#relazioni proibite
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pier-carlo-universe · 2 months ago
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Tracce di neve di Cat Sebastian: Un romance storico che scalda il cuore. Recensione di Alessandria today
Amore, segreti e redenzione in un paesaggio innevato del passato
Amore, segreti e redenzione in un paesaggio innevato del passato Recensione Tracce di neve di Cat Sebastian è un romanzo che unisce il fascino dell’ambientazione storica con una storia d’amore toccante e sincera tra due uomini che si ritrovano inaspettatamente legati da circostanze impreviste. Ambientato in un periodo storico dove l’amore tra persone dello stesso sesso era spesso considerato…
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ilsignorvento · 1 year ago
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Viola la signora moletta
Nel tranquillo borgo di Porto di Luna, una città affacciata sul mare, viveva una donna avvolta da un alone di mistero, conosciuta da tutti come la signora Moletta. Un tempo, era la giovane e briosa Signorina Mollettina, ma ora, con il passare del tempo, era diventata la vicina di casa degli zii di Iole. La sua peculiarità principale, oltre all'eleganza, erano piccole mollette che adornavano con grazia il collo della sua camicetta o del suo vestito. Erano quanto mai raffinate, proprio come lei. Non alta, ma minuta, dimostrava sempre un'apparenza impeccabile, qualunque fosse l'occasione.
Ma, naturalmente, c'era chi non aveva una buona opinione della signora Moletta. Zia Luisa, in particolare, sembrava avere un rapporto freddo con lei, tranne quando questa decideva di spostare le mollette dai vestiti ai capelli. Questo gesto non era soltanto una questione di moda; era un segnale. Un segnale che Viola, il vero nome della signora Moletta, stava tentando di sorprendere suo marito nel bel mezzo di un tradimento. La sua gelosia, nota per essere quanto mai accesa, la spingeva a reagire con furia di fronte alle infedeltà del marito.
Circolavano voci e mormorii, in cui si faceva riferimento a segreti ben custoditi e a passioni ardenti. Non era raro sentire l'insinuazione che la signora Viola avesse addirittura messo fine alle relazioni proibite delle sue amanti. E quando le mollette abbellivano la sua chioma, rappresentavano il segnale che nessun capello doveva ardire di nascondere le prove del tradimento coniugale.
In questa città affacciata sul mare, la signora Moletta era il soggetto di molte speculazioni e illazioni, la sua storia avvolta nel mistero delle mollette pronta ad essere svelata soltanto da coloro che avrebbero osato scrutare oltre il sottile velo di apparenze.
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bergamorisvegliata · 4 years ago
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QUALE LAVORO?
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Che il momento sia terribile, è palese. Ma che da almeno un 20nnio sia in fase critica, forse lo si è perso di vista ancora prima della "bolla" finanziaria del 2007: è almeno dall'alba del terzo millennio che il mondo del lavoro soffre di piani di investimento, obiettivi di rilancio, mancanza di strategie e carenza di imprenditori davvero lungimiranti nell'indicare progetti e programmi che suggeriscano alternative e conversioni utili a snellire un settore, e ci si riferisce a quello industriale sempre più in sofferenza, troppo frenato da pastoie burocratiche, che nel 2020 ne hanno bloccato ogni sorta di sviluppo e di prospettive.
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Tra dubbi e incertezze, poi, si naviga a "vista", ora frenati addirittura da una situazione "sanitaria" che impone un ripensamento dei lavori e delle occupazioni che non riescono più a tenere conto delle esigenze e dei bisogni di una società sempre più alla deriva e che ancora non riesce a non delegare, così accartocciandosi su sè stessa, in balia di norme e ordinanze sempre più proibitive, oltre che limitative anche sul piano del "potere d'acquisito" per quei pochi soggetti ancora in grado di proseguire nel mondo del lavoro.
Si rende quindi urgente e necessario ripensare ogni forma del lavoro, e non certo del mercato, "responsabile" di uno sfruttamento senza pari, e che rende succube i soggetti, in crisi di valori oltreché di identità.
Si fa largo, pian piano, un nuovo modo di ripensare il lavoro stesso, non più con il classico dipendente agli ordini di imprenditori e datori senza scrupoli, ma di persone che in ogni campo abbiano la possibilità e l'opportunità di esprimere il loro talento.
Certo occorre non solo ripensare l'approccio al nuovo mondo occupazionale, ma anche ogni forma di professione che renda autonomo e indipendente il lavoratore: non più complementare alla macchina, ma completo egli stesso sul piano umano e delle relazioni sociali; non più "uomo-macchina" capace solo di essere un "numero" e produrre per un profitto generalizzato, ma capace egli stesso di proporsi per migliorare e sviluppare nuove forme di collaborazione e di impegno sociale.
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Si andrà vieppiù formando una nuova mentalità occupazionale e financo imprenditoriale, con soggetti che non saranno demansionati ma che saranno sempre più coinvolti nelle decisioni aziendali, per aziende non più viste come mere sfruttatrici di manodopera, ma a loro volta al servizio di chi si pone come soluzione a impieghi ora ancora non presi in considerazione.
Si pensi, ad esempio, alle cooperative nel campo dell'agricoltura, oppure a ditte specializzate nelle nuove tecnologie...e dove il termine "ditte" è visto come un termine riduttivo del medesimo, ma ciò basti a suggerire un nucleo di persone non soltanto giuridiche, ma legate da un denominatore comune, quello del progresso sociale e umano, con la persona al centro del progetto, e il lavoro per obiettivo, finalizzato al conseguimento della pace sociale tramite un impiego retribuito per il necessario.
Forse arzigogolata come riflessione, ma che dovrebbe rendere al meglio ciò che potrebbe essere -se ben incanalato- quello che sarà il mondo del lavoro in un domani non molto lontano, ovviamente libero da lacci e lacciuoli, ora purtroppo compromessi da restrizioni "sanitarie" del tutto infondate, ma che al momento condizionano il superamento di dogmi ormai desueti.
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retelabuso · 3 years ago
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Mio padre è un prete. Storie e segreti tra conventi e sacrestie
Mio padre è un prete. Storie e segreti tra conventi e sacrestie
“Figli della colpa, concepiti fra parrocchie e conventi. Nascite occulte, frutto di relazioni proibite e perfino di violenze sessuali. È un esercito, sparso per il mondo, formato da “irregolari”. Chi sono? Quanti sono? Migliaia o forse decine di migliaia. Centinaia in Italia. Cifre approssimative, raccolte da associazioni impegnate a svelare un fenomeno antico e sommerso, che travolge la regola…
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cristianesimocattolico · 3 years ago
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Il valore del corpo umano
Pubblichiamo alcuni stralci della catechesi sul Sesto Comandamento (Non commettere atti impuri) del cardinale Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa, contenuta nel libro “Dieci x Dieci - Dieci comandamenti per Dieci cardinali”, uscito in questi giorni per i tipi di Ares.
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«Fuggite le relazioni proibite. Qualsiasi peccato l’uomo commetta, resta fuori dal suo corpo; ma con la fornicazione, si pecca contro il proprio corpo. O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!» (1 Cor 6, 18-20).
(…) Il sesto Comandamento riguarda ciò che san Paolo, nel brano del testo sopra citato, chiama «relazioni proibite» che si devono evitare. Perché queste relazioni contaminano il corpo che è considerato il tempio dello Spirito Santo. (…) Applicare questo precetto significa proteggere il tempio dello Spirito Santo, amare e adorare Dio, in definitiva amare e rispettare il prossimo. (…)
Credo che al centro del sesto Comandamento ci sia un invito a rispettare e salvaguardare due realtà essenziali: il corpo e le relazioni. Infatti, per gli esseri umani, il corpo è il principio di identificazione o distinzione personale, il principio dell’inserimento nel mondo e nella società, in definitiva il principio di «relazionalità».
Il corpo è stato visto in modo diverso nel corso dei secoli. L’antica cultura greca concepiva l’incarnazione e la risurrezione, nel senso di un ritorno alla vita carnale, come una caduta, una decadenza. (…)
Il cristianesimo, essendo una religione dell’incarnazione, andrà nella direzione opposta. Riconosce un grande valore nel corpo umano, anche se questo non è stato sempre ben compreso né enfatizzato nei secoli passati. La sua dottrina sul valore del corpo umano si opporrà anche al dualismo manicheo. Una visione negativa del corpo favoriva il fatto che questo doveva essere sottoposto a esercizi fisici e spirituali per consentire il dominio dell’anima su di esso. Perché è il corpo che conduce al peccato. In questo contesto, santificare il corpo era, paradossalmente, spogliarlo delle funzioni naturali: sensazioni, desideri, bisogni naturali. (…)
San Giovanni Paolo II, che tanto ha sviluppato la teologia del corpo, ricorda che la concezione cattolica del corpo è diversa dal manicheismo. Interpretando Mt 19, 5-6, ritiene che «il corpo, nella sua mascolinità e femminilità, è “dal principio” chiamato a diventare la manifestazione dello spirito. [...] Questo significato etico non ha nulla in comune con la condanna manichea, ed è invece profondamente compenetrato del mistero della “redenzione del corpo”, di cui san Paolo scriverà nella lettera ai Romani (cfr Rm 8, 23). La “redenzione del corpo” non indica, tuttavia, il male ontologico come attributo costitutivo del corpo umano, ma addita soltanto la peccaminosità dell’uomo, per cui questi ha, tra l’altro, perduto il senso limpido del significato sponsale del corpo, in cui si esprime il dominio interiore e la libertà dello spirito. Si tratta qui [...] di una perdita “parziale”, potenziale, dove il senso del significato sponsale del corpo si confonde, in certo qual modo, con la concupiscenza e consente facilmente di esserne assorbito».
Purtroppo, l’evoluzione delle società, soprattutto quelle occidentali, supportata dalla tecnologia, e l’avvento di una nuova cultura moderna e postmoderna hanno portato una concezione libertaria del corpo, totalmente in contrasto con la visione cristiana. Il corpo umano è stato liberato dal “giogo” di ogni visione, considerata umiliante, del bene dell’anima. Da un lato, qualsiasi uso del corpo è consentito, tollerato: esibizione, commercializzazione, manipolazione, pornografia, soddisfazione di tutti i suoi bisogni senza una legge o un quadro stabilito, le cosiddette nascite indesiderate, l’aumento e la legalizzazione degli aborti ecc. D’altronde, un’attenzione sempre più profonda al corpo umano viene posta grazie alla tecnologia che gli permette di funzionare al massimo: trapianti, trapianti di organi, fino alle teorie del transumanesimo ecc.
Per questo è necessario cogliere il valore del corpo umano nella sua integrazione del valore della persona umana, immagine di Dio, composta dal corpo e dall’anima.
Pertanto, non è appropriato intendere il sesto Comandamento come un divieto di esercitare le funzioni naturali della sessualità. Piuttosto, è un modo per definire un quadro favorevole affinché la sessualità sia al servizio della realizzazione dell’intera persona umana, nella vita presente e futura, nella beatitudine eterna. Non bisogna disconnettere la sessualità dalla visione del Creatore della persona umana.
L’altra realtà coinvolta nel sesto Comandamento è la tutela della qualità delle relazioni interpersonali. Una cattiva concezione del corpo porta inevitabilmente allo sviluppo di cattivi rapporti con gli altri (uomini e donne): sfruttamento, oggetto di piaceri puramente carnali (concupiscenza); da qui la comparsa di varie forme di relazione con gli altri che la dottrina cattolica descrive: poligamia, sessualità fuori dal matrimonio, transgender, relazioni instabili, autoerotismo (sessualità senza la dimensione del dono), incesto, spersonalizzazione delle relazioni interpersonali (relativizzazione del contatto reale) ecc.
È il caso dei moderni mezzi di comunicazione che tendono a disincarnare relazioni per le quali il corpo è però spesso ancora il principale supporto. Nella maggior parte dei casi, questo porta inevitabilmente a relazioni senza verità: migliorare le prestazioni sessuali consumando il viagra, modificare eccessivamente il corpo attraverso pesanti interventi chirurgici per sedurre gli altri, gli scambi di coppia ecc. Come sappiamo, creato a immagine e somiglianza di Dio, l’uomo è anche un essere di relazione. Non è nato soltanto per sé stesso e si realizza soltanto in relazione con gli altri. Così l’uomo, nello stesso tempo in cui nasce alla vita divina, nasce anche a sé stesso, riproducendo il mistero trinitario. Il fallimento della maggior parte dei rapporti interpersonali deriva dal fatto che lo sguardo non si apre verso l’altro, e anche perché l’altro ignora implacabilmente chi gli sta davanti o accanto a lui nella sua realtà personale. Sogniamo una vita fusionale che abolisca ogni differenza, ogni distinzione, ogni dualità, ogni alterità. In verità, vogliamo semplicemente riportare l’altro al sé: l’altro è quello che voglio io o come lo vedo. Se osa uscire da questa camicia di forza, diventa spregevole, un nemico, un avversario. La vera comunione interpersonale (fratellanza) può esistere solo nel riconoscimento e nell’accettazione dell’altro nella sua unicità, come all’interno della Trinità. È questo tipo di relazione che esprime e sostiene il vero amore che fa crescere.
Esiste quindi un legame molto stretto tra il modo di guardare al corpo umano, le relazioni interpersonali che ne derivano e il modo di concepire e sperimentare l’amore. È proprio attraverso queste due realtà (corpo e rapporti interpersonali) che l’amore si manifesta pienamente nei suoi diversi settori: amicizia, vita coniugale, sessualità, carità, amore a Dio. In altre parole, una cattiva concezione del corpo e dei rapporti interpersonali ferisce gravemente la natura e la profonda comprensione dell’amore secondo l’intelligenza del Creatore. Per san Paolo VI, al contrario, il matrimonio articola armoniosamente il valore del corpo e dei rapporti interpersonali e li eleva a livello teologico: «L’amore coniugale rivela massimamente la sua vera natura e nobiltà quando è considerato nella sua sorgente suprema, Dio, che è “Amore”, che è il Padre “da cui ogni paternità, in cielo e in terra, trae il suo nome”. Il matrimonio non è quindi effetto del caso o prodotto della evoluzione di inconsce forze naturali: è stato sapientemente e provvidenzialmente istituito da Dio creatore per realizzare nell’umanità il suo disegno d’amore. Per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed esclusiva, gli sposi tendono alla comunione delle loro persone, con la quale si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla generazione e alla educazione di nuove vite. Per i battezzati, poi, il matrimonio riveste la dignità di segno sacramentale della grazia, in quanto rappresenta l’unione di Cristo e della Chiesa». Il matrimonio è quindi giustamente considerato il contesto ideale per la sessualità.
Una delle qualità di una buona sessualità è la castità. Quest’ultima non si riduce, inoltre, alla continenza sessuale, ma a una trasformazione dello sguardo rivolto all’altro, che non è “la mia cosa”, ma un essere diverso, con il quale entro in relazione in uno scambio di corpi, in una nudità dove il dono si unisce al rispetto, alla pazienza, alla longanimità e all’attenzione.
Nella fede cattolica, infatti, il quadro ideale della vita sessuale, nella sua dimensione carnale, è il matrimonio. Al di fuori del matrimonio, il rapporto sessuale va nella direzione opposta, a causa della sua natura temporanea e generalmente priva di rispetto e attenzione, in atti di dissolutezza. Il sesso al di fuori del matrimonio costituisce adulterio in senso stretto. Per questo la Chiesa raccomanda soprattutto la castità nel suo modo di vivere l’amore. Perché «la castità deve distinguere le persone nei loro differenti stati di vita: le une nella verginità o nel celibato consacrato, un modo eminente di dedicarsi più facilmente a Dio solo, con cuore indiviso; le altre, nella maniera quale è determinata per tutti dalla legge morale e secondo che siano sposate o celibi. Le persone sposate sono chiamate a vivere la castità coniugale; le altre praticano la castità nella continenza». (…)
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lasola · 4 years ago
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[3.2] - I Cattivi Selvaggi - Il Passaggio
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Studi recenti in India (Michelutti et al. 2018), in America Latina (Arias 2006, Arias e Goldstein 2010, Civico 2016) e in Russia (Volkov 2016) descrivono l'emergere di sistemi politici incentrati su imprenditori\boss, apice di reti di gruppi armati e non che hanno reso necessario un ripensamento radicale delle forme statali weberiane. Le loro caratteristiche principali sono quelle di avere gerarchie definite e verticali, di essere centrati sul culto della personalità del loro leader e la capacità di mantenere relazioni profonde e costanti con le istituzioni statali. La velocità e la capacità con cui degli “individui” a capo di gruppi commerciali hanno accumulato capitale nel corso di pochi anni hanno creato in alcuni contesti (India, Colombia, USA) figure quasi mitiche, venerate dagli affiliati come se incarnassero tutte le doti del loro tempo trasformandoli in idealtipi sociali, punti di riferimento da imitare se si vuole raggiungere successo e riconoscimento (vedi Barker et al. 2014). Tuttavia le loro sorprendenti performance economiche unite alla capacità senza precedenti di mobilitare e, in alcuni casi, letteralmente di spostare persone, hanno fatto ipotizzare ad alcuni studiosi che piuttosto che diminuire i poteri dello Stato questi centri di potere privato li abbiano in verità estesi a forme ancora inesplorate di autoritarismo (Sassen 2014, Civico 2016). Seppure, le condizioni della loro proliferazione sembrino molto diverse a seconda dei contesti geografici in esame, da un punto di vista dell’antropologia politica proverei a proseguire con l’approccio del post precedente definendoli come dei quasi-regni sorti negli spazi di confusione tra il piano politico e quello economico dei corpi sociali. In India, Lucia Michelutti li osserva attraverso la performatività del loro capo o del boss, cioè la sua arte di "fare potere", di incarnare nella vita quotidiana un’eccezionalità sovrana in modo da "controllare persone e risorse [e] raggiungere una vita migliore" (2018:8). Quello che intendo fare con queste descrizioni etnografiche è invece osservare le condizioni che permettono alle performance di un capo di risultare efficaci e di produrre un “effetto di potere” (Taussig 1992:11-40, Abrams 1988).
Il mio punto di partenza teorico è quindi un altro. La visibilizzazione di regni personalistici (chiefdom) dipende dalla sistemica incompletezza di ogni processo di formazione dello Stato e della burocratizzazione dei suoi poteri. In questa prospettiva, le pratiche quotidiane di "fare potere" dei capi descrivono una dualità più generale e storicamente determinata del potere sovrano suddiviso com’è tra il suo corpo naturale, che risiede nella forma-clan del corpo sociale e delle modalità con cui tali forme si sovrappongono al potere burocratico\amministrativo e il corpo politico che è il progetto eterno dello Stato fatto di tutti i suoi riti democratici o militari che costruiscono un’idea trascendente di comunità e di appartenenza (Kantorowitz, 2016). Mi riferisco quindi ad una teologia più ampia che considera lo Stato "come un principio di ortodossia" e come una manifestazione di ordine pubblico sia fisico che simbolico (Bourdieu 2014:4). Questa ortodossia rappresenta un consenso sul mondo sociale e la sua moralità, ma è anche una credenza collettiva o comune in cui sembrano convergere interessi economici ed idealità politiche. Come ho cercato di mostrare etnograficamente nel post precedente, la forza di questa ortodossia può manifestarsi originariamente come "un'emergenza traumatica del Reale che rompe i parametri e i presupposti della realtà ordinaria" (Aretxaga 2005:261-262). Nella costruzione di quello che ho chiamato “abbaglio” però, si svela anche una tendenza a nascondere “i rapporti di potere reali sotto la maschera degli interessi pubblici” (ib). Dunque per sostenere questa maschera e per garantire l’eternità del suo progetto, la statualità emerge dentro una continua creazione di alleanze e tagli prodotti nel suo corpo naturale. In altre parole, in certe condizioni, la forma-clan è lo Stato che lo Stato non può essere. O in un'altra prospettiva, lo Stato è la forma-clan che attua l'eternità del suo progetto politico.
In queste disgiunzioni, la comprensione della contingenza delle forme-clan implica la necessità di allargare il focus dell'analisi da alcune "personalità cruciali" alla dimensione organizzativa delle economnie in cui operano. Come notato da alcuni studiosi (Volkov 2016, Sanchez 2016) gli assetti istituzionali locali possono dipendere dall'individuazione di sistemi di potere-sapere in cui organizzazioni di tipo mafioso non sembrano l'eccezione ma piuttosto la regola. La forma-clan quindi domina lo Stato e questo potrebbe dare significato ad un’esperienza molto colombiana che sembra in contraddizione con la definizione proposta di quasi-regni e sintetizzabile in questo modo: come mai nonostante “molteplici vittorie”, cioè incarcerazioni ed uccisioni di narcos, i business criminali ed il riciclo dei loro proventi aumentano? Sembra ovvio che il passaggio da un boss all'altro non cambi il funzionamento operativo di queste organizzazioni ed evidenzia anzi come certe forme di "fare potere” siano diffuse se non sistemiche (Levien, 2020). Partendo da queste considerazioni bisognerebbe allora considerare altre forze che agiscono a parziale compimento dell'incompletezza dello Stato. Per descriverle, a mio avviso, l'indagine antropologica dovrebbe osservare meglio la capacità di dispersione e di disgiunzione dei sistemi locali di potere-sapere e non solo centrare i materiali etnografici sulla dimensione performativa del bossismo (bossism), cioè sulla loro individualizzazione simbolica.
Uno dei progetti accademici di Foucault (1996) è stato quello di raccogliere le storie di persone la cui vita definì "infame" perché "non hanno raggiunto alcuna gloria compiendo il male", ma hanno percorso un qualche limite sociale che li ha poi costretti all'incontro con il potere (Deleuze 2020:79-80, 236-241). Secondo Foucault, l'infame, cioè il “non famoso”, è colui che vive una vita criminale banale o che in un momento particolare ha compiuto un'azione sicuramente illegale ma di cui non era pienamente consapevole. La sua storia “inutile” entra così a far parte di un'esistenza burocratica riportata in alcune pagine o righe di testi in cui viene descritta la sua infamia. In queste descrizioni, confessioni e storie normalmente inascoltate vengono registrate due caratteristiche fondamentali del potere in senso foucoultiano: quella di far parlare e quella di visibilizzare qualcosa. Il punto realmente interessante ai fini di questo racconto è però come questi “non famosi” si ritrovino, non tanto descritti dentro poche pagine di vecchi archivi, ma affiliati di organizzazioni criminali multinazionali e quasi-regni. Detto altrimenti: che processi di trasformazione si mettono in moto per rendere un “infame”, cioè un non famoso che abita frontiere di mondi complessi, l’integrante di un’istituzione intermedia, magari qualificata come terrorista in qualche archivio poliziesco?
Gli istituti penitenziari in Colombia come in altre parti del mondo sono di solito considerati come l’anello di congiunzione principale tra “perditempo” di quartiere e la criminalità organizzata. Non negando la veridicità di questa linea teorica, vorrei però tornare alle storie del Barrio per occuparmi di quegli spazi di confusione in cui la forma-clan dello Stato emerge con chiarezza. Vorrei quindi occuparmi delle tattiche di cattura degli “infami” e del loro incontro con il potere. Rispetto al mio lavoro di campo, invece di osservare l’arte di “fare il boss” ciò significa raccontare i diversi meccanismi che possono portare un personaggio qualsiasi non ad iniziare un “percorso di liberazione dal Barrio e dallo Stato”, come citato nel post precedente, ma verso modalità di vita di confine che prima o poi lo avvicineranno al potere “burocratico\amministrativo” dei quasi-regni. Vorrei quindi osservare la natura sistemica e non “il destino” di certe scelte di politica-economica quotidiana.
Ho già descritto di come la guerra per il Puerto generasse una frammentaria esperienza della città suddividendola tra luoghi dove era sicuro andare e zone proibite o pericolose: tra luoghi che appartenevano ad uno spazio interno conosciuto di persone e case “familiari” (de adentro) e luoghi che vivevano ial di fuori dell’esperienza possibile (de afuera). Questi due campi del vissuto convergevano fisicamente dentro zone o aree della città in cui i confini tra adentro ed afuera erano comunemente chiamati fronteras invisibles: linee immaginate che delimitavano diverse aree di influenza e sistemi di potere-sapere (vedi anche Oslender). A volte una frontera invisible poteva essere un negozio all'angolo (una esquina), altre volte un bar o una strada di collegamento o una casa (come quella dei Paisas). Ogni barrio le aveva e creavano un senso del territorio conteso o una terra di nessuno urbana dove potevano succedere cose (ahì pasan cosas). Per questo era più sicuro sapere dove si trovavano ed evitarle in certe ore del giorno o della notte.
Su queste divisioni territorializzate si sviluppavano linee ulteriori che frammentavano seguendo altre traiettorie i campi dell’immaginazione permettendo però opportunità economiche attraverso meccanismi opposti. Esisteva infatti un’economia quotidiana generata dalla riconnessione delle divisioni prodotte dalla guerra. Alcune persone fornivano una serie di servizi a quegli abitanti dei margini che per diverse ragioni erano stati costretti nei mondi de adentro: rifugiati di guerra ancora senza documenti o riconoscimento ufficiale, migranti economici e persone senza una funzione produttiva specifica nella debole struttura economica di Buenaventura. La redditività economica risiedeva nella condizione disconnessa di questi segmenti popolazionali oltre che nel bisogno di assistenza. Il loro stesso arrivo, dalla decisione del luogo dove costruire la casa, ai materiali da utilizzare, apriva oppurtunità economiche. Chiaramente i nuovi residenti non erano registrati nelll’ufficio del catasto cittadino e spesso le case sorgevano su terreni “occupati” su cui qualcuno poteva reclamare un diritto di proprietà o di uso. Questo complicava l’accesso a vari servizi pubblici come l'approvigionamento di acqua o la linea elettrica, ma anche l’acquisto di carte sim per i telefoni cellulari, la connessione via cavo della TV o la possibilità dei loro figli di registrarsi nelle scuole pubbliche locali. Quasi tutti questi aspetti del vivere richiedevano infatti una carta d'identità valida se non proprio un contratto di locazione o un conto bancario. Così, ad esempio, dopo aver ricevuto un permesso, cioè un semplice assenso per costruire la loro casa dalla “leadership” locale, per avere la luce elettrica andavano direttamente da qualche tuttofare che faceva passare un filo illegale dal vicino traliccio dell’alta tensione fin dentro la loro casa. Il pagamento di solito non era mai contestuale ed in base alle circostanze non era monetario. Lo scambio stabiliva relazioni personali insieme a promesse di futuri pagamenti. Creava quindi fin da subito relazioni di debito su cui si produceva la capacità di vivere per più lunghi periodi in certi territori.
In altre circostanze, c’era chi aveva bisogno di cure in ospedale o doveva comprare medicinali che si potevano ottenere a prezzi sovvenzionati. Per le stesse ragioni di sopra, tutto ciò non era sempre possibile per “vie dirette”. Senza un'assicurazione o un documento d'identità valido il farmacista o il dottore non potevano verificare la titolarità del diritto e non sempre erano disposti a “chiudere un occhio”. Tutto ciò generava il margine per commissioni che alcuni catturavano prestando una carta d’identità, effettuando l’acquisto per conto di altri ma anche stipulando un’assicurazione che riutilizzavano ogni volta che qualcuno ne aveva bisogno. Quest’ultima soluzione complicava le operazioni da svolgere poichè per produrre il servizio richiesto occorreva una rete più ampia di complicità tra burocrazie sia private, sia pubbliche.
Discorso simile potrebbe essere fatto per la gestione del trasporto locale. L’espansione urbana creava camminanti ma anche necessità di muoversi più rapidamente senza risorse economiche sufficienti per dotarsi di mezzi di trasporto privati come un semplice scooter. Il Barrio era servito informalmente da dei mototassisti che collegavano le zone più interne con la strada principale dove era poi possibile aspettare un colectivo. Dal punto di vista del mototassista, la tratta aveva un costo mensile che veniva pagato a quelli ben “connessi” o che avevano investito per primi sulle moto comprandone più d’una e “facendole lavorare” con autisti che si impegnavano a pagare delle quote periodiche tenendo per loro l’eccedente. Vi erano però anche moto private che fornivano servizi di trasporto senza pagare quote a nessuno muovendosi all’interno dei loro network familiari e di amicizia per “far lavorare” la moto e recupare i soldi investiti per l’acquisto. In generale si trattava di un servizio di taxi informale che in assenza di app e simili funzionava attraverso il numero di cellulare del motociclista che rispondeva alla chiamata della persona che aveva bisogno di spostarsi. Oppure sostavano nella esquina in attesa di un cliente. Oltre al trasporto persone si occupavano anche di servizio a domicilio acquistando di tutto in giro per la città e consegnando nelle case.
In ognuno di questi casi il valore delle commissioni che si generavano non permetteva di mettere su business ma di raccogliere spiccioli. Inoltre non attirava necessariamente l’interesse delle istituzioni intermedie che in molti casi lasciavano “liberi” i tuttofare nelle loro attività quotidiane. Questo insieme di pratiche sono infatti molto comuni nelle aree di recente urbanizzazione delle megalopoli latinoamericane e non solo. I meccanismi con cui vengono coordinate o poste sotto un’unica organizzazione raccontano di solito il funzionamento quotidiano delle leadership locali. In zone come alcune favelas di Rio de Janeiro, ad esempio, la gestione amministrativa degli insediamenti “informali” è parte di un sistema politico più complessivo che di solito ha un capo al suo culmine ed evidenti finalità elettorali (si vedano Arias e Glenny). A Buenaventura, negli anni del mio lavoro di campo, appariva ancora centrata su micro-organizzazioni spontanee che sorgevano nel continuo aumento degli insediamenti. A riprova vi era che per molti di questi servizi la commissione da pagare era una e non veniva ripartita in alto. Non aveva quindi la forma di un pizzo che i tuttofare pagavano per avere la licenza di operare sulle frontiere. In alcuni casi agivano da dentro una sorta di meta-illegalità, cioè evitando di pagare il pizzo senza però aumentare eccessivamente i rischi “a patto" che le loro attività non crescessero.
Considerando come paradigmatico il caso delle favelas di Rio, è possibile allora affermare che nel Barrio non si era ancora sviluppato un interesse politico ed economico che aspirasse a coordinare e centralizzare queste forme di accumulazione di capitale dei margini. Era semmai ancora vigente una logica bellica, dominata dalla fiorente economia narcotica, per cui l’obiettivo primario era quello di disarticolare micro-organizzazioni che per qualche ragione decidevano di opporsi a certe reti o rifiutavano di mobilizzarsi per fare favori e commissioni quando servivano. Detto altrimenti: venivano colpiti soprattutto quei gruppi che non orbitavano dentro un insieme di pratiche consolidate di controllo e gestione del territorio. E’ possible che alla lunga queste strategie di controllo e sorveglianza determinassero una naturale tendenza verso l’accentramento delle funzioni amministrative ed all’assorbimento dei gruppi “indy”. Tuttavia, più che sul pagamento di un pizzo, la gestione amministrativa e la libertà di azione locali dipendevano sopratttutto da continue negoziazioni e da relazioni di debito trasversali come quelle descritte nel post [2.3].
Queste negoziazioni potevano intersecarsi con i meccanismi elettorali ma, nel periodo considerato, il Barrio era marginale anche rispetto a calcoli di profittabilità politica che lo consideravano come un bacino elettorale. In Colombia, i tassi di partecipazione elettorale erano storicamente molto bassi, in alcuni casi anche sotto il 40% degli aventi diritto. Il Barrio non faceva eccezione. Durante l’unica campagna elettorale cui assistetti, quella per il sindaco della seconda metà del 2011, le persone che si mobilitarono per andare a votare "i candidati consigliati” non furono molte. La cosiddetta “mermelada” che arrivò per catturare l’attenzione degli abitanti fu poca cosa. Alcuni conoscenti ricevettero scarpe nuove, altri mattoni e calcestruzzo per terminare pezzi delle loro case. Ad un altro ancora furono regalati un badile e della ghiaia con cui riempire i buchi della strada di fronte alla sua “tiendita”. Il giorno delle elezioni “emissari elettorali” presero di mira specificatamente i senza documenti ed i più poveri per farli votare al posto di persone decedute in cambio di un pranzo. Chiesero anche a me di andare a votare. Forse anche per questo generale clima di farsa che si respirava, i candidati locali ricevettero solo poche decine di voti e nessuno ne fece un grande dramma. Sta di fatto che il Barrio era relativamente slegato da certe logiche che connettevano i meccanismi elettorali alle economie informali, per lo meno nelle forme descritte in città più grandi come Rio. I segnali di una sua trasformazione in bacino elettorale divennero forse più rilevanti nella fase 3, alcuni anni dopo, e ne scriverò nel prossimo post. Rimanendo invece al “passaggio”, ciò che era osservabile era una potenzialità per cui ognuna delle attività descritte implicava una capacità di muoversi che non era di tutti. Per questa ragione le persone che agivano nelle fronteras attraversandole e connettendo o scollegando persone tra loro, rafforzavano e non riducevano l’immaginario dei confini della città. Costituivano cioè specifiche relazioni di potere. “Il passaggio” ne determinò alcune traiettorie e vorrei ora descriverle meglio.
Seguendo le descrizioni di alcune di quelle persone, muoversi sui confini era un vero e proprio sapere che dipendeva dalla capacità di leggere le connessioni tra adentro ed afuera ed il dispiegarsi temporale oltre che spaziale delle frontiere invisibili. Rudi si riferiva a questa conoscenza sempre indirettamente, descrivendo persone o situazioni in cui si manifestava piuttosto che definirla propriamente. Così, per esempio, usava spesso locuzioni come "el sabe" (sa) per dare credibilità a certe affermazioni o persone. Dire di qualcuno “el sabe” significava riconocere un diritto di quella persona a "tener la palabra" (avere il diritto di parlare) e quindi ad essere ascoltato. Di conseguenza, le affermazioni sul "lui sa" avevano il potenziale o tentavano di ordinare le voci e i pettegolezzi locali. Allo stesso tempo, questo “saber” si manifestava solo all'interno di una precisa relazione di potere per cui quella persona faceva qualcosa che altri non potevano o volevano fare. Per esempio, quando si descriveva un'azione specifica di un "malo" locale, come il suo camminare per qualsiasi motivo in un territorio conteso, si diceva semplicemente "el se lo sabe todo" (lui sa tutto). "Sapere tutto" definiva la capacità stessa del "malo" di camminare dove altri non potevano o non volevano. Una persona "che sa" era dunque qualcuno che non solo aveva una comprensione delle relazioni mutevoli tra afuera ed adentro. Era anche capace di andare oltre queste visioni frammentate della città. In fin dei conti la nozione di sapere che emergeva si espandeva in una sorta di saggezza di strada che certamente implicava un'incorporazione di alcune regole non scritte sul funzionamento delle economie informali locali ma includeva anche una relazione inestricabile con la capacità stessa di imporre quelle regole cioè di agire dentro rapporti di forza che si territorializzavano attraverso certe pratiche quotidiane.
In questo senso, Rudi guardava a quelli con “sapere" come le persone che bazzicavano la casa dei "Paisas", con sentimenti misti di invidia, apprezzamento e paura perchè erano in grado di stabilire le loro regole del “muoversi”. La loro presenza nel Barrio, a suo parere, concretizzava una forma specifica di privilegio che dipendeva dalla capacità di armarsi e di farlo in gruppo (Privilegiado el que tiene su fierro y su banda). Solo da dentro una banda e con una pistola si poteva infatti "portar monopolio" (monopolizzare una strada) che significava appunto stabilire le proprie regole di ingaggio. Nelle parole di Rudi, questa privatizzazione della legge iscritta nella parola “monopolio” descriveva una forma di caporalato riconosciuto localmente che non si basava però sul “Capo” che spesso era anzi “invisibile” e “nascosto” ma sulle relazioni nelle quali erano inseriti i gruppi in armi. Presi nel loro insieme, questi enunciati infatti formavano la base di un corpus che spiegava un sapere distribuito da cui si determinavano le mutevoli condizioni di afuera ed adentro. Le divergenti nozioni di banda o di combo spiegate nel post di apertura di questo blog servivano proprio a tenere assieme i due campi raccontando di persone che in maniera diversa vivevano “dentro un fuori del Barrio”. Esemplificavano cioè nel parlato di tutti i giorni la natura intima delle frammentazioni di Buenaventura e delle relazioni pubbliche di un quartiere. Ricordavano però anche che l’idea dell’esistenza di un certo ordine in un dato territorio dipendeva sempre da un sistema di potere-sapere generato da un gruppo e mai da un “capo”.
Per questo, agire sulle frontiere implicava anche imparare a "jugar vivos" (giocare da vivi), un enunciato che intesi come una forma di consapevolezza del "si muore" foucaultiano  (Deleuze 2020:34-38). Jugar vivos esprimeva la necessità di comprendere non i limiti territoriali della guerra ma quelli ben più profondi tra il possibile e l'impossibile. Solo imparando a giocare da vivo "un infame" sarebbe riuscito a sopravvivere all'incontro con il potere ed a vivere "dentro il fuori" del suo Barrio. In un certo senso, le strade di Buenaventura mettevano in atto una filosofia radicale dell'immanenza da cui discendeva una moralità quotidiana della frontiera, per cui, sulle frontiere il malo era in definitiva colui che era morto, poiché solo la morte poteva letteralmente definire qualcuno come "malo". Tutti gli altri invece giocavano da vivi. Credo che la comprensione profonda di queste categorie generali sia fondamentale per poter intendere gli aspetti più intimi ed antropologici del “passaggio”, un periodo in cui la “normale” fluidità del mondo visse dentro un’accelerazione di eventi ed apparizioni che culminarono con morti, espulsioni e nuovi visi sulle frontiere.
La scelta delle storie da presentare è certamente arbitraria ma serve per creare una continuità ed una coerenza con quanto scritto fino ad ora. Non è possibile relazionare direttamente nessuna di esse al blocco del Puerto, che come già scritto avvenne nel gennaio del 2011. Certamente vi fu una concatenazione di ragioni ed eventi che portarono al “passaggio”. Tra questi la gestione di lungo termine del “paro” poteva essere inclusa ma andrebbero comunque aggiunti altri macro eventi come il già citato ritorno di Patiño, l’allargamento del polo logistico e la costruzione della “doble calzada” Buenaventura-Cali (strada a 4 corsie) oltre che una ridefinizione delle licenze formali e non per l’estrazione mineraria. Ciò che iniziò ad essere visibile fin dai primi mesi del nuovo anno nel Barrio fu il ritorno di alcune persone che erano state esiliate in seguito a furti che avevano commesso nel quartiere. Non si sapeva bene se avessero pagato una “cauzione” a qualcuno o se semplicemente le persone che li avevano cacciati non c’erano più. In ogni caso il loro reinserimento familiare fu abbastanza rapido e dopo alcuni commenti iniziali dubbiosi, di fronte alle loro ripetute promesse di “portarse bien” (comportarsi bene), gli abitanti del Barrio assimilarono in fretta i loro ritorni.
Dal punto di vista delle cooperative, invece, il passaggio divenne evidente nel secondo trimestre del 2011 quando Julian insieme ad alcuni dei suoi iniziarono ad avere un atteggiamento ostile durante gli incontri con i tecnici e con altro personale che le Ong mandavano periodicamente per supportare le unità produttive. In diverse circostanze, con il pick-up dello zio si cimentava in pericolosi testacoda lungo la strada sterrata di fronte alla casetta comunitaria, alzando polvere e creando paura oltre che disattenzione. In altre lo si sentiva arrivare insieme a dei motociclisti che si fermavano di fronte alle finestre producendo rumori che impedivano a tutti di ascoltarsi. I suoi gesti furono interpretati come le classiche provocazioni da parte de “los malos” ma stava anche segnalando un cambiamento delle dinamiche di politica-economica della comuna. Lo faceva mostrandosi dal lato di quelli che non volevano più le cooperative ma anche da una posizione di conocido del Barrio (persona conosciuta) in comunicazione con quelli che invece venivano da afuera. In qualche modo stava quindi parlando con loro.
L’evento culmine avvenne qualche tempo dopo quando un incendio, probabilmente doloso, bruciò tutta l’area intorno ad una delle tre aree produttive, quella che stava più fuori dal Barrio e dentro alla “Riserva”. La sua natura dolosa si evidenziò dopo poche settimane poichè nell’area a ridosso delle produzioni “organiche” venne aperta una nuova miniera d’oro abusiva ma di piccole dimensioni. Vi lavoravano solo due motori, uno sputava acqua e faceva cadere la terra e l’altro risucchiava il fango attraverso un tubo per farlo scorrere su di un grande setaccio centrale. I “responsabili” della miniera avevano dato seguito alla chiusura imposta della ben più grande miniera di Zaragoza voluta dai movimenti ambientalisti di Bogotà e concessa dall’allora Presidente Santos. Nonostante le notizie ufficiali, Zaragoza era però ancora attiva anche se era diventato molto più costoso lavorarci. Di fatto la decisione lasciò comunque alcune centinaia di disoccupati generando pressione su territori più o meno vergini come appunto la “Riserva” del Barrio dove da sempre si praticava “mineria artesanal”. I minatori, pochi per la verità, erano tutti locali, nessuno veniva da fuori. Inoltre una volta al mese permettevano agli abitanti di recarsi nel sito e di setacciare la terra artigianalmente (barequear) in cerca di polvere d’oro. Questo fece dimenticare in fretta l’incendio e le polemiche da parte di chi lavorava nelle cooperative. In più generò una micro economia locale che mantenne alto l’umore del Barrio nonostante i cambiamenti che si erano messi in moto nella comuna.
Uno dei maggiori segnali del “passaggio” avenne poco prima degli incendi, nell’Aprile 2011, quando apparve un emissario delle Aguilas Negras, alias Arribeteado, che nel dialetto del pacifico colombiano significa “ben vestito”. Si stabilì nel Barrio in maniera permanente ma non aveva una fissa dimora. Arrivava da Cali ed era sempre armato anche se faceva in modo di passare inosservato. La pistola la teneva ben nascosta poi quando entrava in una casa la rendeva più visibile. Non parlava mai di nulla in particolare durante quelle visite. A generare ansia era proprio quel suo non doversi giustificare o dare spiegazioni. Semplicemente tutti dovevano accettare la sua presenza e fare due chiacchiere come se stessero incontrando un conoscente di lunga data. Era di origini afro-colombiane anche lui, fattore questo che aveva una sua importanza nelle dinamiche politiche locali poichè era un ex-militare che alcuni relazionavano a leader del movimento Afro più vicini al Ministero degli Interni. In quella fase di espansione infrastrutturale infatti le terre lungo le arterie stradali in costruzione stavano venendo certificate attraverso la Ley 70 dando vita a micro Consigli comunitari. Il PCN temeva servissero per garantire le stesse imprese di costruzione attraverso una loro rapida rivendita (1, 2, 3). Negli stessi mesi il “capo” di Arribeteado che si faceva chiamare “Power”, anche lui afro-colombiano, si trasferì nel vicino quartiere de “El Esfuerzo”. A volte lo si vedeva nel Barrio mentre si recava in alcune case di persone che si erano trasferite anni prima dalla zona del lago Calima, vicino Cali, proprio per la nascita del gruppo paramilitare che portava lo stesso nome. Durante il giorno, Arribeteado non incrociava mai i due agenti in borghese che comunque dopo qualche tempo andarono via dal Barrio. Invece lo si vedeva spesso dialogare con Julian o frequentare gli stessi luoghi notturni. A volte partivano insieme dall’esquina del Barrio e di corsa andavano via su due moto o sul pick-up dello zio. Anche in questo caso l’unica evidenza disponibile era quella che si mostrava e che tendeva a raggruppare “los malos”. 

Dopo l’arrivo di Arribeteado alcuni abitanti del Barrio che venivano dalla regione di Istmina, nel Chocò, brevemente citata nel post [3 di 3] iniziarono a subire pressioni di varia natura. Tra questi vi era un signore che tutti conoscevamo come il Chocoano. Era il proprietario di un minimarket alla fine della strada del Barrio Viejo, in prossimità della foresta. Si diceva commerciasse il miglior viche “curato” di contrabbando della comuna. Gli arrivava direttamente dal suo vecchio villaggio da cui dovette partire perché accusato di far parte dell’ELN. La sua arte fu tramandata a chi rimase. Lui si occupava di rivendere il prezioso e quasi introvabile liquore nel Barrio. Dopo l’arrivo delle “aquile” fu tra i primi a chiudersi in casa. Quasi nessuno lo vide più camminare per il Barrio. Il suo nome apparve tempo dopo in un panfleto in perfetto stile AUC\Bloque Calima con cui il gruppo paramilitare fece circolare una lista di nomi di persone che sarebbero dovute andare via dalla comuna o sarebbero state ammazzate. Di fatto decretò l’inizio di una nuova ondata di “pulizia sociale” (limpieza social) (1) cui il gruppo di Julian partecipò per lo meno acconsentendo alla circolazione del pamfleto nel Barrio e indirettamente approvando la minaccia contro il Chocoano che però era originario dalla stessa zona dello zio. Quando ritornai nel 2014 il Chocoano non viveva più lì e non trovai nessuno disposto a dirmi dove fosse.

A mandare un segnale chiaro ed inequivocabile per tutti fu però la non-morte di Pippa, uno dei ragazzi del quartiere che lavorava sulle “frontiere” raccogliendo commissioni di vario tipo. Era nato e cresciuto nel Barrio e molti erano legati a lui ed alla sua famiglia. Un giorno, nel giugno 2011, corse voce della sua uccisione. Per tre giorni il Barrio manifestò dolore pubblico e cordoglio. La Flaca, la moglie, rimase chiusa nella sua stanza disperata insieme alla madre, alla figlia ed a poche amiche. La casa di Josè era diventata il centro di un continuo passaggio di persone che venivano a porgere le loro condoglianze e per sapere cosa era successo. Poi Pippa riapparve, all'improvviso. C'era stata un'imboscata ma si era salvato. Sparì per una settimana per essere sicuro che i suoi sicari si allontanassero e la simulazione della sua morte cui tutti partecipammo, in maniera più o meno consapevole, gli salvò la vita. Segnalò in maniera chiara che una buona parte del Barrio, se messa di fronte ad alcune scelte, non avrebbe esitato a rimanere con quelli di “adentro”. Gli aguzzini di Pippa desistettero nei loro intenti omicidi e la calma ritornò ma questo rese evidente che era iniziata una fase di assestamenti che riguardavano le “frontiere” e chi vi lavorava quotidianamente. Benchè tutti fossero felici della sua non-morte, Pippa divenne così una specie di fantasma. La gente e gli amici lo evitavano ed era difficile vederlo ad eventi comuni proprio per paura di ulteriori ritorsioni.
Secondo alcune testimonianze, dal settembre 2011 gli uomini di Arribeteado, cioè quelli di Power, avevano ormai “invaso” la comuna e la sostituzione di cabecillas era un fatto consolidato. In qualche modo quindi la non-morte di Pippa mise tutto il quartiere al corrente di cosa sarebbe accaduto a chi non accettava il “nuovo ordine”. 
Tra gli aggiustamenti previsti vi fu proprio l’imposizione di un pizzo ai prodotti delle cooperative (ma non solo) che prima di allora accedevano liberamente ad alcuni mercati locali della carne grazie all’intercessione di Julian e probabilmente dello zio. Questo rese la profittabilità dei progetti produttivi praticamente nulla e molti preferirono tornare in miniera. Nell’Ottobre 2011 le unità produttive nel Barrio Viejo furono chiuse. Rimase quella del settore dei Refugiados che continuava ad essere sovvenzionata attraverso i progetti ufficiali.
Nel prossimo post descriverò alcune caratteristiche del “nuovo ordine”. Per tentare invece una conclusione parziale di questo, ho fin qui descritto alcune delle implicazioni prodotte dalla paramilitarizzazione di Buenaventura dal punto di vista delle dinamiche politiche ed economiche locali. La prima caratteristica che emerge è che nonostante processi costanti di frammentazione delle strutture organizzative, le necessità quotidiane tendono a raggruppare persone ed a generare reti che svolgono funzioni primariamente amministrative seppur con metodi “informali”. In questo senso la proliferazione dei gruppi armati oltre a dipendere dalla maggiore disponibilità di armi stesse, riguarda il progressivo affermarsi di un sistema di potere-sapere che ha la primaria funzione di risolvere problemi contingenti, di “far vivere” e non solo di “far morire”. Si mettono quindi in moto processi di identificazione in divenire in cui personaggi dei margini, quelli che ho chiamato “infami”, utilizzando un’accezione più etimologica del termine, si avvicinano, imitano o incontrano organizzazioni strutturate cui poi vengono associati perchè, in un modo o nell’altro, entrano in un immaginario più complessivo prodotto dallo stesso sistema di potere-sapere. Nel prossimo post cercherò di osservare come questa tendenza possa costituire un movimento opposto, di criminalizzazione. Vorrei però osservarlo in quanto tattica disciplinare più complessiva per cui dopo aver generato un accentramento, si afferma una spinta a disarticolare nuovamente il possibile legame. La fase del “passaggio” sembra rispondere in qualche modo alla spinta verso l’accentramento e alla ri-territorializzazione prodotti dai momenti di “interregno” descritti nel post precedente. Tuttavia, pur nelle accelerazioni che la distinguono, rappresenta un fenomeno ripetitivo e non una discontinuità. Possiede cioè una natura primariamente politica che riguarda una volontà precisa di sostituire un gruppo con un altro senza intaccare le relazioni produttive di base. Credo che sia proprio in questo senso che si possa intendere la guerra civile non solo come un fenomeno permanente ma anche come una pratica di governo. Data la marginalità del Barrio la sostituzione avvenne in forma residuale e come effetto di cambiamenti imposti in aree più centrali o più strategiche ed importanti come appunto la miniera di Zaragoza. Nonostante ciò le dinamiche di fondo che si mostrarono paiono esemplificative di più ampi sistemi politici che 1. assorbono modelli locali di leadership ed 2. usano tecniche disciplinari ormai standardizzate ed apprese con la creazione delle AUC alla fine degli anni ‘90. Nel prossimo post proverò ad osservare meglio continuità e discontinuità del “nuovo ordine” e proporre alcune conclusioni più generali sullo Stato-e-Clan fin qui solo accennate.
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monstaxitalia · 7 years ago
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[ARTICOLO] I Monsta X, la boyband che sta sopravvivendo nella fabbrica del K-pop
Un allenamento di livello militare e una sorveglianza continua da parte dei fan danno vita ad una spietata cultura della perfezione nella musica pop coreana - ma le megastar Monsta X stanno cercando di riprendere il controllo. (Articolo di Taylor Glasby; fotografie di Elliot Morgan)
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Il caldo e il caos organizzato ti colpiscono come un pugno. Il camerino senza finestre di uno degli studi televisivi più importanti di Seoul non è molto più grande di una camera matrimoniale, ma è pieno zeppo delle 11 persone dello staff e dei 7 membri del gruppo K-pop Monsta X impegnati a promuovere il loro nuovo singolo: la seduttiva, drammatica Jealousy. I cantanti Shownu, Kihyun, Minhyuk, Hyungwon e Wonho e i rappers Jooheon e I.M sono ora “idols”, il nome con cui vengono chiamate le stelle del K-pop, esperti e ormai noncuranti della mancanza di spazio. All’interno di una cultura di anzianità, il camerino è da guadagnare; fino a poco tempo fa, stavano infatti in stanze comuni condivise con altri giovani gruppi (conosciuti come “rookies”), con miseri divisori per la privacy.
Wonho, 25, la cui risata contagiosa cela un’intensità premurosa, si sta esercitando con dei passi di danza mentre il 25enne dalla dolce voce Shownu, il leader del team dei Monsta X il cui compito è quello di guidarli nella giusta direzione e mantenere il gruppo scaltro, ci chiede se abbiamo mangiato. Il rosso Kihyun, 24, porta del caffè freddo (iced Americano). Stanno andando avanti senza un briciolo di sonno sulle spalle a causa di un viaggio del giorno precedente nella città di Ulsan, nel sud est, dove si sono esibiti per un programma televisivo sotto un temporale. I video dei fan mostrano Kihyun che cade, ma lui ignora la cosa: “Sin dal nostro debutto ci sono capitate cose del genere. Sapevo che sarei caduto, ma nella mia testa si ripeteva soltanto ‘La coreografia! La coreografia!’ e quindi ho continuato verso il passo successivo. Non è qualcosa di cui si debba essere imbarazzati.”
Le canzoni tormentone prodotte dall’esaltante K-pop e la perfezione nell’immagine hanno avuto un recente boom nell’interesse mondiale, aperto dalla boyband BTS, il cui successo fenomenale è atterrato negli Stati Uniti e nei Billboard Hot 100 e i cui tweet vengono condivisi centinaia di milioni di volte; hanno infatti appena riservato due notti alla O2 Arena a Londra in Ottobre. Ma le telecamere dei fan coreani, che postano online ogni minuto della vita pubblica degli idol, rivelano un’esistenza estenuante. Il K-pop può sembrare una fabbrica, i suoi idols droni indifesi piuttosto che artisti, e lo stress e la fatica sono spesso e volentieri sotto la luce dei riflettori: il 33enne Seo Minwoo, membro del gruppo 100%, è morto per un presunto attacco cardiaco in Marzo, mentre il membro degli SHINee Jonghyun, lottando con la depressione, è arrivato a togliersi la vita lo scorso dicembre.
La signora Suh e la signora Shim, socie dipendenti nell’agenzia dei Monsta X, la Starship, danno all’allenamento - dove il talento viene affinato e nuove abilità vengono sviluppate - degli idol una durata che va dai cinque ai sette anni. L’obiettivo per queste presunte stelle è di essere messe al fianco di altri in una band in via di costruzione e poi di essere fatti debuttare come prodotto finito; i Monsta X sono stati formati nel 2015 dopo che i possibili membri sono stati ridotti attraverso un programma reality chiamato No.Mercy. “L’intrattenimento coreano è uno dei lavori più difficili che possa esistere là fuori” hanno detto Suh e Shim. “I trainee vengono scelti per strada e tramite audizioni, e lì imparano che ci sono delle linee guida e delle cose a cui devono rinunciare. Tutti stanno correndo verso lo stesso obiettivo: il debutto.” A nessun trainee viene garantito il debutto, e Shownu ha cambiato agenzia (”E’ stato leggermente doloroso”) per crearsi la possibilità migliore di essere scelto per la formazione di un gruppo.
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[da sinistra verso destra: Kihyun, Shownu, Hyungwon, I.M, Wonho, Jooheon e Minhyuk]
Ogni agenzia stabilisce le proprie regole, ma i cellulari e le relazioni romantiche sono proibite come standard; i Monsta X hanno detto di aver ceduto i loro telefoni da trainee e per quasi due anni dopo il loro debutto. Minhyuk, 24, ha visto ciò come un’”inconvenienza”, e Hyungwon, sempre di 24 anni, autoproclamatosi introverso dai capelli rosa e un senso dell’umorismo pungente, dice che solo ora comprende le intenzioni della Starship nel togliere loro distrazioni esterne. Jooheon, 23, ricorda tuttavia di essersi sentito “rinchiuso durante il periodo di training. Non c’era nessuna libertà. Almeno quando si debutta si fa esperienza di cose nuove.”
I loro primi singoli dal suono aggressivo, Trespass e Rush, hanno guadagnato loro una fanbase solida, conosciuta con il nome di Monbebe; loro inondano i Monsta X di vestiti, giochi, snacks e lettere prima degli show e agli eventi dove vengono autografati gli album, in cui i fan parlano con ciascuno dei membri, tenendo spesso le mani del loro preferito. Per i cinici, questo può sembrare un geniale piano di marketing ma questi incontri sviluppano quel legame emozionalmente simbiotico unico del K-pop – in un’industria dura, i fan sono, dice I.M, una “fonte di forza”.
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[I.M:  “Sono preoccupato riguardo il fare errori, ma sento che essere un idol sia naturale per me”.]
Il più giovane di 22 anni, I.M ha un’attenzione matura per l’aver passato i suoi anni di formazione davanti a telecamere dove anche il più piccolo errore può portare a critiche pubbliche che possono danneggiare la carriera. “Sono preoccupato riguardo il fare errori, ma sento che essere un idol sia naturale per me”, ha detto. “Mi piace avere delle regole? A volte sì, altre no, ma è quella la vita vera e mi sta bene così.”
La Starship detta indubbiamente legge per i Monsta X; i gruppi di idol, con poche eccezioni, hanno poco potere, ma negli ultimi anni un certo numero ha iniziato ad esercitare un qualche controllo sulla creazione. Anche i Monsta X stanno puntando verso un livello di autonomia: I.M scrive materiale da solista più i testi delle loro canzoni così come fa Jooheon, e molte delle canzoni pop emotive di Wonho sono già parte degli album dei Monsta X.
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[Wonho mentre si prepara.]
Jooheon rivela dozzine di frasi ispiratrici sul suo telefono e dice che di frequente tira avanti con tre ore di sonno. “Mi sento a disagio se non scrivo una canzone ogni giorno”, dice, tuttavia lui ed I.M sono riusciti a pubblicare solo un paio di singoli da solisti. Il gruppo vive assieme in un caotico appartamento, ma ognuno di loro ha un piccolo studio in cui poter dare sfogo alla loro vena creativa. “Faccio qualsiasi cosa lì – mangio, grido, piango, rido, guardo dei film. E’ il mio parco giochi.”, sorride Jooheon.
Questo attimo di pausa è cruciale; la schedule di un idol è da spaccare la schiena. Interviste, radio, programmi di varietà, incontri con i fan e programmi musicali fanno sì che si abbia bisogno di una giornata di 18 ore di attività. Non c’è l’interruttore da spegnere una volta che si trovano oltre la sicurezza del loro camerino, ma c’è un’atmosfera familiare all’interno di quei confini; mangiano allegramente assieme, chiacchierano rumorosamente e quando possibile riposano – Wonho dormicchia nonostante i phon che soffiano intorno a lui, Minhyuk dorme così profondamente che ci vogliono cinque minuti per svegliarlo. “Il carico di lavoro a volte può essere troppo, ma dobbiamo crescere. Essere occupati è un bene”, dice Wonho. Kihyun ridendo dice: “E’ il nostro terzo anno. Ormai ce l’ho nelle ossa.” I fan lo chiamano la “mamma” dei Monsta X, anche se lui si riferisce a sé stesso come la “polizia che mantiene i Monsta X all’interno dei confini.” Ma è felice. “Sto facendo qualcosa che amo, sto guadagnando del denaro e non mi sembra di aver sacrificato gran che.”
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[”Una fonte di forza”: i Monsta X mentre incontrano i fan.]
Per altri, la vita da idol è ardua. “Una volta mi piaceva stare con le persone, ma ora mi serve spazio”, dice Hyungwon. Minhyuk è una palla di calorosa energia, ma sotto quello strato c’è dell’intensità emotiva (pathos). “Non sono un idol per la fama, semplicemente mi piace esibirmi”, dice. “Non mi piace uscire all’aperto perché non apprezzo quando le persone fanno del gossip e quindi sono passati quasi due anni da quando sono uscito a bere con gli amici l’ultima volta. A volte mi sento solo.”
Anche sulla scia del suicidio di Jonghyun, i problemi di salute mentale non vengono sempre trattati correttamente o capiti né dall’industria né dal pubblico in Corea, ma Kihyun dice che sta andando meglio rispetto a com’era prima. “Quando gli artisti dicono che stanno andando a riposare, la risposta ora è ‘vi prego riposate prima che la situazione peggiori’”. Shim della Starship dice “noi monitoriamo la salute mentale di tutti i trainee e degli idol. Se ci sembra che stiano avendo dei momenti emozionalmente difficili, consigliamo loro di visitare un terapista o lavoriamo assieme a loro per trovare il modo di farli sentire meglio.”
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[Shownu, il leader della squadra dei Monsta X.]
I gruppi più affermati del K-pop possono durare dai cinque ai sette anni, e gli idol spesso deviano verso il presentare o il recitare, con alcuni che trovano il successo come solisti. Ma i gruppi maschili devono far fronte al servizio militare obbligatorio di due anni della Corea del Sud e quindi alla minaccia di un declino della carriera o del ritorno alla vita da civile. Come risultato, Shownu ha adottato un approccio giorno-per-giorno per quanto riguarda i Monsta; “Ero solito pensare: sarò in grado di guadagnarmi da vivere con questo?” dice. “C’erano gruppi che hanno debuttato nel nostro stesso periodo ma non stavamo andando allo stesso passo. Ora non mi sento come se dovessi sentire pressioni – ora riguarda più la nostra longevità come gruppo.”
Dopo il loro tour mondiale in arrivo che ha fatto sold out, i Monsta X prevedono già una nuova uscita prima della fine del 2018. Se avessero controllo totale cosa creerebbero? Minhyuk risponde velocemente con “Qualcosa come Trespass, un pezzo forte”. Hyungwon invece manterrebbe il vibe sexy di Jealousy, anche se “adorerei mescolarla con un look più casual”, ma è Shownu ad ancorarli e sostenerli simultaneamente: “Non importa che tipo di canzone facciamo”, dice dall’altro lato della stanza da dove sta osservando silenziosamente. “Sexy, delicata o potente – se sono i Monsta X che la fanno è il nostro stile!”
(Fonte: https://www.theguardian.com/music/2018/may/04/monsta-x-the-boyband-surviving-the-k-pop-factory?CMP=twt_gu)
(Crediti: MonstaXItalia)
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perchetuttohaunsenso · 4 years ago
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"È un'altra estate che passa, la sabbia , il mare, le notti passate a guardare le stelle, noi stesi sull'asfalto, i campeggi con gli amici, le giornate al fiume, il vento tra i capelli, il sudore sul collo, il sole sul viso, gli amori estivi, le cotte giornaliere, l'amore vero, le relazioni ormai terminate, i baci in riva alla spiaggia, i baci sotto le stelle, le nuove esperienze, i bei momenti, gli amici, la musica, le pizze con la birra sotto un cielo stellato, i balli più stupidi, i tormentoni estivi, le canzoni urlate a squarciagola, il primo bacio, le prime esperienze, il primo giro in macchina, la prima volta in cui ho guidato, il giro in moto, il primo shottino, la prima vodka al melone con panna e fragola, la prima relazione con un maggiorenne, le prime cose proibite, le prime cazzate, le persone a cui mi sono affezionata, le gang estive, le frecciatine mandate con gli sguardi, le notti passate a piangere per amore e le mattinate passate in riva alla spiaggia a ridere senza una fine ... è stata questa la mia estate, tante nuove esperienze e nuove amicizie, è stata la più bella della mia vita e la ricorderò per sempre, ultimo giorno di agosto, si torna alla quotidianità e presto tutto questo sarà solo un ricordo impresso sulla pelle e nella mente oltre che nel cuore per il resto della mia vita, già mi manca tutto ciò, vorrei rimettere questa estate in loop e riviverla per il resto della mia vita e non cambierei nulla, lascerei tutto esattamente così come è avvenuto, non voglio vederne la fine, un po' mi fa paura e già ne soffro, non so come sarà questo inverno, so solo che non potrò paragonarlo alla mia estate, mi mancheranno i miei amici e tutte le belle esperienze che ho fatto, ed allora potrò solo riavviare i pensieri nella mia mente e ripercorrere tutte le fantastiche giornate trascorse, dopodiché, dovrò tornare al presente e l'unica cosa che mi farà andare avanti sarà pensare che arriveranno altre estati, magari migliori e magari peggiori di questa, non lo so, ma potrò saperlo solo vivendo, ho deciso che mi godrò ogni giorno come se fosse l'ultimo, perché a una sola cosa c'è una reale fine e quella è la vita, finché si è in vita nulla è perduto. Mi vivrò la mia vita e andrò avanti, portando con me i miei ricordi e le mie esperienze, ma continuando a sorridere anche nei brutti momenti, mi mancherai estate... a presto!
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motidelcuore · 6 years ago
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Sarà che piove.
Sarà che è domenica.
Ma perché penso a te? Perché ancora una volta sono qui a meravigliarmi di quello che è stato o non è stato.
Di te.
Di quelle sere così belle eppure così semplici: io e te, quel letto, vino quanto basta, un film; che poi a me non importava proprio un bel niente dei film e, in fondo, nemmeno a te. Mi piaceva stare con te, parlare con te. Tu che mi imbambolavi sempre un po' con le tue teorie, le tue avventure, le tue esperienze e quei sette anni di differenza che forse un po' si facevano sentire. Ma non ce ne importava. Stavamo bene.
Mi piaceva sai, guardarti mentre suonavi la chitarra. Era bello vedere le tue dita muoversi a ritmo di Battisti, degli Oasis.
Penso a te con un po' di nostalgia, ma pur sempre sorridendo.
Che poi lo sapevamo entrambi che non saremmo andati lontano eppure ce ne fregavamo di tutto. Ignoravamo, però, che quel legame creatosi è forte.
E sarà che le cose proibite mi hanno sempre attratta, sarà quel tuo fascino, saranno quei tuoi occhi verdi che caspita quanti viaggi ci ho fatto! Sarà la tentazione delle relazioni impossibili.
Sarà.
Sarà. Eppure resta che, a volte, ti penso. Nonostante tutto.
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pier-carlo-universe · 3 months ago
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Reckless di Lauren Roberts: Tradimento e rivolta – Un amore pericoloso tra dovere e desiderio. Recensione di Alessandria today
In "Reckless: Tradimento e rivolta", Lauren Roberts, autrice bestseller di Powerless, ci regala un secondo capitolo della saga ambientata nel regno di Ilya, dove l’azione, il romanticismo e gli intrighi si intrecciano in una narrazione che tiene il lettor
In “Reckless: Tradimento e rivolta”, Lauren Roberts, autrice bestseller di Powerless, ci regala un secondo capitolo della saga ambientata nel regno di Ilya, dove l’azione, il romanticismo e gli intrighi si intrecciano in una narrazione che tiene il lettore con il fiato sospeso. Al centro della storia troviamo ancora una volta Paedyn Gray, un’eroina che non è mai stata altro che un’Ordinaria, ma…
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weirdesplinder · 8 years ago
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Jennifer L. Armentrout
PER GLI AMANTI DI URBAN FANTASY E PARANORMAL ROMANCE, CHE APPREZZANO ANCHE LO YOUNG ADULT oggi vi presento due serie disponibili in italiano di Jennifer L. Armentrout, autrice al vertice delle classifiche del New York Times e di USA Today.
SERIE COVENANT
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Il quarto libro della serie è ora disponibile sul sito Harpercollins Italia.
Per chi non conoscesse questa serie si tratta di un paranormal Young adult ambientato in una specie di scuola...capito il genere no?
Per darvi meglio l'idea ecco la trama del primo libro TRA DUE MONDI:
Gli Hematoi discendono dall'unione di dei e mortali, e i figli di due Hematoi di sangue puro hanno poteri di origine divina. I nati dall'unione tra i figli degli Hematoi e i mortali, invece... be', non proprio. I Mezzosangue hanno solo due possibilità: venire addestrati per diventare Sentinelle con il compito di combattere e uccidere i daimon o diventare servitori nelle dimore dei Puri. La diciassettenne Alexandria preferirebbe rischiare la vita lottando piuttosto che sprecarla pulendo i pavimenti, ma non è detto che ci riesca. La sua condotta, infatti, è tutt'altro che irreprensibile. Ci sono diverse regole che gli studenti del Covenant, come lei, devono seguire e Alex ha dei problemi con tutte, ma soprattutto con la numero 1: le relazioni tra i Puri e i Mezzosangue sono proibite. Sfortunatamente, lei è attratta da Aiden, bellissimo e... Puro. Comunque innamorarsi di Aiden non è il suo più grande problema, rimanere in vita abbastanza a lungo e diventare una Sentinella invece sì. Se fallirà nel suo compito, dovrà fronteggiare un futuro più terribile della morte o della schiavitù: diventerà un daimon, e Aiden le darà la caccia. E quella sarebbe una vera disgrazia.
Altra serie di successo della ARMENTROUT è la serie DARK ELEMENTS
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Composta sempre da quattro libri. Sul sito Harpercollins è disponibile anche il cofanetto che contiene l'intera serie, in versione DIGITALE a soli 9,99 euro.
Di cosa parla la serie?
Metà demone e metà gargoyle, Layla ha poteri che nessun altro possiede e per questo i Guardiani, la razza incaricata di difendere l’umanità dalle creature infernali, l’hanno accolta tra loro pur diffidando della sua vera natura. Ma la cosa peggiore, un’autentica condanna, è che le basta un bacio per uccidere qualunque creatura abbia un’anima...                                                         
CALDO COME IL FUOCO... poi nella sua vita compare Roth, e all’improvviso tutto cambia. Bello, sexy, trasgressivo, è un demone come lei, e non avendo anima potrebbe baciarlo senza fargli alcun male. Layla sa che dovrebbe stargli lontana, che frequentarlo potrebbe essere molto pericoloso. Ma quando scopre fino a che punto, tutto a un tratto baciarlo sembra ben poca cosa in confronto alla minaccia che incombe sul mondo.
FREDDO COME LA PIETRA Layla deve rimettere insieme la sua vita andata in pezzi: impresa non facile per una ragazza di diciassette anni, praticamente certa che le cose non possano andare peggio di così. Ma talvolta toccare il fondo è solo l’inizio. Perché all’improvviso i suoi poteri iniziano a crescere e le viene concesso un assaggio di ciò che finora le era sempre stato proibito. Ma il prezzo potrebbe essere più alto di quanto lei sia disposta a pagare.                       
LIEVE COME UN RESPIRO Le scelte che Layla si trova ad affrontare a soli diciassette anni sono più difficili del normale. Luce o tenebra? Il sexy e pericoloso Principe degli Inferi Roth, oppure Zayne, lo splendido Guardiano che lei non avrebbe mai sperato di poter avere? A quale parte del proprio cuore dare ascolto?Divisa tra due mondi e due amori, Layla non ha certezze, nemmeno quella di sopravvivere, soprattutto quando un antico accordo torna a incombere su tutti loro. Ma a volte, quando sembra che la verità non esista, è il momento di dare ascolto al proprio cuore, schierarsi e combattere fino all’ultimo respiro.
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italianaradio · 6 years ago
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Paradiso di creature sottomarine nei mari di Calabria
Nuovo post su italianaradio https://www.italianaradio.it/index.php/paradiso-di-creature-sottomarine-nei-mari-di-calabria/
Paradiso di creature sottomarine nei mari di Calabria
Paradiso di creature sottomarine nei mari di Calabria
Antipathella subpinnata, Leptogorgia sarmentosa, Aplidium nodiferum, Alcyonium palmatum, Alcyonium coralloides, Savaglia savaglia, Pennatula phosphorea. E poi ancora: Scyliorhinu Scanicula, Paramuricea clavata, Phyllangia mouchezii, Pinna nobilis, Astroides calicularis, Alicia mirabilis, Flabelina pedata. Non dimenticando: Hyppocampus guttulatus, Hyppocampus hyppocampo, Leptosammia pruvoti, Cratena peregrina, Janolus cristatus, Posidonia oceanica, Aplysia dactilomela. Questo che gli addetti ai lavori hanno già riconosciuto, è solo uno stralcio dell’elenco di creature marine che la Calabria ospita nei fondali dei circa 800 km delle sue coste. Creature splendide, dalle forme e dai colori che anche il più geniale dei pittori non riuscirebbe a realizzare, che popolano i nostri fondali, a profondità non così proibitive al punto che tecnici della materia hanno raccolto un “book” fotografico dal valore scientifico e ambientale, a detta degli stessi esperti, di rilievo internazionale. Tutto ciò dimostra come le coste calabresi siano un patrimonio ambientale e naturalistico talmente sorprendente, agli addetti ai lavori e non, che l’intera comunità scientifica internazionale è sempre più attenta alla nostra regione. E’ questo il giudizio unanime che è emerso a conclusione del workshop scientifico di presentazione dei risultati intermedi del progetto “I siti di importanza comunitaria della Calabria “Sic marini”, che si è tenuto mercoledì scorso nel Centro Congressi dell’Unical ed al quale hanno partecipato i diversi soggetti partner del progetto finanziato dalla Regione Calabria – Dipartimento Ambiente e Territorio con fondi POR Calabria FESR-FSE 2014-2020. Piano di Azione – Az e 6 Tutela e Valorizzazione del Patrimonio Ambientale Culturale: Azioni 6.5.A1 – Monitoraggio degli habitat e delle specie marine all’interno dei SIC. Il workshop è stato organizzato dall’Arpacal (Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della Calabria), attraverso il suo Centro Regionale Strategia Marina, diretto dal dr. Emilio Cellini, con la collaborazione della Regione Calabria, dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), dell’Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria del Consiglio Nazionale delle Ricerche, del Dipartimento di Biologia Ecologia e Scienze della Terra dell’UNICAL e del Dipartimento di Ingegneria Meccanica Energetica e Gestionale dell’UNICAL. Il Comitato Organizzatore del workshop – che ha raccolto l’apprezzamento del pubblico presente, composto da tecnici, studiosi e appassionati della materia ma anche i delegati delle Capitanerie di Porto della Calabria, che collaborano a 360° con il Centro Strategia Marina dell’Arpacal – ha rilasciato oggi gli atti ufficiali delle relazioni illustrate nel convegno. Tra le diverse relazioni presenti, che spaziano nelle altrettanto diverse sfaccettature di questo progetto, anche quella di Francesco Pacienza (nella foto), un fotografo e giornalista subacqueo professionista tra i più talentuosi in Calabria, nonché docente all’Istituto Europeo del Design, che ha “donato” alla comunità scientifica e all’opinione pubblica trenta scatti fantastici di altrettante creature marine individuate in vari siti calabresi.
Antipathella subpinnata, Leptogorgia sarmentosa, Aplidium nodiferum, Alcyonium palmatum, Alcyonium coralloides, Savaglia savaglia, Pennatula phosphorea. E poi ancora: Scyliorhinu Scanicula, Paramuricea clavata, Phyllangia mouchezii, Pinna nobilis, Astroides calicularis, Alicia mirabilis, Flabelina pedata. Non dimenticando: Hyppocampus guttulatus, Hyppocampus hyppocampo, Leptosammia pruvoti, Cratena peregrina, Janolus cristatus, Posidonia oceanica, Aplysia dactilomela. Questo che gli addetti ai lavori hanno già riconosciuto, è solo uno stralcio dell’elenco di creature marine che la Calabria ospita nei fondali dei circa 800 km delle sue coste. Creature splendide, dalle forme e dai colori che anche il più geniale dei pittori non riuscirebbe a realizzare, che popolano i nostri fondali, a profondità non così proibitive al punto che tecnici della materia hanno raccolto un “book” fotografico dal valore scientifico e ambientale, a detta degli stessi esperti, di rilievo internazionale. Tutto ciò dimostra come le coste calabresi siano un patrimonio ambientale e naturalistico talmente sorprendente, agli addetti ai lavori e non, che l’intera comunità scientifica internazionale è sempre più attenta alla nostra regione. E’ questo il giudizio unanime che è emerso a conclusione del workshop scientifico di presentazione dei risultati intermedi del progetto “I siti di importanza comunitaria della Calabria “Sic marini”, che si è tenuto mercoledì scorso nel Centro Congressi dell’Unical ed al quale hanno partecipato i diversi soggetti partner del progetto finanziato dalla Regione Calabria – Dipartimento Ambiente e Territorio con fondi POR Calabria FESR-FSE 2014-2020. Piano di Azione – Az e 6 Tutela e Valorizzazione del Patrimonio Ambientale Culturale: Azioni 6.5.A1 – Monitoraggio degli habitat e delle specie marine all’interno dei SIC. Il workshop è stato organizzato dall’Arpacal (Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della Calabria), attraverso il suo Centro Regionale Strategia Marina, diretto dal dr. Emilio Cellini, con la collaborazione della Regione Calabria, dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), dell’Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria del Consiglio Nazionale delle Ricerche, del Dipartimento di Biologia Ecologia e Scienze della Terra dell’UNICAL e del Dipartimento di Ingegneria Meccanica Energetica e Gestionale dell’UNICAL. Il Comitato Organizzatore del workshop – che ha raccolto l’apprezzamento del pubblico presente, composto da tecnici, studiosi e appassionati della materia ma anche i delegati delle Capitanerie di Porto della Calabria, che collaborano a 360° con il Centro Strategia Marina dell’Arpacal – ha rilasciato oggi gli atti ufficiali delle relazioni illustrate nel convegno. Tra le diverse relazioni presenti, che spaziano nelle altrettanto diverse sfaccettature di questo progetto, anche quella di Francesco Pacienza (nella foto), un fotografo e giornalista subacqueo professionista tra i più talentuosi in Calabria, nonché docente all’Istituto Europeo del Design, che ha “donato” alla comunità scientifica e all’opinione pubblica trenta scatti fantastici di altrettante creature marine individuate in vari siti calabresi.
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furiarossa · 7 years ago
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E finalmente abbiamo sostituito la vecchia copertina orribile con un'altra, in ogni caso al limite del trash (perché si, lo richiedono le circostanze): nuova cover "Dark Boy", il primo libro Teen Fiction che abbiamo mai iniziato a scrivere XD
Lei, Summer, è giovane, carina, disinibita. Lui, Mark, è oscuro come una notte senza luna, silenzioso, irraggiungibile. Non hanno nulla in comune... perché allora il destino li mette sulla stessa strada?  E soprattutto, qual'è il segreto del ragazzo? Sullo sfondo di un assolato Texas degli anni 80, relazioni proibite, oscuri passati, e misteriosi apparenti salti temporali sconvolgono la vita di Summer. E al centro di tutto c'è forse quel ragazzo?
Questo romanzo Teen Fiction nasconde un segreto metaletterario. Ma solo seguendolo scoprirete quale ;)
Note importanti:  Il genere "Teen" è probabilmente il più gettonato su Wattpad, ma noi  non abbiamo mai scritto niente del genere, quindi è la prima volta che  ci buttiamo su questo classico del sito, piegando le nostre avventure  alle sue regole! Tuttavia piegarsi non significa spezzarsi e, credeteci, nonostante l'inizio rassicurantemente (o no?) classico, accadranno COSE.
Volete sapere cosa succederà dopo? Incoraggiateci con una stellina e ricordatevi che i commenti sono sempre ben accetti!
LEGGETE ORA "DARK BOY"
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sabryina · 8 years ago
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Siiii finalmente è Venerdì! E qual’è il momento migliore per buttarsi su una bellissima lettura? Ovviamente il weekend! Questa settimana per me è stata fantastica, per quando riguarda le letture. Ho iniziato, finalmente, “Tra due Mondi” di Jennifer L. Armentrout, si propio lei. Una lettura che mi ha fatto conoscere nuovi amici, un nuovo mondo, mi ha fatto amare ancora di più i libri ambientati nelle scuole/accademie. Si la storia si svolge principalmente nel Covenant, una scuola frequentate da Puri e da Mezzosangue, quest’ultimi futuri sentinelle per sconfiggere i temibili Daimon assassini dei Puri, oppure se falliranno diventeranno servi dei puri. La nostra protagonista è Alex una ragazza di 17 anni, una ragazza un pò ribelle, testa dura, molto ambiziosa e che non sa neanche cosa significhi la parola “REGOLA”. Ma la vita di Alex non è sempre rose e fiori, infatti dopo tre anni passati nel mondo dei mortali con la madre un tragico destino la riporta tra le mura del Covenant, li rincontrerà i suoi vecchi amici ma anche le vecchie inimicizie. Dovrà lottare con tutta se stessa per poter far ritorno tra i banchi del Covent e ad aiutarla ci sarà lui Aiden, bellissimo, affascinante ma anche Puro! E Alex dovrà lottare contro se stessa per concentrarsi sugli esercizi e non su di lui. Ma non tutto andrà come previsto, una brutta sorpresa sarà dietro l’angolo, insieme alla minaccia più grande chi le sta dando la caccia? E sopratutto cosa vuole il misterioso Seth da lei?
Se avete letto anche voi la saga dell’accademia dei vampiri di Richelle Mead vi accorgerete sicuramente di alcune, molte, similitudini. Ma non preoccupatevi la trilogia del “Covenant Series” è un degno rivale. Se siete curiosi di leggerla vi informo che sono già usciti anche i seguiti “Cuore Puro” e “Anima divina”. Spero di recuperare al più presto che gli altri due libri, ho finito da poco la lettura e mi mancano molto i suoi personaggi, sopratutto la formidabile Alex. Una lettura che consiglio a tutti gli amanti del genere!
Trama: Gli Hematoi discendono dall’unione di dei e mortali, e i figli di due Hematoi di sangue puro hanno poteri di origine divina. I nati dall’unione tra i figli degli Hematoi e i mortali, invece… be’, non proprio. I Mezzosangue hanno solo due possibilità: venire addestrati per diventare Sentinelle con il compito di combattere e uccidere i daimon o diventare servitori nelle dimore dei Puri. La diciassettenne Alexandria preferirebbe rischiare la vita lottando piuttosto che sprecarla pulendo i pavimenti, ma non è detto che ci riesca. La sua condotta, infatti, è tutt’altro che irreprensibile. Ci sono diverse regole che gli studenti del Covenant, come lei, devono seguire e Alex ha dei problemi con tutte, ma soprattutto con la numero 1: le relazioni tra i Puri e i Mezzosangue sono proibite. Sfortunatamente, lei è attratta da Aiden, bellissimo e… Puro. Comunque innamorarsi di Aiden non è il suo più grande problema, rimanere in vita abbastanza a lungo e diventare una Sentinella invece sì. Se fallirà nel suo compito, dovrà fronteggiare un futuro più terribile della morte o della schiavitù: diventerà un daimon, e Aiden le darà la caccia. E quella sarebbe una vera disgrazia.
Recensione “Tra due Mondi” Jennifer L. Armentrout Siiii finalmente è Venerdì! E qual'è il momento migliore per buttarsi su una bellissima lettura? Ovviamente il weekend!
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lasola · 4 years ago
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[3.1] - I Cattivi Selvaggi: Epoca 1
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L’approccio con cui vorrei raccontare alcune dinamiche socio-economiche del Barrio aspira a posizionarsi da qualche parte tra la “storia” intesa come racconto della sovranità e della grandezza quotidiana di un sovrano, e la “contro-storia” di chi si è trovato percorso da tanta potenza ritrovandosi poi resto ininfluente di più ampi processi (1). Nel narrare la rilevanza strategica di Buenaventura fin qui, ho cercato di mostrare come la gestione ed il controllo di persone “ininfluenti” siano diventati parte della storia, cioè di un interesse più generale dentro il sistema politico-economico colombiano. Ciò è avvenuto principalmente a causa di necessità logistiche che hanno reso l’economia ufficiale incapace di soddisfare i bisogni della maggioranza degli abitanti e ad intrecci sempre più variegati tra economie legali e non. La combinazione di questi fattori ha reso economicamente vantaggioso oltre che politicamente rilevante l’azione di controllo e definizione degli “ininfluenti”. Non è mia intenzione far emergere di qui un discorso sulla rivolta come contro-storia. Seguendo Foucault cercherò invece di descrivere i rapporti di forza locali, quindi anche le rivolte, come parte di sistemi politici più complessivi. Proverò però a “studiarli” al di fuori del modello giuridico-legale della sovranità basata su di “un individuo come soggetto di diritti naturali o di poteri originari” (1997:229) cercando di rintracciare una matrice “afro-colombiana” di quei sistemi. Se da un lato è infatti possibile comporre una storia comune di diaspora, servitù ed oppressione oltre che di resistenza, dall’altro, con l’osservazione partecipante, emerse qualcosa di ulteriore e di innovativo che potrebbe essere interessante sviluppare meglio. Nei post precedenti ho spesso richiamato l’attenzione sulla fluidità di alcuni micro-modelli organizzativi nei margini. Credo che questa definizione possa essere migliorata e proverò a farlo etnograficamente. Lo scopo è quello di dimostrare che una “rivolta” è tale se intesa a partire dal “modello sovrano” ma potrebbe essere vissuta e conosciuta come qualcosa che per ora chiamerò, un “interregno africano”, a metà, diciamo così, tra una storia ed una contro-storia.
Le conclusioni del post precedente sono il punto di partenza di questa dimostrazione. In poche parole, il Barrio rappresenta un’evidenza di alcune e più ampie dinamiche della guerra per il Puerto. La raccolta di ricordi e storie e l’osservazione delle tattiche di controllo che lo trapassano mostrano lo svolgersi di alleanze e relazioni di non belligeranza tra gruppi in armi o dediti al narcotraffico in maniera quasi lineare. Descrive cioè una serie di strategie che sono state impiegate per “pacificare” la città con l’obiettivo di disarticolare ogni forma organizzativa locale che non si conformava, per qualche ragione, a certi interessi del sistema politico-economico generale oppure di annetterla ad esso. La soluzione proposta dal “modello sovrano” sembra tenere assieme le diverse tattiche attraverso una guerra civile permanente fatta di tagli e micro-lotte disseminate e capillari che indeboliscono in forma generalizzata, deprimono o spingono verso la ricerca di una libertà momentanea ed individuale ma non propriamente comune. Seguendo questa comprensione degli eventi, vorrei  provare a descrivere la storia recente del Barrio come un “abbaglio” prodotto dal potere che dopo essersi mostrato con un eccesso di luminosità e con molto rumore, ha poi generato la sua necessaria ed inevitabile accettazione ed interiorizzazione attraverso il silenzio.
Il potere qui inteso foucaultianamente in termini di rapporti di forza è quindi emerso in forma profondamente sbilanciata ed asimmetrica, imponendosi quasi come una verità manifesta; una presenza autolegittimante resa necessaria da una giustizia ovvia in sè cui gli abitanti del Barrio sono stati semplicemente messi di fronte. Mentre si commettevano stragi in città, l’esercito faceva in modo che nessuno si intromettesse in quel “regolamento di conti”. Seguendo il modello sovrano, questa necessità doveva essere accettata dagli abitanti perchè giusta e legittima per costruzione. Nonostante ciò, l’indicibilità della verità che si mostrava non era certo permanente. Per questo altre tattiche successivamente la sostennero fino a renderla un “segreto” condiviso tra invasori ed invasi. Da un lato il “terrore” sempre latente, iscritto in luoghi come il campo di calcio e nei rumori di spari improvvisi nella notte, riaffermava la condizione esistenziale di vivere in un ordine incompleto. Dall’altro, il silenzio che veniva retribuito attraverso la miniera d’oro di Zaragoza, costruiva collusione e legami con i quali in molti credevano di aver trovato rifugio dalla parte dei “vincitori”, non più “oppressori” ma “salvatori” in base alle possibilità che la vita via via offriva. Questa normalizzazione ed interiorizzazione dei rapporti di potere costituisce un asse portante dello svolgersi delle tre epoche che vorrei ora descrivere.
La fase dei “Rastrojos” è quella che conobbi meglio perchè si sviluppò durante il mio lavoro di campo e prima ancora durante le mie visite iniziali nel Barrio fin dall’agosto 2009. Come ho cercato più volte di spiegare, dal Barrio non era possibile identificare un’istituzione intermedia coerente; solo socialità che visibilizzavano rapporti di forze. Ad esse si aggiungevano i commenti degli abitanti, quei pochi disposti a “definire” un gruppo dentro le macro-categorie disponibili. Quelli che lo facevano avevano comunque accesso ad informazioni che provenivano da organizzazioni altre rispetto al Barrio o "de afuera”, per rimanere alle categorie che segnavano i racconti locali, e si basavano, a loro volta, su fonti di origine militare. I diretti interessati preferivano di gran lunga rimanere lontani da quelle definizioni e difficilmente si riferivano a loro stessi usando quegli stessi nomi. Esisteva poi una precisa “etica del silenzio” che riguardava le modalità possibili con cui affrontare certi temi e che, a mio parere, originava in quelle pratiche come le militarizzazioni del Barrio in cui la “Legge” si manifestava come un destino podotto dalle “scelte sbagliate” di alcuni.
Durante il mio lavoro di campo misi assieme tre regole principali che ordinavano le modalità rumore-silenzio. La prima era un principio generale per il quale “nadie sapea un para” (nessuno può essere il delatore di un paramilitare). La parola spagnola ricavata dal verbo “sapear” significa letteralmente “fare la spia” ma il “sapo” è anche una rana la cui caratteristica è quella di non smettere mai di gracidare. L’uso specifico del verbo “sapear” richiamava alla memoria l’epoca degli anni ‘90, resi celebri anche da una famosa serie TV locale, in cui la delazione veniva dipinta come l’arma principale che fece cadere l’impero dei Rodriguez-Orejuela. Molte delle storie disponibili di quegli anni raccontano infatti di un’informazione impazzita in cui ognuno sembrava raccontare un segreto del mondo narcotico per cercare di ricavarne qualche beneficio. Tanti ex-poliziotti di Cali e della Valle del Cauca cercarono di ricevere sconti di pena e soprattutto di non perdere le ricchezze acquisite “raccontando la loro versione dei fatti”. Il più importante testimone di quegli anni fu proprio Patiño che dopo essersi consegnato alla DEA pare abbia raccontato proprio tutto quello che sapeva alle autorità giudiziarie degli States causando violente ritorsioni contro la sua famglia rimasta in Colombia. Circa 35 suoi familiari furono assasinati. Al suo ritorno, nel 2010, diede inizio ad una vendetta su vasta scala che fu l’origine del passaggio di poteri che toccò direttamente anche il Barrio con la sostituzione “ufficiosa” dei Rastrojos con gli Urabeños. Comunque le si osservi, le delazioni incrociate generavano vendette e violenze trasversali e “sapear” era comunemente inteso come un’azione profondamente pericolosa per tutti.
Il secondo principio riguardava invece una più generale regola di vita, cioè il “no meterse en la vida ajena” (non farsi gli affari degli altri). Per come lo intesi dopo conversazioni infinite, significava relazionarsi ai fatti mai in maniera interrogativa o investigativa. Non bisognava cercarli ma fare in modo che fossero loro ad arrivare alle orecchie. Ciò che realmente importava era non essere mai sorpresi nell’atto di fare domande o nel “chiedere in giro” sulla vita di qualcuno. Ad ogni domanda che si riceveva si doveva invece rispondere a partire dalla propria vita, dalla propria esperienza e fare in modo di non divagare mai in quella di altri di cui non si poteva sapere. Si trattava quindi di un principio che tentava di ordinare il pettegolezzo all’interno delle “zone proibite” della città, dove era meglio non fare domande perchè tanto non si conoscevano le risposte ed una verità pareva non esistere.
Il terzo principio era forse quello più rilevante da un punto di vista antropologico perchè riguardava la necessità di trovare un equilibrio psichico rispetto ai traumi prodotti dalla violenza in città. Era quello dal campo cosmologico più vasto che spronava le persone “sane” a “no hablarle a la muerte” (non parlare con la morte), che in estrema sintesi significava non richiamare alla mente i ricordi di persone scomparse di “mala muerte”, di morte violenta. Per spiegare tutto questo si scomodavano spiriti che si manifestavano come energie che entravano ed uscivano dalla persona che evocava quei ricordi abbandonandosi a rinnovate sofferenze oltre a quelle già patite. In molti casi costringevano la persona ad entrare in uno stato di malinconia dal quale sarebbe stato poi molto difficile uscire. Ricordare certi eventi che avevano segnato la storia del Barrio era una cosa pericolosa, non solo per paure di ritorsioni, ma semplicemente perché "asi uno llama los problemas" (in questo modo i problemi arriveranno). Imparare a vivere nella regola del silenzio di Buenaventura significava invece trovare una modalità esistenziale che permettesse di posizionarsi ad una giusta distanza dalla “mala muerte” o di lasciarla andare (dejarla ir) quando arrivava troppo vicina. Per spiegare come ciò avvenisse nella pratica avrò bisogno di alcuni post.
Ciò che appare rilevante ora è che da dentro questa “etica del silenzio” l’articolazione delle relazioni nel Barrio tra i diversi attori o tra emissari delle istituzioni intermedie apparivano molto più intricate delle semplici definizioni che venivano apposte. Nel post [3 di 3] ho descritto ad esempio le implicazioni emozionali e sull’immaginario locale che ebbe il ritorno di Willy nel Barrio nel Natale 2010. Ripensare a quei giorni ed al rumore generato fa emergere un’opposizione narrativa importante rispetto ai campi di indicibilità generati intorno alla casa dei Paisas o alla militarizzazione delle casette comunitarie. Su di uno sfondo etnico ma anche genealogico e territoriale, il ritorno di Willy produsse un cortocircuito radicale nelle narrazioni egemoni sul conflitto locale. Willy sembrò materializzare un potere vicino, più amichevole, di cui tutti sembravano voler prendere un pezzo anche solo standogli accanto. Per qualche giorno di festa, “il male del Puerto” parve non essere subìto ma agito. Il suo essere “de los nuestros” (dei nostri) non implicava una scelta di campo vera e propria ma una rivincita effimera che era anche solo poter festeggiare il ritorno di qualcuno del Barrio “che ce l’aveva fatta”. A chi importava il lato nel quale stava?
Per alcuni Willy era in effetti un integrante dei Rastrojos. Eppure, dando per buona la sua stessa confessione ma anche altre storie, le sue relazioni nella “zona grigia” erano molto più complesse. Per descriverle userò un espediente, qualcuno che a lui era molto vicino. Il nipote, Julian, fu assasinato insieme a Willy nell’ottobre del 2012 e viveva nel Barrio. Anche lui era molto taciturno circa la reale natura dei suoi affari ma definiva se stesso ed i suoi (mi gente) come “para”. Risaliva quindi un albero genealogico del suo gruppo in armi fino all’epoca del Bloque Calima, superando di netto la fase della scissione tra Rastrojos, Machos ed Aguilas Negras e poi quella tra Rastrojos ed Urabeños. Commenti analoghi erano prodotti da persone a lui vicine. Tuttavia quando altri “para” arrivarono nel Barrio, qualche mese dopo, e la sua posizione di comando fu messa in discussione, si resero necessarie nuove alleanze, nuovi tagli, nuove partizioni. Che “para” era allora Julian e per osmosi quelli che stavano intorno a lui ed allo zio?
Per tentare una risposta non posso che richiamare le storie del Barrio ed interpretarle dentro l’etica del silenzio presentata sopra. I primi 6 mesi dal mio arrivo furono segnati da una continua presenza simbolica della Polizia Nazionale che accompagnava i programmi di sviluppo finanziati tra gli altri dalla Croce Rossa Internazionale. La Polizia organizzava eventi estemporanei, separati dai progetti produttivi, con i quali cercava di avvicinarsi alla popolazione distribuendo cibo ed accessori per la viabilità su moto come giacche catarifrangenti ed altri oggetti. Durante quelle giornate di donazioni molti di coloro che orbitavano intorno alla sfera di Willy e Julian si davano da fare per raccogliere la popolazione sulla strada e per fare in modo che tutti ricevessero qualcosa. Questa manifestazione di una relazione di “non belligeranza” era spiegata in diversi modi dagli abitanti. Molti non sapevano nemmeno delle confermate commistioni tra, ad esempio, Varela, il capo dei Rastrojos, o del cartello del Norte del Valle e la polizia di Cali. Non dovevano per forza ipotizzare dinamiche più complessive ma mettevano assieme voci ed una condizione che era semplicemente visibile. La Polizia si appoggiava al gruppo di Julian per presenziare il Barrio in uniforme e alcuni dicevano che Julian era dei Rastrojos.
Questa commistione non era ovviamente sempre ben accetta. In un’occasione si rischiò di far cadere la rinnovata presenza “amichevole” perchè la Polizia Nazionale richiese di poter mantenere due agenti in borghese, “un paisa” e un “cholo”**, come li chiamavano nel Barrio, per occuparsi della sicurezza delle unità produttive durante il giorno. Entrambi venivano dalla zona caffettera del Paese. Rimanevano solo durante le ore di ufficio, dalle 9 alle 4.30 circa ed erano ufficialmente disarmati. Più o meno tutti sapevano della loro affiliazione ma nelle prime settimane dal loro arrivo, la moto da enduro con i colori e le scritte della Polizia Nazionale che usavano per recarsi nel quartiere costituì l’origine di una crisi diplomatica. In molti associavano quella moto all’inizio di una nuova militarizzazione o più semplicemente ad un’operazione di intelligence con la quale la Polizia avrebbe iniziato a raccogliere informazioni casa per casa con modalità non chiare e magari inserendosi nei percorsi estorsivi che condizionavano la vita di alcuni abitanti. Durante concitati incontri in cui piovevano insulti contro Josè reo, in quanto Presidente del Consejo Comunitario, di aver accettato quella presenza, alcuni ragazzi presero la decisione di rubare la moto per poi bruciarla e buttarla da qualche parte. Proprio grazie all’intervento di Julian si trovò una soluzione facendo ridipingere la motocicletta di nero in modo che i colori della Polizia non fossero più visibili. Si cercò quindi di salvare un’apparenza rispetto agli spazi di “afuera” del Barrio affermando un potere negoziale negli spazi “de adentro” ma Julian ribadì anche che il suo ruolo era vincolato ad una collaborazione con i corpi regolari dello Stato.
Questa relazione fu confermata durante la campagna elettorale per le elezioni del sindaco. Nel maggio del 2011, colui che avrebbe poi vinto le elezioni di Buenaventura, Bartolo Valencia, del Partido Liberal, fece un comizio nel Barrio. Ad accompagnarlo nel cammino fino alla casetta comunitaria ed a gestire la sua sicurezza, oltre ad alcune volanti della polizia furono proprio Julian insieme ad altri dei “suoi” che rimasero tutto il tempo sulla strada accanto alle vetture ed alle moto che si erano radunate per l’occasione. Tutto era ampiamente normalizzato. Il gruppo di Julian nel Barrio durante l’Epoca 1 era del tutto organico alle strutture politiche locali. Rispetto a quanto riportato in alcuni testi su mafie e gruppi insurgenti (1, 2) quindi non si possono analizzare quei “para” osservando il business della protezione. Al contrario segnalando la loro presenza dispiegavano forze con cui impedivano la cattura del Barrio da parte di altre reti. Può darsi che lo facessero per essere sicuri di non avere problemi nella gestione delle loro economie private o che dal margine in cui ci trovavamo non potessimo vedere strategie più complessive ed azioni meno magnanime che toccavano invece altri quartieri. In ogni caso i fenomeni estorsivi di cui si ascoltava in maniera diffusa che riguardavano il pagamento del pizzo (vacuna), ad esempio, per far circolare una mototaxi nella comuna, non toccavano il Barrio nel senso che Julian e “i suoi” agivano intercedendo per evitare un pagamento o per permettere un posizionamento sul mercato. Stabilivano quindi una presenza negoziale con il resto della città piuttosto che un sistema di confrontazione. Per riuscirci operavano da dentro alleanze multiple e si relazionavano anche con i corpi ufficiali dello Sato. Nel farlo ribadivano qualcosa che assomigliava ad un limite o un solco oltre il quale non si voleva e poteva andare. Willy e Julian stavano lì a ricordarcelo ed a farlo credere.
In questa prospettiva i giorni del ritorno di Willy furono certamente un evento “decisivo”. La popolazione fu messa di fronte alla scelta di mostrargli pubblicamente appoggio oppure di chiudersi in casa perchè trattavasi, in ogni caso, di un “malo” che con il rumore della sua presenza avrebbe attirato nuovi problemi. Ma aprì anche le danze del Natale che era certo la festa di tutti. Alcuni minatori raccoglievano denaro da mesi per permettere alle famiglie di celebrare degnamente. In quei giorni però accadde qualcosa che non si ripetè più durante l’anno che trascorsi a Buenaventura. Ci si addormentava dove capitava e ci si svegliava con qualcuno che stappava una “poker” (birra) ed offriva un caldito de pollo (brodo di pollo) contro i dolori di testa per non perdere nemmeno un secondo dei festeggiamenti. Bisognava ricominciare subito a celebrare tanto che dopo 7 giorni di continue bevute e mangiate in giro per il Barrio, Josè dovette dichiarare due giorni senza alcol che gli causarono critiche e proteste ma anche alcuni ringraziamenti.
A segnare quei ricordi e quei giorni fu proprio un’alternanza continua tra adentro ed afuera prodotta dai ripiegamenti della storia e delle storie dove sorgevano senza sosta nuovi possibili lati e posizioni nel conflitto. Questa esperienza che si palesò in quei giorni articolava le quotidianità ed imbeveva le vite nel Barrio in forme molto più generali e complessive di come una settimana di festa potrebbe far pensare. La paramilitarizzazione di Buenaventura aveva frammentato le visioni del futuro dentro una miriade di piani paralleli il cui punto di partenza era ormai una pragmatica necessità di prendere quello che c’era. Non c’erano o non c’erano più missionari laici a professare il mondo in comune secondo Karl Marx o a fissare delle boe in mezzo all’oceano. Si aveva invece la sensazione di trovarsi nel mezzo di spazi di potenzialità, di “interregni” che potevano durare una settimana o un mese, o qualcosa di più, e questa incertezza e la necessità di parteciparvi costitutiva un aspetto fondamentale di ordinamenti non-sovrani che costituivano lo spazio politico dei luoghi ai margini del Puerto. In questo senso, Julian e Willy non integravano un’organizzazione criminale. Dal punto di vista del Barrio quella possibilità non aveva rilevanza alcuna o se ce l’aveva riguardava solo pochissime persone. Visibilizzavano però dei sistemi politici fondati sulla forza delle relazioni che li sostenevano. Non c’era nessun diritto naturale o potere originario a definire un prima e un dopo della vita nel Barrio o a decretare la sovranità di un individuo sugli altri. Tutto era semplicemente in divenire ma bisognava riuscire anche a starci nel mezzo. La mia ipotesi è che se questo era vero nel Barrio, poteva e forse doveva esserlo anche altrove, tra i quartieri del Puerto, dove si viveva quotidianamente al di là delle categorie “criminologiche” che tentavano di definire racconti sovrani o sui sovrani. Era certamente in atto una lotta per l’influenza e per il “far cerdere” e Julian senza dubbio vi partecipava. Se però esisteva una tendenza all’assimilazione ed al riconoscersi oltre i limiti territoriali, questa veniva sistematicamente interrotta. La strategia dominante era infatti frammentare o unificare in senso sovrano\criminologico i diversi processi locali in base alle necessità. Così sullo sfondo di una corsa agli armamenti di piccolo taglio, la guerra civile emergeva come paradigma di governo di Buenaventura.
Ad onor del vero, questo approccio analitico era ed è minoritario. Anche diversi percorsi in resistenza avevano ormai sedimentato un discorso “giustizialista” che richiedeva un intervento militare “buono” che permettesse lo sradicamento del male che erano tutti questi gruppi irregolari. Ma c’era qualcosa in più che spingeva quasi a dover dire “quelli non siamo noi”. In Colombia c'è una vasta letteratura giornalistica, film, serie tv, documentari, biografie autorizzate e non autorizzate sui "miei anni con il Capo" che se messi uno accanto all’altro, pur dentro differenze importanti, sembrano sostenersi su di un frame narrativo molto simile. Raccontano dell’ingresso nei mondi in guerra di personaggi del "bajomundo", di solito paisas, che durante un percorso di autoaffermazione raggiungono una sorta di limite estremo del male. Queste narrazioni multiple costruiscono potenti immaginari sociali sul potere performativo di un Jefe (capo) che appare la fonte e l’origine di sistemi politici fortemente instabili poichè centrati su di un individuo, sulla sua rabbia ed il suo bisogno di riconoscimento. Di qui, la personale capacità di essere "superiore" o di "superare" i vincoli imposti dall’intorno sociale in cui nasce e cresce permette al protagonista di emergere, seppur per un tempo limitato e in un mondo di difficoltà estreme. La volontà di potenza descritta va però oltre le visioni della sovranità come capacità di usare la forza per stabilire un fuori della legge da cui affermare l’ordine originario. I mondi raccontati sono invece in continua lotta contro la violenza organizzata degli eserciti e delle polizie e quella di altri gruppi in armi. Parlano di una liberazione che è un oltre dello Stato ma anche del Barrio. Così la supremazia può essere raggiunta solo assorbendo la forza del nemico o dando prova della sua annichilazione. Per riuscirci bisogna quindi diventare un “mostro” capace di imporre la “propria Legge” attraverso la legittimità del proprio orrore e della propria violenza. Ma il potere performativo di un Capo ha in se anche qualcosa di sensuale ed attraente. E’ inseparabile dalla personale capacità di vivere l'eccezionalità della sua condizione esistenziale, che è quella di tutti gli abitanti del bajomundo. La differenza tra lui e tutti gli altri sta nella capacità di raggiungere e poi ripetere momenti culmine in cui si soggettivizza sperimentando se stesso nella sua natura più profonda, fino a perdersi nel completo consumo di sè. 

La mistica incastrata in questa macchina mitica si basa su un movimento continuo e un presente permanente in cui anche la vita di chi sta intorno al Capo pare ridursi al suo diritto di vivere o morire. Senza di lui l’unità del sistema costruito cadrebbe. Questo però non accade mai, anzi è proprio nella sua morte che il sistema trova nuova vitalità. Benchè l'incantesimo che aveva colpito un gruppo di persone o case o quartieri svanisca, la sua morte ricorda che la magia riapparirà in un altrove in cui quella mistica continua ad esistere, ancora possibile ma non più nel qui-ed-ora. Sono proprio i racconti della nascita e caduta di un “Jefe” che costruiscono la base mitica del suo potere sovrano tra la gente. Ma dal punto di vista del Barrio rappresentano un estremo del desiderio che è fondamentalmente inconciliabile con la realtà quotidiana. Ne raccontano sempre “un fuori” che è al tempo stesso una piega possibile del vivere; un cammino “oltre il barrio” che implica quella trasformazione in “mostro”, un divenire il “male del Puerto” per liberare e liberarsi. In questo senso la morte è una punizione iscritta nel “destino del Capo” ma non ne rappresenta la fine bensì il compimento stesso del mito. I rituali funebri, che durano mesi, anche anni, ed includono fughe ed uccisioni efferate, rappresentano precisamente il momento di passaggio e la continuità dell’ordine, non la sua rottura. Accade infatti che l’unità del sistema, pur così apparentemente legata all’esistenza di un individuo, dipenda invece da operazioni ripetitive quasi automatiche di una filiera produttiva avvezza a continue sostituzioni, defezioni e cambiamenti.  

Qui abitava un aspetto profondo dei rapporti di potere che Willy e Julian parevano ribaltare non solo etnicizzandoli e contestando il dominio dei “paisas”. Per tentare una qualche definizione credibile degli “interregni africani” bisogna forse partire da questo rovesciamento ontologico con cui non si imitava semplicemente un potere ma se ne fondava un altro che nel suo essere effimero non poteva che incitare a liberarsi “insieme”. Quando poi la liberazione si sedimentiva in “clan” l’interregno terminava, catturato da un sovrano, creato o voluto da alcuni, che in un modo o nell’altro sarebbe stato combattutto e punito per essere riprodotto. Proverò a raccontare meglio questa partecipazione dell’interregno nel regno e viceversa nei prossimi post.
** La parola cholo significa di sangue misto, indigeno e qualcos’altro. Poteva essere usata con un tono offensivo ma faceva parte del gergo comune con cui abitualmente ci si riferiva a persone che non potevano essere identificate chiaramente per un’appartenenza etnica ma avevano una discendenza indigena.
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furiarossa · 7 years ago
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Cover temporanea (per fortuna, perché è proprio brutta) per "Dark Boy", il primo libro Teen Fiction che abbiamo mai iniziato a scrivere XD
Lei, Summer, è giovane, carina, disinibita. Lui, Mark, è oscuro come una notte senza luna, silenzioso, irraggiungibile. Non hanno nulla in comune... perché allora il destino li mette sulla stessa strada?  E soprattutto, qual'è il segreto del ragazzo? Sullo sfondo di un assolato Texas degli anni 80, relazioni proibite, oscuri passati, e misteriosi apparenti salti temporali sconvolgono la vita di Summer. E al centro di tutto c'è forse quel ragazzo?
Questo romanzo Teen Fiction nasconde un segreto metaletterario. Ma solo seguendolo scoprirete quale ;)
Note importanti:  Il genere "Teen" è probabilmente il più gettonato su Wattpad, ma noi  non abbiamo mai scritto niente del genere, quindi è la prima volta che  ci buttiamo su questo classico del sito, piegando le nostre avventure  alle sue regole! Tuttavia piegarsi non significa spezzarsi e, credeteci, nonostante l'inizio rassicurantemente (o no?) classico, accadranno COSE.
Volete sapere cosa succederà dopo? Incoraggiateci con una stellina e ricordatevi che i commenti sono sempre ben accetti!
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