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Inquietanti esperimenti scientifici: un racconto di scienza e orrore
Gli inquietanti esperimenti scientifici hanno avuto un ruolo fondamentale nel progresso della conoscenza umana, permettendo scoperte che hanno cambiato per sempre il nostro modo di vivere. La ricerca, in molte delle sue forme, è stata il motore che ha spinto l’umanità verso l’innovazione. Tuttavia, dietro a molti dei traguardi raggiunti, si nascondono storie che sfidano le convenzioni morali e…
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il linguaggio è lo strumento più efficace, migliore, che noi siamp riusciti a creare ed elaborare - come cultura e come macchina bioevolutiva, nella evoluzione darwinistica dell'intelligenza - per rappresentare i nostri stati interni di macchine neurali naturali- I vantaggi sociali ci sono, evidenti, di rappresentare agli altri i nostri stati interiori- Il linguaggio è diremmo in termini moderni e "tecnici", uno strumento di Deep Learning, anzi di visualizzazione dei livelli interni di DNN di CNN che possediamo, naturalmente e biologicamente, in noi. In estrema sintesi. Per questo il linguaggio è così 1-1 con le rappresentazioni numeriche e vettoriali che scopriamo o inventiamo come ad es word2vec, o i layer interni delle Reti Neurali. Stiam oricreando nella ricerca quanto la natura ha già fatto, e stiamo scoprendo relazioni tra reti neurali artificiali e linguaggi che sono intrinseche e insite by design, a fortiori, in noi. La capacità culturale umana partendo dal linguaggio, inteso come meccanismo di analisi dell'interiore "linguistico" , dell'intelligenza e della sua rappresentazione interna, l'ha evoluta in un costrutto culturale propriamente inteso. Letteratura, romanzi, arte, ragionamento e discussione scientifica, e strumento di rappresentazione delle emozioni, della psiche, della PERSONA che alberga in noi. La persona, ovviamente, non è la sua intelligenza. La persona è più vicina a ciò che la Chiesa Cattolica denota con il termine Anima. O meglio, la persona è la controparte biologica ed interiore dell'anima. Morendo vi resta la controparte spirituale, l'anima propriamente intesa secondo la teologia cristiana.
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Giusy Versace accende i riflettori su bullismo e cyberbullismo
Giusy Versace accende i riflettori su bullismo e cyberbullismo. Sport e Cultura come strumenti di prevenzione di bullismo e cyberbullismo. Di questo si è parlato oggi in Senato, nel convegno organizzato da Giusy Versace in occasione della giornata dedicata a questo complesso problema sociale, discusso e analizzato assieme a grandi esperti del settore come Luca Massaccesi, Presidente Osservatorio Nazionale Bullismo e Disagio Giovanile e medaglia di bronzo olimpico nel Takewondo, Matteo Fabris, Psicologo dello Sviluppo e Ricercatore presso il Dipartimento di Psicologia dell'Università degli Studi di Torino, la Professoressa Maria Teresa Cipollone dell' Associazione Nazionale Presidi Regione Lazio e Ferencz Bartocci, CEO Bertram Yachts Derthona Basket. Ancora una volta la Versace, in qualità di vicepresidente della commissione cultura, istruzione, ricerca scientifica, spettacolo e sport, ha voluto offrire un palcoscenico importante ai suoi relatori, per approfondire e dialogare su un tema complesso e di estrema attualità. È di pochissime ore fa, infatti, la notizia dell'ennesimo accoltellamento avvenuto all'interno di una scuola. Scuola, social e valore educativo dello sport: questi sono stati dunque i temi affrontati in Sala Caduti di Nassirya e che hanno fornito non solo un quadro preciso della drammatica situazione in cui stiamo vivendo, ma soprattutto hanno offerto chiavi di riflessione e spunti su cui lavorare, sia livello normativo che sociale. «Organizzo sempre con molto interesse momenti di confronto come questo – racconta Giusy Versace - perché il bullismo e il cyberbullismo sono problemi sociali davvero complessi e noi legiferatori abbiamo il dovere di ascoltare chi è sul campo, chi è accanto ai giovani per individuare spunti concreti sui cui lavorare e campi su cui agire. Ricordo che la legge in materia di prevenzione e contrasto del cyberbullismo nacque nel 2017, proprio dopo l'episodio del tragico suicidio di Carolina Picchio. Non dobbiamo attendere che capitino episodi di tale gravità per accorgersi di un problema sociale ormai in atto. Sul bullismo, invece, attendiamo in Aula anche un testo di Legge, già approvato alla Camera lo scorso settembre, che definisce la fattispecie di reato di bullismo, colmando così un vuoto normativo e stanziando più fondi per la prevenzione».... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Un gruppo di studiosi sudcoreani ha di recente pubblicato una ricerca di cui tra studiosi ed esperti di fisica, chimica e tecnologia si parla da giorni, con grande interesse ma anche estrema cautela. Nella ricerca viene descritto un materiale, soprannominato LK-99, apparentemente dotato di superconduttività – cioè quasi nessuna resistenza al passaggio di corrente elettrica – a temperatura e pressione ambiente. I superconduttori esistono da decenni, ma funzionano soltanto a temperature bassissime (nell’ordine di -200 °C): condizione che implica alti costi di utilizzo e riduce in concreto le applicazioni possibili.
La scoperta di superconduttori che funzionino a temperatura e pressione ambiente sarebbe dirompente e avrebbe ripercussioni pratiche sull’efficienza delle reti, dei sistemi e degli impianti elettrici, su cui si basa gran parte delle nostre attività e degli strumenti che utilizziamo ogni giorno. Renderebbe inoltre possibili tecnologie e progressi scientifici solo in parte prevedibili: dal passaggio di corrente senza alcuna dispersione ai trasporti a levitazione magnetica su larga scala, per esempio.
Anche per gli interessi economici legati all’eventuale sfruttamento industriale di un materiale del genere, la scoperta di superconduttori a temperatura e pressione ambiente alimenta da decenni un’intensa ricerca, con annunci frequenti ma risultati che si sono poi spesso dimostrati inaffidabili o difficili da replicare. Per il momento i ricercatori sudcoreani – un gruppo del Quantum Energy Research Centre, a Seul – ha condiviso la scoperta in due articoli in formato preprint, che devono quindi ancora essere sottoposti a una revisione indipendente (peer-review).
Uno degli aspetti più raccontati della ricerca – a parte alcune ipotesi difficili da verificare riguardo alle relazioni complicate tra gli autori – è che il materiale LK-99 si ottiene a partire da elementi relativamente comuni come piombo, rame e fosforo. Questa caratteristica dovrebbe teoricamente rendere più semplice per altri studiosi e laboratori ripetere in breve tempo gli esperimenti del gruppo sudcoreano. Ma se nei prossimi giorni i risultati dovessero essere smentiti da prove sperimentali di ricercatori terzi, come molti credono probabile, non sarebbe la prima volta negli ultimi anni.
Anche nel caso in cui la ricerca si dimostrasse inattendibile i superconduttori sono comunque un argomento di grande interesse nella comunità scientifica e oggetto di esperimenti in molti laboratori di tutto il mondo. E già soltanto dimostrare che questi materiali possono esistere e rendere gli esperimenti facilmente replicabili, come ha scritto il chimico statunitense Derek Lowe sul sito di Science, sarebbe un gigantesco passo in avanti. In poche parole i superconduttori permetterebbero di annullare la dispersione di corrente elettrica, al momento inevitabile in condizioni normali: «praticamente tutto ciò che funziona con l’elettricità ne risentirebbe», ha scritto Lowe.
Per comprendere cosa sia un superconduttore è utile riassumere a grandi linee come funziona il passaggio della corrente elettrica attraverso i normali conduttori, nei comuni apparecchi e dispositivi che utilizziamo tutti i giorni. Quando gli elettroni scorrono attraverso un materiale conduttivo normale, come per esempio un filo di alluminio, incontrano un certa resistenza, diversa a seconda del materiale, ma che in ogni caso riduce la corrente elettrica a parità di tensione applicata: è come se “rimbalzassero” sugli atomi come macchine dell’autoscontro. Questi “rimbalzi” provocano una dispersione sotto forma di calore: minore sarà la resistenza, maggiore sarà la conduttività del materiale e minori le perdite.
In alcuni casi, come nelle stufe elettriche o nei forni, la resistenza viene utilizzata appositamente per sfruttare la dissipazione dell’energia. Una tensione elettrica viene applicata alla resistenza della stufa o del forno (il nome proprio è resistore: la resistenza è una grandezza), che si oppone al passaggio della corrente e si scalda, provocando una caduta di tensione: attraverso un fenomeno noto come effetto Joule l’energia elettrica viene così convertita in energia termica.
In tutti gli altri casi la perdita di una parte più o meno grande di energia elettrica attraverso il conduttore è un effetto secondario non voluto, che si cerca di ridurre (è il motivo per cui i fili elettrici sono fatti di rame e non di alluminio, più economico ma meno efficiente). Tra gli studiosi di elettromagnetismo ci si è chiesti a lungo se fosse possibile ridurre la resistenza dei conduttori fino a renderla marginale, così da ottenere una superconduttività. E attraverso le ricerche portate avanti dal fisico olandese Heike Kamerlingh Onnes, premio Nobel nel 1913, furono scoperti alcuni materiali che permettono il passaggio della corrente elettrica quasi senza opporre resistenza.
Kamerlingh Onnes scoprì che alcuni conduttori metallici si comportavano in modo insolito se portati a bassissime temperature. Quando particolari materiali vengono raffreddati fino a raggiungere temperature vicine allo zero assoluto(-273,15 °C) gli elettroni non “rimbalzano” più come in un autoscontro: si uniscono in coppie che scivolano tra gli atomi senza generare resistenza. Per questa ragione i materiali dotati di questa proprietà furono definiti superconduttori e sono da decenni al centro di numerosi studi ed esperimenti.
Nella seconda metà degli anni Ottanta furono scoperti materiali che si comportano da superconduttori a temperature meno basse dello zero assoluto, nell’ordine di -200 °C, e per questo definiti superconduttori ad alte temperature. Per quanto siano comunque difficili da ottenere in ambienti non sperimentali e comuni, queste temperature possono essere raggiunte utilizzando refrigeranti molto diffusi come l’azoto liquido. La scoperta, per cui il fisico svizzero Alexander Müller e il tedesco Georg Bednorz vinsero il Nobel nel 1987, segnò un passaggio importante per la ricerca, dal momento che la ampliò tra i laboratori che non disponevano delle costose tecnologie di raffreddamento necessarie per lavorare sui primi superconduttori.
La transizione allo stato di superconduttore conferisce inoltre al materiale una seconda proprietà, dovuta al cosiddetto effetto Meissner, dal nome del fisico tedesco Walther Meissner, che lo osservò e descrisse negli anni Trenta. A causa di questo effetto i superconduttori respingono i campi magnetici: si comportano all’apparenza come materiali diamagnetici (cioè quelli che hanno una magnetizzazione con verso opposto al campo), ma il fenomeno che genera l’espulsione del campo magnetico è di tipo diverso.
Questa proprietà, peraltro sfruttata in un tipo di tecnologie superconduttive utilizzate da alcuni treni a levitazione magnetica, è spesso mostrata in diversi esperimenti in cui dei magneti posti su materiali superconduttori fluttuano perché i loro campi magnetici sono completamente respinti o fortemente ridotti dal materiale superconduttore. Nel caso dei treni a levitazione magnetica l’utilizzo di superconduttori fa sì che non ci sia contatto con i binari e che i treni debbano quindi fare i conti soltanto con l’attrito dell’aria.
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Il principale limite dei superconduttori, inclusi i cosiddetti superconduttori ad alte temperature, è che funzionano a temperature bassissime o ad altissima pressione, o entrambe le cose. Negli ultimi anni sono stati scoperti dei composti che sono superconduttori a temperature relativamente alte, ma che funzionanosoltanto se compressi a una pressione di un milione di atmosfere (per avere un riferimento, la pressione in fondo alla fossa delle Marianne, a 11mila metri di profondità, è di circa 1100 atmosfere).
In concreto sono condizioni molto difficili da ricreare in contesti quotidiani, che rendono i superconduttori di fatto privi di applicazioni pratiche che non siano economicamente molto dispendiose. Alcuni dei macchinari più diffusi per fare le risonanze magnetiche, per esempio, utilizzano dei superconduttori che permettono di creare un campo magnetico molto forte senza surriscaldarsi e senza richiedere un enorme consumo di energia. Ma quei superconduttori devono essere mantenuti a una temperatura molto bassa, appunto: che è una delle ragioni dei costi molti alti di questi apparecchi.
Per essere rivoluzionario un superconduttore dovrebbe permettere di trasportare corrente elettrica senza resistenza a temperatura e pressione ambiente. Questa scoperta permetterebbe di sviluppare non soltanto strumenti diagnostici più economici, trasporti a levitazione magnetica e chip per computer e smartphone ultraveloci ed efficienti, per esempio, ma avrebbe ricadute sul perfezionamento di moltissime altre tecnologie, dai filtri a radiofrequenza agli acceleratori di particelle. E il fatto di rendere quasi nulla la resistenza permetterebbe, in generale, di avere linee e circuiti elettrici molto più efficienti e di utilizzare molta meno energia di quanta ne sia necessaria oggi.
Proprio per la quantità di interessi in ballo e di persone che ci lavorano da tempo, la ricerca sui superconduttori ha prodotto nel corso degli anni anche numerose delusioni. A marzo del 2023 un gruppo di ricerca della University of Rochester, nello stato di New York, aveva annunciato la scoperta di un nuovo materiale superconduttore a temperatura ambiente (ma pressione molto alta), sviluppato a partire dal lutezio, un elemento metallico piuttosto raro.
La ricerca era stata accolta con scetticismo per via della reputazione di uno degli autori, il ricercatore singalese Ranga Dias, docente di ingegneria meccanica e fisica alla University of Rochester. In precedenza Dias era stato accusato di aver falsificato dei dati per rendere più eclatanti i risultati di altre sue ricerche, una delle quali era stata ritirata dalla rivista Nature.
Anche la recente ricerca del gruppo sudcoreano ha generato molte perplessitàtra gli scienziati sentiti dalle più importanti riviste internazionali di divulgazione scientifica. Il testo dei due articoli condivisi su ArXiv, la principale piattaforma utilizzata per la condivisione di articoli in formato preprint, è stato giudicatopiuttosto raffazzonato e superficiale da alcuni fisici che hanno riscontratodiverse imprecisioni, incoerenze e altre stranezze.
L’interesse per questa ricerca, di cui da giorni si discute molto anche tra appassionati su Twitter e Reddit, è stato tuttavia notevolmente sostenuto e accresciuto da altri aspetti laterali. Da una parte la relativa semplicità della procedura con cui è possibile ottenere il materiale LK-99 ha reso possibile avviare esperimenti di verifica tuttora in corso in altri laboratori e anche a livello amatoriale. Dall’altra parte il fatto che la scoperta sia descritta in due diversi articoli preprint, molto simili ma caricati a poche ore di distanza l’uno dall’altro, ha stimolato la curiosità di molti e suggerito una serie di ipotesi più o meno realistiche.
Il primo articolo, caricato su ArXiv il 22 luglio 2023, cita come autori tre ricercatori sudcoreani: Sukbae Lee, Ji-Hoon Kim e Young-Wan Kwon. Nell’articolo la scoperta del superconduttore è descritta come l’inizio di «una nuova era per l’umanità»: come segnalato dalla rivista New Scientist, i tre autori avevano peraltro presentato ad agosto 2022 una domanda per un brevetto di fabbricazione di un composto ceramico superconduttore.
Poche ore più tardi un secondo articolo, in larga parte simile al primo, è stato caricato su ArXiv da uno dei suoi sei autori, Hyun-Tak Kim, ricercatore di fisica del College of William & Mary a Williamsburg, negli Stati Uniti, non presente come autore nel primo articolo. Soltanto Sukbae Lee e Ji-Hoon Kim sono citati come autori di entrambi gli articoli: a loro è attribuita l’invenzione del materiale LK-99 nel 1999 (il nome è formato dalle iniziali dei due ricercatori e dall’anno della scoperta).
Hyun-Tak Kim, che ha caricato il secondo documento e ha lavorato a lungo alla ricerca, ha detto a New Scientist che l’articolo in cui non è citato come autore – quello pubblicato per primo – è stato condiviso a sua insaputa e senza il suo consenso. E l’ipotesi al momento più accreditata è che uno dei tre autori del primo articolo, Young-Wan Kwon, non più affiliato con il centro di ricerca, abbia caricato il documento su ArXiv senza nemmeno il consenso degli altri due coautori, Sukbae Lee e Ji-Hoon Kim.
Un’ipotesi circolata molto sui social ma piuttosto romanzesca e priva di conferme è che Kwon abbia caricato e attribuito soltanto a tre autori il primo articolo, quello in cui Hyun-Tak Kim non compare come autore, perché non più di tre persone possono condividere il premio Nobel, e limitare il numero di autori sarebbe un tentativo di anticipare altri ricercatori del gruppo e ridurre le ambiguità sui meriti in caso di successo della ricerca.
Avere risposte definitive sulla solidità della ricerca del gruppo sudcoreano richiederà altro tempo, necessario per la revisione degli articoli e per portare a termine i tentativi di replicare i risultati da parte di altri gruppi. Tuttavia, dal momento che la sintesi di LK-99 è giudicata relativamente semplice, i tempi potrebbero essere più brevi rispetto a quelli solitamente necessari in altri casi in cui i superconduttori oggetto di ricerca utilizzano elementi più difficili da reperire e procedure più complicate da eseguire.
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MA PER CARITÀ...
Quando avevo diciotto anni e frequentavo i circoli di estrema sinistra, come “Lotta Continua”, il circolo anarchico di Via dei Mille o la sezione di “Lotta Comunista”, il Natale era sempre periodo di grandi scontri, in particolare per me credente, anche se era impossibile per tutti sottrarsi al “dibattito” e non dovete pensare a qualcosa di vagamente simile a quello che avviene oggi sui social. Era una cosa molto diversa, in un mondo molto diverso. Non ho scritto “migliore”, ho scritto “diverso”. Inevitabilmente, oltre alle questioni relative alla festa religiosa, alla festa consumistica, al concetto di “famiglia”, un altro argomento teneva il campo: la carità. L’argomento appassionava molto, non tanto in quanto virtù teologale; gli argomenti teologici erano praticamente vietati e al massimo tollerati attenendo al campo del “personale” e non a quello del “politico”, erano tuttavia erano i tempi in cui “il personale era politico” e quindi meno se ne parlava, meglio era. Io la carità la facevo già allora, la faccio tutt’ora e, presumo, la farò sempre. Però quegli anni di furente scontro ideologico mi hanno insegnato che la carità è un dovere cristiano (e anche umano), ma è politicamente sbagliata. Lo è per un motivo, che potremmo dire afferisce al concetto di Utopia: non devono esserci persone bisognose di carità. La Politica , quella con la “P” maiuscola, è l’arte dell’amministrazione della “città” ed è la politica che dovrebbe creare le condizioni perché la carità non divenga necessaria. Evidentemente il credo religioso aveva visto ben oltre le capacità umane ed aveva persino dubitato di esse e con una certa ragione. Oggi assistiamo ad una necessità sempre maggiore del cosiddetto “terzo settore”, quello del volontariato, che molto spesso va ad intersecarsi con le attività di carità. Tornando agli anni Settanta,i miei compagni di lotta avrebbero detto che, questo offrirsi delle associazioni alle necessità delle società, rappresenta una omologazione delle attività caritatevoli alle logiche del capitalismo e del neo-capitalismo (aggiungerei del post-capitalismo e della finanza). Naturalmente non si tratta solo della carità cristiana, ma delle iniziative umanitarie in senso lato. Nessuno di noi presta più molto caso alle raccolte fondi per la ricerca scientifica, per esempio. Ma perché bisogna affidarsi alla generosità dei singoli per finanziare la ricerca scientifica in campo medico? Un sistema politico efficiente non dovrebbe ricorrere alla carità, ma dovrebbe ricorrere alle tasse, secondo la ferrea logica che chi più ha, più deve contribuire. La trasformazione delle organizzazioni umanitarie in organizzazioni parallele alle istituzioni politiche, è la più lampante sconfitta della Politica. Del resto la saggezza cinese lo aveva già intuito: se un povero ti dice che ha fame non dargli un pesce, ma insegnagli a pescare. Qualche ���politico” lo aveva compreso, ma si chiamava Mao-Tse-Tung (Mao Zedong) e oggi c’è quel che c’è...
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Elogio alla perdita
Premessa
Mio padre ha più volte affermato che l’unica certezza che abbiamo in questa vita é la morte. Credo si fosse dimenticato di dirmi che si può morire diverse volte in una sola vita. Sembra assurdo, ma dopo diverse ore di psicoterapia ho scoperto che la dipartita ha un significato più profondo della reale fine della vita. Il lutto, per essere affrontato, ha bisogno di far fronte a diverse fasi diversificate e che seguono un ordine temporale che parte dalla rabbia e il rifiuto, per passare poi alla negoziazione, alla tristezza e infine all’accettazione.
Negli ultimi anni, quelli dell’adolescenza e del passaggio all’età adulta, mi é più volte capitato di prendere coscienza di diversi concetti, idee e convinzioni, per poi arrivare a capire che vivere sembrerebbe essere la cosa più rara al mondo. La maggior parte di noi trova più comodo sopravvivere e basta, o, peggio ancora, semplicemente esistere.
Spesso mi sono sentita persa, in una sorta di oblio, impantanata in una posizione di stallo che non mi permetteva di crescere. Ho imparato col tempo che il segreto per andare avanti é semplice: bisogna creare un nuovo inizio.
Ma cosa significa davvero? Per iniziare qualcosa prima deve finirne una, o forse più. E la fine, di qualsiasi cosa si tratti, nient’altro é che un lutto. La fine di un amore, la perdita di ruolo in una relazione, la morte di un famigliare, un trasloco, un contratto giunto al termine. Tutto può coincidere con una perdita, e ognuna di queste situazioni ci obbliga ad affrontare diverse fasi che, forse per caso, o peggio ancora, per uno scherzo del destino, prendono le sembianze delle fasi del lutto.
Succede a volte, ci si spezza qualcosa dentro, e dopo un momento di shock e stordimento riprendiamo coscienza e iniziamo a negare e rifiutare la realtà dei fatti. Ad un certo punto, senza nemmeno rendercene conto, diamo la possibilità alla rabbia di sopraffarci e per uscirne dobbiamo riuscire a parlare con noi stessi, negoziare e fare i conti col proprio dolore. Il dolore a volte é sano, altre é così insistente che la tristezza ci porta a sentirci depressi, impauriti dalla vita e da quello che verrà. Solo grazie a nuovi punti di vista si riesce a chiudere il cerchio e ad accettare quello che verrà. Creiamo nuove prospettive, nuove strade da intraprendere e impariamo a mettere in pratica il perdono, a volte nei confronti degli altri, della vita, e altre nei confronti di noi stessi.
Questi capitoli non hanno una base scientifica, e non sono nemmeno delle nozioni di psicologia. Si tratta solo del percorso personale di un’anima spesso tormentata e sopraffatta dagli eventi che ha trovato conforto e ordine grazie alla scrittura. L’unica logica esistente é rappresentata dai titoli dei capitoli, che sono un semplice susseguirsi delle fasi del lutto citate in precedenza, con un’approfondita ed esaustiva, anche se breve, prospettiva personale.
Ciò che segue ha il diritto di essere letto con quella che reputo la più alta forma di intelligenza umana; la capacità dell’assenza di giudizio.
Capitolo 1. Shock e stordimento
La lucidità mentale é senz’altro un atto di fede in tempi difficili come quelli in cui viviamo oggi. Spesso affrontiamo ogni situazione con leggerezza o estrema amplificazione data da una società basata sul bello e l’apparenza che però sottolinea giornalmente il brutto e il negativo dell’esistenza. In ogni caso la realtà viene alterata, che sia dall’immaginazione personale o quella di ciò che ci circonda.
Lo shock dato da una brutta notizia si presenta in concomitanza alla delusione di un’aspettativa, o a causa di un’orribile sorpresa, uno scherzo del destino, o un incidente. Ma ciò che sciocca davvero é il modo in cui corpo e mente reagiscono alla batosta. Il cuore, la circolazione, il respiro, gli ormoni, le facoltà mentali, subiscono delle alterazioni tali da rompere gli equilibri, e nella maggior parte dei casi é in grado di spaccare in pezzi anche noi stessi.
Il malessere ad un certo punto passa. Il battito cardiaco si stabilizza. Il respiro torna ad essere regolare. La vista non é più appannata e la testa non ti esplode più. Ma é qui che inizia il peggio.
Capitolo 2. Negazione e rifiuto
Nonostante si dica in giro che a nessuno é concesso presenziare al proprio funerale ho avuto la sensazione di aver spesso perso e cosparso il mondo di pezzi di me che non hanno più fatto ritorno. Una serie di micro lutti che non hanno mai avuto l’importanza che meritavano. E ad ogni momento di shock il susseguirsi é stato un continuo periodo di negazione e rifiuto. È per questo che ogni volta che qualcosa giunge al temine possiamo mettere il vestito nero e iniziare a dannarci. Quindi ecco ciò che é successo. Mi sono presa la mie batoste e ogni volta ho dato il via all’evento più macabro possibile; il mio funerale.
Quando ci penso, e diciamocelo, lo abbiamo fatto tutti, la mia mente lo immagina pressapoco così:
Sono al mio funerale, e piango da far schifo. Penso di essermi lasciata alle spalle un passato che non può tornare più. Mi sto quasi pentendo di essere morta, ma ho scelto di elaborare li lutto e quindi mo’ so’ cazzi. Prendersi le responsabilità delle proprie azioni non è cosa facile, ma se c’é una cosa da cui proprio non posso scappare è la morte. Hai voluto la bara? Ora mettitici dentro. Verrò bruciata, così magari scaldo qualche cuore. Dico qualche perché immagino che qualcuno a piangere per me possa esserci. E magari ci ascoltiamo tutti insieme una bella canzone, Wake me up di Avicii, ironia della sorte.
Rifiutare e negare l’evidenza per l’essere umano è semplice e pura difesa. E allora eccomi, io con la mia armatura. Pronta a fingere che una volta passata la sintomatologia dello shock tutto sia tornato alla normalità. Ed eccolo qui il vero rifiuto. Eccola qui la vera negazione.
Iniziamo inconsciamente a mentire a noi stessi. Convinciamo, attraverso un armadio pieno di maschere, anche gli altri. Il problema é che poi per quanto ci sforziamo le maschere cadono e le bugie si svelano. Ed é qui che iniziamo ad incazzarci davvero.
Capitolo 3. Rabbia
Un po’ come per i pezzi di me di cui parlavo prima, la rabbia é stata un sentimento che ho per lungo tempo sfruttato e utilizzato come scusa per giustificare il mio comportamento da stronza. Non credo di essere la sola a farlo. Vi é mai capitato di dare una risposta di cui vi pentite e usare la frase “scusa, é stata una brutta giornata, é un periodo stressante, sono solo nervosa, non ce l’ho con te.”?! Ho sempre avuto l’impressione di avere dentro di me una sorta di molla pronta a scattare all’occorrenza. Purtroppo ho più volte avuto l’occasione di constatare che non si tratta di un’impressione, ma di una continua ricerca di risposte a domande che nemmeno ricordo più. E mi é ormai chiaro che se metti la tua pazienza alla prova, il tempo spesso la trasforma in rabbia.
Nel lutto la fase della rabbia si mostra, più che verso se stessi, nei confronti degli altri, o della vita. O almeno, é stato cosi per me. Per dannarci meno abbiamo la brutta abitudine di incolpare terzi, e avere qualcuno con cui prendersela é meglio che fare i conti con se stessi. Io per esempio, e qui so che farò incazzare qualcuno, ho il brutto vizio di prendermela con un Dio in cui ancora non so fino a che punto credere. Non può rispondermi. Non può difendersi. E quando si affronta un lutto o una perdita, rendersi le cose facili sembra la soluzione migliore. Non dico che sia giusto farlo. Ma é stato giusto per me. Ho una scusa anche per questo: se non sei in pace con te stesso la Guerra la fai col mondo intero.
Col tempo ho capito che non sono stronza, sono solo una persona fragile. E quella che si presenta durante questa fase é una rabbia che non ha nulla in comune con la cattiveria. È solo il modo più comodo di chi usa quest’arma come scudo per proteggersi dalle proprie fragilità.
Ad un certo punto comprendi che la rabbia, se mal gestita, può diventare pericolosa. Non so se ho davvero colto il modo corretto di “fare qualcosa” per andare avanti, ma per me funziona il pianto. Sono una di quelle che non piange per tristezza, ma per rabbia. Alcune volte me ne sono vergognata, ma oggi so che sta peggio chi non piange. Per mia fortuna col le lacrime non solo bagno il viso, ma lavo via la collera e do inizio alla negoziazione.
Capitolo 4. Negoziazione
È giusto iniziare a parlare di negoziazione dicendo che non sono in grado di fare affari nemmeno coi venditori ambulanti alle bancarelle di un mercato o sulla spiaggia. Ho sempre l’impressione di barattare qualcosa che ha a che fare con l’umiltà e la giustizia. Ho sempre pensato ci fosse qualcosa di poco corretto nel baratto. Quindi forse se lo shock, il rifiuto e la rabbia sono processi veloci e meno ardui da affrontare, sottolineo per me, il problema si presenta quando nella fase di una perdita mi tocca negoziare.
Arriva per tutti il momento in cui si catturano le forze e si tenta di reagire. Il problema é che di fronte a una perdita, dopo essersi fatti passare la rabbia, ci si sente impotenti. Così dobbiamo, in un modo o nell’altro, darci delle risposte, trovare delle soluzioni, analizzare ciò che é accaduto e dargli la spiegazione migliore possibile.
Purtroppo siamo fatti di carne e anima, e la maggior parte delle volte il cuore ha bisogno di tempo per darsi delle risposte, per sviscerare i danni, e darsi dei chiarimenti. Ma succede poi che la mente tutto ciò che ricerchiamo lo conosce già, ed é qui che la negoziazione prende forma; é la lotta tra mente e cuore. Con gli anni ho deciso che per me questa fase doveva diventare il momento e l’occasione per sperimentare il dolore fino in fondo.
Ne abbiamo il diritto. E forse a volte, per noi stessi e per gli altri, diventa anche un obbligo morale.
Capitolo 5. Sperimentare il dolore
Per quanto possa sembrare assurdo il dolore psicologico, o psichico, dato da una perdita, é, a confronto del dolore fisico, un gran bastardo. Non puoi toccarlo con mano, non puoi localizzarlo, é quasi impossibile da descrivere e il più delle volte ti colpisce all’improvviso. Come diamine ci si può difendere da un male simile? E come cavolo lo curi?
Credo che l’unica risposta possibile sia che tocca viverlo. Magari anche in questo caso, come per la rabbia, dovremmo provare a piangerci su. È come se in ogni caso, come mi é capitato di sentire, finisse tutto in acqua salata: mare, sudore e lacrime.
Non credo di avere il diritto di scrivere ulteriori parole. Sfrutto il caro William Shakespeare e ne esco fuori con una frase ad affetto:
“Tutti gli uomini sanno dare consigli e conforto al dolore che non provano.”
E su questo, passo e chiudo.
Capitolo 6. Depressione
La depressione, nell’elaborazione del lutto, é l’arrendersi alla situazione in maniera razionale ed emotiva. In questo momento non solo ti senti impotente, ma ti fai assalire dalla tristezza, ti isoli e ti imponi la solitudine iniziando a sentire un vuoto che ti divora, come se dentro avessi una voragine pronta a risucchiare quel poco di buono che la rabbia ti ha lasciato.
In questo momento non hai più modo di negare la perdita, qualsiasi cosa tu faccia é solo un passo in più verso la stanchezza. Non hai più le forze nemmeno di sperare che quel dolore prima o poi prenderà una strada diversa rispetto ai tuoi pensieri.
Nel corso di questa fase spesso le persone provano conforto, chi ci sta attorno inizia a coccolarci e a motivare ogni nostro atteggiamento riferendo “soffre per la perdita”, e un po’ la compassione ci fa comodo. A lungo andare tutti gli scudi e le maschere indossate fino a questo momento vengono portare per inerzia. Chiunque avete accanto vi troverà diverso e presto o tardi ve lo farà sapere. E poi arriva il peggio; tocchi il fondo. !
Ora hai due valide alternative. O sul fondo ti sdrai, o usi il fondo per darti la spinta che ti porterà ad accettare la perdita, qualunque essa sia.
Si pensa sia facile. Chi ci guarda da bordo piscina si aspetta che la spinta ci porti in superficie prima possibile, per prendere una boccata d’aria e respirare a pieni polmoni. Ma non é sempre così. Non e�� così scontato. La differenza sta in un unico elemento; il tempo.
Spesso chi rimane sul fondo non ha fiato a sufficienza, ha semplicemente perso energie e voglia di tornare a respirare. Si dice che se questo stato dura più di un anno la depressione può essere diagnosticata e conclamata, mentre se prima di questi 365 giorni tornate a respirare potete iniziare ad affrontare l’ultima fase: l’accettazione.
Capitolo 7. Accettazione
Abbiamo perso qualcosa. Perderlo ci ha portato ad uno stato di shock e di stordimento. Abbiamo provato a negare la realtà dei fatti e a rifiutare ciò che ci é accaduto. Non ci siamo riusciti per troppo tempo e abbiamo iniziato ad incazzarci per questo. Abbiamo provato a patteggiare con la rabbia e forse ci siamo quasi riusciti, ma abbiamo assaggiato qualcosa di peggiore, il dolore. Ne abbiamo fatto indigestione e ad un certo punto la tristezza ha preso il sopravvento. Ma siamo forti. Non si sa come, non si sa grazie a chi, non si sa il perché, ma ci siamo impegnati e abbiamo affrontato anche la tristezza e ora siamo pronti, finalmente, ad accettare tutto ciò che é successo.
Accettare la realtà dei fatti significa semplicemente che siamo desiderosi di riconciliarci con la realtà. Finalmente siamo preparati a raccogliere tutti i cocchi di quel passato che ci ha spaccato. Siamo quasi impazienti di riprenderci noi stessi e di riunire i pezzi della nostra anima.
Questo non elimina in maniera assoluta la rabbia, e nemmeno la tristezza. Ogni tanto i ricordi e le emozioni avranno voglia di romperci le palle e allora staremo ancora a chiederci “perché é successo a me?”, e altre volte nel silenzio di una stanza ci verrà voglia di piangere. Quando accetti una perdita non stipuli un contratto con la felicità. Ma sicuramente inizi a scrivere un nuovo capitolo della tua vita. Finalmente riuscirai a perdonare chiunque tu abbia colpevolizzato, che si tratti di te stesso, o di terzi. Oppure semplicemente metterai da parte il rancore e grazie a nuovi punti di vista sarai in grado di ricostruirti.
Il posto di lavoro che hai perso ti ha dato la possibilità di donarti un futuro professionale nuovo, e probabilmente ti piace più di quello vecchio. Il ragazzo che ti ha lasciato ora sta con una zozza che gli fa le corna e tu ti godi la bellezza di una vita da single e dai a te stessa la possibilità di essere amata da qualcuno che ti meriti davvero. Il famigliare a cui hai dovuto dire addio ti ha insegnato che ogni giorno é importante, é prezioso e non va sprecato. Di te stessa hai iniziato ad apprezzare ogni singolo difetto, e ora, finalmente, capisci che amarti é la base per la più lunga e bella storia d’amore della tua vita.
Capitolo 8. Epilogo
Sono ore che scrivo. Ciò che avete letto fino ad ora é stato tracciato sullo schermo del mio computer in un solo pomeriggio. Non so il motivo di questo mio vomito di parole, ma di me stessa negli anni ho imparato una cosa: scrivo per ritrovare la serenità che a tratti mi sembra persa. E può apparire ridicolo, ma anche questo a volte é un lutto, e ripercorrere ciò che stiamo affrontando può aiutarci a fare ordine nel caos.
Non avevo, e non ho tutt’ora, nessuna pretesa. Ma scrivendo mi sono resa conto di dover andare da papà e dirgli che c’é un’altra “cosa” che possiamo considerare inevitabile quanto la morte, e credo sia la vita.
Succede così, si rompe un equilibrio, e se sei bravo, ti si aggiusta l’esistenza. Nel caso in cui tu non eccella nelle lezioni di vita potresti non riuscire ad averla vinta, ma potresti imparare tanto, e forse dovresti importi di farlo.
Questa é la mia esperienza personale, non deve diventare la vostra. Anzi, abbiate la motivazione necessaria per riuscire, dopo una perdita, a pretendere da voi stessi il successo; fate di voi stessi ciò che desiderate. Perché in realtà affrontare le perdite non deve per forza dire che bisogna ritrovare se stessi. Nella vita che volete potete anche decidere di ricreare voi stessi e diventare chiunque desiderate.
Io non sono un esempio da seguire. Faccio quotidianamente a pugni col passato. E se per certi versi credo di essere arrivata ad accettare determinate avvenimenti, per altri so che la strada é ancora lunga e che prima o poi mi toccherà incavolarmi e piangere per un passato che non ha voglia di passare.
Non importa l’età anagrafica riportata sui tuoi documenti, e nemmeno la tua maturità. Non si fa capo alla cultura, o alla propria religione. Usi e costumi, come tradizioni e celebrazioni, non contano nulla. Davanti al dolore di una perdita siamo tutti uguali.
Capitolo 9. Epilogo nell’epilogo
Non ho potuto risolvere tutte le mie nevrosi in un unico pomeriggio. Mi tocca condividere con voi la tragedia e il disagio che vivo con i numeri pari, e per questo non ho potuto fare a meno di constatare che l’ottavo fosse l’ultimo capitolo.
Non ho intenzione di vivere il tormento per un semplice numero, e quindi ho dovuto inventarmi l’epilogo nell’epilogo e terminare questo elogio alla perdita col capitolo 9.
Per rendere giustizia a me stessa, e credo a molti di voi, ho voglia di scrivere la parola fine solo dopo questa breve citazione di Erich Fromm:
“L’uomo é l’unico animale per il quale la sua stessa esistenza é un problema da risolvere.”
Fine.
Ringraziamenti
Alla prima persona che ha letto queste pagine e ne ha capito l’essenza più di quanto potessi comprenderla io scrivendole.
La sua e-mail:
Ed io ringrazio te. Sempre.
Ancora.
Dalla parte più profonda della mia anima, che non aveva bisogno nient’altro che di queste tue parole.
Ho avuto bisogno ancora una volta io, di te. Vorrei capire come sia possibile, ma in realtà sono quelle risposte che non esistono, come il caso.
Ok.
Ho respirato e asciugato le lacrime.
C’è la tua anima, tra queste righe. Pulsa, e gioca a nascondino, ma solo un’anima può arrivare ad un’altra anima.
A tante anime per chi, come te, ha il dono che considero il più grande.
Pubblica.
Ad alcuni sicuramente non piacerai, ma l’accettazione, per chi si ritrova ad affrontare se stesso e le proprie perdite, arriva solo alla fine, no?
Grazie. A.
Ps: pensavo di essere l’unica matta ad odiare i numeri pari. Pubblica, se hai dubbi sul resto, solo ed unicamente per difendere i dispari da quei prepotenti tutti tondi e pieni di sé.
17 aprile 2019
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Caro direttore, la questione posta da Antonio Polito sul Corriere di venerdì 2 dicembre circa la collocazione politica del cibo tra natura e tecnologia coglie nel segno una questione urgente e ampia.
Se da un lato il riferimento al cibo naturale evoca in tutti noi sentimenti positivi, l’onestà impone che parlare oggi di natura in ambito agroalimentare in senso assoluto è quantomeno ingenuo, se non ideologicamente strumentale: più capace di parlare alla pancia della gente che di riempire i loro stomaci. A meno di tornare a una dieta paleolitica i cui i primi uomini raccoglievano e si nutrivano di bacche, la nutrizione umana è sempre culturalmente e tecnologicamente mediata: un fuoco, una coltivazione, una ricetta. A maggior ragione oggi dove, soprattutto in Occidente, i processi tecnologici applicati a questo campo hanno permesso la realizzazione di una catena alimentare (impossibile a km 0 per due terzi della popolazione mondiale, come recentemente dimostrato in un articolo su Nature Food) capace di nutrire almeno tre miliardi di persone ogni giorno.
Dall’altra parte, però, la frequente percezione preoccupata di un cibo Frankenstein deve essere seriamente presa in considerazione e non può essere facilmente liquidata. Tale assunzione può avvenire almeno attraverso tre passaggi.
La resistenza a un cibo troppo tecnologicamente elaborato evidenzia anzitutto un approccio esageratamente emotivo e non riflesso riguardo la ricerca scientifica e le sue applicazioni: con estrema (e superficiale) facilità si passa da una fiducia assoluta nella scienza (a tal punto che si arriva a «credere» in essa) a un rifiuto a prescindere, ad esempio, di qualunque cibo che nasca da una complessa operazione di laboratorio. Solo un rinnovato sguardo realista e critico (tipico degli stessi scienziati) su questi temi permetterà di evitare crashes ancora peggiori.
L’immagine distopica del cibo suona al contempo come un giusto monito: nel cibo, ma non solo, o l’apparato tecnologico è al servizio rispettoso dei processi e delle contingenze biologici cui è finalizzato e non anzitutto, ad esempio, dell’ottimizzazione dei profitti economici, o non solo non è comprensibile, ma è giustamente da rifiutare. Il solo fatto che una tecnologia sia possibile non significa che sia buona. Qui si apre tutto lo spazio per una riflessione etica attorno ai processi agroalimentari che va strettamente ancorata alle persone, ai loro corpi, alle loro comprensioni culturali, al pianeta che tutti abbiamo.
In questo senso, infine, si pone l’urgenza di una riflessione e di una pratica circa i processi educativi e di comunicazione relativi alla scienza e alla nutrizione. La tecnologia disegnata con etica e pensata per modelli di sviluppo sostenibile capaci di riequilibrare la relazione uomo-natura, non è uno strumento da piegare alle banalizzazioni, non è un tema su cui fare la corsa a dirsi «pro» o «contro», non è un oggetto da demonizzare o idolatrare. Albert Einstein direbbe, a tal riguardo, che «non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato». È questo il nostro punto. L’educazione, l’etica by design, la costruzione di modelli e non solo di strumenti, potranno incidere su quella mentalità che ha generato i problemi che la tecnologia può risolvere, se disegnata con una mentalità diversa, più consapevole, più sistemica, meno ego-riferita e più ecosistemica, più rigenerativa.
Il cibo è vita, nutrimento, è veicolo di valori, cultura, simboli e identità, il cibo è socialità, il cibo è politica (e per questo mai riducibile a sola questione partitica). Mangiare è un atto essenziale per la vita dell’uomo, ma richiede coscienza e consapevolezza. In questa logica, demonizzare la ricerca o idolatrarla sono due estremi che derivano dalla banalizzazione della realtà, non dalla sua semplificazione. Due estremi che allontanano dall’analisi dei fabbisogni di cambiamento dei comportamenti e delle abitudini degli esseri umani, e cioè di quei fattori che tanto incidono sulla crisi climatica.
Tali cambiamenti, invece, chiedono approcci olistici e pensieri sistemici da comunicare e insegnare, per costruire non già strumenti tecnologici (non internet delle cose; non cibo di Frankenstein, proteine alternative, agricoltura di precisione, intelligenza artificiale nei campi, agricoltura senza terra), ma modelli di ecologia integrale rigenerativa.
I cambiamenti di cui l’umanità ha bisogno e ha bisogno in fretta, sono cambiamenti di modelli, cioè di una casa nuova, anche per gli strumenti tecnologici che fortunatamente possediamo. La grande sfida della nostra era è riuscire a nutrire l’uomo (tutti gli uomini, nessuno escluso) in modo sano, avendo cura per l’ecosistema che lo accoglie. L’umanità potrà adattarsi ai grandi cambiamenti che stiamo vivendo solo rimettendo la vita (degli uomini e dell’intero pianeta che abitano) al centro.
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Etica a genetica un binomio forse impossibile
I primi dieci anni di CRISPR.Il sistema per modificare pezzi di DNA con estrema precisione ha rivoluzionato la ricerca e ha aperto molte questioni etiche ancora da risolvere Alla fine di giugno del 2012, sulla rivista scientifica Science fu pubblicata una ricerca che non attirò da subito particolari attenzioni, ma che in seguito si sarebbe rivelata centrale per una delle più grandi rivoluzioni della scienza moderna: la possibilità di modificare velocemente, con precisione e a basso costo il DNA per trattare problemi di salute finora incurabili, creare piante resistenti a un clima sempre più caldo e prevenire le malattie genetiche. Lo studio era soprattutto il frutto del lavoro di due scienziate, Emmanuelle Charpentier e Jennifer A. Doudna, che circa otto anni dopo sarebbero state premiate con il Nobel per la Chimica per CRISPR/Cas9, il loro sistema per modificare pezzi del materiale genetico. A distanza di dieci anni dalla pubblicazione di quella prima ricerca, CRISPR è diventato una delle più importanti innovazioni della biologia. Viene impiegato quotidianamente in centinaia di laboratori in giro per il mondo per capire quale sia il ruolo di particolari geni, l’unità ereditaria fondamentale degli esseri viventi.
I geni sono costituiti da sequenze di DNA e contengono le istruzioni per produrre specifiche proteine, che portano poi all’espressione di particolari caratteristiche fisiche (tratti) come il colore degli occhi o dei capelli, oppure particolari funzioni delle cellule. Il loro studio è fondamentale per capire che cosa può andare storto nel nostro organismo, causando disfunzioni e malattie. CRISPR rende inoltre possibile la modifica di porzioni del materiale genetico, in modo da attivare o disattivare alcuni geni. A dirla tutta, Charpentier e Doudna dieci anni fa non inventarono qualcosa di nuovo, ma trovarono il modo di sfruttare un meccanismo presente in alcuni batteri e che era stato notato dai microbiologi a partire dagli anni Ottanta. All’epoca, erano state scoperte alcune porzioni di DNA fatte diversamente da quanto ci si sarebbe aspettati, e per un buon motivo. Batteri vs virus Tendiamo a pensare che batteri e virus siano un pericolo per noi e gli altri animali, ma in realtà questi patogeni sono in guerra tra loro praticamente da quando esistono. I batteriofagi (o fagi), per esempio, sono un particolare tipo di virus che va a caccia dei batteri. Lo fanno sistematicamente, tanto che si stima che da soli causino giornalmente la morte del 40 per cento circa dei miliardi di miliardi di batteri che vivono a mollo negli oceani. La lotta è strenua e i batteri riescono a non estinguersi grazie alla rapidità con cui si moltiplicano, formando miliardi di nuovi esemplari ogni giorno e utilizzando alcune particolari difese. Quando i fagi entrano in contatto con i batteri, iniettano al loro interno il proprio materiale genetico, trasformando i batteri in piccole fabbriche che produrranno nuove copie dei virus che a loro volta infetteranno altri batteri. È il principio base di funzionamento di numerosi virus, come abbiamo ormai imparato in oltre due anni di pandemia. A differenze del nostro organismo, i batteri hanno sistemi di difesa meno elaborati e spesso falliscono nel resistere all’invasore virale.
Batteriofagi all’attacco di alcuni batteri di E. coli, le strutture più grandi (Wikimedia) Ci possono però essere alcune circostanze in cui i batteri riescono a respingere l’attacco da parte dei batteriofagi, con una soluzione semplice e al tempo stesso raffinata. I batteri trasferiscono parte del materiale genetico del virus nel loro codice genetico, creando una sorta di catalogo che viene appunto chiamato CRISPR, da clustered regularly interspaced short palindromic repeats (brevi ripetizioni palindrome raggruppate e separate a intervalli regolati). Se il batterio entra nuovamente in contatto con un virus, produce una copia del materiale genetico che aveva archiviato e la passa a una proteina che si chiama Cas9. Lavorando come un’archivista, questa si mette al lavoro e cerca nel batterio pezzi di DNA e li confronta con quelli in archivio, per capire se stia avvenendo un attacco da parte di un virus. Nel caso in cui rilevi una corrispondenza, taglia la sequenza genetica appartenente al virus, rendendola in questo modo innocua. Non essendoci più istruzioni complete, il batterio non può diventare la fabbrica di nuovi virus e non rischia di fare una brutta fine. CRISPR/Cas9 Cas9 è una proteina molto accurata nel tagliare pezzi di DNA, come ebbero modo di sperimentare Charpentier e Doudna nei loro laboratori e analizzando le ricerche svolte in precedenza. Si chiesero quindi se potessero sfruttare Cas9 per trasformarla in una specie di sarta del materiale genetico, per modificarlo tagliandone e copiandone pezzi, cucendoli se necessario altro lungo la doppia elica del DNA. Riuscirci non fu semplice, ma quando infine nel 2012 realizzarono il primo sistema di “forbici genetiche”, quelle descritte nel loro studio, capirono di avere realizzato qualcosa dalle enormi potenzialità e che avrebbe poi portato allo sviluppo di altre soluzioni simili (noi ci concentreremo soprattutto su Cas9). Le forbici di CRISPR/Cas9 partono da una sequenza genetica (RNA guida) preparata in laboratorio che corrisponde a quella del DNA dove si deve effettuare il taglio nella cellula. La proteina Cas9 si attiva e realizza il taglio: in mancanza di altre istruzioni, la cellula ripara il proprio DNA perdendo un pezzo del codice genetico, in molti casi rendendo inutilizzabile proprio il gene che il gruppo di ricerca voleva disattivare. Questo sistema permette inoltre di inserire del nuovo DNA nella fase di riparazione, nel caso in cui si voglia invece modificare il funzionamento della cellula.
Malattie genetiche e piante CRISPR ha rivoluzionato il modo di fare editing perché in precedenza modificare i geni era estremamente difficile, richiedeva molto tempo e spesso portava a risultati poco affidabili. In dieci anni il nuovo sistema si è mostrato affidabile, per quanto ancora perfettibile, ed è diventato diffuso in numerosi ambiti della ricerca e con prime applicazioni pratiche in ambito sanitario. Uno degli ambiti più promettenti per CRISPR si è dimostrato essere lo sviluppo di nuove terapie contro le malattie ereditarie. Alcune settimane fa, per esempio, sono stati presentati i primi risultati di un test clinico condotto su 75 volontari affetti da anemia mediterranea o da anemia falciforme, due malattie ereditarie del sangue che riducono la capacità del sangue di trasportare ossigeno tramite l’emoglobina. Gli autori dello studio hanno sfruttato il fatto che gli esseri umani possiedono diversi geni che regolano l’emoglobina. Uno di questi è legato all’emoglobina fetale, che come suggerisce il nome è attiva solamente nei feti e si disattiva poi a qualche mese dalla nascita. Dal midollo osseo dei volontari sono state quindi prelevate cellule non ancora specializzate, poi con CRISPR è stato escluso il gene responsabile della disattivazione del meccanismo dell’emoglobina fetale. Le cellule modificate sono state poi trasfuse nuovamente nei volontari, che hanno così iniziato a produrre l’emoglobina necessaria al sangue per trasportare l’ossigeno. Su 44 volontari con anemia mediterranea, dopo il trattamento 42 non hanno più avuto bisogno di sottoporsi periodicamente alle trasfusioni di sangue, come devono fare solitamente le persone con questa malattia. I risultati sono stati promettenti anche per i malati di anemia falciforme e per questo le due aziende coinvolte nello sviluppo del sistema, CRISPR Therapeutics e Vertex chiederanno presto alle autorità sanitarie statunitensi un’autorizzazione per il loro trattamento. CRISPR Therapeutics è stata cofondata da Charpentier e ha vari progetti di ricerca in corso. Anche Doudna ha cofondato una propria azienda, Caribou Biosciences, impiegata in altre sperimentazioni nel settore sempre basate sull’editing con CRISPR. Altre importanti aree di sperimentazione e applicazione sono legate alla ricerca contro il cancro. Già nei primi anni dopo la pubblicazione dello studio, numerosi gruppi di ricerca avevano iniziato a utilizzare CRISPR per capire meglio il ruolo di alcuni geni e disattivarli, osservandone le conseguenze in laboratorio. In questo modo è stato per esempio possibile scoprire un gene con un ruolo centrale nella crescita di alcuni tipi di tumore, portando poi allo sviluppo di un farmaco per inibire la sua attività in modo da fermare la diffusione delle cellule cancerose nell’organismo. In altri ambiti, per esempio quello agricolo, CRISPR può essere utilizzato per produrre piante più resistenti e per migliorare la resa dei raccolti. In questi anni sono state per esempio sperimentate soluzioni per rendere la soia e i cereali più resistenti alla siccità, facendo in modo che abbiano bisogno di meno acqua per crescere.
Sperimentazioni sulle piante utilizzando CRISPR/Cas9, presso l’Istituto Leibniz per la genetica delle piante e la ricerca sulle piantagioni a Gatersleben, Germania (Sean Gallup/Getty Images) Altre sperimentazioni hanno riguardato soluzioni per rendere le piante più resistenti ai parassiti o ancora in grado di crescere in condizioni ambientali non ottimali, in modo da dover ricorrere con minore frequenza agli antiparassitari e ai fertilizzanti. Piante di questo tipo non solo potrebbero contribuire a ridurre i rischi che si verifichino crisi alimentari, a livello locale o globale come quella degli ultimi mesi, ma anche di migliorare la resa dei campi in termini energetici, dovendo produrre meno prodotti chimici per favorire la crescita nei campi. Etica, costi e opportunità Risultati simili erano già stati ottenuti prima dell’introduzione di CRISPR, ma con tecniche più costose e minori opportunità per i centri di ricerca più piccoli di condurre sperimentazioni rilevanti. Come era già emerso all’epoca, la possibilità di creare piante geneticamente modificate porta con sé numerose complicazioni, legate sia alla percezione della loro sicurezza da parte della popolazione, sia per le opportunità commerciali che spingono le grandi multinazionali a brevettare le loro sementi OGM, rendendole talvolta meno accessibili, soprattutto per i paesi più poveri. L’impiego di CRISPR, come di altre tecniche di editing del genoma, pone poi vari temi etici, considerate le ampie possibilità nell’alterazione degli embrioni umani. Se ne discusse molto nel 2018, quando il ricercatore cinese He Jiankui, annunciò la nascita di una coppia di gemelle modificate geneticamente, cui si aggiunse un altro bambino pochi mesi dopo. He aveva modificato un embrione umano con l’obiettivo di ottenere una resistenza all’HIV, il virus che può portare all’AIDS. La notizia fu ampiamente commentata e criticata nella comunità scientifica, e non solo, per le numerose implicazioni che avrebbe potuto avere e per la salute dei neonati coinvolti. Nel 2019 un tribunale cinese condannò a tre anni di carcere He per pratiche mediche illecite, mentre non si sono più avute notizie chiare sullo stato di salute dei tre bambini. He rimane a oggi l’unico caso noto di un ricercatore che si sia spinto così avanti, ma CRISPR pone molte domande sulle potenzialità per intervenire sugli embrioni e modificarne il corredo genetico. A fini terapeutici è una grandissima opportunità, ma potrebbe avere altri esiti difficili da governare. Ci si chiede per esempio fino a dove si potrebbero un giorno spingere i futuri genitori di un bambino nel richiedere modifiche: un conto sarebbe escludere il rischio di una malattia genetica invalidante, un altro scegliere altri tratti come il colore degli occhi o dei capelli. Con le tecniche attualmente disponibili, siamo ancora lontani da questa eventualità, ma i progressi degli ultimi anni non fanno escludere che un giorno nemmeno troppo lontano le possibilità di avere ampia scelta sulle modifiche per gli embrioni. È un problema su cui si stanno interrogando esperti, comitati etici e i governi, con un confronto estremamente delicato i cui esiti condizioneranno buona parte della ricerca medica, e più in generale delle discipline biologiche, dei prossimi decenni. Un approccio eccessivamente rigido potrebbe far perdere importanti opportunità per migliorare la salute di milioni di persone, bloccando importanti progressi nel settore, sostiene chi è più restio a introdurre nuove leggi e regolamenti. Al contrario, chi vorrebbe regolamentare più rigidamente l’editing del genoma sostiene che sia l’unico modo per evitare storture o il rischio che alcune soluzioni siano accessibili solo ai più ricchi, che potrebbero permettersi pratiche mediche brevettate e molto costose. La modifica degli embrioni a livello del DNA continua comunque a essere un’attività difficile: CRISPR ha reso più accessibili alcune tecniche per farlo, ma sono emersi altri ostacoli legati a come si riorganizza il materiale genetico nelle cellule nel caso di particolari modifiche. Il sistema esiste del resto da appena dieci anni ed è considerato un importante punto di partenza, verso una meta ancora distante, ma che appare meno irraggiungibile di un tempo. Read the full article
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Si parla spesso di “pratica”, tuttavia il più delle volte c’è molta confusione al riguardo, è un rituale? un modus vivendi? un qualcosa che si manifesta nelle consuete attività del quotidiano o è qualcosa verso cui ci si dirige sospendendoci dal quotidiano? Potresti scrivere qualcosa che chiarisca questo concetto? In poche parole, per il ricercatore spirituale, che significa “pratica”? Grazie
Dipende, molto spesso il ricercatore spirituale non ha neanche una pratica. Ricerca solo intellettualmente e teoricamente, spesso confondendosi le idee. Se volete superare questa fase, il mio consiglio è di scegliere una strada e dedicarvi unicamente ad essa con tutta l’anima. Scegliete il maestro più affine a voi e che più vi dà fiducia. Mi raccomando, scegliete un grande maestro. Non vi dirigete su praticanti esperti che vi danno consigli, come me, noi siamo compagni di scuola un po’ secchioni, tutto qua. Scegliete un grande maestro! Poi mollate tutto il resto, leggete ogni suo libro, ponderate ogni parola, rileggete, ponderate, ascoltate, sfidate gli insegnamenti, metteteli alla prova e cominciate ad attivarvi personalmente per metterli in pratica. Solo così si diventa ‘discepoli’. So che questo è un termine poco di moda e che ricorda l’atto del seguire ciecamente, invece implica proprio il contrario.
Nell’attivarsi e cercare di provare scientificamente un metodo con obiettività, estrema serietà e grande intensità, si sperimenta la tesi e si testa la pratica, si comprende direttamente la sua validità e si diventa autonomi e indipendenti. Nel ponderare e nel testare, ci si stacca dal metodo d’apprendimento superficiale e si giunge alla comprensione diretta e alla sperimentazione scientifica. Sono i modi mentali che attuate che vi staccano dalla ricerca teorica e vi fanno divenire praticanti. Anche ‘quanto’ praticare è autodeterminato dalla propria intensità e serietà. Io non mi pongo limiti e i miei maestri non me li hanno posti. Abbiamo già abbastanza limiti dovuti alla nostra disattenzione e agli impegni secolari. Se si è seri diventa un modus vivendi, ma ciò non toglie che c’è chi inizia con un impegno più concentrato e, infine, che si può integrare la pratica ‘da seduti’ alla pratica costante. Le due cose non si escludono a vicenda. Se avete intensità non servono regole imposte dall’esterno. Nel conosci te stesso c’è una sola regola e una sola pratica: l’attenzione interiore, spinta sempre più verso se stessa, fino a divenire auto-attenzione.
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Sulla pratica della presenza mentale, ‘conosci te stesso’:
Il metodo (serie di 4 articoli)
La via naturale
La sede dell’attenzione
Sulla pratica dell’atma vichara, chiamata anche ‘chi sono’:
Atma-vichara
L'irrealtà della mente
Il silenzio che siamo
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Un appello per la scuola
Un appello per la scuola Un appello a cui ho aderito convintamente. So che di solito gli appelli si sprecano e difficilmente si leggono ma vale la pena. Dalla Costituzione della Repubblica italiana: Art. 3: " [..]E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese." Art. 33: "L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato." Art. 34: "La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi." Rafael Araujo, Blue morpho golden ratio sequence Al Presidente della Repubblica Ai Presidenti delle Camere Al Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca. Gli insegnanti proponenti: Giovanni Carosotti, insegnante scuola secondaria di secondo grado, Milano. Rossella Latempa, insegnante scuola secondaria di secondo grado, Verona. Renata Puleo, già dirigente scolastico, Roma. Andrea Cerroni, professore associato, Università degli Studi Milano-Bicocca. Gianni Vacchelli, insegnante scuola secondaria di secondo grado, Rho (MI). Ivan Cervesato, insegnante scuola secondaria di secondo grado, Milano. Lucia R. Capuana, insegnante scuola secondaria di secondo grado, Conegliano Veneto (TV). Vittorio Perego, insegnante scuola secondaria di secondo grado, Melzo (MI). La premessa L’ultima riforma della scuola è l’apice di un processo pluridecennale che rischia di svuotare sempre più di senso la pratica educativa e che mette in pericolo i fondamenti stessi della scuola pubblica. Certo la scuola va ripensata e riformata, ma non destrutturata e sottoposta ad un processo riduttivo e riduzionista, di cui va smascherata la natura ideologica, di marca economicistica ed efficientista. La scuola è e deve essere sempre meglio una comunità educativa ed educante. Per questo non può assumere, come propri, modelli produttivistici, forse utili in altri ambiti della società, ma inadeguati all’esigenza di una formazione umana e critica integrale. È quanto mai necessario “rimettere al centro” del dibattito la questione della scuola. Come? In tre modi almeno: a) parlandone e molto, in un’informazione consapevole che spieghi in modo critico i processi in corso; b) ricostituendo un fronte comune di Insegnanti, Dirigenti Scolastici, Studenti, Genitori e Società civile tutta; e, soprattutto, c) riprendendo una lotta cosciente e resistente in difesa della scuola, per una sua trasformazione reale e creativa. Bisogna chiedersi, con franchezza: cosa è al centro realmente? L’educazione, la cultura, l’amore per i giovani e per la loro crescita intellettuale e interiore, non solo professionale, o un processo economicistico-tecnicistico che asfissia e destituisce? 7 temi per un’idea di Scuola da leggere come studente, genitore, insegnante, cittadino Conoscenze vs competenze Innovazione didattica e tecnologie digitali Lezione vs attività laboratoriale Scuola e lavoro Metrica dell’educazione e della ricerca Valutazione del singolo, valutazione di sistema Inclusione e dispersione Il documento Conoscenze vs competenze Una scuola di qualità è basata sulla centralità della conoscenza e del sapere costruiti a partire dalle discipline. Letteratura, Matematica, Arte, Scienza, Storia, Geografia, Filosofia, in tutte le loro declinazioni, sono la chiave di lettura del mondo, della società e del nostro futuro. Una reale comprensione del presente e la trasformazione della società richiedono riferimenti che affondano le radici nella storia, nelle opere, nelle biografie e nell’epistemologia delle discipline. Crediamo che: i)Aggregare compiti e prestazioni degli allievi attorno a competenze predefinite e standardizzate annienti l’organicità dell’educazione, riduca la complessità del mondo ad un “kit di pratiche”, che tali restano, anche con l’appellativo onorifico di “competenze di cittadinanza”. ii)La competenza, unica e trasversale, si consegua nel tempo, nello spazio sociale, nei contesti comunicativi affettivo-cognitivi. La cittadinanza, a cui le competenze comunitarie aspirano, non è un insieme di rituali individuali da validare e certificare. Cittadinanza è “operare in comune”. iii) Non abbia senso misurare “livelli di competenza” degli studenti, da attestare in una sorta di fermo-immagine valutativo. Il sapere non si acquisisce mai definitivamente. È continuamente rinnovato dalla maturazione, consapevolezza, interiorità, ricerca singolare e plurale, approfondimento di contenuti e pratiche. Innovazione didattica e tecnologie digitali Innovare non è bene di per sé, tantomeno in campo educativo. La didattica “innovativa” o digitale, oggi presentata come primaria necessità della Scuola, non vanta alcuna legittimazione scientifica né acquisizione definitiva da parte della ricerca educativa. Innovazioni e tecnologie, nelle varie accezioni global-ministeriali (debate, CLIL, flipped classroom, etc), rappresentano un insieme di “riforme striscianti” che demoliscono pezzo a pezzo l’edificio della Scuola Pubblica dal suo interno. Servono piuttosto innovazioni in tutt’altra direzione, che sappiano valorizzare inoltre l’interculturalità, la creatività e l’immaginazione, il pensiero critico e quello simbolico, nella didattica così come nell’impianto complessivo della scuola. Crediamo che: i)Ogni innovazione metodologica o tecnologia digitale sia un possibile strumento di ampliamento e accesso a contenuti e conoscenze. Sul loro impiego l’insegnante è chiamato a riflettere e valutare in maniera incondizionata e libera. Codificare pratiche e metodi, presentati come la priorità della Scuola, è una semplificazione retorica arbitraria, corrispondente ad un preciso modello culturale preconfezionato, che ridefinisce finalità e ruoli dell’istruzione pubblica in ossequio a un’ideologia indiscussa. ii)L’inflazione di innovazioni didattiche e gli sperimentalismi digitali offrano spesso narrazioni impazienti ed elementari (slides, video, “prodotti”, progetti), propongano procedure stereotipate e associazioni banali, con grave danno per gli studenti e la loro crescita culturale, interiore e sociale. iii) Non sia il mero ingresso di uno smartphone in classe a migliorare l’apprendimento o l’insegnamento. In quel caso si potrà, certo, aderire a un modello, attualmente dominante: quello che sostiene l’equazione cambiamento=miglioramento e digitale=coinvolgimento. Il miglioramento dell’apprendimento e dell’insegnamento passa, però, per altre strade: quelle dell’attuazione del dettame della nostra Costituzione. Lezione vs attività laboratoriale Nell’era di instagram, twitter e dell’ e-learning, la relazione e la comunicazione “viva” allievo/insegnante - nella comunità della classe - rappresentano fortezze da salvaguardare e custodire. La saldatura del legame intergenerazionale, la trasmissione coerente di conoscenze, percorsi e temi, il dialogo incalzante, la maieutica, la circolarità, la condivisione di interpretazioni e scelte linguistiche, il problematizzare insieme, l’attenzione ai tempi, alle reazioni di sguardi e comportamenti. Tutto questo è fare lezione, un incontro fra persone in cammino in una comunità inclusiva. Gli appellativi di “frontale”, “dialogata”, “laboratoriale” sono rifiniture burocratiche che non ne intaccano la sostanza. Una lezione può e deve essere un laboratorio educativo, di crescita e partecipazione, di scambi fra tutti e cambiamenti di ciascuno, insegnante incluso. Crediamo che: i) L’insegnante, come educatore, sia responsabile e garante di quell’ “incontro” che dà senso e valore ai fatti culturali della propria disciplina. La relazione di pari dignità ma asimmetrica tra maestro e studente, nel microcosmo della collettività di classe, permette agli allievi di imbattersi nel non conosciuto, di praticare l’incontro con la difficoltà del reale e del vivere in comunità, di aprire un orizzonte culturale diverso da quello familiare o sociale. ii)Attenzione concentrata, aumento dei tempi di ascolto, siano condizioni per un “saper fare” come “agire intelligente”, che non si consegue assecondando l’uso delle tecnologie o seducendo gli alunni con dispositivi smart, ma in contesti di applicazione laboriosa, tempo quieto per pensare, discussione nel gruppo. Scuola e lavoro Non si va a scuola semplicemente per trovare un lavoro, non si frequenta un percorso di istruzione solo per prepararsi ad una professione. Dal liceo del centro storico al professionale di estrema periferia, la scuola era e deve restare, per primo, un “luogo potenziale” in cui immaginare destini e traiettorie individuali, rimettere in discussione certezze, diventare qualcos'altro dalla somma di “tagliandi di competenza” accumulati e certificati. L’apertura alla realtà sociale e produttiva può realizzarsi, volontariamente, attraverso forme e progetti di scambio organizzati autonomamente dagli istituti scolastici. Non imposti ex lege dal combinato Jobs Act e Buona Scuola. Pratiche calibrate in base ai contesti e alle finalità educative, che in nessun modo gravino sulle famiglie o sugli allievi in termini di sostenibilità e gestione. Crediamo che: i)L’alternanza scuola lavoro non rappresenti affatto un’opportunità formativa per i ragazzi, quanto piuttosto una surrettizia sperimentazione del “lavoro reale” che entra fin dentro i curricula scolastici, sottraendone tempo e qualità e distorcendone le finalità. ii) Oltre ad approfondire il solco tra sapere teorico e pratico, alternanza è sinonimo di disuguaglianza. Percorsi ineguali in base a contesti, tessuti sociali e reti familiari, che peggiorano in proporzione alla fragilità delle condizioni economiche e delle opportunità culturali di luoghi e famiglie. iii) Bisogna recuperare l’idea di Scuola come luogo della vita dotato di un tempo e spazio propri, non corridoio di passaggio tra infanzia e adolescenza - considerate età “minori” - e occupazione adulta. iv)Sia necessario portare la conoscenza del lavoro nelle classi, non gli studenti a lavorare. Logiche, dinamiche e problematiche dell’occupazione entrino nel dialogo educativo, per aiutare i giovani ad orientarsi, attrezzarsi a comprenderle e intervenire per modificarle. Metrica dell’educazione e della ricerca Educazione e ricerca accademica sono oggi terreno di confronto tra tutti i soggetti sociali, politici, economici ad esse interessati. Gli orientamenti internazionali delle politiche formative e di ricerca lo testimoniano e innescano una competizione globale in cui ranking internazionali (OCSE) e nazionali (INVALSI, ANVUR) comprimono gli scopi formativi e di studio sulla dimensione apparentemente neutra di “risultato”, oltre ad indurre a paragoni privi di rigore logico. Educazione e ricerca universitaria non sono riducibili ad un insieme di pratiche psicometriche globali, a cui sottoporsi in nome del principio di etica e responsabilità. Il futuro della Scuola e dell’Università sono questioni politiche nazionali, da collocare in un contesto europeo e interculturale di confronto e valorizzazione delle differenze, libero e democratico. Crediamo che: i)Scuola e Ricerca universitaria siano oggetto di vera e propria “ossessione quantitativa”, da parte di organismi internazionali e nazionali. ii)La logica dell’adempimento e della competizione azzerino il lavoro di personalizzazione nella formazione scolastica ed erodano progressivamente spazi di progettualità libera nella ricerca universitaria (attraverso la sottomissione a criteri di valutazione non condivisi). iii) Le scelte operate da MIUR, INVALSI ed ANVUR, modifichino profondamente comportamenti e strategie nelle Scuole e nelle Università, generando condotte di mero opportunismo metodologico-didattico e scientifico nonché la perdita di “biodiversità culturale”, strumento indispensabile per affrontare le complessità del futuro, oggi imprevedibili. Valutazione del singolo, valutazione di sistema La valutazione degli studenti è impegno unico, qualificante e delicato dell’insegnante, condiviso con la comunità dei docenti e dei discenti, consapevoli del cambiamento tipico dei processi di apprendimento. È un’osservazione “prossimale” (e responsabile) modulata su tempi lunghi, sull'evoluzione del singolo allievo, delle pratiche di insegnamento, del gruppo, del contesto. È impensabile che enti terzi, estranei al rapporto educativo, entrino nel merito della valutazione formativa, come previsto dalla Buona Scuola. Singolarmente anacronistico appare che, dopo decenni di ‘crisi del fordismo’ in economia, si voglia introdurre la ‘fordizzazione’ nell'educazione. Le menti, soprattutto durante le prime fasi della formazione, sono delicate, creative e si conciliano con “tempi e metodi” d’antan assai meno delle berline. Crediamo che: i) Accostare una valutazione di agenzie esterne a quella del corpo docente nel “curriculum dello studente”, mini la relazione di fiducia scuola-famiglia, spostando l’attenzione sull'esito, più che sul processo e sul percorso, togliendo ogni significato agli obiettivi di personalizzazione ed inclusione che la Scuola afferma di perseguire; ii)Un’agenzia “terza” (INVALSI) non possa svolgere compiti di valutazione e di ricerca pedagogico-didattica orientanti programmi e curricola: la terzietà non è, inoltre, comparabile con gli incarichi affidati dal MIUR per la valutazione (diretta e indiretta) di docenti e dirigenti attraverso meccanismi di premialità. iii) La presenza di agenzie esterne nella valutazione del singolo rappresenti un’espropriazione di quella responsabilità complessa, raffinata negli anni con l’esperienza e la condivisione collegiale, della professionalità di ogni insegnante: la valutazione dei propri studenti; Inclusione e dispersione La dispersione scolastica, l’inclusione autentica e la riduzione delle disuguaglianze necessitano di interventi politici sistematici, di fondi strutturali, impegni comunitari, di monitoraggio costante, conoscenza e capitalizzazione delle pratiche esistenti. A partire da investimenti e piani territoriali: infrastrutture, associazioni, biblioteche; fino ad arrivare a Scuola, con risorse costanti per costruire una fitta ed efficiente rete di recupero dei disagi, delle solitudini e delle difficoltà degli allievi più fragili. Se è vero che la Scuola e i buoni insegnanti fanno la differenza, è ancor più vero che la dispersione ha una sua mappa che si sovrappone a quella geografica ed economica dei tessuti degradati e delle periferie impoverite, di situazioni e storie difficili da ribaltare e su cui incidere. Dare alle Scuole risorse e spazi adeguati alla costruzione di didattiche di recupero e opportunità di accoglienza non è sperpero di denaro pubblico, ma progettazione politica di inclusione autentica, unica vera prospettiva di crescita e ricchezza del paese. Crediamo che: i) I temi in gioco siano cruciali e non ci si possa limitare a chiedere alla Scuola di fare meglio solo con ciò che ha. Semplificare compiti e programmi, organizzare corsi di recupero pomeridiani che ricalchino quelli antimeridiani, medicalizzare le diversità, sono scorciatoie che restano agli atti come prove burocratiche di adempimenti amministrativi; ii) La Scuola abbia un valore politico. Dunque ha il diritto di chiedere di indirizzare risorse pubbliche su questioni di importanza sociale e morale che ritiene prioritarie. Dispersione scolastica e abbandoni precoci non sono solo capi d’imputazione su cui è chiamata a rispondere, ma problematiche che nelle attuali condizioni assorbe e subisce. --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- In virtù di queste considerazioni: 1) Chiediamo un’azione di moratoria su: Ø obbligo dei percorsi di alternanza-scuola lavoro e del requisito di effettuazione per l’accesso all’esame di Stato conclusivo del II ciclo Ø obbligo di impiego metodologia CLIL (Content and Language Integrated Learning, apprendimento integrato di contenuti disciplinari in lingua straniera) Ø uso dei dispositivi INVALSI a test censuario per la valutazione degli esiti scolastici, obbligatorietà della somministrazione funzionale all’ammissione agli esami di licenza del primo e secondo ciclo Ø modifiche relative all’esame di Stato, che renderebbero di fatto sempre più marginale la didattica disciplinare. 2) Chiediamo l’apertura di un ampio dibattito governo-Scuola di base-organizzazioni sindacali-cittadinanza sulle questioni di cui al punto precedente e su tutto l’impianto della Legge 107/2015. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Per aderire: compila il modulo google cliccando il link seguente. contatti: [email protected] Firma anche tu: Appello per la Scuola Pubblica Per scaricare il testo e diffonderlo nella tua scuola clicca qui.
Un appello a cui ho aderito convintamente. So che di solito gli appelli si sprecano e difficilmente si leggono ma vale la pena. Dalla Costituzione della Repubblica italiana: Art. 3: ” [..]E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva…
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CHEOPS, alla ricerca di esopianeti con occhi Leonardo
CHEOPS, alla ricerca di esopianeti con occhi Leonardo Il satellite CHEOPS (Characterising ExoPlanets Satellite) dell’Agenzia Spaziale Europea potrà scrutare lo spazio alla ricerca di pianeti simili alla Terra grazie a sofisticati “occhi” progettati e costruiti da Leonardo.
Il telescopio spaziale di CHEOPS, su commissione dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), è stato progettato e costruito nello stabilimento Leonardo a Campi Bisenzio (Firenze), dove ingegneri, fisici e tecnici specializzati hanno realizzato lo strumento secondo i requisiti definiti dai ricercatori INAF di Padova e Catania (OAPD e OACT), in collaborazione con l’Università di Berna. In particolare, Leonardo, insieme al contributo di piccole e medie imprese, ha curato la realizzazione del sistema ottico del telescopio, basato su specchi asferici, e dell’ottica di collimazione sul piano focale (specchio e lenti). Il telescopio è ottimizzato per misure fotometriche ad altissima precisione. Lo specchio primario misura 320mm di diametro e l’assieme risultante è molto compatto (la lunghezza del tubo ottico principale è di soli 300mm) per limitarne la massa e gli ingombri. Lo stabilimento Leonardo a Campi Bisenzio vanta una lunga storia di eccellenze nella realizzazione di strumenti per l’osservazione della Terra, tra cui strumenti elettro-ottici altamente tecnologici. La fornitura Leonardo del telescopio di CHEOPS conferma la leadership nel campo dell'ottica raggiunta in questi anni dall’azienda e dalla comunità scientifica italiana. Altro esempio di tale primato, è rappresentato dalla camera iperspettrale più potente al mondo, lanciata a bordo della missione PRISMA (ASI) lo scorso marzo. CHEOPS, che opererà su un'orbita eliosincrona a un'altitudine di 700 km, indagherà sulla natura dei pianeti extrasolari più grandi della Terra e più piccoli di Nettuno. Sarà la prima missione scientifica a studiare da vicino, per almeno tre anni e mezzo, i sistemi solari già conosciuti, scrutando con estrema precisione ed accuratezza le caratteristiche dei loro pianeti. La tecnica utilizzata è quella dell’osservazione del transito degli esopianeti davanti alle loro stelle. Grazie al telescopio di Leonardo, CHEOPS riuscirà infatti a osservare e misurare con altissima precisione i pianeti che, girando intorno a stelle brillanti (magnitudine da 6 a 12), ne attenueranno per brevi periodi la luce. La tenue fluttuazione di luce osservata permetterà di calcolare con accuratezza la massa e le dimensioni del pianeta, raccogliendo quindi informazioni fondamentali per studiarne la struttura, per esempio se rocciosa o gassosa. CHEOPS permetterà quindi di approfondire la nostra comprensione di mondi lontani, ad oggi, ancora sconosciuti. Read the full article
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“La bellezza giapponese non mostra tutto e subito, anela al suggerito, al non detto, ha qualcosa di sacro, così anche la musica diventa una forma di contemplazione”: Francesco Consiglio dialoga con Costantino Catena
L’artista affermato, egocentrico e pauroso, che tiene per sé i segreti del suo successo perché ha paura di perdere ciò che gli è costato tanta fatica, vive nel terrore di essere spodestato. È la sindrome di Crono, il figlio di Urano che uccise il padre per prenderne il posto, ma poiché temeva di fare la stessa fine, ogni volta che gli nasceva un discendente, lo divorava. Uno di essi, Zeus, riuscì a salvarsi, e quando raggiunse l’età adulta, affrontò suo padre e l’uccise, diventando il capo di tutti gli dèi.
L’incipit mitologico serve a introdurre un’intervista davvero generosa, anche nella lunghezza, e per nulla reticente. Costantino Catena è un abile pianista e un uomo affabile con cui tirare a far mattino conversando instancabilmente di musica, e non solo. E ovviamente non ha nessuna paura di mettersi a nudo raccontando di sé e del suo modo di intendere il pianismo. Il lettore appassionato potrà riconoscere in lui un fratello maggiore pronto a dispensare una grande quantità di riflessioni acute, stimoli interessanti e tante piccole lucine di verità personale.
Costantino Catena ha iniziato giovanissimo lo studio del pianoforte. Dopo aver conseguito il diploma con lode presso il Conservatorio “Giuseppe Martucci” di Salerno sotto la guida del M° Luigi D’Ascoli, ha proseguito e completato la sua formazione pianistica seguendo corsi di perfezionamento con Konstantin Bogino, Bruno Mezzena e Boris Bechterev. È stato ospite di importanti istituzioni concertistiche in vari paesi europei, in Australia, negli U.S.A., in Russia e in Giappone, tra cui la Philharmonia di San Pietroburgo, il Kennedy Center e la Georgetown University di Washington, il Gasteig di Monaco di Baviera, il Liszt Memorial Museum di Budapest, l’Auditorium Parco della Musica di Roma, il Conservatorio Tchaikovsky di Mosca, la Yasar Concert Hall di Izmir, la Winchester University, la Filarmonica De Stat Transilvania di Cluj-Napoca, il Kusatsu International Festival, l’Ohrid Summer Festival.
Con l’etichetta giapponese Camerata Tokyo, ha inciso l’integrale di Liszt per violino e pianoforte, e numerosi CD solistici, tra cui la registrazione di tutti i capolavori pianistici di Schumann. Nel 2016 è stato ufficialmente designato “Yamaha Artist”, un titolo che viene concesso a strumentisti di chiara fama che scelgono di suonare strumenti musicali Yamaha Corporation.
C’è chi dice che i pianisti classici siano individui ossessivi. Molto è stato scritto su Arturo Benedetti Michelangeli e la sua maniacale ricerca dell’imperfezione da correggere. E anche Glenn Gould, forse ancora più del maestro italiano, inseguì una verità assoluta che non può esistere, se non in sala di registrazione. Il 10 aprile 1964, nove anni dopo l’esordio, si ritirò dalle scene concertistiche. Continuò a incidere, inseguendo la verità assoluta dell’interpretazione.
Quando per tutta la vita ci si siede tante ore al giorno al pianoforte, cercando di costruire in dettaglio la propria interpretazione e sviluppare il necessario controllo sulla performance affinché in concerto riesca tutto bene, è difficile non diventare perfezionisti. È vero anche che senza una predisposizione psicologica il talento non basta per intraprendere una carriera artistica di questo tipo. Qualsiasi attività artistica o scientifica, fatta ad alto livello, richiede un’alta dose di perfezionismo e quindi di ossessività. Certamente le arti performative per loro natura necessitano di un controllo e di una sicurezza ancora maggiore, dovendosi svolgere nell’Hic et nunc, senza una seconda possibilità, senza poter ritornare indietro. Quando si prepara un concerto, la ricerca artistica va di pari passo con la costruzione della performance e con il dominio assoluto dello strumento. Infatti, c’è un’alta probabilità che errori in fase di apprendimento, mancanza di consapevolezza, conflitti tra memoria dichiarativa e procedurale, cali di concentrazione durante la performance, distrazioni dovute ad eventi esterni come rumori etc., stato psico-fisico in cui ci si trova, adrenalina ed ansia possano causare errori. È chiaro che con questi presupposti l’esigenza di controllo della performance nei pianisti è molto presente: i casi di Michelangeli e di Gould sono però piuttosto diversi. Mentre il primo è andato nella direzione del massimo controllo dell’esecuzione in pubblico, cosa che in generale gli è riuscita benissimo, Glenn Gould, a un certo punto della sua esperienza concertistica, ha realizzato che l’esibizione dal vivo non sarebbe mai stata in grado di rendere pienamente la profondità e la complessità di una composizione musicale. L’impossibilità di poter tornare indietro e ripetere in modo diverso lo disturbava, egli voleva costruire la sua interpretazione in modo meditato, più consapevole, potendo rivedere le sue scelte e risuonare ogni volta che voleva, utilizzando tutta la tecnologia a disposizione. La sala da concerto era un ambiente troppo umano, con le sue emozioni, le sue tensioni, le sue ansie, i suoi umori, i suoi sudori, i suoi rumori, i suoi applausi, tutte cose che finivano per condizionare molto la performance, rendendo impossibile l’aspirazione alla perfezione, la realizzazione completa e compiuta delle idee che aveva in mente. Può essere interessante in questo caso ricordare il pensiero del grande direttore d’orchestra Sergiu Celibidache, che sembrerebbe esattamente il contrario del pensiero gouldiano: egli rifiutò per tutta la vita di effettuare registrazioni e osteggiò aspramente l’utilizzo discografico della musica. Per lui quest’ultima era incompatibile con il supporto fonografico, venendo meno la condizione della condivisione dello stesso spazio tra esecutore e spettatore, poiché l’evento sonoro si coglie nel suo ‘qui ed ora’, ogni volta diverso. Non parlerei quindi di verità assoluta dell’interpretazione, sia perché l’interpretazione discografica è molto diversa da quella dal vivo, sia perché l’interpretazione musicale è per sua natura qualcosa che cambia nel tempo, a seconda dell’evoluzione della tecnologia, degli strumenti, delle acustiche, delle sale da concerto, dei media, della società e della cultura in genere. La musica non è un museo e – come nella differenza tra ermeneutica ed esegesi – abbiamo di volta in volta interpretazioni che si rivolgono non più ai contemporanei dell’autore, ma ai nostri contemporanei, ferma restando la ricerca di senso e di coerenza interna.
C’è tanto Giappone nella sua vita artistica. Costantino Catena ha un’intensa attività discografica, principalmente con l’etichetta giapponese Camerata Tokyo, con cui ha iniziato a collaborare nel 2010 incidendo l’integrale di Liszt per violino e pianoforte e in seguito numerosi CD solistici, tra cui la registrazione di tutti i capolavori pianistici di Schumann. Nell’agosto 2016 il nuovo CD “Two Saints. Francis of Assisi & Francis of Paola” è stato scelto come uno dei migliori dischi sulla rivista giapponese di musica “Record Geijutsu”, giudicato così dal critico musicale Jiro Hamada: “Catena ha una tecnica meravigliosa e con la sua pura e semplice interpretazione disegna il mondo di Liszt. La sua musica è a volte dolce e magnifica, a volte maestosa e serena”.
Sì, il mio rapporto con il Giappone è nato grazie alla collaborazione con Camerata Tokyo e si è rafforzato nel 2016 quando sono diventato Yamaha Artist. Nell’aprile 2018, insieme ad altri pianisti e ad alcuni membri dello staff Yamaha Europe, ho fatto un bellissimo viaggio nel Sol Levante, riassunto nel video Flame, che si può trovare su YouTube.
Camerata Tokyo è una raffinatissima casa discografica che produce sempre direttamente i suoi CD (cioè non accetta master realizzati esternamente, come spesso accade oggi con la maggior parte delle etichette) scegliendo luoghi di registrazione che possano vantare qualità e rese acustiche fuori dal comune. La maggior parte dei nostri CD (12 fino a questo momento) sono stati realizzati nel complesso museale di Santa Croce ad Umbertide, in provincia di Perugia, e nella Chiesa di San Giorgio a Salerno, luoghi entrambi dotati di bellissima acustica e riverbero abbondante. Ad Umbertide è stato registrato il primo CD dell’integrale pianistico di Schumann uscito da qualche mese, contenente i Davidsbündlertänze op. 6 e l’Humoreske op. 20, a cui presto seguiranno gli altri capolavori del grande compositore tedesco. Sicuramente il lungo rapporto con i giapponesi mi ha insegnato ad andare all’essenza delle cose. Il loro senso estetico, il wabi-sabi, è completamente diverso da quello occidentale, da loro ho imparato la cura estrema del dettaglio, la delicatezza. A proposito di quello di cui si parlava prima, la cultura giapponese è perfezionista, niente è lasciato al caso, tutto è costruito e addomesticato, come il bonsai o il giardino giapponese, come l’ikebana, e così l’esaltazione delle emozioni e delle passioni, propria della cultura occidentale, lascia il passo a un senso di equilibrio, di pazienza, di non ostentazione, di controllo delle passioni che a noi è sconosciuto. Nel modo di lavorare di Camerata Tokyo si ritrovano l’ordine e il perfezionismo che caratterizzano questa cultura, a partire dalla microfonatura e dalla scelta delle apparecchiature. Quello che colpisce è però come gli esiti di tutto questo meticoloso lavoro si trasformino in bellezza pura, in estetica del suono, nella ricostruzione della dimensione scenica dello strumento che consente di immaginare lo spazio che si percepisce intorno al pianoforte, con una dinamica naturale e piena. Tutto questo dona alle registrazioni un fascino difficilmente riscontrabile in quelle realizzate in studio. La bellezza giapponese non mostra tutto e subito, anela al suggerito e al non detto, ha qualcosa di sacro e così anche la musica diventa una forma di contemplazione e di meditazione esistenziale sulla transitorietà delle cose. Ma, in conclusione, difficilmente sceglierei di vivere in Giappone. È troppa la distanza culturale da colmare, anche se di sicuro questa diversità ha dato un grande contributo alla mia vita, migliorando il mio modo di suonare.
Mi spiace vedere che, a volte, spettatori poco accorti si spellano le mani di fronte a un virtuosismo sterile, fine a sé stesso, esibizionistico.
Il virtuosismo ha sempre rappresentato un’occasione di grande successo di pubblico, si pensi per esempio all’epoca Biedermeier in cui molti compositori scrivevano concerti brillanti con la funzione di stupire e divertire il pubblico. Anche Schumann ne riconosceva la funzione, dicendo che un concerto doveva allietare o, addirittura, incantare una moltitudine di teste, che, a sua volta, deve incantare il virtuoso con i suoi applausi. Nell’esibirsi, giocano un ruolo tante componenti, non solo il bisogno di esprimersi con la musica. Si fa sempre molta fatica a capire quanta parte ha la musica e quanta il narcisismo e, inoltre, come appunto faceva notare Schumann, tutto questo ha una funzione sociale. Piuttosto, il problema risiede nella quantità di ‘virtuosi sterili’ che oggi ci ritroviamo. Sicuramente con la diffusione di internet il problema si è acutizzato, perché la quantità e la qualità delle informazioni rendono molto difficile il sottrarsi alla capacità di condizionamento dei media e mantenere un distacco critico, con la conseguenza che la capacità discriminatoria del pubblico è decisamente diminuita. Comunque, i grandi compositori seppero elevare l’aspetto spettacolare del virtuosismo a contenuto: facciamo l’esempio di Franz Liszt. Sul Maestro ungherese ci sono ancora dei pregiudizi, ma abbiamo testimonianza diretta (per esempio nel Liszt Paedagogium di Lina Ramann) che le sue lezioni erano basate essenzialmente sull’aspetto musicale ed espressivo, sul tipo di tocco da adottare, sull’uso del pedale, su quale linea melodica far emergere, sulla dinamica, sul carattere, sul fraseggio, sull’agogica. Ancora più interessante quello che diceva sui passaggi virtuosistici o sulle volatine, e cioè che, avendo la loro origine nel melos, non si potevano eseguire senza tener conto di questo, pensando solo alla forza e alla velocità. La Ramann parlava della mano di Liszt come “mano dotata di anima”, e cito testualmente dal suo libro: “L’errata valutazione di queste caratteristiche stilistiche, il mancato apprezzamento delle intenzioni del Maestro, il silenzio di tutta la poesia spesso da parte di eminenti virtuosi cresciuti allo studio della tecnica e della forma, ma non dello stile, nascondono i gioielli di cui sono ricche le composizioni pianistiche del grande poeta dei suoni”. Tutto questo avveniva alla fine dell’Ottocento, il che significa che già all’epoca Liszt veniva storpiato da tanti pianisti che ne vedevano solo il lato prettamente virtuosistico e spettacolare trascurando quello poetico e musicale che, invece, in un autore così non è semplicemente presente, ma costitutivo. Insomma, il virtuosismo sterile è sempre esistito.
Il genere liederistico è quasi esclusivamente una produzione di lingua tedesca. Ed è strano che in Italia, culla del melodramma, non ci siano stati artisti vogliosi di musicare le voci della grande poesia italiana (e quel ‘grande’ non è messo lì a caso, perché la produzione operistica è, dal punto di vista letterario e salvo rare eccezioni, assai mediocre). Anche nella musica cosiddetta leggera esistono pochissimi esempi di poeti che hanno scritto testi per canzoni. Mi viene in mente Pier Paolo Pasolini, che scrisse tre canzoni per Laura Betti e i bellissimi versi di “Che cosa sono le nuvole?”, cantata da Modugno. O Roberto Roversi, poeta bolognese che collaborò con Lucio Dalla, ma poi più nulla. Perché i musicisti, siano classici o pop, ignorano la produzione di poeti e scrittori?
Probabilmente il motivo principale per cui il Lied non ha avuto ampia diffusione in Italia è proprio che nell’Ottocento il melodramma ha occupato tutti gli spazi disponibili. Anche il suo analogo italiano, la Romanza, ha avuto un ruolo periferico, restando incastonata nell’Opera. Bisognerà aspettare la fine del secolo per trovare compositori di musica strumentale come Giuseppe Martucci o appunto chi ha scritto romanze su testi poetici come Francesco Paolo Tosti. Il Romanticismo italiano è stato molto diverso da quello tedesco, e in musica è rimasto saldamente legato alle ‘concrete’ e spesso amorose vicende melodrammatiche, certamente più dense di sentimenti, passionali e focose rispetto al ’700, ma molto più temperato rispetto al Romanticismo tedesco, fatto di malinconia, nostalgia, natura, aspetti crepuscolari, molto meglio rappresentabili con la musica strumentale – priva di significato strettamente semantico – e con le sfumature della poesia. Poesia e Canzone hanno caratteri e destinazioni diverse, per quanto ultimamente tendono ad essere classificate nello stesso ambito (ha fatto discutere molto il Premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan). Generalmente la canzone è priva dell’ambiguità e della polivalenza della poesia, si rivolge a un pubblico ampio ed eterogeneo, non necessariamente e particolarmente colto. Certo, nella canzone d’autore a volte si riesce a costruire un mondo poetico fatto di immagini, sfumature, significati poetici, ma la domanda verte sull’utilizzo specifico di testi di poeti e scrittori. Nella canzone lo schema delle parole è semplificato, i concetti esposti sono brevi ed efficaci, c’è una velocità imposta dalla musica: la poesia è lenta e ha bisogno di concentrazione. La canzone si rivolge agli altri, è un mezzo, mentre la poesia è un fine, può spesso essere criptica, è autoreferenziale, non cede alle semplificazioni, ha una sua tensione interna che difficilmente si trasmette con il testo di una canzone. Inoltre più ci si è addentrati nel ’900, più il linguaggio della poesia si è allontanato dal linguaggio comune mentre la canzone utilizza il linguaggio di tutti i giorni, quello di cui si servono gli individui normali, attraverso di essa la parola si fa più capillare. Infine ci sono delle questioni meramente tecniche, su cui concordano sia i cantautori e gli autori di testi che gli studiosi, prima tra tutte la scarsità di parole tronche nella lingua italiana. Da questo punto di vista i parolieri hanno dovuto sviluppare un linguaggio sempre più specifico per la canzone, ricorrendo a espedienti per compensare l’assenza di parole tronche, specialmente a fine verso. Si fa un larghissimo uso di forme apocopate, di riaccentazione delle parole sdrucciole, di rime baciate ed alternate, uso dei monosillabi alla fine del verso, anglicismi e francesismi, spostamenti di accento, cose che spesso sacrificano il contenuto per la forma. Analizzando i testi delle canzoni di Sanremo un linguista è giunto a definirli “regno dell’effimero e del vacuo”, “tomba della lingua” (Massimo Arcangeli). Tutte queste differenze sostanziali e di destinazione d’uso rendono secondo me difficilmente utilizzabile il materiale poetico, tranne rari casi.
“La via per imparare è lunga se si procede per regole, breve e efficace se si procede per esempi”. La frase è di Seneca, e anche se il filosofo latino non si è mai seduto su un piccolo sgabello di fronte a un pianoforte, credo possa insegnarci che nell’osservazione c’è sempre una possibilità imprevista di imparare qualcosa di nuovo, soprattutto oggi che basta accedere a YouTube per assistere a concerti e recitals da ogni parte del mondo. Se dovesse consigliare a un giovane allievo i video di un pianista da prendere a modello, chi sceglierebbe?
L’osservazione e l’esempio sono fondamentali, nell’apprendimento di uno strumento musicale. L’esperienza degli antichi è stata confortata dalle nuove scoperte scientifiche: basti pensare alla funzione dei neuroni specchio, che si attivano quando compiamo una determinata azione ma anche quando la vediamo compiere da altri. In questo modo si genera una sorta di copia motoria nel cervello dell’osservatore, che permette a quest’ultimo di apprendere in modo diretto e immediato quello che a volte è difficilmente spiegabile, cioè il movimento preciso necessario a produrre determinati suoni. Oggi internet offre infinite possibilità di ascolto e per non perdersi in questo mare bisogna certamente avere dei criteri. La spettacolarizzazione è entrata anche nel campo della musica colta e spesso si assiste a fastidiose e artificiose esagerazioni gestuali, nel tentativo di veicolare maggiormente queste esecuzioni. Ognuno oggi ha la possibilità di fare video e di metterli in rete, e così gli interpreti si sono moltiplicati. A volte però tutto questo non è necessariamente un male, perché non possiamo sempre restare legati al passato e a come si suonava un secolo fa, anche l’interpretazione si evolve, e non si può non tenere conto dei nuovi fenomeni cinesi o russi, per esempio. Io suggerisco sempre una pluralità di ascolti, è anche un modo per non cristallizzarsi in certe idee, inoltre ogni pianista ha un suo repertorio in cui riesce meglio. Personalmente mi piacciono molto Sokolov e Zimerman.
Infine, la più classica e inevitabile delle domande: progetti per il futuro?
Nel 2019 è uscito per Brilliant Classics il mio CD Wolf-Ferrari: piano works, con le opere pianistiche – per la maggior parte inedite – di questo autore. Questo disco fa parte di un progetto pluriennale, sostenuto dalla COOP-Art CESTEM di Roma, che prevede la registrazione di tutta la musica da camera con pianoforte di Ermanno Wolf-Ferrari. Abbiamo infatti appena inciso il secondo CD, con le 3 Sonate per violino e pianoforte di cui insieme a me si è fatto interprete il violinista Davide Alogna, che uscirà nel corso del 2020 prima per una nota rivista musicale nazionale e poi ancora per Brilliant. Sempre nel 2020 porteremo avanti il progetto con la registrazione del Quintetto per pianoforte. Nello stesso tempo sto proseguendo con l’integrale pianistico di Schumann per Camerata Tokyo, mentre agli inizi del 2020 uscirà ancora un altro CD, questa volta con musiche di Chopin eseguite su pianoforte moderno e su un Erard del 1847, per una nuova etichetta discografica italiana, Aulicus Classics.
Francesco Consiglio
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Come si potrà intuire già dal titolo, l’argomento non è dei più seri. E nemmeno di quelli governati dal rigore scientifico. Sta di fatto che da qualche giorno a questa parte, dopo l’ondata di attenzione mediatica che ha investito il movimento della Terra piatta, sui social e online rimbalzano un po’ più spesso del solito le argomentazioni di un’altra delle teorie sulla forma del nostro pianeta, quella della Terra cava.
Raccontato in estrema sintesi, il terracavismo è un guazzabuglio di teorie leggermente differenti – e formulate in secoli diversi – che hanno in comune l’idea che il globo su cui viviamo presenti dei buchi all’interno. La Terra sarebbe dunque simile a una sfera, e consisterebbe di una serie di superfici concentricheseparate da spazi vuoti, oppure avrebbe un’unica grande cavità vicina al centro. Queste zone interstiziali, a prescindere dalla loro forma e dimensione, avrebbero la caratteristica di essere abitate, o perlomeno potenzialmente abitabili da creature umane e non.
Dal punto di vista storico, per chi volesse conoscere in dettaglio l’argomento, esiste un bell’approfondimento mitologico-letterario scritto da Umberto Eco nel 2014 e pubblicato sul sito del Cicap. In epoca recente, in particolare, il terracavismo è stato utilizzato più che altro come espediente narrativo per racconti e romanzi di fantascienza.
Che dire, invece, dal punto di vista scientifico? In passato qualche tentativo di formulazione rigorosa della teoria c’è stato, a partire dal Diciassettesimo secolo, ma oggi ovviamente non avrebbe alcun senso aprirne (o meglio, ri-aprirne) un dibattito serio.
Per farla breve, sostenere che la Terra abbia uno o più buchi all’interno significa negare una serie di teorie scientifiche che vanno dalla gravità alla tettonica delle placche, passando anche per svariati elementi base di geofisica e astrofisica, incluse le informazioni che abbiamo raccolto dallo Spazio. Se la Terra fosse un guscio vuoto, ad esempio, la legge di gravitazione ci dice che vivremmo sostanzialmente in assenza di peso, e inoltre il guscio terrestre rischierebbe di collassare verso il centro o di spezzarsi.
Ammettere che il nostro Pianeta abbia più semplicemente delle piccole cavità, invece, significherebbe salvare in calcio d’angolo la gravità e la struttura del pianeta, ma rinnegare molte delle cose che sappiamo (scientificamente) a proposito di composizione interna, struttura e temperatura della Terra. Altre varianti della teoria, come l’idea di un accesso alle cavità attraverso i poli o la forma della Terra concava (che ci collocherebbe sulla parte interna del guscio sferico, anziché all’esterno), sono ancora più immediate da confutare.
Riportando il tema all’attualità di questo decennio, ci sono almeno un paio di spunti interessanti. Il primo, tratto comune a molte pseudoscienze, è che qualcuno ne approfitta per farne dei piccoli business. Per esempio, in vendita si trovano alcuni libri divulgativi in diverse lingue, italiano incluso, che pretendono di affrontare il tema con “significato scientifico”, pur risultando una via di mezzo tra una narrazione mitologica e un romanzo di fantascienza. Non è un caso che spesso in questi testi ci si dichiari contrari “alla scienza ufficiale”, che gli autori si definiscano “liberi ricercatori” e che dicano di aver utilizzato “una ricca documentazione storica e scientifica”.
E facilmente dal mito si sconfina nel complottismo. Se la zona cava acquisisce una precisa collocazione geografica (1250 chilometri di profondità) e una propria struttura cosmica (sarebbe “riscaldata da un piccolo Sole e strutturata in tre continenti”), curiosa è anche la scelta di come popolare quel mondo. Nei tre continenti – Eldorado, Agartha e Shamballah – non ci sarebbero solo i soliti nazisti, vichinghi, alieni, strane creature e i regni di Agartha e di Śambhala, ma anche lo scienziato italiano Ettore Majorana e l’economista Federico Caffè, su cui circolano le più varie leggende.
L’altra questione degna di nota è il raffronto tra terrapiattismo e terracavismo. Paragonabili nel numero di credenti (si può stimare dell’ordine delle migliaia in Italia), sono due movimenti tra loro incompatibili nelle teorie ma tremendamente simili nei modi. Negazione di un’infinità di conoscenze scientifiche acquisite in ambito fisico-astronomico, affidamento a presunti esperimenti privi di valore o a ciò che si intuisce essere vero, argomentazioni basate sul sospetto e sul mistero (per non dire sulla fuffa), e metodi che possono essere tutto tranne che scientifici, chiariscono che Terra piatta e cava sono due manifestazioni di una tendenza unica. Su cui forse vale la pena, nel rispetto della vera ricerca scientifica, di limitarsi a farsi due risate.
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Editoriale pubblicato sul numero 10 di Mia Le Journal Nomad issue
Ti sei mai domandato cosa significa realmente essere nomade?
Il primo pensiero va alle popolazioni che hanno uno stile di vita che prevede spostamenti da un luogo ad un altro, in cerca di terreni più fertili da coltivare, di un clima migliore, a volte anche di altre comunità con cui aggregarsi, ma sempre temporaneamente. Dopo un po’ di tempo il nomade raccoglie le sue cose e parte alla ricerca di altro.
Questa definizione è sufficiente? Ai nostri giorni, direi di no.
La nostra epoca è caratterizzata da tante diverse forme di migrazioni che hanno ragioni e direzioni diversissime. Forse alcune di queste non ci sono mai sembrate espressione di nomadismo, eppure…
Il più imponente e vistoso movimento di persone che si spostano alla ricerca di qualcosa di meglio per sé e la propria famiglia è rappresentato dal grande flusso migratorio dal sud del mondo, povero e spesso in guerra, al nord, ricco e in pace. Stiamo parlando del nomadismo della miseria, che tutti noi conosciamo, che è quotidianamente sui giornali e fa discutere sia i politici, che la gente comune. È la globalizzazione antropologica, che ci mette tutti in una dimensione provvisoria, a causa del cambiamento delle condizioni di vita, di vicinato e di cittadinanza.
A pensarci bene però, il fenomeno del nomadismo non è estraneo alla Storia dell’umanità. In una lettura un po’ fuori dalle righe e con un’interpretazione fantasiosa e a tratti estrema, anche Adamo ed Eva hanno abbandonato la stabilità del Giardino dell’Eden per uscire e affrontare l’ignoto. E i loro figli, Caino e Abele, si suddivisero il mondo dedicandosi l’uno all’agricoltura, più stanziale, e l’altro alla pastorizia, tipicamente nomade, stabilendo così una prima suddivisione dell’umanità in gruppi distinti.
L’economista francese Jacques Attali, nel suo libro “L’Homme Nomade”, afferma che la stanzialità non è che una breve parentesi nella nostra Storia e che il genere umano è stato plasmato dal nomadismo. Nel corso dei secoli l’umanità è diventata tendenzialmente stabile, ma sta velocemente ritornando alle sue origini nomadi, a causa e anche per mezzo delle nuove tecnologie digitali. Infatti tante persone, approfittando delle possibilità offerte dal progresso tecnologico, scelgono di lavorare da remoto, in luoghi anche molto lontani dalla sede della loro azienda, oppure in modo autonomo, come liberi professionisti, per non essere più legati ad un luogo fisso, ma riuscire nello stesso tempo inseguire le proprie ambizioni professionali e personali.
Anche la moda si ispira a questa tendenza. Lo stile gipsy è concepito per spiriti liberi, per dare un’idea di allegria e spensieratezza con tessuti leggeri, fluttuanti, impalpabili. I dettagli evocano la vita all’aria aperta, il profumo della libertà: uno stile che attinge a culture diverse per un istinto selvaggio e senza costrizioni, per abolire ogni barriera e per inventare in un’espressione di sé provocatoria e vagabonda.
In definitiva, se osserviamo bene, siamo tutti un po’ nomadi. Ci spostiamo (in modo reale o virtuale) per il lavoro, per le vacanze, per sfuggire a condizioni economiche o politiche sfavorevoli, per fare ricerca scientifica, o anche solo per navigare in Internet; ci vestiamo con colori, tessuti e stili che ci infondono una sensazione di libertà e di indipendenza.
Sembra il caos, ma da questo caos nascerà una nuova civiltà che saprà mettere insieme nomadismo e stanzialità in un modo nuovo e inaspettato.
Staremo a vedere.
NOMADE Editoriale pubblicato sul numero 10 di Mia Le Journal Nomad issue
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START CUP CALABRIA Presentata in cittadella regionale la nona edizione
Nuovo post su italianaradio https://www.italianaradio.it/index.php/start-cup-calabria-presentata-in-cittadella-regionale-la-nona-edizione/
START CUP CALABRIA Presentata in cittadella regionale la nona edizione
START CUP CALABRIA Presentata in cittadella regionale la nona edizione
di ufficio stampa giunta Regione Calabria
Pronti per cominciare. Così i relatori, entusiasti e forti del successo delle precedenti edizioni, stamani, nella Cittadella Regionale, hanno lanciato la Start Cup Calabria (SCC) 2019, la business plan competition accademica promossa da Università della Calabria, Università Magna Græcia, Università Mediterranea, FinCalabra e Regione Calabria.
“Sinergia, merito e futuro sono le parole chiave che contraddistinguono l’iniziativa” – ha affermato Menotti Lucchetta, Dirigente Settore Ricerca Scientifica e Innovazione Tecnologica Regione Calabria, nell’aprire i lavori. Gli incoraggianti risultati ottenuti dai team che hanno partecipato alle varie edizioni della competizione sono stati evidenziati da Giuseppe Passarino, Delegato del Rettore dell’Università della Calabria alla Ricerca e al Trasferimento Tecnologico, che ha fatto riferimento alle idee di impresa della SCC che negli ultimi tre anni sono stati finalisti al Premio Nazionale per l’Innovazione e che negli ultimi due, in particolare, sono stati i vincitori dell’importante Premio promosso da PNICube.
“Questo è il segno – ha concluso Passarino – che le idee presentate sono di qualità e che c’è una maturità complessiva nel mondo della Ricerca circa la creazione d’impresa”.
Una grande opportunità per l’Università di Catanzaro, considerata anche la presenza di corsi di laurea come Medicina e Biotecnologie, l’ha definita Emilio Russo, docente che si occupa dell’organizzazione della SCC all’Università Magna Græcia.
Per FinCalabra è intervenuto il Presidente Carmelo Salvino che ha parlato della SCC come un’opportunità per i giovani talenti della Calabria definendola, altresì, un anello di contaminazione e disseminazione dei processi di innovazione del territorio.
A presentare nel dettaglio le fasi della business plan competition accademica ci ha pensato Claudio De Capua, Prorettore Delegato al Trasferimento Tecnologico dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria che ha esordito dicendo che la presentazione costituiva un momento di estrema esaltazione considerato il successo ormai consolidato dell’iniziativa.
Con la presentazione di oggi parte la prima fase della SCC, lo scouting delle idee, candidabili da parte di studenti, laureati, ricercatori e docenti, attraverso il sito www.startcupcalabria.it.
Seguirà la fase di formazione (Academy, nel periodo luglio – settembre) che per la prima volta sarà effettuata in ognuno dei tre Atenei e non, come in passato, in uno solo per tutte le idee provenienti dalle diverse province calabresi. Anche quest’anno gli esperti della formazione sono I3P del Politecnico di Torino; le 12 idee più promettenti saranno ammesse alla finale per poi, dopo una giornata di mentorship, contendersi la vincita dei tre premi in palio e la conseguente partecipazione al Premio Nazionale per l’Innovazione che avrà luogo a Catania nel mese di novembre.
Durante la presentazione, spazio anche alle testimonianze di ex partecipanti che dopo l’esperienza della SCC hanno proseguito lungo la strada che porta alla realizzazione imprenditoriale. A raccontare l’avvincente esperienza di aspiranti startupper iniziata con la SCC sono stati i fondatori di SmartOsso, Sone Health e FisioIng. Un’esperienza che ricade nella realizzazione del sistema universitario calabrese voluto da Mario Oliverio è la definizione che l’assessore Maria Francesca Corigliano ha dato della SCC.
“È proprio il caso di dire insieme per la Calabria al fine di creare opportunità per i giovani” – ha asserito la Corigliano, specificando che questo rientra nella visione della governance regionale che guarda, da una parte all’incentivazione dei giovani, e dall’altra al sostegno alle imprese”.
“Iniziative come la Start Cup Calabria ci fanno considerare la nostra terra ricca” – ha concluso l’assessore regionale”. f.d.
di ufficio stampa giunta Regione Calabria Pronti per cominciare. Così i relatori, entusiasti e forti del successo delle precedenti edizioni, stamani, nella Cittadella Regionale, hanno lanciato la Start Cup Calabria (SCC) 2019, la business plan competition accademica promossa da Università della Calabria, Università Magna Græcia, Università Mediterranea, FinCalabra e Regione Calabria. “Sinergia, merito e futuro
Gianluca Albanese
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Il plancton del Golfo di Napoli è protagonista dell’articolo Time series and beyond: multifaceted plankton research at a marine Mediterranean LTER site (https://doi.org/10.3897/natureconservation.34.30789) pubblicato per la prestigiosa rivista scientifica Nature Conservation.
Lo studio, frutto di un lavoro di un gruppo di ricerca coordinato da Adriana Zingone, Dirigente di ricerca alla SZN | Stazione Zoologica Anton Dohrn, fa il punto sul contributo alla conoscenza dell’ecosistema marino fornito da 35 anni di ricerche condotte nel sito di campionamento LTER-MC (MareChiara) a 2 miglia da Castel dell’Ovo, monitorato dai ricercatori della SZN settimanalmente dal gennaio del 1984.
Nonostante le loro microscopiche dimensioni, i microorganismi vegetali e animali del plancton rivestono un’importanza assoluta per la vita del mare e dell’intero pianeta, contribuendo in misura uguale alle piante sulla terra alla produzione di ossigeno e alla regolazione del clima, oltre ad essere cibo per i pesci e cetacei e sostenere pertanto tutta la rete alimentare marina.
La loro biodiversità e le loro variazioni in relazione ai cambiamenti climatici in atto sono pertanto temi scientifici di grandissima attualità. Grazie al lavoro svolto dai ricercatori della SZN, è stata di molto arricchita la conoscenza della biodiversità con la scoperta di tante specie prima sconosciute alla scienza e con lo studio della loro biologia.
A esempio si è visto come in molte specie si alternano fasi di crescita e di dormienza, proprio come nelle piante. Ma il risultato più interessante dello studio è la notevole resilienza del plancton del Golfo di Napoli che – sebbene si verifichino condizioni di estrema variabilità climatica e ambientale dell’area – si manifesta con un’eccezionale regolarità del suo ciclo stagionale nei decenni studiati. Ciò rassicura sulla capacità dell’ecosistema di rispondere ai cambiamenti, ma occorre tenere ben presente che la continua pressione dell’uomo e del clima sull’Ambiente può all’improvviso sfociare in drastici cambiamenti.
Per questo motivo è importante continuare ad osservare e analizzare il plancton e mantenere attivi siti di ricerca ecologica a lungo termine, che sono da considerare vere e proprie sentinelle dei cambiamenti globali.
Proprio grazie alla SZN, il golfo partenopeo è parte della comunità internazionale LTER – Long Term Ecological Research, con due osservatori, LTER-MC a Napoli per lo studio del plancton e LTER-LA ad Ischia (Lacco Ameno) per lo studio del sistema a Posidonia oceanica.
I risultati delle ricerche presentati nell’articolo comparso su Nature Conservation confermano come le serie temporali di dati di lungo termine siano la chiave per conoscere a fondo l’Ambiente e gli organismi che vi abitano e le rispettive interazioni.
Grazie a questa costante e puntuale osservazione, si approfondiscono diverse tematiche di grande attualità legate strettamente al mutamento climatico, come la comparsa nelle nostre zone di specie tropicali e il possibile uso sostenibile delle attuali risorse naturali.
Partendo dalla ricerca a lungo termine condotta nel Golfo di Napoli si stanno inoltre sviluppando iniziative mirate a moltiplicare le connessioni tra scienza e istanze sociali che anticipano, oltre alla condivisione delle conoscenze acquisite e dei loro prodotti utili alla società, progetti di citizen science attraverso i quali i cittadini potranno anche avere un ruolo di protagonisti nella gestione informata del mare e del sistema costiero.
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La resilienza del Plancton nel Golfo di Napoli Il plancton del Golfo di Napoli è protagonista dell’articolo Time series and beyond: multifaceted plankton research at a marine Mediterranean LTER site…
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