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Nero come il sole
Vene che esplodono, piogge rosse, grida distorte, sento il mio cuore che si ferma poi riparte. Tu testimone impassibile di queste nostre vite, salvaci dalle micce corte nostra signora della dinamite.
(Giorgio Canali & Rossofuoco, Nostra Signora Della Dinamite)
Death is real. Lapidaria e implacabile recita questa Phil Elvrum, come frase di apertura della prima traccia, dentro al disco (A Crow Looked At Me) che racconta la perdita recente (9 luglio 2016) della moglie Geneviève. La morte è reale, è la cosa più tangibile e concreta con cui abbiamo a che fare. La bestiola fedele che cammina con noi sotto il sole e la pioggia, ogni giorno del nostro breve tragitto. La corsa un po' gli assomiglia, la corsa in qualche modo c'entra con questo. Non tanto perché oggi, come ieri, come la volta precedente, mi trovo a non sapere se arriverò in fondo a questo sentiero sterrato, mentre sento la testa gonfia di fuoco e il respiro che inciampa in un tamburo impazzito. Ogni volta è così, la morte ci da la proporzione del nostro vivere quotidiano, il valore reale del tempo che cerchiamo di addentare. Ci succede di morire un po', non troppo, non in modo definitivo: muoiono piccole parti di noi, tutti i giorni, mentre lasciamo qualcuno o ci facciamo lasciare, mentre muoiono davvero persone che davano calore alle stanze, mentre si allentano rapporti e scendiamo col groppo in gola a squallidi compromessi, mentre abbassiamo la testa a questa o quella assurdità e la corsa è l'unico mezzo, l'unico strumento che abbiamo per contrastare la morte e i suoi derivati. Scappiamo dalle fasi della vita che ci bussano insistenti alla porta, fingiamo di non sentirle, c’è tempo c’è tempo c’è tempo, rincorriamo le ore in modo da riuscire a fare tutto quello che avevamo intenzione di fare, aggiornando costantemente le nostre liste, in quaderni pieni di progetti abortiti. Prima che sia tardi, ed è sempre tardi. Scappiamo dal sonno per dare un senso alla giornata passata, scappiamo dalla routine quotidiana prendendo barche, aerei e treni, poi ci troviamo altrove con l'urgenza di nuovo di correre, vedere tutto, mangiare tutto, comprare tutto, inghiottire come bulimici spaventati e insoddisfatti, tornando stanchi e affranti all'ovile, dopo la libera uscita di una settimana o due. Correre ci sembrerà qualcosa, un modo, ci sembrerà di non restare con le mani in mano, di dare un aiuto a quel senso che ci fa tanto piccoli, tanto minuscoli, dal momento che non esiste. Seminiamo fiduciosi molliche per strada, che qualche animale non si farà scrupolo di divorare, e noi illusi ci convinceremo di aver lasciato qualcosa di significativo. Un percorso buono. Nient'altro che un accumulo di oggetti carichi di straziante malinconia, oggetti di cui gli altri, quelli rimasti, per il dolore che provano a guardarli o il fastidio mentre ingombrano le stanze, presto si libereranno. Passeremo nel cimitero delle giovani balene blu senza aver davvero capito il nostro grado di coinvolgimento, grideremo black hole sun! black hole sun! black hole sun! fino a perdere la voce, fino a sentire le lacrime, andremo ancora ai concerti anche se ci metteranno un bersaglio sulla schiena, andremo ancora a bere nei locali anche se ci faranno esplodere, ci sentiremo parte del problema o parte della supposta prepotente soluzione, poi ci sentiremo completamente estranei a tutto, saturi delle opinioni degli altri vorremmo di nuovo essere lontani e in salvo. Siamo piccoli e questa corsa è l'unico senso, siamo minuscoli e questo sgambare fino quasi a lasciarci la pelle, è il nostro strumento per suonare la musica di questi pochi anni, che ancora restano, dal primo all'ultimo giorno, cercando di dar loro un ordine prioritario. Qualcosa come il senso che non c'è. L'idea di segnare sulla mappa qualche punto fermo.
Ascolto: Mount Eerie, A Crow Looked At Me
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Questo non è un luogo...
Sto piangendo, le lacrime cadono sul tuo viso. Muovi la polvere nel fascio di luce Per rendere degno di fiducia il tuo nome. È qualcosa di simile a un tempio. Questo non è un luogo. Non sono ancora sveglio, sono stato cresciuto con atti. (Bon Iver, Perth)
Quando ti confronti con qualcuno che ha, o ha avuto in passato, la tua stessa passione per la corsa è difficile che si fermi ad elencartene i benefici. Molto più probabile che ti dica in quanti e quali casi correre fa male, quanto lui stesso abbia sofferto a causa di questo, quanto tempo gli sia servito per riprendersi. E anche io oggi, quando incontro qualcuno che sta cominciando ad appassionarsi a questa tortura, cerco di dissuaderlo, di spaventarlo, di farlo desistere (questo blog a modo suo, inconsciamente, forse ha anche questo intento). Non conosco nessuno che sia davvero un esperto di corsa (forse uno sì, massimo due), ma frequento decine e decine di persone che potrebbero intrattenerti per un ora su quanto la corsa, alla lunga, possa rivelarsi dannosa. Alle ginocchia, alla schiena, problemi futuri di postura, urti su urti, storte, bestemmie fra i denti. Eppure si corre, si continua a correre con l’incoscienza del fumatore che non sa smettere. Ho passato un anno esatto, con dolori di ogni genere che hanno reso le mie giornate snervanti e i miei sonni tormentati. E oggi sono di nuovo qui, un piede avanti all’altro, sui sassi appuntiti e la terra ancora fradicia per la pioggia di ieri pomeriggio. A farmi male. Un po’ per avere una scusa, un motivo per lamentarmi e un po’ perché continua ad essere un’esperienza unica, da idioti certo, ma diversa da tutte le altre cose della mia vita, che riesce in modo inaspettato a connetterle e a farle levitare. Questi luoghi, che attraverso col mio incedere traballante e scoordinato (distanti cento chilometri da quelli che chiamavo casa fino a qualche anno fa), a forza di nutrirsi del mio sudore e delle mie imprecazioni, sono diventati familiari, rinfrancanti quando li riscopro ad ogni passaggio, fuori dalla città, lontano dal vociare, fuori dal caos di troppe gambe e braccia che si incrociano, si urtano e scrivono traiettorie ubriacanti. Ogni volta torno qua, più o meno lo stesso percorso, aggiungendo un pezzettino di tanto in tanto e inghiotto tutta questa luce che filtra dalle foglie, la terra che respira mi fa inciampare in singhiozzi gommosi, il fiume mi corre sempre al fianco come un cane irragionevolmente fedele. Qualche settimana fa, quando siamo scesi a Roma, presso le Officine Fotografiche alla Garbatella, abbiamo visitato la piccola, intima esposizione di Rebecca Norris Webb (My Dakota), moglie del fotografo Alex Webb, prima poetessa, ma oggi anche lei piazzata con ostinazione dietro l’obiettivo. La serie fotografica parte da uno stimolo triste e personale, la morte improvvisa a causa di un infarto, del fratello della donna. Per molto tempo l’unica cosa capace di darle conforto, è stato il ritorno sia fisico che mentale ai paesaggi della sua adolescenza in South Dakota. Le foto di questi spazi sconfinati erano accompagnate in mostra da un flusso di coscienza poetico, scritto a mano di suo pugno, direttamente sulla parete delle Officine, immediatamente sotto le fotografie. Come un intervento che contemplasse una scadenza, un conto alla rovescia. Qualcosa di deperibile, che trova la sua forza solo nell’impressione del momento. La domanda che ha mosso Rebecca, che l’ha portata a riscoprire determinati luoghi, certe atmosfere, è stata la seguente: “La perdita ha una sua propria geografia?” Per certi versi, nonostante una perizia e una consapevolezza di altro tipo, ho lavorato con la medesima spinta alla mia prima serie fotografica (rimasta nei cassetti virtuali di un vecchio computer), ponendomi un quesito simile a questo. Era morto mio nonno, il primo morto di un certo spessore nella mia vita. Perché, ci piaccia o meno, aveva ragione Max Collini quella notte a Casa Giubileo qualche anno fa quando, mentre dedicava Qualcosa sulla vita dei Massimo Volume all’amico Enrico Fontanelli (morto da pochi mesi), concluse dicendo che non tutte le morti sono uguali. Mio nonno era morto e io non sapevo come affrontare la cosa. Non era mai successo, fino a quel momento ero stato fortunato, non mi ero mai dovuto confrontare con quel genere di dolore. Era il 2007 e non avevo mai pensato alla fotografia come una terapia, una medicina per l’anima, e mai l’avevo gestita come una sequenza di immagini, una serie dove costruire un racconto o sviluppare un discorso. Fu tutto molto spontaneo, onesto. Cominciai a girare per le casa, a misurare la superficie delle stanze con il mio corpo: anche se inquadravo con gli occhi, era lo stomaco a premere il pulsante di scatto. Poi uscii fuori in giardino, scandagliando ogni centimetro dell’abitazione dei miei e ancora più lontano, per le strade del paese. Lo stavo cercando, senza rendermene conto. Nei riflessi della finestra, nelle crepe dei muri, nella luce che colpiva con una traiettoria obliqua una porzione sudicia di moquette. Lui non c’era. Andai anche al cimitero, scattai alcune fotografia davanti allo sguardo di rimprovero di qualche vecchia signora che vi aveva preso la residenza diurna, ma era tutto inutile, non credevo più in Dio già da molti anni (nonostante mi sforzassi di farlo), non potevo trovarlo lì, non era lui quella croce nuova, scintillate di coppale, piantata sulla terra smossa, in attesa di una fredda lapide. Non era lui quel cofano decorato, imbottito di velluto a tre metri di profondità e tanto mento non somigliava neanche lontanamente a lui quell’involucro vuoto e ben vestito, adagiato all’interno. Semplicemente, non c’era più. E allora mi rassegnai, provai a camminare lungo l’argine dei fossi che disegnavano sentieri sopraelevati dentro alle paludi dietro casa, senza una meta, fino a quando la strada non si esaurì sotto i miei piedi, affogando nell’acqua immobile, opaca come una lastra di ghisa. Ripresi in mano quelle immagini solo in un secondo momento, e le montai col testo della canzone che avevo ascoltato per caso alla radio, di ritorno dall’ospedale, la notte in cui è morto. Wake Up In New York, del compositore Craig Armstrong. La storia di un risveglio amaro nella Grande Mela, dopo la fine di una storia d’amore. Non c’entrava niente. Eppure era l’unica cosa che aveva senso inserire. Le uniche parole perfette, che la voce profonda di Evan Dando (dei Lemonheads), scandiva come fossero una preghiera per chi non crede in niente. Fu allora che imparai a mettere insieme cose in apparenza opposte, per provare a scivolare dentro ai significati e cavarne fuori suggestioni inaspettate.
Ascolto: Bon Iver, Bon Iver
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Mojave 3
Is that music that you hear/A distant sound from a distant year/Yeah something changed/And you lost your defence/And now it's gone/Something changed my friend (Mojave 3, "All your tears")
Ricominciare dalla musica mi sembra la strada più naturale. Vuol dire ripartire dall'essenziale proverbialmente “invisibile agli occhi”. Presente alle orecchie. Connesso al battito. I Mojave 3 che assomigliano a un Nick Drake americano (eppure sono inglesi), seduto davanti alle onde dell'oceano con al fianco, piantata nella sabbia, una vecchia tavola da surf, verso l'ora del tramonto, sono la colonna sonora perfetta per riprovare a correre. Per uscire fuori in una mattina luminosa come questa e spurgare, prima di entrare a lavoro, cose disordinatamente accumulate negli ultimi mesi. La presa di coscienza di tristi cambiamenti epocali all’intero di questioni che davi per scontate. Un errore da pulcini. Siamo tutti dei Moai goffi e tristi, naufragati in mezzo all’oceano, piantati nella terra spoglia di Rapa Nui, con un’espressione ebete a non fare un cazzo per tutta la vita, come vittime di una maledizione autoinflitta. La scrittura come la corsa, ha bisogno di ritrovare il suo ritmo, sono due tipi di allenamento, due pratiche che si somigliano ,in maniera per certi versi confortante. Murakami lo sa bene. Sa tutto, maledetto lui. Io so poco. Conosco queste mani, ho solo queste mani, che scrivono da sempre, che ne hanno sempre avuto bisogno, riuscendoci purtroppo a fasi alterne. Senza troppa convinzione. In modo discontinuo. Come se fosse qualcosa di accessorio e non il senso del tutto. Come se fosse qualcosa di cui si può tranquillamente fare a meno. Conosco ormai queste gambe, che oggi fanno un male bastardo e questa schiena che ho smesso di ascoltare, altrimenti sarei ancora fermo e incazzato. Altrimenti sarebbe come darla vita al tempo. Ai giorni in cui c’è solo lavoro e poi ancora lavoro e la sera finisco per crollare sul divano davanti a un veterinario del Michigan che passa metà delle sue giornate con il braccio nel sedere di qualche mucca. Non so altro della vita. E sono stufo di darla vinta alle cose, alle persone, come se il tempo che ho a disposizione fosse in comodato d’uso, proprietà di altri, ricordando sempre, di dire “grazie”. Sorridere e ringraziare. Come da bambino, per far vedere quanto sei ben educato. Quanto sei addomesticato. Grazie a tutti, scusate per il disagio. Grazie a ‘sto cazzo.
Ascolto: Mojave 3, Out of Tune
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Liquida intelligenza
04/08/2016
In questi giorni sto preparando un nuovo pezzo per la rubrica che tengo sulla piattaforma Without Musicians e inevitabilmente, anche la mia corsa serale è stata influenzata da quello che sto cercando di costruire. Tutto ruota intorno all'acqua, al mare in verità, ma credo si possa comunque estendere il discorso all'acqua in generale. Una cosa che sto leggendo da ieri, molto affascinante, ma ancora work in progress, mi ha portato a cercare di scovare quale fosse il primo ricordo della mia vita. Dopo uno sforzo considerevole per ripescare nelle pieghe del tempo, situazioni, scampoli di voci e profumi ormai distanti, sono riuscito ad isolare due momenti, che credo essere davvero i più vecchi frame della mia, non troppo lunga esistenza. Il primo riguarda in qualche modo l'acqua. Il secondo lo racconterò in un altro momento, perché non c'entra niente. Dunque, il ricordo in questione (quello legato all’acqua), risale ai miei due, forse più lucidamente, tre anni. Tutti mettono in dubbio che io riesca a ricordarmi davvero di questo episodio per via dell’età, ma non posso farci niente, me lo ricordo. Ero con mio padre e mia madre in montagna, sulla neve (sempre di acqua si tratta), al Corno alle Scale (informazione che ovviamente ho appreso anni dopo), sull'Appennino, fra le province di Pistoia e Bologna. Eravamo pronti a rincasare. Mio padre ha acceso il motore. Non saprei dire il modello dell’auto, sicuramente un'utilitaria economica, di un blu scuro tendente al nero. Le ruote slittavano a vuoto, circondate da neve sporca e ghiaccio. Mio padre ha provato ancora e ancora. Poi siamo scesi tutti e tre dall'auto. Mamma mi teneva la mano, non vedevo il suo viso, percepivo solo la lieve scossa elettrica di una preoccupazione neonata. Non ho mai sentito mio babbo bestemmiare, solo qualche imprecazione sempre doverosamente controllata, mai eclatante o rumorosa. Anche in quel primo ricordo, era sottile la tensione che si respirava, il nervosismo che gli scivolava dalle labbra insieme a qualche risposta secca alle soluzioni improbabili proposte da mia madre, mentre armeggiava sotto le ruote per liberarle dalla neve. Il mio orizzonte era circoscritto alla salopette di mamma, e ai doposcì di mio padre, al suo culo, le sue gambe inginocchiate sull’asfalto ghiacciato, fra la ruota anteriore e lo sportello. Non ricordo altro di quel giorno, che evidentemente ha trovato il suo lieto fine. Ma la sensazione, l'emozione che percepivo, senza ancora conoscerne il nome, sia a livello esperienziale che linguistico, poteva avvicinarsi all'ansia, all'apprensione, alla paura che quei due poli del mio minuscolo mondo, non fossero in grado di garantire sempre, ovunque, che fossi al sicuro, che fossi felice (queste ovviamente sono considerazioni che faccio adesso, al tempo probabilmente ho percepito, alla stregua di un cane, che qualcosa non stava andando per il verso giusto). Stasera ho scelto un disco che associo sotto vari aspetti all'acqua, al gocciolare, fluire, scorrere; che sarebbe piaciuto a Jeff Wall, con la sua idea di intelligenza liquida, e al Tarkovskij di Solaris e Nostalghia. Ho imparato ad amare Repave, dei Volcano Choir (gruppo di Justin Vernon, meglio conosciuto per il progetto Bon Iver), dopo averli visti suonare a Barcellona, al Primavera Sound del 2014. Quella sera eravamo sfiniti: avevamo scelto di arrivare a inizio festival e di ripartire la mattina dopo la lunga serata conclusiva, senza mai riposare veramente. Eravamo provati e disorganizzati, in certi momenti non riuscivamo a tenere il ritmo delle giornate di concerti e capitava di prenderci delle pause, senza mai allontanarci dalla musica. Durante lo spettacolo del gruppo di Vernon, stavamo seduti per terra, sotto al palco, appoggiati alla transenna che delimita il PIT, ogni tanto chiudevamo gli occhi, entravamo in risparmio energetico, lasciando vigili solo le orecchie. Ad un tratto so di essermi addormentato per pochissimo, una manciata di minuti e quando ho spalanacato di nuovo le palpebre, lassù sul palco, oltre le gambe degli altri spettatori, in mezzo alle luci e al fumo, la chitarra di Chris Rosenau ha scandito le prime note strisciate di Alaskans. Mi sentivo perfettamente connesso con il momento e quella musica, in quel particolare contesto, aveva la capacità di penetrare sotto la pelle, dando scosse di emozione che capitano solo in certe splendide congiunzioni astrali. Alla fine del pezzo una registrazione vocale sostituiva la voce di Vernon (lo stesso è sul disco), ricordo perfettamente il suo sguardo, al momento di farla partire: aveva l'espressione di chi apre lo sportellino della gabbia, lasciando volare via un uccellino e contempla stupito la perfezione rotonda di quel gesto: prima il soffitto, poi il davanzale, la finestra e poi fuori il cielo. Così si sentiva lui. E io pure.
Ascolto: Volcano Choir, Repave
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Lune rosa alle undici di mattina
13/07/2016
Premesso che andando a correre alle undici, quasi e mezzo, di mattina, le lune rosa rischi di vederle davvero e che, ovviamente, aveva ragione Costy, se fossi andato stasera visivamente sarebbe stato ancora più bello e sicuramente meno rischioso. Avventurarsi in un luogo diverso, nuovo, aiuta incredibilmente la questione corsa. E anche Nick Drake, indubbiamente, con il suo Pink Moon, dà un contributo unico come oppioide mentale contro la fatica. Era da qualche settimana che mi ero ripromesso di cambiare percorso, per dare ai miei occhi uno stimolo nuovo, per alimentare sia la voglia di correre che quella dopo, a casa di scrivere. Ho raggiunto in macchina il Castello di Leonina, ho parcheggiato e poi ho proseguito a piedi fino al Site Transitoire, uno dei punti più famosi e suggestivi delle Crete Senesi, con il moderno, minuscolo, complesso di dolmen, realizzato dall’artista Jean Paul Philippe, a fare da crocevia fra tre piccoli sentieri che si perdono oltre le colline. Questo luogo è un inno alla pace e al silenzio. Nick Drake mi ha accompagnato con il suo album più intimo ed essenziale per tutto il tragitto, insieme a nubi cariche di pioggia, che si affacciavano all'orizzonte beffarde, senza poi avvicinarsi a mitigare il caldo di questo deserto di erba bruciata dal sole, dove un albero qualsiasi sopra un poggio, diventa la cartolina perfetta per un milione di fotografi. Io corro, poi cammino, poi corro, il mio principio di tendinite non si è ancora risolto, ma non la vivo come la solita sconfitta con me stesso. In settimana mi ha scritto un amico e mi ha strigliato per bene, per il mio patetico lamento sull'inadeguatezza, dandomi i giusti motivanti calci nel culo, fino a farmi comprendere che tutta questa storia della corsa, è una cosa dannatamente buona e che devo continuare, col tempo e l’energia cheho a disposizione, senza scoraggiarmi. Pink Moon, è un disco che scivola come vento, un disco da esterno e un disco eterno, perché arriva ovunque senza mai perdere forza e spinta, nello spazio e nel tempo. Ti porta a gustare in solitudine ricordi, che tieni fermi per qualche secondo fra la lingua e il palato e poi lasci scivolare in gola insieme al respiro. Ed è una sensazione fresca come acqua di frigorifero, come sdraiarsi sulla mattonelle del pavimento in una giornata di primavera, o come oziare sotto un albero leggendo un buon libro. Tutta la malinconia di queste tracce, non è capace di ferire: c'è una delicatezza tale fra le parole e gli intrecci di accordi, fra arpeggi e silenzi, che riporta a qualcosa che forse un tempo ci ha effettivamente lasciato dei segni profondi, ma che ormai abbiamo accettato e riusciamo a guardare con una sorta di fragile e dolce benevolenza. Qualcosa come l’atto di perdonare, di lasciar perdere. E direi che per oggi può pure bastare.
Ascolto: Nick Drake, Pink Moon
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