, prima o poi, mi si sarebbero ritorsi contro.
C’era una ragazza in particolare, in classe – difficile non notarla: oltre ad essere estremamente carina, non si è mai presentata impreparata. Aveva la risposta pronta ad ogni domanda che il professore di turno le rivolgesse, guadagnandosi ogni anno un posto all’interno dell’albo dei migliori studenti della scuola. Nonostante ci fosse qualche gelosia, era difficile non provare ammirazione per la sua dedizione allo studio. ‘Prince Charming’, purtroppo, non faceva parte di questo secondo gruppo: da ragazzo estremamente competitivo qual era, non sopportava che qualcuno, uomo o donna che fosse, gli soffiasse le attenzioni. Un peccato, perché quelle della ragazza in questione, per ben cinque anni, le ha sempre avute tutte: ne spiava furtivamente la silhouette durante l’ora di educazione fisica, arrossendo quando pensava di essere stata scoperta; rideva di gusto alle sue battute, nonostante tutti pensassimo fossero pessime; si faceva improvvisamente attenta quando capitava che qualcuno parlasse di lui cercando, comunque, di non dare a vedere quanto fosse interessata. Per scherzo, solevo sostenere che ne fosse segretamente innamorata – solo dopo il diploma ebbe il coraggio di ammettere che fosse vero. Mi chiedo se abbia mai rimpianto di non essersi fatta avanti.
(Forse no. Non tutti, come me, vivono nel passato).
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Ora riscopriamo l'amore...
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Ora riscopriamo l'amore...
Oggi è un mese esatto che sono in casa come tutti voi. Un mese fa lasciavo il mio lavoro, forzatamente, sperando in una pronta ripresa che ancora non c’è.
Ma ho deciso di vivere questa costrizione come un’opportunità (in senso figurato ovviamente ndr) e non un impedimento.
Ho appianato tutte quelle mancanze di tempo che, negli anni, mi avevano lasciato indietro di molte cose.
Ho aggiornato i miei siti, costruito quelli in programma che mai avevo neanche iniziato.
Ho sistemato tutto l’aspetto organizzativo della nostra associazione e prodotto idee per il futuro. Perché sì, al futuro, io credo fortemente. Siamo in un periodo nero, buio, mortifero. Ma non voglio arrendermi all’idea di farcela comunque, una volta ripartiti.
Nella mia vita ho sempre lottato duramente per ottenere qualcosa e fare ciò che mi piace: occuparmi di sport, trasformando una passione in un lavoro. Per questo lotterò anche stavolta, con il coltello tra i denti e la determinazione più alta che mai.
Questa esperienza mi ha toccato profondamente, mi ha fatto riscoprire me stesso e mi ha fatto trovare il giusto equilibrio per il futuro. Ma ora il mio pensiero va a chi non ce l’ha fatta, a chi ha perso la vita senza potersi ribellarsi al virus. A chi non potrà mai raccontare di aver fatto parte di un periodo entrato di diritto nella storia mondiale. A chi piange i suoi cari e a chi deve rilanciare se stesso.
Siamo tutti persone diverse da prima, per chi lo vorrà capire. Riscopriamo l’umanità, l’amicizia, il buon senso e la generosità. Questo è il momento giusto per farlo; allora sì che renderemo vero onore alle vittime di questa tragedia. Allora sì che potremo veramente meritare di esserne usciti vivi.
Mettiamo da parte egoismo, cattiveria e menefreghismo, rispondiamo a questo Corona con il virus più bello e infettivo che conosciamo: quello dell’amore…
Resta aggiornato sulle mie attività
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“M’inoltro, meravigliato, nei suoi libri…”. Mircea Eliade candidò al Nobel Piero Scanziani. Dialogo con la moglie di uno scrittore di genio, da riscoprire
Scopro per caso – non ho l’ambizione di organizzare il diario a chi trasmuta il caos in disegno – in una bancarella bolognese il Diario di Mircea Eliade. Lo apro. 28 giugno 1984. “Ieri sera con gli Ionesco e Cioran abbiamo cenato da Colette e Claude Gallimard. Ero di cattivo umore, apatico e, infine, depresso. La conversazione generale: si è parlato soprattutto di malattie… Ho ricevuto oggi, per espresso aereo, tre volumi di Piero Scanziani. Tutti con la stessa dedica: ‘A frate Mircea, frate Piero’. Apro a caso il Libro bianco. Il testo mi conquista subito e leggo, rapito, per alcune ore. La gioia di scoprire, alla mia età, un nuovo scrittore”. Il testo mi sorprende: di Piero Scanziani so nulla. Come mai? Lo immagino, quel giorno di giugno di 35 anni fa, nella testa di Eliade, tra Cioran, Ionesco, Gallimard. Il “nuovo scrittore” cui allude Eliade è in realtà quasi un coetaneo: Scanziani è nato a Chiasso nel 1908, il grande storico delle religioni è più vecchio di un anno. Di certo, sarà la sua ultima ‘scoperta’: Eliade muore nell’aprile del 1986, negli anni che gli restano farà di tutto per promuovere la conoscenza degli scritti di quello che ritiene un grande scrittore. Sarà Eliade, infatti, a candidare, per due volte, lo scrittore svizzero al Nobel per la letteratura. Scanziani, scomparso nel 2003, è effettivamente un personaggio affascinante. Cresciuto tra Losanna, Como e Milano, pratica, giovanissimo, il giornalismo, nella “Gazzetta Ticinese”; a Roma lavora presso l’Ismeo e diventa amico del filosofo Massimo Scaligero. In Svizzera dal 1938, aiuta i fuoriusciti – da Indro Montanelli a Sem Benelli e Alberto Mondadori –, è il primo giornalista a dare la notizia della caduta del governo fascista. Scrive libri importanti – da Le chiavi del mondo a Libro bianco –; soprattutto, è un uomo in ricerca. I suoi viaggi sfrenati, in tutti i continenti, lo portano a scoprire gli Entronauti – così il libro del 1969 – cioè quegli uomini che, al contrario dei ‘cosmonauti’, hanno compiuto un viaggio dentro e non fuori di sé. Tra questi “cercatori di Dio” – emozionante il viaggio all’Athos – instaura un rapporto particolare con Sri Aurobindo, di cui, nel 1973, per Elvetica Edizioni – editrice che ha pubblicato la quasi totalità della sua opera – scrive una biografia narrativamente efficace. “L’uomo, una transizione. Da dove a dove? Cosa siamo, adesso? Una coscienza serrata in sé, staccata dagli altri, ostili. Siamo una coscienza ansiosa di felicità e ne trova solo parvenze: piaceri brevi che, al rovescio, sono lunghi dolori. Siamo un ego piccino, talvolta fanfarone, più spesso intimidito. Non possediamo neanche il corpo fisico, non è nostro l’animo (avido), non la mente (ragionevole)”, scrive Scanziani. Grazie all’avvocato Andrea Mascetti, instancabile cultore di terre incognite e di uomini anomali, entro in contatto con la moglie di Scanziani, Magì, che ne custodisce l’opera e la memoria. Leggere una lettera di Mircea Eliade, in francese (“Cher Piero Scanziani, comment vous remercier?”), dalla grafia screziata dagli anni, è stata una inattesa emozione. “Caro Piero Scanziani, come ringraziarLa? Da due settimane mi sono immerso nei suoi libri. (Una cataratta, per ora inoperabile, limita la mia lettura a tre, quattro ore al giorno). Dopo Aurobindo, l’appassionante Avventura dell’uomo, poi I cinque continenti e gli straordinari incontri di Entronauti! M’inoltro, adesso, meravigliato in Libro bianco… Vorrei parlarle più a lungo. Ahimé! Scrivo con fatica (artrite reumatoide) e non sono capace di dettare (ho provato il dittafono, ma i risultati mi deprimono!) Ancora una volta, grazie! In tutta sincerità e amicizia, il suo Mircea Eliade”. Era il 21 luglio 1984, Eliade scriveva da Eygalières, in Provenza. Fu l’inizio di una amicizia. Da una testimonianza di Tommaso Romano sappiamo che anche Ernst Jünger conosceva il lavoro di Scanziani (“Sorprendentemente conosceva l’opera di Vittorio Vettori, di Elémire Zolla e di Piero Scanziani”), per altro tradotto in diverse lingue. A noi il compito, ora, di sbucciare la patina di oblio che lo cela. (d.b.)
Parto dalla fine. Scanziani candidato al Nobel per la letteratura. Oggi, in Italia, la sua opera è quasi introvabile: cosa è accaduto?
È molto semplice: la Casa Editrice che lo pubblicava, l’Elvetica Edizioni di Chiasso è scomparsa dal mercato e contemporaneamente il mercato editoriale in crisi, ha finora impedito che una Casa Editrice con le carte in regola s’interessasse della sua opera. Anche il fatto che io abiti alla periferia dell’italianità, a Lugano, con scarse possibilità di contatti importanti ha contribuito. È un vero peccato che un tale scrittore con migliaia di lettori innamorati dei suoi libri non sia presente in libreria.
La candidatura al Nobel coincide con il rapporto con Mircea Eliade, che scrive parole di elogio altissimo sul suo lavoro. Come nasce e si articola il rapporto tra i due?
Il rapporto nacque grazie a un critico letterario amico di entrambi: Vittorio Vettori che li fece conoscere ed incontrare. Piero era un lettore appassionato di Mircea e Mircea lo divenne rapidamente di lui, tanto da presiedere il Comitato che lo propose al Nobel per due anni di seguito.
Tra i nomi decisivi nella vita di Scanziani, spicca Sri Aurobindo, di cui scrive una biografia narrativamente assai convincente, per altro. Che rapporto ha avuto Scanziani con Aurobindo? So che è un legame testimoniato da una messe di lettere…
Scanziani era in quel momento a Berna, responsabile del Servizio italiano dell’Agenzia telegrafica svizzera, l’equivalente alla nostra ANSA. Il mondo era in subbuglio. Era il 1939. La ricerca sembrava essersi inaridita. L’11 aprile 1939 diceva: «Non v’è certezza da nessuna parte, né al Nord né al Sud, né in Occidente né in Oriente. L’esistere è puro orrore, tanto vale uccidersi, unica prova di se stesso». Il giorno dopo tutto cambiò. Lo scrittore ha narrato in quattro versioni l’evento del 12 aprile 1939: nel 1978 autobiograficamente in Corrispondenza con Nata, nel 1941 e 1983 tramite John protagonista del romanzo I cinque continenti, nel 1969 tramite il narratore (che è l’autore stesso) in Entronauti e nel 1995 ne Il fiume dalla foce alla fonte. Le prime tre versioni sono analoghe, ma non identiche. La mattina del 12 aprile si svegliò e il libraio, che ne conosceva i gusti, gli aveva fatto avere in casa in visione un pacchetto di libri. Due attirarrono la sua attenzione: Aphorismes et pensées, La mère, autore uno sconosciuto Aurobindo. Chi era costui? Altri pensieri, altre madonne, che noia! Stava già per scartarli, quando la curiosità gli fece aprire una pagina, lesse una frase ed ecco cosa accadde. Qui (aggiungendo qualche frase da I cinque continenti) diamo la versione di Entronauti, che è seguita da indicazioni chiarificatrici. “Istantaneo, sovra il mio capo un confine si apre, una chiusa si solleva, un argine si rompe e dall’alto impetuosa su di me scroscia la gioia: una cascata diamantina sulle mie angustie, inebriante impeto di grazia, evidenza lampante, soavità sfavillante, presenza gloriosa, irrompere incontenibile d’una forza sublime, intenzionale, amorevole nella mia esiguità, onde ignorate e pur non nuove si spargono giubilanti fin nelle membra, nel sangue, nel respiro. L’anima è inebriata dalla prossimità divina. Non reggo in piedi, mi sdraio, immobile, attonito, ammutolito dal miracolo, incredulo che a me immeritevole sia dato tale prodigio, impossibile e irrefutabile. Chiudo gli occhi e liquefatto m’abbandono alla voluttà soverchiante, m’abbandono alla certezza, finalmente finalmente. Come dirlo e come tacerlo? È una testimonianza. Durò una settimana, decrescendo. La mente intanto aveva ripreso a discorrere, a ragionare, a rinvenire spiegazioni plausibili, ad ammucchiare tutto entro i suoi limiti. Questo suo esagitarsi m’era penoso.»
Chi era colui che aveva provocato tutto questo? Trovò carta e penna e gli scrisse una lettera in italiano, chiedendo spiegazioni. Aurobindo rispose tramite il suo segretario di lingua francese P. Barbier-Saint-Hilaire, nome di ashramita: Pavitra. Vi fu uno scambio di lettere e un viaggio in India molti anni più tardi: Sri Aurobindo non c’era più, ma Piero incontrò Mère e tante persone che in seguito divennero amiche e amici fraterni. Aurobindo lo accolse come suo discepolo e, cosa incredibile, tutto ciò lo riavvicinò alla sua religione d’origine, il cristianesimo. Racconto tutto questo in un articolo pubblicato su Letture, qualche anno fa.
L’amicizia con Massimo Scaligero, legami fuggevoli con il fascismo, il trasferimento in Svizzera alla promulgazione delle leggi razziali. Come vive Scanziani gli anni terminali del Ventennio, la Seconda guerra, il rapporto con Scaligero?
Scanziani giunse a Roma nel 1929 dopo il fallimento di un’impresa editoriale paterna in cui era stato coinvolto. Aveva una lettera di raccomandazione del padre a un suo amico, Piero Parini, alto funzionario del Ministero degli esteri. Dopo un mese di anticamera, quando era finanziariamente alla canna del gas, fu finalmente ricevuto e gli fu offerto di lavorare come impaginatore per mettere insieme uno dei primi settimanali a rotocalco intitolato Il legionario e destinato agli italiani all’estero. Conobbe nel frattempo, tramite Edoardo Anton, compagno di liceo e figlio del celebre drammaturgo Luigi Antonelli, Massimo Scaligero che diverrà amico, maestro e ispiratore, nonostante fossero praticamente coetanei. Racconta egli stesso quegli anni in parecchi testi. A un certo punto si accorsero che Scanziani faceva il giornalista in Italia senza essere italiano e gli si pose il dilemma se diventarlo, rinunciando alla propria originaria cittadinanza svizzera, oppure essere licenziato. Secondo la legge nessuno poteva fare il giornalista, se non fosse stato cittadino italiano. Non accettò di abbandonare la propria cittadinanza e si trovò disoccupato. Gli fu però offerto di andare in Svizzera dove un neonato “fascismo svizzero” aveva bisogno di un giornalista per mandare avanti un proprio settimanale. Siamo al 1934. La terribile esperienza è ben descritta in Gaia Grimani, Piero Scanziani: la vita come frontiera. Ne riporto le pagine essenziali: “Tuttavia Parini aggiunge che vi sarebbe una possibilità di lavoro a Lugano, avendo egli fatto il nome di Piero agli esponenti di un neonato “fascismo svizzero”: erano un certo Nino Rezzonico e un colonnello della Svizzera francese, tale Arthur Fonjallaz. Piero non li aveva mai sentiti nominare. Siamo nel 1934, egli era lontano dal Ticino dal 1929, non aveva nessun interesse per la politica, anzi la teneva in sospetto, dopo l’esperienza alla Gazzetta ticinese. (…) Scanziani rimane perplesso alle parole di Parini, tuttavia la sua disastrosa condizione economica non ammette scelte. Da tre mesi non paga l’affitto dell’appartamentino nel sottoscala d’una villetta in viale Gorizia 17, dove vive con la moglie incinta e il primogenito d’un paio d’anni. (…) Dopo l’iniziativa di Parini, incominciano a farsi notare attorno a Scanziani i fascisti luganesi, primo fra tutti il “duce” Nino Rezzonico. L’intento è di convincerlo ad andare a Lugano a metter ordine nel caotico settimanale Il fascista svizzero e svolgervi lo stesso lavoro d’impaginazione e di coordinamento fatto per Gazzetta ticinese e per Il legionario. Rezzonico fa vita straricca e segue il capo svizzero, il colonnello Fonjallaz, che poi risulterà sovvenzionato dal fascismo italiano. Intanto comincia a Roma una nuova azione per convincerlo. Se accetterà di andare a Lugano, lo rassicura Parini, non solo riceverà uno stipendio dall’editore svizzero, ma il Parini gli garantisce che Il legionario gli darà l’incarico d’una collaborazione regolare per articoli sui problemi degli emigranti italiani nella Confederazione. Le promesse non saranno mai mantenute: arrivato a Lugano il settimanale di Rezzonico, Il fascista svizzero, aveva cessato le pubblicazioni e Il legionario, pur sollecitato, dimenticò i suoi impegni. Il Rezzonico finirà per picchiarsi per la strada con un suo rivale, l’avvocato Alberto Rossi, a frustate e pugni. Il Fonjallaz, intervenuto come proprietario della testata, aveva espulso il Rezzonico e il Rossi ne aveva preso il posto. Il settimanale riapparì e Piero riprese la sua ormai abituale fatica di factotum d’una pubblicazione che pagava male, quando pagava. Fonjallaz espulse ad un certo punto anche il Rossi e assicurò a Piero di versargli gli stipendi arretrati. Il Rossi affermava d’essere lui il proprietario della testata Il fascista svizzero e il Fonjallaz ne prese allora il sottotitolo “A noi”, incaricando Piero di curarne l’edizione. Egli accettò alla condizione che A noi non fosse più organo ufficiale del movimento fascista del Fonjallaz, ma si occupasse solo dei problemi del Ticino e ne difendesse l’italianità. Intanto Fonjallaz non pagava la tipografia né il redattore, Piero indebitatissimo era gravemente malato di ulcera duodenale. Aveva ventisei anni e, lasciando Lugano per Milano con moglie e figli alla fine del 1935, era alla disperazione. L’aspettavano a Milano diciotto mesi di disoccupazione e nel 1936 un’emorragia interna quasi mortale che lo tenne a letto per tre mesi in un appartamentino di viale Abruzzi”.
Poi accadde un fatto tra imprevisto: morì improvvisamente il responsabile del Servizio italiano all’Agenzia telegrafica svizzera. Piero sottopose la propria candidatura: non voleva restare in Italia che aveva appena varato le leggi razziali e, dopo un periodo come dattilografo alla Bayer, desiderava riprendere la sua professione. Ma la Svizzera non lo voleva, soprattutto i giornali ticinesi legati ai servizi dell’agenzia, per i legami, pur fuggevoli e casuali, con il fascismo svizzero. Negli anni, fino alla sua morte, il Canton Ticino, in modo particolare, ma anche suoi invidiosi detrattori d’oltre Gottardo, usarono questo pretesto del fascismo per tagliarlo fuori da ogni posto interessante, da ogni riconoscimento della sua opera. Vergognosamente lo stesso Dizionario storico svizzero dedica, nella sua biografia, gran parte del testo a lui dedicato alla sua presunta adesione al fascismo: in una vita di 94 anni, lo spazio di 18 mesi. Basterebbe a qualcuno in buona fede leggere le sue opere e vedere se vi si trova una sola riga in cui Scanziani esprima un’idea politica o segua l’una o l’altra ideologia. Ma tant’è. Durante la seconda guerra mondiale, tuttavia, dal 1938 al 1946 Scanziani visse a Berna come responsabile del Servizio italiano dell’Agenzia telegrafica svizzera dove fu assunto dopo una visita, insieme al direttore generale dell’Agenzia Telegrafica svizzera, a tutti i direttori di giornale ticinesi a cui promise che mai più si sarebbe interessato di politica ed essi s’impegnarono ad accettarlo senza pregiudizi: egli mantenne la promessa, ma gli altri non lo fecero e sempre fu oggetto di persecuzioni e calunnie. A Berna divenne un grande giornalista internazionale; oltre ai servizi di stampa, diffondeva i servizi radiofonici di Radio Monte Ceneri, che insieme a Radio Londra divennero i punti di riferimento per chi voleva sapere notizie non inquinate dalla propaganda di regime. Collaborò con United Press, Reuter, New York Times, Bund, Basler Nachrichten, Suisse, Corriere del Ticino, Gazette de Lausanne, Illustré. Fu il primo giornalista al mondo a dare l’annuncio della caduta del fascismo e dell’imprigionamento di Mussolini. Nel 1946, alla fine della guerra, volle tornare in Italia per far crescere i propri figli nella civiltà e nella lingua italiana, malgrado, per restare gli fossero stati offerti molti benefici economici. Tornato a Roma, riprese il rapporto d’amicizia e collaborazione con Massimo Scaligero che durò fino alla morte di Scaligero nel 1980.
Poi i viaggi. Scanziani viaggia molto, ovunque: cosa cerca, cosa scopre? Qual è il viaggio che lo ‘forma’?
Scanziani viaggiava alla ricerca di Entronauti, parola inventata da lui stesso, cioè di coloro che in ogni tradizione religiosa affermano di aver incontrato Dio faccia a faccia. Viaggia dall’ Europa, all’America, all’Asia sino all’India e all’Estremo Oriente sempre immerso in questa ricerca. Tutto ciò è narrato nel suo romanzo Entronauti, vincitore nel 1970 del Premio Cattolico Maria Cristina. In questo senso il viaggio che lo forma è senza dubbio l’incontro con l’India e, in particolare con l’Ashram di Sri Aurobindo. Però anche a Londra, l’incontro con Maggie, regina dell’onnipotenza, a Teheran quello con i Sufi e al Monte Athos il ritrovamento delle radici cristiane così ben espresso nell’ultimo capitolo di Entronauti: “Forse vado all’Athos a causa d’un rito che si svolse tanti anni fa, in una cappella che non c’è più, in un villaggio che non c’è più, fra gente che non c’è più. La cappella è diventata una grande chiesa, il villaggio è diventato quasi una città. Era un battesimo, il mio battesimo. È morto il prete che pronunciò la formula, è morto il padrino che la ripeté, è morto mio padre che mi reggeva fra le braccia, morti tutti gli altri intorno, sorridenti. Nulla sembra più vivo di quel giorno, nulla vivo in me che non ne ho memoria, né mai ne ho sentito il vincolo. Eppure se vado all’Athos è perché quell’acqua, quella formula, quella gente m’hanno reso cristiano. Ho girato il globo alla ricerca d’entronauti, quelli che trovano la via nel nome di Maometto o di Krishna o di Budda o dei Tantra o d’Aurobindo o di nessuno o di se stessi. Deve pur esistere ancora da qualche parte chi ha l’incontro sacro in nome di Cristo”.
Le chiedo anche della sua passione per i cani, di cui è straordinaria esperto. Come nasce, come si sviluppa?
Si sviluppa fin dall’infanzia ed è raccontata in un testo che precede il più celebre dei suoi libri di cinologia (in tutto una decina): Il cane utile, intitolato Viaggio intorno al molosso, in cui oltre a questo, narra anche come nacque la ricostruzione del mastino napoletano, razza andata totalmente dispersa e ricreata da Scanziani dal ‘46 al ’60, nella gabbia delle giraffe, vuota dopo la guerra, del Giardino zoologico di Roma.
A suo dire, quali sono i libri fondamentali di Scanziani, da ripubblicare? Quali erano le sue fonti letterarie, le sue amicizie? Da dove provenivano le sue ispirazioni?
Un editore accorto che esamini la sua opera non potrà non essere ammaliato da Avventura dell’uomo, Entronauti e Libro bianco, che hanno creato lettori appassionati in tutta Italia. Per Entronauti, a Roma si erano addirittura creati spontaneamente gruppi di lettura che si rinnovavano di anno in anno. Negli anni ’80 però, all’uscita della trilogia su L’Arte della longevità, L’Arte della giovinezza e L’Arte della guarigione si creò un fenomeno analogo, grazie al forte coinvolgimento televisivo con le partecipazioni a “Domenica in”, Maurizio Costanzo Show e tante altre trasmissioni condotte da Frizzi, Magalli. Bonaccorti, D’Amato, Battaglia, il povero Enzo Tortora e tanti altri. Molto interessanti trovo anche i romanzi Felix, finalista al Viareggio e Il fiume dalla foce alla fonte, per non parlare dei tanti inediti. Le sue ispirazioni letterarie nacquero sempre in collegamento con la ricerca spirituale o con la grande passione di naturalista. Aveva come modello Marcel Proust per la ricerca affannosa della parola appropriata, ma il suo stile è asciutto, da giornalista. È saggista e narratore, ma il narratore prevale, anche nei saggi, perciò si leggono d’un fiato e affascinano i lettori. Tra i suoi amici ricordo Massimo Scaligero, Edoardo Anton, Lanza del Vasto, Vittorio Vettori, Mircea Eliade, Geno Pampaloni, Emerico Giachery, Aldo Capasso, Giovanni Pischedda, Elemire Zolla, Cristina Campo, Grytzko Mascioni, Franco Enna, Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer, Giovanni D’Espinosa, Tommaso Romano, Fedele Mastroscusa e molti, molti altri.
*In copertina: Piero Scanziani (1908-2003) con la moglie, Magì
L'articolo “M’inoltro, meravigliato, nei suoi libri…”. Mircea Eliade candidò al Nobel Piero Scanziani. Dialogo con la moglie di uno scrittore di genio, da riscoprire proviene da Pangea.
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VILLA LEMPA – La sambenedettesse Maria Grazia Paolini si è classificata al secondo posto nella categoria Diamante, aggiudicandosi così la Fascia Geniale per la Regione Marche, nella seconda edizione del Concorso Regionale e Nazionale Insieme in passerella. 65 anni, casalinga, mamma di Amata e nonna di Matteo e Luca nonchè molto devota alla Madonna di Medugorje, è la prima SordoPicena a partecipare a questo evento svoltosi presso la discoteca Decible di Villa Lempa (Te).
Antonella Paolini ideatrice e patron del concorso ha condotto la serata insieme a Greta Santori, vincitrice del Titolo Nazionale Categoria Argento anno 2018. Il format è riservato a tutti coloro che vogliono fare passerella ed esibire le loro abilità dove gli unici requisiti richiesti sono quelli di aver compiuto 4 anni di età e di non essere iscritti ad altri concorsi.
Il Concorso, giunto quest’anno alla sua seconda edizione non vuole premiare solo la bellezza ma intende valorizzare il talento , l’eleganza, la simpatia e il voler stare insieme. Una kermesse ideata soprattutto per le famiglie, per l’amicizia, per riscoprire i valori veri davanti ad una società che spesso li dimentica .
I concorrenti, in gara, si sono prima esibiti e poi hanno sfilato in abito elegante. Inoltre hanno sostenuto una prova di abilità come cantare, ballare, cimentarsi in varie prove creative coinvolgendo la propria famiglia e i propri amici.
La giuria, presieduta Giuseppe Profeta, vincitore di Fascia Cinema Nazionale e secondo classificato nazionale della Categoria Oro anno 2018 era composta dal vice presidente Lucia Bruni attrice/regista e insegnante teatrale presso l’ Adriatc Cinema Academy, Manuel Caucci proprietario del Decibile, Ermal Scefer e da Giuseppe Malatesta, vincitore di titolo anno 2017 nella categoria diamante.
Questi i premiati. 1°Classificata Regionale per Categoria Baby Chic 2019, Asia Felicioni di Giulianova (Te) che ha eseguito una canzone con il flauto traverso. Secondi Classificati a pari merito Chanell Palmisio e Davide Natali.
Per la Categoria Fashion 2019 vince la Fascia della Regione Fabiola Coccia di Tortoreto (Te), secondo classificato Enrico di Nicola di Civitella del Tronto (Te).
Nella Categoria Argento 1° classificato Fabio Natali di Montefiore dell’Aso che ha suonato con l’organetto.
Al secondo posto Osama Elfrenawy di Comunanza (Ap).
Nella Categoria Oro 1° Classificato Adriano Fulgenzi di San Benedetto del Tronto che ha letto una poesia .
Per la Categoria Diamante, primo posto per Giuseppe Lupinetti di Silvi Marina che ha ballato un valzer , 2° classificata Maria Grazia Paolini di San Benedetto del Tronto, terzo posto per Filomena D’Angelo di Pescara .
Sono state assegnate altre due fasce. Il Premio Cinema è andato da Fabiola Coccia e Enrico di Nicola. Questo riconoscimento dà a fare un casting con Marco Trionfante, Umberto Croci e Olga Merli.
L’ attrice/regista e insegnate di Teatro Lucia Bruni ha effettuato la propria scelta in base alle esigenze cinematografiche che l’accademia del cinema riteneva opportune.
La fascia e il premio d’Eccellenza, dello Sponsor Valentini Premiazioni di Giulianova è andato ad Enrico Di Nicola che ha scritto, composto ed eseguito una canzone rap. Il riconoscimento Radio Azzurra the voice che consente di essere speaker radiofonico per un giorno a Radio Azzurra Giulianova di Alfonso Aloisi e Salvatore Riccardo, va a Greta Santori, vincitrice del Titolo Nazionale 2018 categoria Argento.
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Palermo Normanna – XXX Charter del Club
Grande solennità l’altra sera a Mondello, dove, nel grande salone del Palace Hotel, il Lions Club Palermo Normanna ha festeggiato la sua XXX Charter, conferita al Club il 20 aprile dell’87. Sono passati infatti trent’anni da quando, organizzato da quattro soci promotori (Ruggiero Paderni, Renato De Giacomo, Aurelio Cajozzo ed Achille Prinzivalli) nasceva questo Club metropolitano, secondo nella città di Palermo , ove per trent’anni c’era stato un unico Club, ma che alla fine, “obtorto collo”, (perché non tutti i soci accettavano questo nuovo Club) sponsorizzando Palermo Normanna”, diventava Palermo Host. Ne parlo come cronista, perché allora ero Vice Presidente di un Lions Club della provincia ed ho seguito tutta la vicenda.
La grande solennità è conferita dalla presenza delle più grandi autorità Lionistiche presenti, al tavolo oltre al Presidente Francesco Vitale, il CC Carlo Biancucci, il DC Vincenzo Spata, il PCC Salvo Giacona, l’IPDG Franco Freni Terranova ed in sala,i PDG Gianfranco Amenta ed Amedeo Tullio, oltre a molti altri Officer multidistrettuali, distrettuali e di club, e soci Lions e Leo, elegantemente presentati dal cerimoniere Guglielmo Bellavista, che ha letto anche il messaggio augurale del Former President Pino Grimaldi e quello del 2° VDG Enzo Leone.
A tutti loro, dopo l’ascolto degli inni e la lettura degli scopi, il presidente Francesco Vitale ha indirizzato un caloroso indirizzo di saluto ed un ringraziamento, anche da parte di tutti i soci, per il grande onore conferito al Club. Quindi si è soffermato sul significato di questa festa, che coincide col periodo pasquale, come simbolicamente manifestano i doni che il Club ha voluto donare ai partecipanti: un agnello pasquale di pasta reale (grazioso pensiero di Maria Grazia Vitale) ed una bella campana Lionistica in ceramica a ricordo di questa data. Egli ha ricordato, oltre agli uomini che in questi trent’anni si sono avvicendati ed impegnati con grande spirito di servizio e abnegazione, le attività e i service che spaziano in tanti campi dello scibile.
Recupero di tanti importanti beni culturali, egemoni e non, come la fontana del Genio, i Leoni della Favorita, la fontana del Garraffo e tanti service soprattutto nel settore della sanità, grazie al grande Charter President Aurelio Cajozzo, ematologo dell’ateneo di Palermo, che anni dopo diventò Governatore, molto impegnato nella lotta alla leucemia. Sono tanti i temi e service trattati; essi si possono rilevare sul volumetto scritto da Achille Prinzivalli, in occasione del decennale o nella raccolta fatta da me , allora socio di questo splendido Club, nel volume dal titolo: “ Enzo Traina – cinque anni di attività e service”.
Programmi raggiunti con l’impegno e l’abnegazione dei soci e con l’ausilio di tanti sponsor privati. Ringraziando ancora tutti, Francesco ha augurato ad ospiti e soci una Felice Pasqua.
– Ha preso quindi la parola l’IPDG Franco Freni Terranova:-” E’ una gioia condividere con Voi questa festa – ha detto – che coincide con la Pasqua. Trent’anni sono tanti, ma dobbiamo eliminare questa patina lasciata dal tempo e riscoprire il Lionismo del futuro, adeguandoci ai tempi; i soci che entrano possono avere esperienze diverse, ma, appena dentro, debbono essere squadra.” Si è soffermato poi sul significato della grande “L” che troneggia nel nostro distintivo, che vuol dire Libertà, grande virtù da difendere, affermando che questo, bisogna portarlo con orgoglio, finché brillerà.
– Il PCC Salvo Giacona, ha salutato il CC Carlo Bianucci, che ha elogiato per l’intensa attività che sta svolgendo ed il DG Enzo Spata, cui è legato da grande, vera amicizia consolidata durante il governatorato di Carlo Sartorio, quando egli ha servito l’Associazione come segretario Distrettuale e Spata come Tesoriere:” Un sentimento autentico – ha detto – senza del quale, al di la della retorica, la nostra vita, sia nel Lionismo che nella società civile, non avrebbe senso”- Si è poi soffermato sui tanti ricordi suscitatigli da questo luogo, vissuti con intensità, come il Tema-Service “Ricostruiamo insieme l’Uomo”, durante il governatorato Tullio, in cui si parlò di recupero dei valori e crescita sociale, ancora di grande e straordinaria attualità, che vanno però manifestati, con coraggio. La Charter rappresenta quel patto di fedeltà che si rinsalda, al momento della cooptazione , che va alimentato nel tempo. Oggi il Lionismo è vivo, nei nostri cuori, ma deve esserlo anche per gli altri.”
–Carlo Bianucci Presidente del Consiglio dei Governatori ha ringraziato il Presidente Vitale, il Governatore Spata, il PCC Giacona per gli elogi fattigli relativamente alla sua attività di CC :- “Nella vita lionistica ci sono gioie, ma anche amarezze – ha detto – e stasera è una gioia poter partecipare alla vostra festa. I simboli sul Vostro labaro testimoniano riconoscimenti dovuti alla vostra intensa attività in questi trent’anni appena trascorsi. In questo momento di crisi dei valori, il rispetto della nostra Etica e della Charter che abbiamo sottoscritto, costituisce un impegno ineludibile. Ci avviciniamo alla Santa Pasqua,abbiamo raggiunto importanti successi nel campo del sociale: la vita si è allungata, la mortalità infantile diminuita, la sanità è migliorata, ma i valori si sono un po’ persi; viviamo in una società che sta abbandonando quelli inter-personali; a volte non ci si conosce nello stesso condominio e allora, il richiamo alla nostra etica sembra quanto mai opportuno. Perché esistono etica religiosa ed etica politica, che in qualche modo ci sono state imposte, l’etica Lionistica , invece, l’abbiamo scelta noi e, quindi, dobbiamo rispettarla, perché nessuno ce l’ha imposta. Vi auguro di continuare con lo stesso impegno le vostre attività e i rapporti con i Vostri soci. Io conserverò nel cuore questi momenti vissuti in Sicilia e mi auguro di tornare ancora.”La cerimonia è stata conclusa dall’intervento del
– Governatore Vincenzo Spata, il quale, dopo aver salutato le autorità presenti, al tavolo ed in sala, si è rallegrato col Club per questi trent’anni trascorsi, che hanno inciso nella realtà locale, coi tanti service effettuati e per i tanti temi trattati. Lo ha elogiato per essere il primo Club del Distretto, avendo conferito alla LCIF ben 13.000 euro. Ha ringraziato chi sta dando tutto, con abnegazione, umiltà e armonia ed ha approfittato anche per ringraziare il Segretario Distrettuale Pippo Greco, che lo sta portando in tutti i Club. In merito a quanto affermato da Giacona ha detto : “L’amicizia si trasferisce nel tempo, ma ci deve essere del filing. Certo ci possono essere contrasti, che a volte nascono, ma alla fine, basta fare qualche passo indietro e tutto si chiarisce.” In merito alle nostre attività e service, dobbiamo essere artefici del nostro cambiamento, insieme alle Istituzioni, per la salvaguardia del bene comune. In un momento in cui il male domina tutte le città e le amministrazioni, collaborare con le stesse, stimolarne le azioni, costituirà una bellissima azione di operosità di Lions, soprattutto se questa viene fatta in favore e nei confronti dei meno fortunati e dei bisognosi. Vi auguro, con gioia ed entusiasmo, di essere sempre coerenti coi nostri valori. A tutti una Buona Pasqua ”.
Enzo Traina – Redattore della Rivista Distrettuale – Area PA-
LC Palermo Normanna Palermo Normanna - XXX Charter del Club Grande solennità l’altra sera a Mondello, dove, nel grande salone del Palace Hotel, il Lions Club Palermo Normanna ha festeggiato la sua XXX Charter, conferita al Club il 20 aprile dell’87.
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