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Il fattore risonanza funziona sempre. Ritanna Armeni e la sua Rosa.
Il fattore risonanza funziona sempre. Ritanna Armeni e la sua Rosa.
Una donna che parla di donne. Ritanna Armeni ti trasporta in terra sacra: attraverso vite di donne, ci ricorda dell’importanza della lotta, dello stare insieme per un obiettivo, di contribuire a comporre sentieri che sono strade di conquista civile. La prima immagine che mette terreno fertile per la creazione della storia narrata nel suo ultimo romanzo “Per strada è la felicità“, è quella…
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Cremona, incontro con Massimo Recalcati e Isabella Guanzini al Cinema Filo
Cremona, incontro con Massimo Recalcati e Isabella Guanzini al Cinema Filo. Una nuova iniziativa di promozione della lettura. Organizzato dal Comune di Cremona, nell’ambito del Patto per la Lettura, con la collaborazione del Cinema Filo e della casa editrice Ponte alle Grazie, appuntamento mercoledì 21 settembre, alle ore 21,00, al Cinema Filo (piazza Filodrammatici, 1), con Massimo Recalcati che presenterà il libro Filosofia della gioia di Isabella Guanzini, presente l'autrice. L’incontro sarà curato da Cristina Palomba, editor di Ponte alle Grazie. Due intellettuali tra i più noti in Italia svilupperanno un dialogo fra psicoanalisi e teologia, per prendersi cura delle malinconie del presente. L’ingresso è libero, ma è gradita la prenotazione. Per informazioni e prenotazioni inviare un mail all’indirizzo [email protected]. Massimo Recalcati È membro della Società Milanese di Psicoanalisi – SMP, fondatore di “Jonas – Centro di clinica psicoanalitica per i nuovi sintomi” e direttore scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia IRPA di Milano. Insegna all’Università di Verona e allo IULM di Milano. Dal 2003 è direttore e docente del “Corso di specializzazione sulla clinica dei nuovi sintomi” preso la sede Jonas Onlus di Milano. Attualmente, è supervisore al Centro Gruber di Bologna per casi gravi di DCA. Collabora con le pagine culturali de La Repubblica e La Stampa. Dal 2014 dirige per Feltrinelli la Collana Eredi. Dal 2020 cura, insieme a Maurizio Balsamo, la direzione della rivista Frontiere della psicoanalisi, edita da Il Mulino. Le sue numerose pubblicazioni sono tradotte in diverse lingue. Isabella Guanzini Ha conseguito il dottorato in Teologia fondamentale all'Università di Vienna e il dottorato in Studi Umanistici all'Università Cattolica di Milano. È professore ordinario di Teologia fondamentale all'Università di Linz (Austria) e membro del Forschungszentrum Religion and Transformation in Contemporary Society dell'Università di Vienna. Con la casa editrice Ponte alle Grazie ha il libro Tenerezza - La rivoluzione di un potere gentile (2017). Patto per la lettura È un accordo proposto dal “Centro per il libro e la lettura” (Cepell), articolazione del Ministero della Cultura, già stipulato in diverse città italiane. Anche a Cremona il Patto prende la forma del protocollo di intesa, sottoscritto da Enti e altri soggetti pubblici e privati appartenenti alla filiera del libro e della lettura, con lo scopo di attuare e promuovere azioni e progetti di promozione del libro e aumentare i lettori. Il presupposto sta nel riconoscere il diritto di tutti alla lettura, come strumento indispensabile per esercitare una cittadinanza piena e responsabile, come mezzo di conoscenza, di accesso all’informazione e come elemento di coesione e inclusione sociale, contro la povertà educativa. Il Patto ha una durata sperimentale di tre anni ed è aperto all’adesione di tutti i soggetti interessati che possono sottoscriverlo attraverso l’apposito form online. Sono già trentotto che hanno aderito (per informazioni: [email protected]). Read the full article
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Anncleire al SalTo 2021: riprenderci i nostri spazi
Ah quanto tempo è passato dall’ultima volta che ho aperto l’editor di questo blog per pubblicare un post? Molto, in termini di giorni, poco in termini di percezione temporale, perché non sono ancora riuscita a riappropriarmi di questi spazi sfalsati, di questi istanti di paure e compromessi. Stiamo cambiando, stiamo andando avanti, o stiamo tornando indietro, a quel tempo che non ci appartiene più e non sappiamo come fare, non siamo più gli stessi. Me ne rendo sempre più conto man a mano che inizio di nuovo a fare gesti che erano banali, scontati e quotidiani due anni fa. È difficile ancora di più perché sto ancora volando sopra una fase di assestamento dopo un cambiamento importante della mia vita privata che ha assorbito tutte le mie energie. Ci sono voluti mesi, perché effettivamente è iniziato tutto prima dell’estate, ma si è concretizzato il tutto lo scorso 20 settembre. Dopo cinque anni, ho cambiato lavoro e non so ancora bene dove mi porterà. Ne sono uscita più consapevole, meno ansiosa, meno spaventata del futuro, fiduciosa che non è stato facile, che è stato penoso, che l’ansia mi continua a divorare, che sono ancora in prova, ma che ok ne sono uscita. Tiro una riga e vado avanti e posso pensare di trovare un equilibrio e una stabilità emotiva e logistica che è una delle cose che più mi inquietava del mio precedente lavoro, sapere che da un momento ad un altro mi sarei potuta ritrovare senza niente in mano.
Ma sono qui in realtà per parlare di tutt’altro. Tornare alla normalità è uno dei miei desideri più forti, assestarmi, non vivere più con la paura di andare in giro e finire vittima di chissà cosa.
È per questo che quando l’organizzazione del Salone del Libro ha offerto l’occasione di ascoltare Margaret Atwood dialogare con Loredana Lipperini nell’ambito del Salone Off non me la sono lasciata scappare. Il 3 ottobre, nonostante i tentennamenti sono andata in quel del Lingotto a fare una fila che non finiva più con un vento glaciale e la consapevolezza di non essere sola. Ho avuto la possibilità di sedermi in un posto strategico e nonostante tutto mi sono goduta un’ora di magia. Margaret Atwood è una donna talentuosa e piena di ironia, capace di incantare con i suoi racconti e aneddoti mentre il pubblico è lì a fissare la sua personalità prorompente. Sentirla raccontare come è nata la sua passione per la scrittura è stato indescrivibile. Ha raccontato dei suoi primi tentativi di pubblicare una raccolta di poesia composta di soli 17 fogli, stampata in una tipografia con una macchina da stampa vecchio stile con le lettere da posizionare minuziosamente e una imprevista carenza di “a” e una copertina disegnata da lei per risparmiare quanto più possibile. Ha descritto le sue incursioni nel mondo della letteratura per bambini dovuti ad una richiesta della casa editrice che la pubblicava per entrare in quel mondo che in Canada non aveva abbastanza rappresentanti. E ci ha fatto il dono inestimabile di sentirla leggere una poesia estratta dalla sua ultima raccolta “Moltissimo” pubblicata in Italia da Ponte alle Grazie. E poi naturalmente si è parlato del mito di Persefone ma soprattutto dell’ispirazione per “Il canto di Penelope” la storia della donna dietro Ulisse, ma soprattutto di quelle 12 schiave massacrate e dimenticate senza nessuna possibilità di salvezza. E infine ha espresso la sua visione della scrittura, della possibilità che dia speranza, che offra prospettive nuove in un mondo in cui siamo noi a dover fare la differenza. Avrei continuato ad ascoltarla parlare per ore, in una luce soffusa e un auditorium rapito. Un’occasione rarissima che non so quando mi ricapiterà.
(Margaret Atwood che dialoga con Loredana Lipperini)
Ma ha significato anche tornare al Salone del Libro che si è svolto lo scorso weekend dal 14 al 18 ottobre. Cinque giorni di eventi e fiera, in uno spazio espositivo che sembrava non finire più e riempito di gente. Il Salone del Libro di Torino è uno di quegli eventi che hanno sempre fatto la differenza da quando sono nella città sabauda. È uno dei momenti che aspetto con ansia perché riunisce in un unico spazio tutte le mie realtà preferite e mi permette di fare una delle cose che più mi da gioia: stare in mezzo ai libri. Io sono andata di sabato, il 16, per motivi organizzativi e devo dire che non mi aspettavo tutta questa affluenza. Mi sono ritrovata a girare per gli stand con la mia fida compagna di avventure Lorena (del blog Petrichor) e Amaranth del blog La Bella e il Cavaliere (mio punto di riferimento sempre). L’impatto è stato devastante, immersa inevitabilmente nella folla, ho avuto uno shock che non mi aspettavo. Non sono più abituata. D’altro lato però è stato il mio primo vero ritorno alla normalità: nonostante fossi stata al cinema (sono andata a guardare Dune strepitoso) e appunto all’evento della Atwood e a camminare nel centro affollato del sabato pomeriggio, questo è il primo evento di una portata molto più grande e l’ho sentito tutto. È stato bello però ritrovare vecchi amici e riabbracciare persone che eri abituata a vedere quasi ogni anno. La pandemia ci ha cambiato, ma sono contenta di sapere che in fondo siamo sempre noi. Siamo sempre ancorati alle nostre emozioni più profonde.
(io all’entrata del Salone, foto di Lorena)
L’evento del Salone a cui tenevo di più però era la chiacchierata di Stefania Auci a proposito de “L’inverno dei leoni” la sua ultima pubblicazione per la Nord. Mi sono svegliata prestissimo la mattina per prenotare un posto per l’evento con il terrore di non riuscirci e il sito impallato come non mai, ma alla fine ce l’ho fatta. In una posizione strategica anche in questo caso (sono stata fortunata con le file quest’anno) mi sono seduta ad ascoltare il suo commento preciso e accurato della sua scrittura, delle sue storie, dei suoi personaggi. Con la sua parlata tranquilla e regolare, l’inconfondibile accento e l’entusiasmo di chi ha lasciato andare nel mondo la sua creatura di carta, Stefania Auci ha regalato di sé un’immagine preziosa che porterò con me a lungo. Un filo commossa quando ha spiegato cosa significa per lei scrivere, che comunque baratterebbe in un secondo con la lettura, se potesse fare una cosa sola per il resto della sua vita, ha delineato la storia di una famiglia tra ascesa e decadenza, tra scelte geniali e fughe dalle responsabilità che si disegnano con cura in descrizioni meravigliose e convinzioni ben precise. Da una famiglia di pescatori, passando per industriali di spicco nella società siciliana fino al mecenatismo, “I Leoni di Sicilia” sono sicuramente personaggi ingombranti che devono fare i conti con loro stessi e con i loro predecessori. Non è mancato un accenno a Favignana una delle isole centro della storia e che sembra un posto tutto da vivere con la spensieratezza di un tramonto estivo quando la luce cala, il mare brilla, e il cuore è pieno di malinconia. La Auci si sente un po’ come se avesse appena dato la maturità e fosse pronta a partire con l’università. Sicuramente qualcosa di nuovo bolle in pentola e io non vedo l’ora di metterci le mani sopra. Avrei voluto salutarla al firmacopie ma il poco tempo a disposizione e la fila già lunghissima appena usciti dall’evento mi hanno dissuasa. Sono certa che ci saranno altre occasioni.
(Stefania Auci dalla terza fila)
Non abbiamo fatto tantissimi giri per gli stand ma ci tenevo a citare due delle case editrici in cui mi sono fermata che hanno un posto speciale nel mio cuore. Innanzitutto, Safarà Editore che vi cito sempre ma che ha una selezione invidiabile di storie molto particolari che colpiscono sempre il punto e la gentilissima Cristina che ha sempre un occhio di riguardo per me e a cui sono molto affezionata. Grazie davvero per farmi sentire sempre a casa in mezzo ai vostri libri. E poi Abe Editore speciale anche lei per motivi molto diversi, la cura che mettono nel “prodotto” libro è eccezionale e riescono sempre a creare dei capolavori. Peccato per l’edizione speciale di “Grimorio” andata sold-out la mattina di sabato e che non sono riuscita a comprare perché ci tenevo un sacco, ma anche al loro stand sono stati super gentili. Menzione anche per lo stand dell’Ippocampo che quest’anno era davvero molto bello.
(il mio bottino del Salone, pochi ma buoni, L’azione me l’ha regalato Lorena)
Avrei voluto girare molto di più ma alla fine con le ragazze siamo andate ad ascoltare l’evento organizzato dalla Gainsworth Publishing “Conosci davvero il fantasy?” (che abbiamo continuato a ripetere a tutti quelli che passavano con dei ragazzi incontrati in fila) in cui alcuni autori si sono interrogati su cosa significa il fantasy passando per trama, ambientazioni e personaggi, a moderare il panel Luca Tarenzi di cui sono riuscita ad accaparrarmi il secondo volume della sua serie “L’ora dei dannati” allo stand della Giunti. È bello vedere che certe cose non cambiano mai.
Andare al Salone del Libro è da quando sono a Torino l’highlight dell’anno e sono contenta di essere riuscita ad andarci quest’anno dopo più di un anno di stop e chiusure. È difficile ma piano piano stiamo riuscendo a tornare alla normalità di una vita che non si nutre solo di paura. Sono contentissima poi di essere riuscita a condividere tutto un weekend con una delle mie amiche più care, che non vedevo da più di due anni e che nonostante tutto siamo riuscite a tirare i fili di passioni condivise e un affetto che supera sempre ogni confine.
E ora speriamo di rivederci a maggio, ancora una volta, alla nuova edizione del Salone del Libro.
#salone del libro#Torino#SALTO2021#discussione#Margaret Atwood#Stefania Auci#friends#Safarà Editore#Abe Editore#presentazione
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27 Agosto - "L'ULTIMO TRAGHETTO" di Domingo Villar
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Titolo: L’ultimo traghetto Autore: Domingo Villar Genere: Thriller Casa Editrice: Ponte alle Grazie Lunghezza: 640 pagine Prezzo: Ebook €10,99 – Cartaceo €18,50 Data di pubblicazione: 27 Agosto 2020
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SINOSSI
Finalmente in Italia il libro che ha dominato le classifiche spagnole.
«Un giallo eccellente, concepito, strutturato e scritto col marchio genuino dell’autore, nella stirpe delle…
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“Questa caccia al traditore è una delle cose moralmente più disgustose che ci lascia in eredità la guerra”: George Orwell difende Wodehouse e Pound (e scrive a Henry Miller)
Orwell è il santone da citare in ogni occasione, su in Albione. Però dovrebbe entrare nel gergo di chi pensa liberamente anche qui da noi. Per dire: in una lettera del 23 febbraio 1946 al suo agente letterario Leonard Moore Orwell usa calde parole per il pubblico italiano.
“Ti spedisco il contratto de La fattoria degli animali per l’Italia, firmato per bene. Se nel prosieguo dovesse saltar fuori qualche difficoltà per il cambio lira-sterlina, cioè un avanzo netto, non far pressione in Italia. È importante che il libro sia tradotto in questa lingua, e nel caso potessero pagarci solo in lire potrei trovare il modo di spendere il denaro in Italia. E dovesse essere questo il caso, ti rimborserei la commissione. Per la traduzione in polacco invece non voglio compensi (…). Per la tua opzione dell’editore USA non so se possiamo contare sul pubblico di laggiù, non credo che potrebbero afferrare. Ricorda che quando mandai il manoscritto della Fattoria a Dial Press nel 1944 me lo spedirono indietro dicendo brevemente che ‘è impossibile vendere storie di animali negli Stati Uniti”.
E ditemi se in definitiva non è un elogio per il nostro popolo, che di democrazia ne aveva vista poca, da parte del più libero e democratico degli scrittori inglesi. In definitiva, non sono solo le istituzioni a rendere saggio e civile un paese: l’Italia se esce a testa alta.
C’è altro. Per capire la libertà di uno scrittore bisogna vedere come scrive di pornografia. Ancora una volta Orwell non si smentisce, ecco un’altra lettera sinora inedita in italiano. È del 26-27 agosto 1936.
*
Caro Miller,
Molte grazie per la tua lettera. Mi ha fatto sentire piuttosto male dopo tutto, perché avevo voglia di scriverti le scorse settimane e non ce l’ho fatta. Bene, Primavera nera è arrivato sano e salvo e in parte me lo sono goduto, specialmente i capitoli di apertura, però penso (e lo dirò quando ti recensisco) che un libro come Tropico del cancro che tratta di eventi accaduti o che potrebbero accadere nel nostro mondo reale tridimensionale – è molto più nella tua linea. Mi piacque Tropico del cancro specialmente per tre motivi. Uno: la qualità ritmica particolare del tuo inglese. Due: come hai trattato fatti ben noti a ciascuno ma mai nominati e messi a stampa (esempio: quando il tipo sta per far l’amore con la donna ma sta morendo perché gli scappa da pisciare). Tre: come ti incammini in ogni tua fantasticheria dove le leggi della realtà quotidiana scivolano pian piano sul fondale. (…) Ora però nel tuo ultimo libro ti sei allontanato da questo mondo carnale e sei entrato in una sorta di universo di Mickey Mouse dove le cose e le persone non devono obbedire a regole di spazio e tempo.��Oso dire (forse sbaglio e non vedo il tuo schizzo iniziale) che ho una sorta di attitudine a starmene rasoterra e mi sento scomodo quando mi portano via dal mondo reale dove l’erba è verde, le pietre belle dure ecc. Lo so, ora ti senti dire che hai scritto una cosa diversa dalla prima e vieni ripreso per non esserti ripetuto. Ma non voglio che tu pensassi questo, Primavera nera mi ha divertito, la qualità della prosa è molto elegante e soprattutto il punto sullo sterco e gli angeli. (…) Devo andare a mungere la capretta qui fuori ma continuerò questa lettera appena rientro. (…) Il mio ultimo libro, Fiorirà l’aspidistra, sono certo che non sarà pubblicato in America perché è qualcosa di domestico, un soggetto tutto inglese e il pubblico americano ormai è restio verso quel che chiama ‘delicatezza britannica’. Ho notato, poi, lavorando in libreria, che è davvero molto difficile vendere libri americani in Inghilterra. Le due lingue si stanno spaccando come separate da una faglia.
E sì, sono d’accordo sulla povertà inglese. Orribile. Recentemente ho viaggiato nelle peggiori zone carbonifere in Lancashire e Yorkshire – ci sto facendo un libro – e mi fa pena vedere gente che è finita a terra e ha perso la sua roba negli ultimi dieci anni.
Scrivi se o quando ti senti portato a farlo,
Tuo
Eric A. Blair
*
Ora si può fare il salto nel cerchio infuocato. Difendere un ‘traditore della patria’. Bene. Orwell lo fece, naturalmente il saggio In difesa di Wodehouse non è mai stato tradotto in italiano e, no wonder, messo sotto il tappeto anche dalla Penguin.
Il saggio è del 1946 e non compare nella classica raccolta di lettere, saggi e pezzi giornalistici In front of your nose 1945-1950. Lo leggete qui.
Perché questo pezzo sarebbe un problema? Ma perché lo scrittore Pelham Wodehouse (1881-1975), autore di romanzi da camera con protagonista Jeeves, aveva avuto una defaillance in favore del terzo-impero-crucco nel 1941, risiedeva nella Francia occupata e sparlava della madrepatria. Il fatto è che a Vichy erano stati posti i germi della censura che poi gli intellò comunisti avrebbero praticato con gioia a guerra finita.
Insomma, Orwell la pensava così: “Mi dicono che gli editori francesi siano comandati a bacchetta da Aragon e altri quando non vanno pubblicati i libri non-desiderati (per dirne uno, Per chi suona la campana). I comunisti non hanno giurisdizione in materia, ma fosse per loro metterebbero a fuoco la sede di una casa editrice in connivenza con la polizia. Non so per quanto andrà avanti. In Inghilterra senza dubbio sono cresciuti i sentimenti contro il Partito Comunista. In Francia, un anno fa, ho avuto l’impressione che manco un diavolo si preoccupa per la libertà della stampa. Mi pare che l’occupazione abbia schiantato tutti, anche i trotskisti: o magari la decadenza intellettuale era cominciata già prima della guerra”. (Lettera a Philip Rahv del 9 aprile 1946)
L’argomentazione di Orwell in difesa di Wodehouse è tanto semplice quanto corrosiva e onesta: primo, Wodehouse in confronto ad altri colpevoli della destra inglese è poca cosa. Secondo, lo scrittore, sia questi Wodehouse o Pound, non lo si può mettere spalle al muro perché sarebbe una sconfitta immediata per la civiltà. Terzo e ultimo. Se il Regno Unito tratta male Wodehouse finirà che questi si prende la cittadinanza americana – cosa che successe nel 1955. Ma Orwell non fece in tempo a soffrire questa delusione.
Andrea Bianchi
***
In difesa di P. Wodehouse
In Qualcosa di nuovo (1915) Wodehouse scoprì le possibilità comiche insite nell’aristocrazia inglese, con tutta la sua trafila di baroni ridicoli e, salvo in pochissimi casi, pure disprezzabili, insieme a conti e chi più ne ha più ne metta. I suoi libri avevano l’effetto, abbastanza curioso, di rendere Wodehouse, se visto fuori dall’Inghilterra, come un penetrante satirista della società inglese. Di qui la considerazione di Flannery per colpevolizzarlo: si sarebbe “fatto gioco dell’uomo inglese”, cosa che probabilmente è avvenuta tra tedeschi e forse anche tra americani. Qualche tempo dopo le registrazioni di Wodehouse da Berlino (“che vincano o no gli Inglesi”) mi trovavo a discutere il fatto con un giovane nazionalista indiano il quale difendeva caldamente Wodehouse. Dava per scontato che Wodehouse avesse “superato” il nemico e dal suo punto di vista indiano la cosa gli pareva corretta. Ma quel che mi interessava fu scoprire che per lui Wodehouse era scrittore anti-britannico e aveva fatto un lavoro utile mostrando nei suoi colori esatti l’aristocrazia britannica. Errore che un vero inglese non commetterebbe, ed esempio curioso del modo in cui i libri, specialmente quelli umoristici, perdono le loro nuance più fini quando raggiungono l’audience straniera. Perché è abbastanza chiaro che Wodehouse non è anti-britannico, e nemmeno contro i ceti alti. Al contrario, una snobberia innocua, vecchia maniera è percepibile nel suo lavoro. Proprio come un cattolico intelligente è in grado di vedere che le blasfemie di Baudelaire o di James Joyce non sono veramente dannose per la fede cattolica, così un lettore inglese riesce a notare che quando crea personaggi come Hildebrand Spencer Poyns de Burgh John Hanneyside Coombe-Crombie, 12esimo Conte di Dreever, Wodehouse non sta realmente attaccando la gerarchia sociale. Infatti, nessuno che genuinamente disprezzasse i titoli scriverebbe così tanto su di loro. L’attitudine di Wodehouse verso il Sistema sociale inglese è la stessa che mantiene verso il codice morale della public-school – tutto facezie morbide per coprire un’accettazione non ragionata delle medesime. Il Conte di Emsworth è divertente perché un Conte dovrebbe comportarsi con più dignità, e la dipendenza senza freni di Bertie Wooster dal maggiordomo Jeeves è divertente in parte perché il maggiordomo non dovrebbe essere superiore al suo signore. Un lettore americano può far confusione su questi punti, e altri simili, e prendere l’insieme come una caricatura perché è già incline a essere anglofobo e questo insieme corrisponde alle sue idee preconcette di aristocrazia decadente. Bertie Wooster, con il suo battibecco, col suo bastone da passeggio, è l’inglese tipico, da pedana. Ma, come può avvertire qualsiasi lettore inglese, Wodehouse lo intende come figura simpatetica, e il reale peccato di Wodehouse è stato presentare i ceti alti come composti di persone carine, quando in realtà così non è. Attraverso tutti i suoi libri alcuni problemi sono costantemente evitati. Quasi senza eccezione i suoi giovani danarosi sono senza pretese, di mente aperta, mai avari: il loro tono è quello di Psmith, il quale si ritiene superiore alla sua stessa categoria ma poi crea un ponte verso gli altri chiamando tutti Comrade, compagno, camerata.
Ma c’è un altro punto circa Bertie Wooster: è fuori dall’epoca. Concepito nel 1917, o in quei dintorni, Bertie davvero appartiene a un’epoca ancora precedente. Uno scrittore umoristico non è obbligato a mantenersi aggiornato e, una volta trovata una vena buona (o due), Wodehouse continuò a sfruttarle con regolarità – e questo non era mica facile giacché non mise piede in Inghilterra nei sedici anni precedenti al suo internamento a opera dei nazisti [1924-1940]. La sua immagine della società inglese si era formata prima del 1914 ed era naïve, tradizionale, in fondo un ritratto pieno d’ammirazione. I suoi libri non miravano, si capisce, a un’audience intellettuale ma a quell’insieme di persone istruite in modi consueti. Nella sua intervista alla radio con Flannery, Wodehouse si domandava se “il genere di persone e d’Inghilterra di cui scrivo vivrà dopo questa Guerra”, senza capire che costoro erano già dei fantasmi. Dice Flannery pensando agli anni Venti che “Wodehouse viveva negli anni Quaranta come fosse negli anni di cui scriveva”. (…)
Nelle circostanze disperate del tempo era scusabile essere arrabbiati per quel che Wodehouse faceva, ma continuare a denunciarlo tre o quattro anni dopo – e anche più, per lasciare impresso che aveva agito consapevolmente da traditore – non è scusabile. Poche cose in questa guerra sono state più moralmente disgustose dell’attuale caccia a traditori e imitatori di Quisling. Nel migliore dei casi si tratta di punizione di colpevoli a opera di colpevoli. In Francia ogni genere di topi zoccola – ufficiali di polizia, giornalisti al centesimo, donne che andavano coi soldati tedeschi – sono inseguiti senza eccezione, mentre i veri ratti di fogna scappano via. In Inghilterra le tirate più severe contro i vari Quisling sono pronunciate dai conservatori (quelli dell’appeasement del 1938) e dai comunisti (avvocati dei conservatori nel 1940). Ho tentato di mostrare come il pessimo Wodehouse – solo perché il successo e l’espatrio gli consentirono di rimanere mentalmente nell’età Edoardiana – sia diventato il corpus vile all’interno di un esperimento di propaganda, e vorrei suggerire che ora è tempo di considerare l’incidente come chiuso. Se Ezra Pound è catturato e fucilato dalle autorità americane, l’effetto sarà di stabilire la sua reputazione di poeta nei secoli a venire; e anche nel caso di Wodehouse, se lo induciamo a stabilirsi negli Stati Uniti rinunciando alla cittadinanza britannica, finiremo per vergognarcene orribilmente. Nel frattempo, se realmente vogliamo punire chi ha indebolito il morale della nazione nei momenti critici, ci sono altri colpevoli più vicini a casa nostra e che davvero si meritano di essere rintracciati.
George Orwell
* la traduzione è di Andrea Bianchi
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di Alceo Lucidi
MONTEPRANDONE – Le tre serate della seconda parte del “Piceno d’autore”, “Universo editoriale” – svoltesi in una location d’eccezione, la Villa Nicolai, di Centobuchi di Monteprandone, hanno suscitato il più vivo interesse tra gli intervenuti (addetti ai lavoro e non). Nella prima serata, apertasi domenica 16, è intervenuta Maria Grazia Mazzitelli, la direttrice di una storica casa editrice italiana, la Salani, nota ai più per la diffusione dei libri su Harry Potter (con la sua scrittrice J.K. Rowling scoperta quando era ancora semisconosciuta al grande pubblico). La Mazzittelli ha parlato del difficile mestiere dell’editore, dell’impegno costante ed assorbente richiesto a chi si occupa di libri, per vagliarli, capirne l’adattabilità al mercato, curarne il lungo processo di gestazione che porta all’edizione (dalla lettura, alla scelta, all’impaginazione ed inquadramento tipografico, alla distribuzione e promozione).
Si è intrattenuta sulla storia della Salani, nata nel 1862 per volontà del suo fondatore Adriano Salani, tipografo fiorentino, parlando degli esordi, con i romanzi di genere (rosa), l’espansione nel campo della letteratura per l’infanzia, l’irrompere della terribile crisi degli Settanta con la vendita di alcuni magazzini di proprietà per via di un investimento sbagliato, della ripresa e della riconquista di quote di mercato grazie all’ingresso come proprietario di Mario Spagnol, che ebbe la fertile intuizione dei libri tascabili per bambini (una novità assoluta). Oggi la Salani è un importante realtà editoriale assieme ad altri prestigiosi marchi (Corbaccio, Longanesi, Nord, Ponte alle Grazie) saldamente in mano al gruppo Mauri- Spagnol.
Si è avuto poi l’intervento di uno degli scrittori di punta dell’editrice di Firenze, Bruno Tognolini, con i suoi racconti, fiabe, filastrocche di successo. L’autore, un personaggio arguto e brillante, di origini sarde, ha dialogato con i ragazzi di alcune scuole di San Benedettodel Tronto sulla riedizione del suo fortunato volume Rime di rabbia, che pone alla base il rapporto tra l’uomo e gli animali. Una relazione – secondo Tognolini – ancestrale, istintiva, insita nell’ordine cosmico. A fine serata si è avuta la premiazione da parte dell’Associazione “I Luoghi della Scrittura” nelle persone del suo presidente (Mimmo Minuto), vicepresidente (Filippo Massacci) e segretario (Silvio Venieri) con la consegna del riconoscimento alla migliore casa editrice italiana nelle mani della signora Mazzitelli.
Lunedì 17 luglio, invece, è stata ospite del Festival la giovane di belle speranze della letteratura italiana, Elisa Luvarà. Considerata una promessa, il suo volume di esordio, Un albero al contrario, è uscito con Rizzoli, dietro l’incoraggiamento dell’editor Michele Rossi (il primo, tra l’altro, ad avere ricevuto il riconoscimento di Piceno d’Autore nel 2008). La Luvarà parla, in chiave autobiografica, e attraverso il personaggio di Ginevra, della propria esperienza in una casa famiglia e come ragazza in affido. Nella rielaborazione, lenta e faticosa, del suo disagio matura il bisogno di scrivere, registrando le proprie emozioni, quasi come una tensione terapeutica e un’incondizionata, indifesa apertura alla comunicazione con gli altri. Nel romanzo – come indicano la prof.ssa Sonia Loffreda e la prof.ssa Adelia Micozzi, coordinatrici della serata – le parole d’ordine sono candore e semplicità riversate prontamente nella scrittura.
Il mondo, seppur duro, di un’infanzia difficile visto con gli occhi divertiti, stupiti, dolci dell’adolescente che per ritrovare la relazione con i genitori naturali – per Elisa è stato così – deve prima trovare (o ritrovare se stesso), costruendosi una precisa identità, lasciando “decantare” – questo il termine tecnico usato dai terapeuti – il trauma del distacco in modo da superarlo. Alla fine Elisa Luvarà, dopo la premiazione come giovane promessa della letteratura italiana, si è concessa al pubblico autografando i libri, letteralmente andati a ruba. Lo ha fatto con il sorriso sempre sulle labbra e con lo slancio immacolato dei suoi ventinove anni.
Dulcis in fundo la serata di ieri, 18 luglio. Ad essere premiata l’editor Alida Daniele della Giunti, il secondo gruppo editoriale del Paese dopo il colosso RCS. Nata nel 1841 per iniziativa della famiglia Paggi, partecipò attivamente alle vicende risorgimentali e si specializzò sin da subito in libri scolastici e per l’infanzia (annoverò tra le sue fila Collodi, alias Carlo Lorenzini, che nel 1883 pubblicò proprio con la Giunti Le avventure di Pinocchio). Ceduta a Roberto Bemporad negli anni del Fascismo, la Giunti dovette fare fronte a grandi difficoltà per le restrizioni poste dal regime sui libri destinati alle scuole.
Cambiò in seguito ragione sociale (si chiamò Marzocco, dallo stemma della città fiorentina). Renato Giunti subentrò nel Dopoguerra, divenendone proprietario ed allargandone le attività alla manualistica, l’arte, l’architettura, la saggistica. Collaborarono – ricorda ancora la Daniele – nel tempo Gioberti, Tommaseo, D’Annunzio, Carducci. Oggi a quelle prestigiose collaborazioni si aggiunge il gruppo degli storici autori della Bompiani, acquisita lo scorso anno dal gruppo Giunti: Moravia, Steinbeck, fino alle più recenti scoperte. Tra gli ultimi arrivi anche Silvia Ballestra, sambenedettese di nascita ma presto trapianta a Milano dove vive e lavora. Soprattutto grande traduttrice dal francese – sua lingua eletta – e dall’inglese (memorabile un suo riadattamento della Manon Lescaut per la collana “Scrittori tradotti da scrittori”, ormai chiusa ahimé, della Einaudi).
Vicini alla terra. Storie di animali e di uomini che non li dimenticano quando tutto trema è lo scritto consacrato alle terre del cratere del terremoto, le sue terre, amate e piante. Il progetto di scrittura nasce subito dopo le terribili scosse dell’ottobre scorso e grazie alla frequentazione dei volontari – circa un migliaio – della Lega degli Animali che si è presa cura degli amici a quattro zampe durante i giorni successivi al disastro (si parla non solo delle bestie domestiche ma di quelle da allevamento nelle stalle distrutte e non ancora riscostruite).
Il dramma degli uomini, le storie delle loro solitudini, abbandoni, sconforti sono diventate di rimando le stesse degli animali a loro vicini in un intreccio di legami emotivi, affettivi, psicologici che il sisma non è riuscito a spezzare. Emblematiche le parole della scrittrice a chiusura: «Sono storie piccole, ma danno conforto. Se c’è qualcuno che si occupa degli ultimi, mi dico, c’è speranza per tutti, per tutto».
A questo proposito le iniziative dell’associazione “I luoghi della scrittura” non vanno in ferie. Tutt’altro. Per i mesi di agosto e settembre – a detta di Cinzia Carboni altro socio-fondatore dell’ente culturale – la consueta edizione del Festival per bimbi “Piceno d’autore Junior” (da quest’anno “Favolà”) avrà luogo tra Amatrice ed Arquata per alleviare la fatica ed il disagio che colpisce, anche se in forme più subdole e sottili, i più piccoli. Incentrato sulla lettura di una favola della letteratura di ogni tempo – in questo caso Pinocchio – il programma si compone di attività ludiche, letture, laboratori didattici.
Infine, due parole sull’infaticabile motore primo del “Piceno d’autore”, “l’uomo del futuro”, l’infaticabile propiziatore di occasioni culturali: Mimmo Minuto. Libraio, esperto di editoria, giornalista, Mimmo ha guidato con immutata passione e consumata autorevolezza, rassegne letterarie, presentazioni di libri, incontri con autori e con intellettuali di sicuro riconoscimento nazionale ed internazionale. Da quel lontano 1981 quanti volti si sono succeduti! I primi – tanto per ricordare e dare un’idea – furono Luca Goldoni, Andrea Barbato, Umberto Eco. Oggi Mimmo Minuto lancia un nuovo “sassolino”, a mo’ di sfida, come è solito fare, guardando avanti e noi vorremmo sempre esserci per raccoglierlo.
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Cremona, incontro con Massimo Recalcati e Isabella Guanzini al Cinema Filo
Cremona, incontro con Massimo Recalcati e Isabella Guanzini al Cinema Filo. Una nuova iniziativa di promozione della lettura. Organizzato dal Comune di Cremona, nell’ambito del Patto per la Lettura, con la collaborazione del Cinema Filo e della casa editrice Ponte alle Grazie, appuntamento mercoledì 21 settembre, alle ore 21,00, al Cinema Filo (piazza Filodrammatici, 1), con Massimo Recalcati che presenterà il libro Filosofia della gioia di Isabella Guanzini, presente l'autrice. L’incontro sarà curato da Cristina Palomba, editor di Ponte alle Grazie. Due intellettuali tra i più noti in Italia svilupperanno un dialogo fra psicoanalisi e teologia, per prendersi cura delle malinconie del presente. L’ingresso è libero, ma è gradita la prenotazione. Per informazioni e prenotazioni inviare un mail all’indirizzo [email protected]. Massimo Recalcati È membro della Società Milanese di Psicoanalisi – SMP, fondatore di “Jonas – Centro di clinica psicoanalitica per i nuovi sintomi” e direttore scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia IRPA di Milano. Insegna all’Università di Verona e allo IULM di Milano. Dal 2003 è direttore e docente del “Corso di specializzazione sulla clinica dei nuovi sintomi” preso la sede Jonas Onlus di Milano. Attualmente, è supervisore al Centro Gruber di Bologna per casi gravi di DCA. Collabora con le pagine culturali de La Repubblica e La Stampa. Dal 2014 dirige per Feltrinelli la Collana Eredi. Dal 2020 cura, insieme a Maurizio Balsamo, la direzione della rivista Frontiere della psicoanalisi, edita da Il Mulino. Le sue numerose pubblicazioni sono tradotte in diverse lingue. Isabella Guanzini Ha conseguito il dottorato in Teologia fondamentale all'Università di Vienna e il dottorato in Studi Umanistici all'Università Cattolica di Milano. È professore ordinario di Teologia fondamentale all'Università di Linz (Austria) e membro del Forschungszentrum Religion and Transformation in Contemporary Society dell'Università di Vienna. Con la casa editrice Ponte alle Grazie ha il libro Tenerezza - La rivoluzione di un potere gentile (2017). Patto per la lettura È un accordo proposto dal “Centro per il libro e la lettura” (Cepell), articolazione del Ministero della Cultura, già stipulato in diverse città italiane. Anche a Cremona il Patto prende la forma del protocollo di intesa, sottoscritto da Enti e altri soggetti pubblici e privati appartenenti alla filiera del libro e della lettura, con lo scopo di attuare e promuovere azioni e progetti di promozione del libro e aumentare i lettori. Il presupposto sta nel riconoscere il diritto di tutti alla lettura, come strumento indispensabile per esercitare una cittadinanza piena e responsabile, come mezzo di conoscenza, di accesso all’informazione e come elemento di coesione e inclusione sociale, contro la povertà educativa. Il Patto ha una durata sperimentale di tre anni ed è aperto all’adesione di tutti i soggetti interessati che possono sottoscriverlo attraverso l’apposito form online. Sono già trentotto che hanno aderito (per informazioni: [email protected]). Read the full article
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I testamenti di Margaret Atwood
La verità può causare molti guai a chi non dovrebbe conoscerla.
“I testamenti” è il secondo volume della duologia iniziata con “Il racconto dell’Ancella” di Margaret Atwood e portato nelle nostre librerie da Ponte alle Grazie (quante gioie ci sta portando questa casa editrice). Era inevitabile per me prenderlo in mano, la curiosità mi stava divorando, soprattutto con la serie tv che mi fissa da lontano e che aspettavo di iniziare dopo la lettura. Molti si sono interrogati sulla necessità di un secondo volume e molti lo guardano con scetticismo, ma devo dire che tutto sommato a me è piaciuto, e molto.
«Il nostro tempo insieme sta per cominciare, mio lettore. Può darsi che vedrai queste pagine come un fragile scrigno da aprire con la massima cura. Può darsi che le strapperai o le brucerai: con le parole accade spesso». Hai fra le mani un’arma pericolosa, caricata con i segreti di tre donne di Gilead. Stanno rischiando la vita per te. Per tutti noi.
“Il racconto dell’Ancella” fa la sua comparsa nelle librerie nel 1985 e già allora è estremamente rivoluzionario, rompe gli schemi e getta una nuova luce in una storia che si ripete a cadenza regolare nel nostro mondo. Una qual sorta di tirannia che alza la testa e fagocita un’intera comunità mettendo a repentaglio la vita di chi quella comunità la vive e la fa crescere. Margaret Atwood riprende quella storia e cerca di espanderla, di costruire nuove vie di fuga, apre orizzonti inesplorati. È facile dubitare di un sequel quando una storia sembra ben costruita per rimanere un volume unico, ma soprattutto quando sembra cavalcare l’onda di un successo che si è spostato rapidamente su altri mezzi comunicativi. Non è un caso che la serie televisiva abbia avuto un successo strepitoso accaparrandosi 9 Emmy Awards e 2 Golden Globe. Ma “I testamenti” non è banalmente un sequel, è la sintesi di una storia che divelte ogni convinzione. Ambientata 15 anni dopo i fatti del primo volume, esplora le vite di tre donne, di età, condizioni e intenzioni diverse, e le riunisce in un intreccio che sembra banale ma rivela l’intenzione della Atwood di esplorare altri filoni, di esaminare i fatti con una lente di ingrandimento diversa. Le sfumature sono molteplici, l’esistenza un nuovo fronte su cui combattere.
«La Storia non si ripete, ma fa rima con sé stessa».
Da un lato abbiamo l’istinto di sopravvivenza, la convinzione di dover fare qualunque cosa, non solo per non soccombere alla forza bruta e cieca degli Occhi, ma anche per salvare quante più vite possibili. Che cosa siamo disposti a cedere per non lasciarci mangiare? Gli ideali, i nostri valori, sono più importanti del bene comune? L’utopia sta nel punto vuoto dell’intolleranza e della virtù incontrastata. È l’annosa questione il fine giustifica i mezzi, ma quanto siamo disposti a uccidere di noi stessi per ottenere il bene comune. Di fronte ad un fucile, tra lo scegliere tra uccidere o uccidersi cosa vince, cosa vale la pena fare? Sono domande insidiose, che si scontrano con la necessità di non lasciarla vinta a chi vuole la supremazia di un gruppo su un altro (che siano gli uomini sulle donne, come nel caso di Gilead, o un qualunque altro schieramento) e la necessità di sporcarsi le mani, di fare il doppio gioco o anche solo camminare sul filo del rasoio. Basta un passo falso e tutto crolla come un castello di sabbia.
In mezzo c’è chi scopre di essere un simbolo, l’unica possibilità di ottenere la vittoria, la scoperta di essere proprio malgrado una pedina troppo importante in una partita a scacchi tra forze più grandi e esigenze incompatibili. Il compito più importante è affidato ad un singolo che deve guardarsi dentro e trovare la forza per portarlo a compimento. Da un certo punto in poi non c’è più la possibilità di dubitare, bisogna agire, sulla base dell’istinto e delle poche conoscenze a disposizione. Tra la paura di sbagliare e la certezza di fare la cosa giusta, vince sempre la convinzione di sconfiggere il nemico. E poi infine, dall’altro capo c’è il sacrificio, la consapevolezza di avere un’unica cosa da fare, un unico compito che si svela limpido e concreto.
In mezzo la Atwood risponde alle domande su Gilead, fornendo nuovi dettagli e costruendo una nuova immagine di un mondo che sembra aver detto tutto. L’idea da cui prende le fila il romanzo è affascinante, ma il vero problema del libro è che manca di suspence, la verità è che le rivelazioni del plot sono abbastanza prevedibili, la trama in sé per sé non brilla per originalità, ciò che davvero rende importante il ruolo di questo libro sono gli spunti di riflessione che la Atwood semina tra arance cadute e tatuaggi, i conflitti interiori e le battaglie per la sopravvivenza delle tre protagoniste che si battono per la sopravvivenza.
Il particolare da non dimenticare? Una statua…
Gli intrecci inesplorati che descrivono il finale di una delle distopie più iconiche del nostro tempo, una serie di domande che rispondono a patemi interiori e scontri ideologici, la verità in mezzo alle menzogne del regime, la sconfitta e la vittoria, narrate dalla penna instancabile di Margaret Atwood.
Buona lettura guys!
#Margaret Atwood#I testamenti#Il racconto dell'ancella#review#dystopian#distopia#ponte alle grazie#very good#narrativa
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Matteo Rampin - Laura Fanna - Matteo Loporchio, La scelta del gatto. Lezioni feline sull'arte di vivere, Ponte Alle Grazie, 2018
Matteo Rampin – Laura Fanna – Matteo Loporchio, La scelta del gatto. Lezioni feline sull’arte di vivere, Ponte Alle Grazie, 2018
La scelta del gatto Lezioni feline sull’arte di vivere Matteo Rampin – Laura Fanna – Matteo Loporchio Saggistica Collana: Saggi Pagine: 128 vai alla scheda della casa editrice Casa editrice Ponte Alle Grazie
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“La mia è stata un’infanzia meravigliosa, in essa hanno posto radici gli angeli”: per gli 80 anni di Ferruccio Mazzariol
“La mia è stata un’infanzia piena di gioia, meravigliosa; in essa hanno posto radici i miei angeli, tutta la mia vita. Ringrazio Iddio”. Queste tra le prime parole con cui si apre Il paese dei gelsi di Ferruccio Mazzariol, uomo e già bambino fortunatissimo per la sua infanzia felice in un Veneto altrettanto tale, come recita il celebre titolo di un volume di scritti comissiani, dunque in un tempo e in un luogo nei quali poté subito accorgersi che “la vita aveva un destino eterno, non si sarebbe persa come un ciottolo nelle Grave”.
Non tanto di fortuna si trattò insomma, bensì d’eredità e fede – d’eredità della fede, e non è un caso che Charles Péguy e Georges Bernanos siano tra gli autori da lui più amati – dunque storia, e con essa la vita, che precede e procede e mai non cede, tramandata di padre in figlio come egli stesso si è premurato di fare con La mia Treviso, città che dice anch’essa, come la vita nella fede, appartenergli sin da quand’era soltanto un bimbo, ed “entrata a poco a poco nel cuore come avviene per gli innamoramenti che durano”.
Quello natale di Mazzariol è un paese di gelsi e vigne, dono del Signore e delle opere degli avi, i cui frutti a Dio sempre riconsegnarono in forma d’amore per Lui e per la terra che fu loro data in dono forse più che in pegno, e infatti “i pontepiavesi che muoiono portano il loro paese di gelsi e vigne al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo”, perché terra la cui economia popolare dei bozzoli e gli esordi industriali delle filande e dei setifici si fondava sui “cavalieri”, ovvero i bachi, portati via Bisanzio in Veneto e in Lombardia da alcuni missionari di ritorno dalla Cina, durante le Crociate, regalo dunque di due sante spedizioni (poiché niente è per caso), che sulle lucide foglie dei gelsi affiancarono l’uva in quelle “terre di vetusto impianto, colme di sassi cesellati dalle piene”, ronchiate nei secoli dalle stirpi di cimbre e celtiche che, dopo il lungo stato di grazia della Serenissima, ebbero la buona sorte di vivere sotto i vessilli degli Asburgo – cui l’autore trevigiano ha dedicato una terzo, leggiadro e accoratissimo libro, Le aquile bianche dell’Imperatore – e ne fecero un giardino incantato in cui gli acini, disgraziatamente – ringraziando la Filossera vastatrix importata, come troppe altre piaghe dagli Stati Uniti d’America via la Francia – in molti casi non autoctoni, come il Cabernet e il Merlot, assorbono gli “umori fragranti” del limo della Piave che nutre però anche il Prosecco, il Verduzzo e soprattutto il Raboso, “nero come la pece, adatto per palati solidi di forte carattere”, come scrive Mazzariol, “un vino poderoso adatto per il palato degli arcangeli guerrieri”.
*
Mazzariol… Nato ottant’anni fa, il 16 marzo 1939 in località Ponte di Piave – frazione Alle Grasseghelle, e vale a dire presso il “colmello” della Grasseghella – sulla riva del Piave, anzi, come ricorda, della Piave, femminile – e ben diversi suonano alle orecchie “il Piave mormorava” e “la Piave mormorava” – come da queste parti sempre la gente ha chiamato il suo fiume – che è allora, con l’Adda che taglia la Lombardia, l’unico “italiano” non maschile – che è, nelle parole di Comisso, la “grande vena di questa terra”…
Mazzariol… Scrittore ma anche traduttore dal francese (sue le versioni in lingua italiana del romanzo La donna povera di Léon Bloy e del volume di Lettere e diari di Emmanuel Mounier per la casa editrice La Città Armoniosa) nonché editore (col marchio doppiamente “di culto” Santi Quaranta, da una delle porte di Treviso, già nome della vicina chiesa oggi di Sant’Agnese, in direzione di Padova e Vicenza, alla fine di quello che è ora squallidamente detto Borgo Cavour) nella sua Treviso; che così descrive: “Città socievole, espansiva; patrizia e graziosa e insieme alla mano, mi ha affascinato prima di tutto per il dialetto amabile che sa di risorgiva fresca; un dialetto discreto e canterino che era una meraviglia in bocca alle donne e alle ragazze, e che ora purtroppo sta decadendo”.
Eppure, “dove Sile a Cagnan s’accompagna” (Dante, Paradiso, IX, 49) il dialetto trevigiano è ancora incantevole, melodico, femminile (già, come il nome Piave) nelle bocche degli uomini come in quelle delle donne, come annota Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia, e resiste, e conserva così la peculiarità legata ai suoi corsi d’acqua, perché, scrive Mazzariol, “l’idioma trevisano continuava il mormorio del Buranello, del Siletto, del Cagnan; traduceva in parola armoniosa e cantabile il pullulare delle fresche risorgive”.
Come tutte le città padane e venete, e antiteticamente a Venezia che è terra nel mare, Treviso è isola ideale sulla terraferma, forgiata non dalle onde sugli arenili ma dal gesto delle mani degli uomini, col Bottaniga che presso il Ponte della Pria si divide in tre, il Buranello, il Siletto e il Cagnan.
“Si tratta di una dolce foresta mossa dal vento delle abitudini e della vita. L’indole recita, appare ma possiede un suo radicamento ancestrale che distingue” i trevigiani, non solo nelle aree rurali della Marca, ma anche in quella urbana, questo teatro di dolci finzioni, seduzioni, relazioni. Con l’acqua a informare col suo altrettanto dolce scorrere tra gli antichi muri l’attitudine che Mazzariol così riesce a riassume: “Non mi logoro per niente; lascio passare l’acqua sotto i ponti placida mente. No me susto par poco, cioè non vale la pena guastarsi il sangue per delle inezie.” Acqua dolce e così la vita.
*
Non mi affliggo per poco. È il motto di quest’indole dolce, garbata, delicata, savia, allegra, socievole e sorniona a un tempo, scrive Mazzariol, non esattamente disimpegnata anche se tale è l’aria, in realtà più che altro noncurante; che fa quella splendida devise che la riflette, nutrita da “un pizzico di fatuità, una soave vanità”, che si esibisce alquanto, e che mantiene una certa qual “riserva mentale, eccessiva diplomazia” che non rende tuttavia cinico il trevigiano che ha cuore “caramelloso però gradevole e pronto spesso alla generosità”, così come l’altro motto cittadino, No vao a combatar, ben lungi da essere un segno d’inazione, specie negli ultimi decenni di rapida industrializzazione, dice di una forma d’indolenza del tutto atipica, anche perché, come rimarca Mazzariol, “fosse una caratteristica totalmente negativa, i trevisani non avrebbero potuto edificare una città così bella e così graziosa”, la cui grazia urbanistica non è che il riflesso di tale attitudine, l’una e l’altra capaci di resistere alle devastazioni del risorgimento, con tutti i suoi strascichi, e delle due tragiche guerre mondiali.
Il No vao a combatar è la sorda resistenza estetica e morale della Marca, che vive sottotraccia negli stravolgimenti storici, sotto l’occupazione napoleonica – “le orde del Napoleone, fameliche e feroci”, così le descrive Mazzariol, che chiaramente e giustamente le detesta – come sotto quella, successiva, degli italici, con i francesi che saccheggiarono la sua città, predando, dissacrando, rovinando il possibile, e i secondi che trasformarono la regione da teatro di vita a teatro di morte, mentre sotto gli Asburgo nella Marca persino i bachi prosperavano, tutelati come persone dal diritto penale, per volontà dello stesso Francesco Giuseppe.
A queste nefandezze Mazzariol oppone il suo Duca Alfonso, sempre presente nei secoli e nella storia, spesso controcorrente, anche perché poeta, attivo per il bene della sua città, fautore di una congiura contadina, nel 1812, che porterà alla definitiva caduta di Napoleone e quindi agli Asburgo, tanto da esser nominato luogotenente per la Sinistra Piave, che governa con saggezza e misericordia cristiane, migliorando le condizioni della gente, perché tutti possono pescare e cacciare, portare le bestie ai pascoli, e, grazie a una dieta molto più ricca, è così infine vinta la pellagra.
*
A Salgarega, il Duca arriva a mettere a disposizione dei nullatenenti alcuni suoi campi, che diventano La Comun, poi El Comun, che il nonno di Mazzariol acquisterà con l’avvento degli italici, ultimo grande gesto del Duca Alfonso in cui il libro di Mazzariol tutta la storia della sua città si cristallizzano, questa figura di nobiluomo della Piave che abita nel suo castello Delle Grasseghelle, eroe dal “cattolicesimo umanissimo” che “picchia i furfanti, tramortisce i ladri con la sua alabarda ruspia; ingaggia duello con i vari Don Rodrigo dei diversi paesi che stanno prossimi a Trevigi e sempre li sconfigge”, e che è romanticamente preso d’amore per la bella Maria Beatrice Della Galea.
Si fidanzano e il Duca fa costruire, affrescare e decorare la Loggia dei Cavalieri. Loggia che l’autore dice “austera, romantica”. Un ossimoro perfetto per tutta la sua Treviso.
Tale è d’altro canto lo stesso Duca Alfonso… In lui è tutto l’ideale realizzato della città di Mazzariol, nel suo eterno ritorno, dal 1177 fino a oggi, con aggraziata costanza. E lui e Treviso sono simbolo di un mondo antico, storico e mitico a un tempo, e cortese nel senso dei troubadour provenzali…
Molti di essi si stabilirono in città, ma stando a Mazzariol anche lo stesso Duca si dilettò in questo ambito come in tutti gli altri, “benché nessuno storico erudito lo menzioni”.
Il Duca Alfonso non solo scrive versi, ma anche memorie. Ama leggere, ma anche andare a cavallo per le campagne. A volte con la sua bella consorte, altre in totale solitudine. Monta un sauro bianco e girovaga sui colli, pacifici finché non irruppe Napoleone con le sue truppe, tra i filari di Raboso, lungo la Livenza e fino alle sue sorgenti, alla basilica della Santissima Trinità, luogo del suo ritiro durante le due guerre mondiali e la sciagura fascista, “poco gradita ad Alfonso per quel suo sempre parlare coi gambali e la camicia nera di battaglie, violenze agli altri popoli, olio di ricino somministrato agli avversari politici”. Treviso è neutralista, avversa a una guerra che è inutile strage. Troppo stride col motto No vao a combatar dei trevigiani. E i sudditi degli Asburgo sono ben più fratelli degli italici. Perché gli italici sono accecati dal mostro del nazionalismo.
Se enorme era la stima dei trevigiani e dei veneti tutti per gli austro-ungarici, mai sarà tale invece per la “classe […] esistenziale, militante, squadrista” dei fascisti, con i suoi miti posticci, né tantomeno per il nazismo, per il comunismo o per gli americani. Due guerre. Liberazione. Dopoguerra.
Veneto libero? No. Veneto felice? Sì. Perché ha san Marco e può far San Marco, festa “cristiana e delicata”, festa “ancestrale e serena”.
Marco Settimini
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17 Gennaio - "I SOGNI CALPESTATI. Gli ultimi giorni di Magda Goebbles, le battute finali del delirio hitleriano" di Sébastien Spitzer
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Titolo: I sogni calpestati Autore: Sébastien Spitzer Genere: Narrativa Contemporanea Casa Editrice: Ponte alle Grazie Lunghezza: 292 pagine Prezzo: Ebook €9,99 – Cartaceo €15,30 Data di pubblicazione: 14 Gennaio 2019
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Sinossi
Primavera 1945: l’Europa è avvolta nel suo crepuscolo più tetro, fra gli ultimi strascichi di barbarie della Seconda guerra mondiale. I destini di figure…
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