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#piccola biblioteca di letteratura inutile
garadinervi · 4 years
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Andrea Cortellessa, Monsieur zero. 26 lettere su Manzoni, quello vero, «Piccola Biblioteca di Letteratura Inutile» 13, Italosvevo, Trieste, 2018
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ross-nekochan · 7 years
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Chain~
Sono stata taggata da @cascatachinasica​ in questa catena bellina per cui ora rispondo. :
1.Come scegli i libri da leggere? Ti fai influenzare dalle recensioni? Ultimamente sono troppo fissata con la letteratura (italiana, inglese e giapponese obv), quindi fuck le recensioni. Quindi mai usato le recensioni come parametro. O piacciono a me, o non si compra.
2. Dove compri i libri? In libreria o online? Sono una bimba molto cattiva che non esce mai e sta sempre in casa, quindi sfrutto l’enorme potere della tecnologia per risparmiare qualche euro... ergo, compro quasi sempre online. 
3. Aspetti di finire la lettura di un libro per acquistarne un altro o ne hai di scorta? Chiedilo alla mia lista di 20 libri ancora sullo scaffale... ah ah ah *risata isterica*. Avrei voluto sempre far così, e per molto ci sono riuscita... ma poi trovi alle bancarelle, libri che cerchi da sempre a 1-2€... e che fai, non li compri? (Poi ne compri altri per arrivare a 5€ ed ecco 5 libri pronti a prendere polvere!)
4. Di solito quando leggi? Ora che non ho da studiare per esami, di solito leggo quando sto in casa da sola (mattina quando tutti dormono o sono usciti - adoro l’assoluto silenzio quando leggo), ma a volte mi devo accontentare di momenti morti della giornata (prima/dopo pranzo, tardo pomeriggio etc.). Durante i corsi ho letto solo le domeniche mattine perché veramente leggere era l’ultimo dei miei pensieri e non avevo proprio voglia, lo ammetto.
5. Ti fai influenzare dal numero di pagine quando compri un libro? Quando compro no. Perché so che può essere un mattone, ci potrò mettere un milione di anni ma lo leggerò. Però mentre leggo conto le pagine che mi mancano, quante ne leggo etc. (e a volte mi sento pure cattiva lettrice nel farlo). Talmente che non mi faccio influenzare che ho letto un testo di letteratura giapponese (”Genji Monogatari” di Murasaki Shikibu)  di 1005/1050 pagine.
6. Genere preferito? Thriller/poliziesco/horror (come quello di Edgar Allan Poe).
7. Hai un autore preferito? Giorgio Faletti, perché è stato il mio primo romanzo mattone della mia vita (anche se è grande quanto un romanzo normale). (Inutile dire che quando morì, qualche giorno dopo la mia maturità, stetti di merda e piansi un pochino.)
8. Quando è iniziata la tua passione per la lettura? Boh, non so. Leggo poco ma leggo da bambina. Forse perché si diceva che leggere è importante, ci tenevo a farlo... però nessuno me l’ha mai imposto.
9. Presti i libri? Sì, ne ho prestati per esami. Però di altri solo per “gusti comuni”, non mi pare. Però alla mia bestfriend presterei tutto. Quel che è mio è suo. Per il resto, dipende da chi me lo chiede (e all’80% di persone direi di no).
10. Riesci a leggere un libro alla volta o riesci a leggere più libri contemporaneamente? Devo sempre finire il libro che sto leggendo prima di cominciarne un altro. Sempre. Però è successo che mentre leggevo “Moll Flanders” di Defoe mi stavo appallando talmente tanto che l’ho boicottato leggendo un altro libro e quello credo lo leggerò tra 50 anni, probabilmente.
11. I tuoi amici/familiari leggono? Amici sì, qualcuno/a. Familiari nessuno... (stendiamo un velo pietoso....)
12. Quanto ci metti mediamente a leggere un libro? Un’infinità. Sempre. Sono lentissima ma leggo solo quando ho voglia altrimenti leggo male e non mi va.
13. Quando vedi una persona che legge, ad esempio sui mezzi pubblici, ti metti immediatamente a sbirciare il titolo del suo libro? Sì, ovvio! Sono curiosissima anche se il 90% delle volte sono libri che non conosco perché “nuovi” e, come ho detto, io vado più per i libri da letteratura.
14. Se tutti i libri del mondo dovessero essere distrutti e potessi salvarne soltanto uno, quale sarebbe? Non rispondo perché è una domanda impossibile.
15. Perché ti piace leggere? Perché trovo bellissimo veder descritti i proprio sentimenti accuratamente su carta e per giunta da persone che magari hanno vissuto centinaia di anni fa! Quasi a dire che i sentimenti superano le persone, perché sono universali!
16. Leggi i libri in prestito (da amici o dalla biblioteca) oppure leggi solo libri tuoi? Ho preso in prestito qualche libro ma me ne sono sempre pentita perché spesso mi affeziono al libro stesso e vorrei restasse con me a ricordarmi quando l’ho letto e perché (poi perché mi piace sottolineare ed evidenziare parti che mi toccano e in quelli altrui non lo farei mai).
17. Qual è il libro che non sei mai riuscito a finire? Scritto sopra: The Fortunes and Misfortunes of The Famous Moll Flanders di Daniel Defoe. Forse anche qualcun altro (tipo “La Fattoria degli Animali” quando ero piccola perché era un italiano ancora troppo difficile per me).
18. Hai mai comprato un libro solo perché ti piaceva la copertina? E cosa ti attrae della copertina di un libro? Naaa, di solito non penso alle copertine. Anche se ha il suo impatto.
19. C’è una casa editrice che ami particolarmente? Fortunatamente non sono ancora fissata fino a quel punto...
20. Porti i libri dappertutto (ad esempio in spiaggia o sui mezzi pubblici) o li tieni chiusi in casa? Di solito leggo in casa, ma non disdegno di portarli con me se so di avere qualche momento per leggere (tipo in bus nell’ultimo semestre ho letto parecchio).
21. Qual è il libro che ti hanno regalato che hai gradito maggiormente? “Le Metamorfosi” di Apuleio.
22. Come scegli un libro da regalare? Non sono brava a fare i regali, quindi o capto in qualche modo il desiderio in una conversazione innocua o mi viene espresso il desiderio di avere QUEL libro... altrimenti non mi azzardo.
23. La tua libreria è ordinata secondo un criterio? Sì. Criterio di altezza e sottigliezza. È un criterio, no?
24. Quando leggi un libro che ha delle note le leggi o le salti? Leggo tutto tutto tutto.
25. Leggi eventuali introduzioni, prefazioni e postfazioni dei libro o le salti? Come sopra, solo che solo a volte salto le prefazioni, perché anticipano il contenuto del testo e alla fine mi dimentico sempre di riprenderle.
Taggo qualcuno, ma nessuno è obbligato in nessun modo a farlo. Alla fine è solo un gioco! @libriaco @spettriedemoni @greyberry @nonmidarefastidio
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pangeanews · 7 years
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Norman Mailer leggeva strappando i libri con i denti. Ovvero: ecco la lista dei 10 libri più belli della letteratura moderna. Ditemi i vostri, please
Un tempo Norman Mailer, insieme ai compagni di merende (Gore Vidal e Truman Capote, tutti nati tra il Ventitrè e il Venticinque), era il duce della letteratura americana. Oggi Il nudo e il morto (che per George Orwell è “il miglior libro di guerra sull’ultima guerra”, solo che George è schiattato nel 1950) è pappa universitaria, Le armate della notte è roba per gli studiosi del Sessantotto, Il Vangelo secondo il Figlio è illeggibile e La sfida – cronistoria da brivido sull’incontro del secolo tra Mohammed Alì e George Foreman – è forse il libro migliore di uno scrittore che ha il passo inesorabile – e memorabile – del rapace saggista. Morto dieci anni fa – nel 2007 – neppure l’anniversario ha galvanizzato l’editoria nostra: Mailer è ristampato stancamente, manco fosse, lui, eternamente sprezzante, un residuo del tempo che fu. Bastarda la vita. Avercene, oggi, di giornalisti con la tempra di un Mailer, con la sua fame di fama. Detto questo. Di recente il Times Literary Supplement ha pubblicato un fogliettone di J. Michael Lennon (titolo: The naked and the read), che è quello che ha catalogato la biblioteca di Mailer. Uno che leggeva tanto (“più di 7mila volumi”), che spendeva tanto (“mille dollari al mese per acquistare libri”), ma che non era affatto un bibliomane. Lui, Mailer, romanziere brutale, i libri li brutalizzava. “Li usava. Li faceva letteralmente a pezzi. Non poteva vivere senza libri ma non gli interessava l’oggetto-libro. Se gli serviva un libro per una lettura pubblica, strappava le pagine che gli erano utili. L’idiota di Dostoevskij è stato assemblato con il nastro adesivo, era spaccato in più parti”. Il bello dell’articolo è che leggendo i libri che piacevano a Mailer entriamo nella testa del furibondo scrittore. Così, scopriamo che andava matto per John Dos Passos e Lev Tolstoj, per Oswald Spengler e Karl Marx, per Thomas Wolfe, Dostoevskij, Stendhal, Hemingway. Tra le letture favorite figurano Jorge Luis Borges, Herman Melville, E. M. Forster. Gli piaceva André Malraux (“voleva diventare il Malraux americano, una specie di Cardinale Richelieu alla corte di Kennedy”), amava George Simenon (“era sedotto dalla facilità della sua scrittura”), andava in brodo per Ezra Pound. “Mailer andò a far visita a Pound nel 1970, a Venezia. Gli chiese quale tra le sue poesie preferisse. ‘La vecchia aquila’, così Mailer chiamava Pound, rispose, ‘Tutte, è ovvio!’”. Se il tema v’interessa, leggetevi l’articolo. A me interessa un’altra cosa. Vorrei sapere cosa leggono gli scrittori, i poeti, gli artisti nostri. Conoscere la biblioteca di un artista è come leggergli la mano. Comincio io, faccio outing. Ecco i dieci libri decisivi della mia biblioteca. Unica norma: stare entro l’antro della letteratura ‘moderna’, dall’Ottocento in qua. A voi la palla, fuori le palle, ora.
*Moby Dick, Herman Melville: ho tutte le versioni italiane (la più bella? quella del poeta Alessandro Ceni), il tentativo di fusione tra Omero e Isaia in territorio bellico americano;
*La morte di Virgilio, Hermann Broch: il vero tramonto dell’Occidente; dopo l’apice di Thomas Mann, la catastrofe linguistica, il romanzo che si sfa in confessione e tumulto verbale e vertigine (il canto del cigno del romanzo occidentale);
*Sotto il vulcano, Malcolm Lowry: quando James Joyce e Dante Alighieri si mettono a ballare il tango sulla palude glaciale di Cocito;
*I passi perduti, Alejo Carpentier: romanzo di corrosiva bellezza sui rapporti tra l’uomo e la sua amazzonica, perduta, natura;
*Chadzi-Murat, Lev Tolstoj: la maestria del più grande narratore di ogni tempo non chiede aggettivi ma un orecchio teso alla meraviglia;
*Cuore di tenebra, Joseph Conrad: pubblicato nel 1899, è il vero romanzo ‘d’avanguardia’, onirico, temibile, ancestrale, perfetto, un grido che si protrae fino 18.999;
*Le elegie duinesi, Rainer Maria Rilke: da leggere in liturgica tensione, in ginocchio, per l’eternità;
*Le poesie, Boris Pasternak: Marina Cvetaeva diceva che Pasternak era “un albero”, il poeta più di tutti connesso al respiro del cosmo;
*Le poesie, Dylan Thomas: l’Orfeo del Novecento insegna la più fallimentare delle utopie, che la poesia sconfiggerà la Storia, spaccandole le mascelle;
*Fogli d’Hypnos, René Char: la poesia accade così, ipnotica, tra l’erba e la battaglia, puro fiato di un istinto sgelato dal nulla.
P.S. Ogni canone, a differenza dei codici che scollegano l’ingranaggio di una bomba, ha per natura l’ineffabile imperfezione, è effimero e forse inutile. Ciò che oggi mi dà vita, dico, domani può farmi schifo. Ad ogni modo, se volete farmi sapere quali sono i vostri 10 libri più belli, con piccola giustificazione, scrivete qui: [email protected]. Pubblico tutto, lo giuro.
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debhornet-blog · 6 years
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Sabato 31 marzo ha preso il via Spritz con gli autori, una simpatica iniziativa ideata e promossa da Isabella Borghese presso la libreria Sinestetica, che sarà replicata sabato 14 aprile con Massimo Torre e Luca Ricci, rispettivamente autori di La dora dei miei sogni (Giulio Perrone Editore) e Gli autunnali (La nave di Teseo). 
Sorseggiando uno spritz, Isabella Borghese ha presentato Romana Petri e Nadia Terranova e ha chiacchierato con loro cercando di scoprire dettagli e particolari sulle loro modalità di scrittura e sui loro luoghi di ispirazione. Poi la parola è passata a Giulia Peci, del gruppo Leggo Letteratura Contemporanea, che ha presentato Il mio cane del Klondike, appena pubblicato da Neri Pozza. Nadia Terranova, di cui uscirà a ottobre il nuovo romanzo sempre per Einaudi, è stata, invece, raccontata da Simona Mangiapelo dell’Associazione Culturale Caffè Corretto che ha commentato Gli anni al contrario. 
È stata una mattinata frizzante e coinvolgente dove si è parlato di libri e di scrittura, dove si è riso  e sorriso in un’atmosfera rilassata, con Isabella Borghese che ha dettato i tempi e ha rotto gli indugi chiedendo a Romana e Nadia di raccontare il loro esordio letterario.
“Come ho cominciato?” Nadia Terranova ci pensa un attimo e poi inizia a raccontare: “Sono arrivata a Roma 15 anni fa per frequentare un corso di editoria dopo essermi laureata in filosofia. Volevo scrivere ma sapevo di dovermi fare le ossa e sentivo che mi avrebbe aiutato di più studiare editoria che non scrittura creativa. La mia palestra è stata scrivere le bandelle, le quarte di copertina, perché ho capito che il magma di un libro doveva essere narrabile e seducente. Mi sembrava come quando da piccola scrivevo le lettere a mio padre, che non viveva più con me essendosi separato da mia madre, e dovevo scegliere i fatti salienti della settimana per renderli divertenti e commoventi. Dopo aver imparato tantissimo, sono andata via, ho preso un dottorato, ho fatto altri lavori e mi sono presa un paio d’anni sabbatici per scrivere e pubblicare Gli anni al contrario. Essendo un esordiente, Einaudi mi ha parcheggiata per 5 anni e io, in attesa che venisse pubblicato, ho scritto dei libri per ragazzi perché dovevo sfogare la mia voce narrativa che ormai premeva per esprimersi. Ora scrivo indistintamente per adulti e per ragazzi, dipende dal destinatario che mi viene in mente quando immagino una storia”.
Gli inizi di Romana Petri sono invece molto diversi: “Avevo 22 anni e non sapevo a chi far leggere i miei scritti fino a quando mia madre mi consigliò di proporli al mio scrittore preferito e cosi feci. Contattai Giorgio Manganelli, dopo aver trovato il suo numero sull’elenco telefonico e dopo tre settimane mi chiamò: Signora Pezzetta (ancora non avevo un nome d’arte, chiarisce) lei ha scritto un gran bel libro e vorrei incontrarla. Mi prese un collasso a sentire che Manganelli in persona, il mio idolo letterario, si complimentava con me. Mi armai di coraggio e andai a casa sua. Lui era seduto su una specie di trono mentre io ero in basso, ma non mi sono scoraggiata e dopo aver superato a pieni voti un vero e proprio interrogatorio sulla letteratura inglese, mi disse che avrebbe proposto il libro alla Rizzoli. Poi passarono forse due anni di silenzi, fino a quando finalmente squillò il telefono, inizialmente non capii cosa diceva il tizio dall’altra parte del telefono, poi lentamente realizzai che quello che parlava era un agente letterario e mi stava proponendo un contratto. È iniziata cosi. Poi purtroppo Manganelli scrisse una recensione meravigliosa che segnò il mio destino. Fece il mio nome insieme a quello di Michele Mari definendoci le due promesse della letteratura italiana e mi ha fregato… perché mi sono sposata proprio con Mari”.
Isabella Borghese incalza e chiede a Nadia e a Romana se quando scrivono hanno delle abitudini particolari, magari come Balzac che non poteva fare a meno di bere 50 tazze di caffè al giorno o Schiller che doveva avere un cesto di mele marce sotto la scrivania o come Hugo che scriveva nudo con i vestiti chiusi a chiave nell’armadio per non avere la tentazione di uscire. Ridendo, Romana Petri ci assicura che lei scrive assolutamente vestita perché ha sempre freddo e anche con 40 gradi deve avere lo stomaco coperto. Ma svela di avere un’abitudine particolare: “Quando finisco di scrivere un libro segno il giorno, il mese, l’anno, l’ora e i minuti della prima stesura. Se il numero che esce non mi piace resto inquieta perché ho una certa ossessione per i numeri. Per il resto, giuro, di essere una persona molto normale. Mi dedico alla scrittura creativa quando non lavoro e io lavoro come una pazza, perché questo non è uno sport da signorine”. 
Nadia ribatte e confessa di vivere da anni su una poltrona viola e spera di concludere i suoi libri in posti suggestivi. “Sono con la stessa persona da 15 anni e la relazione non finisce perché lui mi fa scrivere e non mi disturba mai. La mia casa è molto piccola, ho provato a scrivere a letto, alla scrivania, mentre cucino, ma solo quando mi sono costruita il mio angolo con la poltrona viola, ho capito di aver trovato il mio posto. La mia scrivania è il computer sulle ginocchia; il mio studio è la libreria che mi fa angolo e mi circonda. Quando non sono a casa, scrivo in albergo e in treno. Ho finito la prima stesura del prossimo romanzo, che uscirà a ottobre per Einaudi, in treno, mio malgrado, perché  speravo di finirlo sulla mia poltrona o davanti al Partenone dove sono stata per il mio compleanno, ma purtroppo non è andata cosi: l’ho finito sulle rotaie, entrando in stazione”. 
Romana racconta invece di come ha perso il suo studio a casa, piccolo e umido ma pur sempre suo. Il fattaccio è accaduto quel giorno in cui “mio figlio è tornato a casa con due piccioni senza piume, in fin di vita, che non solo sono sopravvissuti, ma hanno preso possesso dello studio. Cosí mi sono trasferita in camera da letto, anzi proprio nel letto, circondata da cuscini. Ora i piccioni sono volati via ma non so se tornerò nel mio studio, forse quando casa sarà ripulita, ma non ne sono sicura. Mi trovo bene a letto tra i cuscini, mi auto-coccolo e ho la mia routine di scrittura: la mattina mi alzo, bevo il caffè, faccio colazione e poi mi rimetto a letto e inizio a scrivere. Vivo con pezzi di carta ovunque, dove fermo le idee che mi vengono e spesso scrivo al buio durante la notte, mentre cerco di dormire, e poi la mattina decifro con molta fatica quello che ho scritto con una scrittura da medium. Quando scrivo un romanzo ho invece un metodo collaudato: scrivo, lo rileggo e poi lo abbandono per almeno un anno. Quando lo riprendo, deve essere ormai lontano da me, tanto da averlo quasi dimenticato, cosí da non ricordarmi alcuni passi e poter iniziare a fare l’editing, indispensabile ma per niente piacevole”.
Nadia scrive anche in biblioteca, dove va “quando sento che al libro manca aria, lo porto a fare una passeggiata come fosse il mio cagnolino. Quando vado a Messina mi porto il computer ma non scrivo neanche una riga. Poi torno a Roma e inizio a scrivere romanzi che sono sempre ambientati a Messina. È come se tornassi a casa per saccheggiare i ricordi, e una volta a Roma apro il bottino e inizio a scrivere”.
Ma scrivere per voi è un mestiere, chiede Isabella Borghese?
Con la consueta e affascinante impulsività Romana non fa finire la domanda che subito risponde: “Un mestiere c’è quando sei pagata a fine mese. Sarebbe molto bello poter vivere di scrittura e in parte ci vivo perché scrivo anche articoli, faccio delle traduzioni, insegno letteratura, ma sarebbe un’altra cosa potersi dedicare esclusivamente alla lettura e alla scrittura. Oggi siamo inondati di libri, ma pochi sono quelli validi. Siamo di fronte a un ossimoro pazzesco: tutti vogliono scrivere, ma nessuno vuole leggere e quindi inevitabilmente i risultati sono mediocri. Bisognerebbe frequentare più corsi di lettura che di scrittura. Come si può prescindere da alcune letture, come Don Chisciotte, Oblomov, come puoi scrivere se non ami leggere? Ecco perché spesso si leggono cose banali che con la letteratura non hanno nulla in comune. La letteratura è altro dalla vita reale, deve essere qualcosa che quando la leggi vai da un’altra parte, perché se rimani qui è inutile quel libro”. 
Nadia Terranova interviene con la sua dolcezza siciliana, perché tra le altre cose tiene anche corsi di scrittura e si dice d’accordo con Romana: “anche io vivo di scrittura ma non esclusivamente di romanzi. Mi occupo anche di cose collaterali come le collaborazioni con i giornali e i corsi di scrittura a proposito dei quali, come giustamente dice Romana, spingo molto sull’importanza del leggere che non prescinde dallo scrivere. Bombardo gli aspiranti scrittori di consigli di lettura, assegno compiti e dissemino libri, perché è impossibile scrivere se non si ha un orizzonte in cui anche solo idealmente collocarsi. Quando scrivo sento l’obbligo di sapere che sto compiendo un gesto che prima di me ha compiuto Dostojevski, Steinbeck… io devo pormi l’obiettivo di essere alla loro altezza, poi non ci riuscirò, scriverò magari dei libri mediocri, ma l’importante è tenere alta l’asticella. Non posso scrivere la prima cosa che mi viene in mente, quella non è letteratura, gli scivoloni non sono ammessi, come le frasi scontate e banali…Lo scrittore deve fermarsi  e pensare che magari c’è un altro modo di dire una cosa senza essere scontati e che è proprio quell’altro modo di dirla che rende un testo letterario, senza arrivare al virtuosismo. Per esempio la poesia italiana del ‘900 è per lo più scritta con parole di uso comune ma poste in un contesto altro che quando le leggi capisci di non aver pensato a quel verbo o a quella parola in quei termini. Non deve essere la ricerca dell’originalità a tutti i costi, ma neanche la fiera della banalità”.
E la Petri rincara il concetto: “Tabucchi per esempio aveva il dono del togliere, del non detto, usava parole semplici che creavano la magia, che procuravano quello strappo nelle viscere che fa la grande narrativa.
E quindi come scegliete i libri contemporanei da leggere, considerando che ogni giorno gli scaffali delle librerie si riempiono di testi?
Nadia confessa di aver escogitato un trucco: “cerco di non farmi influenzare dalle conoscenze, perché spesso ai festival si incontrano gli scrittori e non sono sempre incontri piacevoli. Allora cerco di scindere perché molti mi sono antipatici e quindi finirei per non leggerli preferendo solo libri di persone gentili e carine, ma spesso le due cose non coincidono. Se si scrive per rivelare un segreto nascosto, per raccontare una parte di noi intima, allora quella voce non coincide sempre con quella persona e smontando questo pregiudizio ho avuto delle belle sorprese, ho letto libri molto belli scritti da persone che nella vita non frequenterei mai. Inoltre mi sforzo di trattare i contemporanei come classici e viceversa, con un classico mi piace capire cosa ci sta dando ancora oggi e faccio lo stesso con un contemporaneo.
Romana Petri invece non ci rivela alcun criterio di scelta ma come un simpatico ciclone passa direttamente e senza indugi a consigliare L’estate del ’78 di Roberto Alajmo e David Machado (autore tra l’altro di Indice medio di felicità) di cui sta leggendo, in portoghese, il suo ultimo romanzo Sottopelle, sperando di riuscire a farlo pubblicare in Italia.
A questo punto Isabella Borghese si vede costretta a interrompere la chiacchierata per motivi di tempo, ma il dispiacere viene subito compensato dall’intervento di Giulia Peci del gruppo Leggo Letteratura Contemporanea.
“Sono felice di aver letto Il mio cane del Klondike di Romana Petri. Non mi sono voluta far influenzare dalla rete e condizionare dalle recensioni e ho deciso di non leggere niente che ne parlasse . Quindi quando ho aperto il libro non avevo idea di cosa avrei trovato. Ammetto che mi ha emozionata tantissimo, l’ho sentito molto vicino, perché è un libro carico di emozioni. La storia racconta il salvataggio di un cane e di un riconoscimento tra un cane e una donna: lei lo incontra per caso davanti alla scuola dove insegna, lui è in fin di vita e lei decide di salvarlo. In un momento storico in cui soccorrere viene considerato un crimine, questo elemento rende questo libro estremamente attuale, perché il cane del romanzo è in un certo senso un immigrato con problemi d’integrazione. È lui il vero protagonista, è l’unico non a caso che ha un nome, Osac, e un cognome e ha una voce tutta sua. Osac è l’anagramma di caos e di caso e questo dice tanto sul personaggio. Tra Osac e la donna nasce un fortissimo rapporto d’amore, esclusivo, totalizzante e travolgente, forse anche esagerato, e l’evolversi di questa storia permette alla salvatrice di fare una serie di riflessioni sui sentimenti, sulla vita e su quello che accadrà. È un libro sull’abbandono, ma anche sulla maternità e su come questa cambia il rapporto tra i due.
“I cani sanno amare, lo sanno fare in modo coraggioso, buono e disinteressato ed è per questo che non si trasformeranno mai, come è successo a Pinocchio, in esseri umani veri.”(Il mo cane del Klondike, ed. Neri Pozza)
È anche un libro di ricordi, e di affetti che perdurano nel tempo, a dispetto della perdita di una persona che rimane talmente presente nel nostro cuore da essere a tutti gli effetti viva.
Talvolta ci si innamora degli uomini sbagliati, tutti ci avvisano che ci farà del male, che sarebbe meglio lasciarlo perdere ma spesso noi donne abbiamo la sindrome da crocerossina e ci immoliamo. È quello che accade alla protagonista umana del libro, capisce subito che sarà un cane difficile, inizialmente vuole salvarlo per poi darlo a qualcun altro, anche il veterinario la mette in guardia, ma sarà travolta da un amore travolgente per un cane travolgente che le sconvolgerà la vita e per il quale sarà pronta a rinunciare anche alle relazioni sociali. È un cane difficile da gestire, un bipolare, un malato psichico. 
“Allora ci guardavamo, e insieme recitavamo la miracolosa frase: io sono le mie paure, e dunque non posso avere paura di me. Continuo a usarla ancora, e ogni volta mi ricordo di lui, deluso temperamento d’assalto che nascondeva pero delle paure antiche, contro le quali gli tocco combattere per la vita intera. Cose sue profonde, dell’anima, ferite che, per quanto mi abbia raccontato nel suo lapidario linguaggio in cui le y venivano usate al posto di tutte e cinque le vocali, rimasero per mucosa mai sapute per intero. intuite, certo, a volte addirittura sentite mie, per quanto mi turbavano tutti suoi tormenti”.  
Questo libro è un potente concentrato di emozioni e sentimenti diversi: dalla paura dell’abbandono a ciò che prova una donna scoprendo per la prima volta sulla propria pelle la maternità, per arrivare a tutti quegli affetti profondi che spesso ci legano a dei nostri cari scomparsi da anni, siano costoro esseri umani o “disumani”. C’è un’immagine a tal proposito che ho molto amato, ed è quella di “rimestare con un cucchiaio nel proprio cuore per far spazio a tutti i propri affetti … dividendoli e moltiplicandoli”. Inoltre ha una prosa coinvolgente, attenta alle parole e alle lingue in generale, persino a quella del cane, cui alla fine è dedicato addirittura un omaggio .. particolare. Mi ha molto colpito la riflessione che fai sul linguaggio, che è diverso per ognuno di noi, anzi per ogni creatura vivente e che bisogna solo saperlo interpretare per imparare a relazionarsi, usandone uno che sia comprensibile a entrambi.  È cosi Romana?
Si, ho inventato un linguaggio gutturale per dare voce a Osac, perché a lui non manca la parola, bisogna solo aver voglia di capirla e non a caso Osac arriva dopo il ciclone (Le serenate del ciclone, Neri Pozza), perché sono stati due i cicloni della mia vita. Ho scritto questo romanzo perché Osac è fascino puro. Quando ci portiamo a casa un animale ci portiamo dentro la natura, basta pensare a un gatto che salta senza fare rumore sulla spalliera e sta con una zampa ciondoloni, lo guardi e vedi la savana. Osac mi è entrato dentro casa e mi ha portato mezzo Klondike e in questo romanzo, che è un esplicito omaggio a Il richiamo della foresta (di Jack London – ndr) io mi sono identificata con Osac, non con la donna che lo salva. Alcuni hanno criticato la fine, ma io credo che i libri che consolano siano spesso da buttare, mentre i libri che danno inquietudine sono da conservare. È un libro che parla di inquietudine, ma c’è anche tanto amore e alla fine tutto si ricompone. Come nella vita, che se ci fermiamo alla baionetta che abbiamo davanti agli occhi, non comprendiamo la battaglia, per parafrasare Stendhal.
È ora il turno di Simona Mangiapelo (autrice del romanzo Di nessuno, Alter Ego edizioni) dell’Associazione culturale caffè corretto che introduce Gli anni al contrario al pubblico in sala per poi porre alla scrittrice alcune domande sul testo. 
Questo libro arriva al cuore, chiarisce subito Simona Mangiapelo, anche se in alcuni punti fa male, e la scelta narrativa è puntuale, sai trovare la parola giusta per imprimerti nel cuore e nel ricordi di chi ti legge e proprio per questo ho avuto difficoltà a scegliere solo pochi brani per oggi. I protagonisti sono due ragazzi, Aurora e Giovanni, così determinati a prendere le distanze dai loro genitori al punto da non capire cosa davvero vogliono per loro stessi. S’incontrano e s’innamorano. Nel giorno del ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro e di quello di Peppino Impastato nasce la figlia di Aurora e Giovanni. Si avvicinano lentamente e grazie alla struttura delle pagine lentamente e inesorabilmente si allontanano. Giovanni è tormentato, si sente parte dell’importante movimento storico che vive, ha un’ansia cieca di rivoluzione che si rivela distruttiva e lo porta fino a far uso di eroina. In questo romanzo c’e la lotta armata degli anni settanta, la piaga dell’eroina e il dramma di due persone che vivono insieme, ma che possono essere lontane e profondamente sole. 
“Nessuno dei due aveva il coraggio di ammettere la solitudine. La casa, per quanto in miniatura, certi giorni sembrava fin troppo grande e vuota. Si specializzarono in silenzi opportuni, divennero complici e conniventi. Una sera si sedette accanto al marito con una siringa in mano: Non abbiamo mai fatto niente insieme…” (Gli anni al contrario, Einaudi) 
Simona Mangiapelo chiede a Nadia Terranova da quale desiderio narrativo è nata questa storia?
“È sempre difficile parlare di questo libro senza parlare del finale, non lo farò neanche oggi, ma è nell’ultima pagina che è depositata la mia necessità di scrivere questa storia. Non è un romanzo autobiografico o biografico, anche se i due protagonisti raccontano i miei genitori e io sono Mara che, per una distorsione narrativa, nasce il 9 maggio. Dopo aver compiuto un lungo percorso personale, per accettare la storia tormentata di Giovanni che si interrompe nel 1989, quando io ero una bambina, ho sentito il bisogno di raccontare la storia di quest’uomo, per liberarla dal tabù di silenzio assoluto che vigeva a casa mia. Mi interessava portare in salvo il destino di Giovanni e capire cosa aveva portato nella mia vita e con chi si confondeva, con quante storie comuni in quel decennio cosi particolare. Mi sono documentata su quegli anni, ma non avevo intenzione di scrivere un romanzo storico, e non volevo dare una parola decisiva. Volevo solo raccontare la storia di una persona che era uno tra tanti, uno come tanti, uno di quelli che, se fosse sopravvissuto, a distanza di anni avrebbe detto, con forte senso di appartenenza, quella è la mia generazione. Un desiderio di appartenenza che noi non abbiamo, ma che per lui rappresentava quell’immaginario che aveva condizionato profondamente le sue scelte private. Se fosse vissuto a Roma avrebbe fatto politica, ma invece viveva a Messina e quello che accadeva in Italia lo viveva in modo sconvolgente per la sua vita privata. Era un’epoca in cui la messa in gioco era personale, fisica direi, anche se Aurora e Giovanni non fanno nulla di eroico. Questa è la cifra dell’anti-eroismo di Giovanni, il contrario di quello che accade ne La Meglio gioventù (film di Marco Tullio Giordana – ndr) dove i protagonisti sono persone comuni, ma sempre in prima linea. I protagonisti de Gli anni al contrario agiscono invece per sottrazione, per quello che non riescono a fare, ma a cui sentono di appartenere. Nelle domande che mi sono fatta scrivendo, mi sono chiesta quando far iniziare la storia di Giovanni. Con la tossicodipendenza, con la malattia, con la decisione di fare politica? Ho deciso di far cominciare la storia con il concepimento di Giovanni, perché tutto nasceva da quel momento. Nato dieci anni dopo gli altri fratelli, ha fin da subito un marchio addosso di differenza e di costante ritardo, per cui Giovanni sa di essere nato per sbaglio, di essere l’ultimo e proprio per questo ha l’esigenza di afferrare qualcosa, ma di non riuscirci.
Cara Aurora… non abbiamo mai usato lo stesso dizionario, parole uguali, significati diversi. Dicevamo famiglia, io pensavo a costruire e tu a circoscrivere. Dicevamo politica, io ero entusiasta e tu diffidente. Io combattevo, tu ti rifugiavi. Se non ci fosse stata Mara ci saremmo persi subito…(Gli anni al contrario, Einaudi)
Una volta hai detto: I grandi non sono che bambini sopravvissuti, e ho pensato a Mara che sembra dirci che malgrado un passato ingombrante e tormentato, nonostante due genitori senza gli strumenti per crescerla, Mara sopravvive malgrado tutto ciò. È questo il messaggio che volevi dare?
“Sì, mi accorgo che sono ossessionata dai sopravvissuti e dal sopravvivere. Infatti il prossimo romanzo è dedicato proprio a loro, perché credo che ognuno di noi lo sia, non c’è nessuno che possa ritenersi immune da questa definizione. Nello scrivere il nuovo libro avevo la tentazione di dedicarlo a qualcuno che non c’è più ma poi ho realizzato che quello che facciamo è sempre dedicato a qualcuno che non è più con noi. La letteratura serve anche a tenere in piedi i fantasmi, a chiamarli vicino, a farli vivere intorno alla poltrona viola, ma poi la storia è letta da chi vive e da chi cerca continuamente un senso per esserci. Io ho vissuto la prima parte della mia vita segnata dal non avere più un padre, dall’averlo visto andare via molto presto, quando è morto era più giovane di me adesso e quindi ogni anno della mia vita, ancora di più dopo aver compiuto 37 anni, è un anno da sopravvissuta. Nella prima parte della vita viviamo in una dimensione mitica, soprattutto noi che siamo cresciuti senza Internet e il mio collegamento con il mondo erano i libri, Diventavo di volta in volta Il richiamo della foresta, Delitto e castigo e tutto quello che leggevo. Ero felice di questa immersione in altri mondi. Non a caso il mio scrittore preferito è Bruno Schulz perché racconta un’infanzia mitica ma non mitizzata e neanche non idealizzata perché l’infanzia è anche un luogo terribile, dove tutto succede in modo atroce, anche perché tutto quello che ci succede, accade per la prima volta: la perdita, la morte di qualcuno, l’abbandono, la paura dell’abbandono, l’amore, il perdersi. Per un bambino è molto importante la prima volta in cui si perde, è quasi una tappa di passaggio della crescita, sia per il figlio che per la madre. Quindi si, credo proprio che tutta la letteratura sia di chi sopravvive, tanto che alla fine di ogni libro potrebbe esserci la frase “sono sopravvissuto per raccontarlo”. 
E noi siamo sopravvissuti per leggerlo sottolinea Giulia Peci, un attimo prima che questa splendida iniziativa termini. 
Il prossimo appuntamento è per il 14 aprile alle 10 presso la libreria Sintetica con Isabella Borghese, Massimo Torre e Luca Ricci. A presto
  Spritz con gli autori: Romana Petri e Nadia Terranova si raccontano e ci raccontano Sabato 31 marzo ha preso il via Spritz con gli autori, una simpatica iniziativa ideata e promossa da Isabella Borghese presso la libreria Sinestetica, che sarà replicata sabato 14 aprile con Massimo Torre e Luca Ricci, rispettivamente autori di La dora dei miei sogni (Giulio Perrone Editore) e Gli autunnali (La nave di Teseo). 
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pangeanews · 4 years
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“Forse c’è un male segreto nella natura che ha permesso l’origine di questo uomo…”. Andrea Zanzotto, oltre il paesaggio
Ci sono figure della letteratura talmente poliedriche e universali, che è impensabile poterne tracciare in breve un profilo, umano ed artistico insieme, perché risulterebbe sommario, come sommario sarebbe ogni, seppur necessario, intendimento di celebrazione. È il caso del poeta Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 10 ottobre 1921 – 18 ottobre 2011), l’eco della cui scomparsa non si è ancora spenta, a dimostrazione non solo del suo immenso lascito poetico (tra l’altro, è tra i poeti italiani novecenteschi più tradotti e studiati all’estero), ma anche del suo incommensurabile lascito intellettuale e umano, che chiunque abbia avuto modo di conoscere il poeta ha potuto toccare con mano. Rimangono scolpite nella memoria quelle poche essenziali parole in risposta a un giornalista, che gli chiedeva, nel giorno del suo novantesimo compleanno, che cosa avesse capito della vita: “Niente. Ci vorrebbero non 90 anni, ma 900 anni, per poter forse sperare di capire qualcosa”. Viene qui adombrata una sorta di cronologia biologica e per certi versi al di là dell’uomo, dunque, tendente forse alle ere geologiche, o certamente appartenente ai quei ritmi naturali dai quali l’uomo, suggeriva Zanzotto, si era fatalmente sconnesso, proprio devastando il paesaggio, e solo dentro i quali l’uomo potrebbe oggi riprendere coscienza della sua dimensione fatalmente minima.
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Tale richiamo alla geologia, come storia al di sopra di tutte le storie possibili, si ritrova peraltro in un formidabile e antico pezzo critico su Montale (L’inno nel fango, 1953, in Fantasie di avvicinamento, Mondadori 1991), laddove viene esplicitata una visione dell’uomo “dannato per un’accidia cui si trova costretto”, e che “continua a gorgogliare nella belletta il suo ‘inno’, e il suo inferno è il ritrovarsi tra gusci, fanghiglie e frammenti di terra e di pietra, in cui viene a risolversi la sua umanità, il sentire che ogni storia finisce col coincidere con quella dei detriti fisici, con la geologia” – saggio esemplare quanto precursore della vastissima attività critico-riflessiva di Zanzotto (che Pier Vincenzo Mengaldo definirà, per originalità, come non apparentata con nessuna altra tendenza della critica in Italia; e per la quale Stefano Agosti non tarderà a fare paragoni con autori come Proust, Eliot e Valery; e del cui acume Stefano Dal Bianco dirà essere il prodotto di una “mente inglobante e totale”, che si avvicina all’autore analizzato con una “serie di circoli ermeneutici”), attività che trasversalmente ha accompagnato tutta la produzione poetica di Zanzotto (e senza la quale è impossibile comprenderla appieno), poi raccolta ed edita in tre differenti tempi: gli scritti sugli autori dell’Ottocento e del Novecento, sentiti come padri (Fantasie di avvicinamento, cit.); gli scritti sugli autori del Novecento, sentiti come fratelli, minori o maggiori, oppure come “altri” (Aure e disincanti del Novecento letterario, Mondadori 1994); gli scritti caratterizzati da una maggiore teoresi sulla poesia, in generale e sulla propria (Prospezioni e consuntivi, in Le poesie e prose scelte, Meridiano Mondadori 1999).
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Tuttavia, alle ere geologiche da sempre la poesia di Zanzotto ha controbilanciato, pascalianamente, la salvezza della poesia, emblematicamente rappresentata dalla “cameretta” di Petrarca: laddove Zanzotto si chiede quale posto ha Il Canzoniere “entro il ritmo, il timbro inafferrabilmente complesso dell’esistenza del poeta”, ne ricava un’intuizione che è facilmente ascrivibile alla sua, di vita: nel crogiuolo di ossimori, prima di tutto esistenziali, e poi stilistici e contenutistici, la cameretta di Petrarca – da leggere infine come una metaforizzazione di Pieve di Soligo –, è ben lungi dall’essere evasione, ma “è indizio della sempre rinnovata postulazione di un senso che chiama da altrove, e appare dunque connaturata alla poesia […]: sia verso l’edificazione delle forme, sia verso lo spazio di un’altra storia” (Petrarca tra il palazzo e la cameretta, 1976, in Fantasie di avvicinamento, cit.). Dal suo osservatorio sul mondo – Pieve di Soligo –, al pari di Leopardi, Zanzotto ha fatto della sua poesia il centro del mondo, avendolo ricondotto a sé, come nessun altro nel Novecento italiano – perché è ormai indubbio che Zanzotto sia il più grande poeta del nostro Novecento, per la qualità della poesia e la portata del pensiero.
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E quale “altra storia” si nasconda dunque Dietro il paesaggio (Mondadori 1951), dietro la rassicurante parvenza della “piccola patria” di sapore holderliniano, lo rivelano molti degli interventi di poetica di Zanzotto, raccolti nelle Prose scelte del Meridiano, nonché la memorabile raccolta di racconto Sull’Altopiano (Neri Pozza 1964), quest’ultima emblematica non solo del rapporto tra poeta e paesaggio, ma anche del futuro rapporto tra scrittore e testo (Bandini), e carica delle microstorie locali che alla fine come in un mosaico compongono la Storia, anzi l’unica storia plausibile, fino alla detonazione esposta in 1944: FAIER, alla bestemmia cioè di un paesaggio che non può ridare la vita a un giovane partigiano, e fare giustizia per il suo sangue innocente versato (e questo non è che un esempio minimo del sempre intenso impegno civile di Zanzotto): “E, anche se non ha più forza di chiamare aiuto, Gino sta in agonia, perdendosi fiotto a fiotto dentro la terra, dalle due ore senza termine di quel tramonto. Egli è assorto nel verde profondissimo del prato della sua infanzia, non può ancora veramente credere che tutto quanto gli era caro e gli sta intorno sia così sordo e duro e inerte, che la sua terra gli stia suggendo, stia riprendendogli tutte le forze”. D’altro canto, sembra suggerire il poeta, la sola storia di cui si può scrivere è alla fine quella di cui si esperisce in qualche modo, direttamente o indirettamente, ed è poi quella che scrive la poesia: in una famosa video-intervista con Carlo Mazzacurati e Marco Paolini (Ritratti. Andrea Zanzotto, Biblioteca dell’Immagine 2001), Zanzotto afferma chiaramente di avere perso la fiducia nella Storia da bambino, quando una zia gli fece notare che era inutile che raccontasse le vicende dei Romani o dei Greci, se non sapeva cosa stesse accadendo in quel preciso istante in un palazzo di Pieve di Soligo. Ed è quello che egli riafferma in una delle prose di poetica, facenti parte di Prospezioni e consuntivi (Prose scelte, cit.): “Da quale prospettiva ci si dovrà collocare per avere una visione panoramica attendibile? Quella di ‘Sirio’ non basterebbe più… oggi del resto si dubita se per caso tutto il processo che noi finora abbiamo sentito come ascendente non sia invece discendente. E non meno giustificata è quella prospettiva per cui sembra che la storia, ipertesa, tra arciarmi e arciproduzione, si avvicini a un punto X, a un momento deflagrante […]. A questo punto l’intervento della poesia, o di un certo modo di intendere la poesia, con relativi risultati, si affaccia umilmente per favorire dei tentativi di diagnosi e prognosi…”  (Il mestiere di poeta, 1965).
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La poesia si pone dunque come vera e unica storiografia possibile. Ma è pur anche il filo rosso della Storia (e della sua violenza) quello che percorre tutta l’opera poetica zanzottiana, dai primi rarefatti emblemi bellici in Dietro il Paesaggio (cit.), alle poesie elegiache dei compagni partigiani morti di Vocativo (Mondadori 1957), e che per strade sotterranee giunge fino al monolite de Il Galateo in Bosco (Mondadori 1978) – primo capitolo della cosiddetta “trilogia”, a cui seguono Fosfeni e Idioma (il primo, un viaggio verso il siderale; il secondo, un viaggio verso il locale, anche linguisticamente parlando) –, laddove “le pendici del Montello […] sono contemporaneamente luogo naturale (il paesaggio primario dell’autore), luogo storico, segnato dagli ossari dei caduti della Prima guerra mondiale, e luogo letterario (lì Giovanni della Casa scrisse il Galateo e in elogio della selva del Montello compose nel 1683 un’ode rusticale Nicolò Zotti)” (Enrico Testa). In questo spazio, dove appunto si stratificano relitti di diversa natura, “ne risulta […] un precipitare dell’io e delle sue personae verso il basso e l’indifferenziato” (Testa), dove residui umani e residui linguistici diventano tutt’uno nel rifondare un senso minimo, dato dalla memoria, e in ultima analisi, dalla poesia: “Sempre più con essi, dolcissimamente, nella brughiera / io mi avvicendo a me, tra pezzi di guerra sporgenti da terra, / si avvicenda un fiore a un cielo / dentro le primavere delle ossa in sfacelo, / si avvicenda un sì a un no, ma di poco / differenziati, nel fioco / negli steli esili di questa pioggia, da circo, da gioco” (Rivolgersi agli ossari…). E anche agli innocenti rubri papaveri di Meteo (Donzelli 1996), scritto in parte nel pieno delle guerre della ex-Jugoslavia, sono emblemi del sangue, e del guastato rapporto tra uomo a natura: “Papaveri ovunque, ossessivamente essudati, / sudori di sangui di ogni / assolutamente / eroinizzato    slombato
paesaggio / sudore spia / di chissà quale irrotta malattia”.
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Allo stesso tempo, dunque, la poesia è testimone dal rapporto tra cultura e natura, tra uomo e paesaggio; rapporto che Zanzotto fu certamente tra i primi, se non il primo, a denunciare nei suoi irreparabili guasti, già ne La Beltà (1968), recensita da Montale, che ne comprese immediatamente la portata epocale, con il suo “rumore della storia, spesso degradata a ‘storiella’, e i perfidi sibili del presente con la sua onnivora mercificazione e dissesti, anche ecologici, del paesaggio” (Enrico Testa). E infatti, in un intervento del 1972 (all’inizio della devastante deflagrazione industriale nel Nord-Est), Zanzotto scrive: “Nel rapporto natura-cultura ho costantemente sentito sia la bipolarità sia la continuità. Così, oggi, di fronte al sadico scempio che si sta facendo della natura, non so se esso sia da imputare del tutto a un tipo di cultura (che pure è aberrante in piena evidenza) o a un male segreto della natura stessa, tale da aver permesso che da lei avesse origine ‘questo’ uomo” (Uno sguardo dalla periferia, in Prospezioni e consuntivi, cit.). Riconosciuto universalmente come il “poeta del paesaggio”, tale definizione dunque rischia tuttavia di essere riduttiva, se diventa una gabbia stereotipica. È pur vero che nella citata intervista con Paolini, Zanzotto afferma la centralità del paesaggio, inteso come luogo, ma sempre in relazione all’esperienza psichica: “Per me il paesaggio è, prima di tutto, trovarmi davanti a una grande offerta, a un immenso donativo, che corrisponde proprio all’ampiezza dell’orizzonte.  È come il respiro stesso della presenza della psiche, che imploderebbe in sé stessa se non avesse questo riscontro. […] Noi in un primo tempo, siamo una specie di centro mobile, che si sposta, con noi stessi, ricentrando gli orizzonti e i limiti. Poi, mano a mano che si accumula una nostra storia psichica, ci accorgiamo di trovarci perpetuamente nascosti dietro il paesaggio – e io ho scritto appunto Dietro il paesaggio – oppure davanti, o immersi in un continuo gioco di ‘trapungere’. Un paesaggio ideato come qualcosa che punge e trapunge e di cui noi siamo una specie di spoletta, che si aggira in mezzo, che cuce… oppure qualcosa che taglia. Quindi, mano a mano che si accumula una nostra storia psichica, noi la depositiamo in questo paesaggio, che all’origine aveva già una sua autorità e che accoglie, poi, le ferite che noi gli infettiamo”. Si direbbe che in Zanzotto il linguaggio sia dunque espressione del rapporto tra questo io-psichico e il paesaggio-realtà. Nel momento della rottura del rapporto con il paesaggio, nasce allora il trauma della rottura con il linguaggio tradizionale poetico, che da La Beltà in poi diventerà “il linguaggio nella sua totalità, come luogo dell’autentico e dell’inautentico” (Stefano Agosti), nella sua irreparabile scissione tra significante e significato, tra vita psichica e mondo.
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L’ultimo Zanzotto registra nelle sue opere poetiche questa irreparabile frattura, forse la prima nella storia, e così profonda, tra uomo e paesaggio, come già avvenuta, e prospettando alla fine una salvezza nella sussunzione biologica/geologica nella Natura: in Sovrimpressioni (Mondadori 2001), infatti, “paesaggio e soggetto sono ora entrambi nella stessa barca: ci sono e non ci sono. Il personaggio in scena è un anziano signore, la cui mente è data per difettosa, mentre il fronte della natura, annichilito dai non-luoghi, è come se si sublimasse in un oggetto di percezione pura, e i messaggi che ci manda sono non-messaggi che provengono da un altrove tanto temporale quanto spaziale” (Stefano Dal Bianco). Memorabile in questo senso l’incipit della seconda parte poemetto Ligonàs: “No, tu non mi hai tradito, [paesaggio] / su te ho / riversato tutto ciò che tu / infinito assente, infinito accoglimento / non puoi avere: il nero fato/nuvola / avversa o della colpa, del gorgo implosivo”. Queste stesse “istanze costruttive e organiche del cosmo” (Dal Bianco), si ritrovano anche nel libro-testamento Conglomerati (Mondadori 2009), rappresentate sotto la veste dell’altrettanto eterno disordine; ma il libro è anche la rappresentazione di un viaggio ultramondano di matrice dantesca, che non a caso finisce però con una parola montaliana, “assenzio”, e una poeticamente universale, “silenzio”.
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Per concludere, in una lettera-saggio a Berardinelli del 1998, intitolata in origine Tra passato prossimo e presente remoto (in Prospezioni e consuntivi, cit.) – titolo poi modificato non a caso in Dai campi di stermino allo sterminio dei campi (Liberal libri 1999) –, rimangono di Zanzotto queste parole, che hanno ora valore definitivo di consuntivo: “Ho continuato sopraffatto ed esaltato ad un tempo, in questo mio atteggiamento verso l’ambiente e, se mi è capitato ben presto di sottolineare una pari minaccia sovrastante il luogo e la lingua, devo però precisare che solo con il procedere degli anni Settanta e particolarmente dopo la metà degli anni Ottanta questa minaccia si è trasformata in reale devastazione. […] La catastrofe dei luoghi e appunto dei ‘sogni’ […] è anche catastrofe dei campi, cioè della memoria, nella quale i tempi si dispongono secondo un ordine: se si fosse conservata la memoria che il progresso scientifico e tecnico era frutto della civiltà umanistica […], non si sarebbe perso di vista del tutto il nucleo utopico, […] tale […] da rendere necessario il progetto di un qualche ‘senso di realtà’. […] Se pensiamo però che la scienza-tecnica ad alta efficacia ha solo poco più di tre o quattro secoli, vediamo che sicuramente c’è ancora una lunghissima strada da fare prima di riarmonizzare le dissonanze che necessariamente in questo periodo essa ha provocato, avendo in vista nuovi assetti del mondo. Per esempio, armonizzare il tempo storico e il tempo biologico o, ancor meglio, geologico e cosmologico: noi constatiamo con quanta difficoltà le teste umane recepiscano la nostra vera condizione, specie quelle dei ‘potenti’. Se questi pensassero che dominano un pianetino, un bruscolo periferico in un’estrema galassia e che dopo tutto hanno solo quello, il loro atteggiamento sarebbe più sanamente depresso (direbbe Hillman)”. Buona eternità, dunque, ad Andrea Zanzotto, poeta di Pieve di Soligo e del mondo: infine anche il Novecento ha avuto la sua Recanati, qui e ora.
Giovanna Frene
*Opere principali di Andrea Zanzotto (poesia, saggistica, interviste)
Dietro il paesaggio (Mondadori 1951)
Elegia e altri versi (Edizioni della Meridiana1954)
Vocativo (Mondadori 1957)
IX Ecloghe (Mondadori 1962)
Sull’altopiano (Neri Pozza 1964)
La Beltà (Mondadori 1968)
Gli Sguardi i Fatti e Senhal (Mondadori 1969)
A che valse? (versi 1938-1942) (Scheiwiller 1970)
Pasque (Mondadori 1973)
Filò. Per il Casanova di Fellini (Edizioni del Ruzante 1976)
Il Galateo in Bosco (Mondadori 1978)
Fosfeni (Mondadori 1983)
Idioma (Mondadori 1986)
Fantasie di avvicinamento (Mondadori 1991)
Aure e disincanti nel Novecento letterario (Mondadori 1994)
Meteo (Donzelli 1996)
Le poesie e prose scelte (Mondadori “I Meridiani” 1999)
Sovrimpressioni (Mondadori 2001)
Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura (Nottetempo 2007)
Viaggio musicale (Marsilio 2008)
Conglomerati (Mondadori 2009)
In questo progresso scorsoio (Garzanti 2009)
Tutte le poesie (Mondadori 2011)
Ascoltando dal prato. Divagazioni e ricordi (Interlinea 2011)
Haiku for a season / Haiku per una stagione (Chicago-Londra 2012)
_________________________
[Il saggio è stato pubblicato nel “Notiziario bibliografico”, Periodico della Giunta regionale del Veneto, n. 67, giugno 2013, pp. 49-52]
*La fotografia in copertina di Andrea Zanzotto è tratta da qui
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pangeanews · 4 years
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“Lasciami al mio dilettantismo… l’importante è stupirsi, perdersi, abbracciare una causa persa”. Dialogo con Stenio Solinas
Più che all’eterno – dimensione iperbolica a cui puntano gli scrittori deboli, debilitati – qui si mira al bello, per sua natura capriccioso, istantaneo, transitorio. D’altronde, un Atlante suggerisce più che descrivere, promette più che illustrare, e se lo si percorre, in fondo, è per sbugiardarlo: dove è segnato un fiume forse è un crepaccio, il verde, sempre, è garanzia di vertigine da giungla. L’Atlante ideologico sentimentale – perché ci si gioca il cuore in una idea, e a volte le cose vanno guardate, scritte prima che vissute, volgarizzate dalla memoria che sversa nel rammarico – di Stenio Solinas, edito da poco da Gog, si può leggere in tre modi (cioè in trecento). Intanto, perché è bello – ed è sufficiente, è tutto – e il bello, che è l’incanto delle cose come sono, dell’atto furibondo perché va fatto, trascende se stessi, porta in sé un’etica. “Vinti, diversi, disadattati, sono il manifesto di una concezione dell’esistenza: è la bellezza dei comportamenti, delle azioni, dei lineamenti, dei colori, dei paesaggi che li muove e che li appaga, la vita come un’opera d’arte da contemplare e poi possedere. Fra i moderni, Stendhal è il primo a capire che l’ingresso delle masse nella storia è la campana a morto della individualità, il trionfo della borghesia non come classe, ma come sentimento, la prosa che scaccia la poesia”. Ecco, è tutto, appunto. Poi c’è l’altro modo: quello di usare l’Atlante come un atlante (d’altronde, sono 800 pagine e passa di libroide). Vi si troverà, allora, una concezione della letteratura come vita, vitalità, visione, non certo come evasione, manetta sociologica, congiura dell’ombelico, pervicacia nell’analizzare la pulsione priva di esplosione. E quindi: Giambattista Piranesi e Jean Cocteu, Ernst Jünger e Joseph Conrad, Kate Moss e Irène Némirovsky, Patrick Leigh Fermor e Maurice Sachs, Norman Douglas e Walter Chiari… Chiaramente, un atlante è un groviglio di avventure, di precipizi, l’attitudine all’avventatezza. Chi conosce Stenio Solinas, tra i rari che pensano ancora che un ‘pezzo’ giornalistico sia un romanzo sull’unghia, un’oasi di splendore, un modo di abitare il mondo – ricordo, tra l’altro, a volo di falco, il libro su Chateaubriand, 2011, quello su Henry de Monfreid “l’ultimo avventuriero”, 2015, la biografia di Wyndham Lewis, 2018, che dicono già di chi si sceglie, sempre, i personaggi laterali, inopportuni, diseducati, memorabili per contraddizione – potrà giocare comparando le sezioni di questo Atlante (“Italia”; “Francia”; “Donne (fatali)”, “Vite (esemplari)”, “Orientalismi Esotismi Snobismi”) a quelle di altri libri (Vagamondo, ad esempio), stimolato dalle ricorrenze, dai bagliori, dagli abbagli. Il terzo modo per leggere questo Atlante – tra i trecento ammissibili, compreso quello di strappare un foglio che vi ha trafitto, correre nella prima biblioteca che capita e pretendere quel libro che, siete certi, vi farà percorrere tutti gli amori e tutti i fallimenti – è il mio. Lo si legge per imparare. Non si impara soltanto come si legge – pagina 197, La commedia ritrovata, Stenio mi rappacifica con Balzac, “Per un paio di settimane mi sono chiuso in casa con Balzac e nessun invito, seducente, intrigante, importante, appagante, è più riuscito a schiodarmi” –, ma come si legge la vita. Cioè, come si scrive. Pigliate Seduttore a tempo pieno, pagina 613, si tratteggia la vita di Porfirio Rubirosa, diplomatico, sportivo, play boy, domenicano, ricco. “Alla fine si decise, salutò, montò sulla sua Ferrari e partì. Uscì di strada al Bois de Boulogne e si impastò contro un castagno. Il necrologio del londinese ‘Times’ parlò della ‘morte banale di un diplomatico di secondo piano che veniva da una piccola nazione’. Era corretto nella sua meschinità e meschino nella sua correttezza. Delle sue ex mogli, solo Danielle Darrieux rilasciò una dichiarazione: ‘È morto come ha vissuto e come avrebbe desiderato. In modo violento e veloce’. Odile lo pianse per un anno, poi si consolò”. Qui c’è levigatezza, dedizione, rapidità. Ritmo. Cioè, vita. Questo non si impara nelle scuole di scrittura. Lo sa chi sa stringere una mano, sorridere con complicità e cinismo, chiudere gli occhi a mezzogiorno, per il gusto. (d.b.)
Parto a contrario. Qual è il tuo rimorso giornalistico, l’autore di cui avresti voluto scrivere ma…, l’incontro mancato, il ‘pezzo’ irrisolto?
Più che mancato, rinviato. Da ragazzo lessi Les Bestiaires, di Montherlant, un romanzo che è pura gioia di vivere, sfrontato e allegro, la giovinezza come una corrida dove la paura è non solo legittima, ma va messa in conto, sappiamo che è dietro l’angolo, sappiamo che ci coglierà, siamo vulnerabili, esseri umani, non superuomini. E che gioia però quando riusciamo a farle fronte… Di Montherlant poi negli anni ho letto tutto e mi ha sempre incantato la classicità di uno stile che sopravvive indenne a ogni sussulto di modernità. È un mondo a sé e un mondo a parte e per molti versi una sorta di breviario esistenziale: Service inutile è un trattato del ribelle juengeriano scritto con trent’anni d’anticipo, il “passaggio al bosco” rispetto allo strapotere della società, delle convenzioni sociali, degli obblighi sociali e allo stesso tempo il gusto di battersi per ciò che si sa già perdente, o per un qualcosa che non lo merita…È uno scrittore che amo molto e su cui però ho scritto pochissimo. Il perché sta nella pederastia da rapina della sua sessualità. Io non ho nulla contro gli omosessuali, non abbiamo gli stessi gusti, ma, pazienza, sono affari loro e non affari miei. Non ho nulla nemmeno contro l’attrazione per l’adolescenza, preferisco le jeunes filles agli efebi, ma, anche qui, come sopra. Ma in Montherlant c’è qualcosa del cacciatore seriale da giardinetti e da sale cinematografiche che non mi piace, che lo avvilisce. Moralismo? Può darsi. Incapacità di mettersi nella testa di chi nel Novecento si ostinava a vivere secondo i costumi e la sessualità della Roma dei Cesari, della Grecia di Socrate? Senz’altro. Come che sia, prima o poi su Montherlant ci scriverò un libro.
Vado all’estremo. Delle vite (più o meno esemplari) che hai narrato quelli che avresti voluto fosse la tua – e perché. 
Direi Patrick Leigh Fermor. In giro per l’Europa a vent’anni, eroe di guerra a trenta, bello e amato dalle donne, proprietario di una splendida casa in uno splendido angolo di Grecia, scrittore di libri che resteranno, una vita lunga, senza in pratica aver mai lavorato, e, fino a novant’anni, in buona salute. Cosa si può volere di più? A tutto questo aggiungerei l’essere stato giovane in un’epoca in cui la modernità, per quanto distruttiva, pensa alle due guerre mondiali, non era però così pervasiva nelle vite individuali. Esistevano ancora le distanze, i tempi, i silenzi, gli anonimati e le differenze… È un ritmo di vita che in qualche modo è riuscito a sopravvivere fino ancora agli anni Cinquanta, in specie in quella periferia dell’Europa che era allora la Grecia, il sud d’Italia e della Francia, una certa Spagna e Fermor si è formato e fermato proprio lì, il sole del Mediterraneo come rifugio e rivelazione, come consolazione.
Dedichi una porzione del tuo Atlante alla Francia. Eppure gli autori che citi di più – sfoglio l’oceanico indice dei nomi – sono Hemingway e Fitzgerald, autorevoli scrittori statunitensi. Spiegami. 
La Francia, se vuoi, è un’educazione intellettuale, la lingua, la storia, un’idea di cultura. In altri miei libri, Compagni di solitudine, L’onda del tempo, Percorsi d’acqua, Vagamondo, c’erano gli scrittori che qui rimangono più sullo sfondo, penso a Malraux, a Céline, a Morand, a Chateaubriand, naturalmente. Ciò che della Francia mi interessava far risaltare nell’Atlante era un modello di civiltà, una continuità fra Ottocento e Novecento, la mitologia e la mitomania che si accompagna a certi ruoli e a certi luoghi: la letteratura come religione e/o come piacere, e quindi Balzac, Stendhal, i Goncourt, Cocteau, Léautaud, la Costa Azzurra e la Bretagna, i moschettieri e gli aristocratici di ventura, gli ussari e gli esteti. Detto questo, Hemingway e Fitzgerald fanno parte della mia educazione sentimentale, li ho letti a quindici, sedici anni. Se vuoi, in quella frase del Grande Gatsby, “così continuiamo a remare, barche controcorrente risospinte senza posa verso il passato” si racchiude un po’ la mia vita.
Qual è stata l’infatuazione letteraria (e dunque, esistenziale) della tua giovinezza – e quella d’adesso. 
Dice quel personaggio della Condition humaine di Malraux. “On fait toujours la même chose”… Si hanno sempre le stesse infatuazioni, anche se cambiano i contesti, i riferimenti, ci si arricchisce o ci si depura. Questo autunno uscirà per Neri Pozza Saint-Just. La vertigine della rivoluzione, una riflessione più che una biografia. Sono sempre stato attratto dalla politica come battaglia delle idee, l’avventura come ideologia e l’ideologia come avventura, una specie di apprendistato al proprio tempo, un modo per dare un senso a sé stessi e alle cose. Mi ha sempre attratto l’oscillazione continua fra contemplazione e azione… Saint-Just ne è un compendio perfetto, lo studente svogliato che sogna di diventare uno scrittore e si ritrova, per l’azzardo di una data, l’irrompere improvviso della storia, a incarnare il Terrore nella Francia rivoluzionaria dell’89, uno di quei “sognatori di giorno” di cui parla Lawrence nei Sette pilastri… Piaceva a Drieu come a Camus e insomma, come vedi, è un eterno ritorno.
Citi una volta Gadda, una volta Sciascia, una quindicina Parise: cosa ne devo dedurre? Forse va riformulato il canone dell’intelletto italico? Dimmi, all’istante, l’autore italiano più sopravvalutato, il più sottovalutato. 
Però c’è Casanova, le cui Memorie sono il più bel romanzo italiano di tutti i tempi. E c’è il Salvatore Satta di Il giorno del giudizio, forse il più bel romanzo italiano del secondo Novecento…Hai comunque ragione se il senso della tua domanda ha a che fare con una valutazione più generale riguardo a un canone letterario nazionale, ma l’Atlante non ha niente a che vedere con la critica letteraria. Io so benissimo che Gadda, per riprendere il primo nome che fai, è un grande scrittore, ma non è il mio scrittore: per me in letteratura, più che in ogni altro campo, si ama solo ciò in cui ci si ritrova. Si va in cerca di ciò che può aiutarci a conoscersi meglio, il che è già molto. Nei grandi che ci hanno preceduto si guarda come a uno specchio ed è la nostra immagine quella che ci viene rinviata…Tornando all’Italia, più specificamente alla narrativa italiana, se da bambino e poi da ragazzo ti ritrovi in Salgari, in Stevenson, in Dumas, nel Tom Sawyer o nell’Huckleberry Finn di Twain, in Hemingway, nell’Ussaro sul tetto di Giono, come diavolo potrai mai appassionarti a Moravia, a Pavese, a Vittorini, a Pratolini, tutti degni di rispetto, naturalmente? Al contrario, si capisce benissimo la passione per Parise, o per Comisso, o per Malaparte… Aggiungi che il romanzo italiano è un fiore di serra, non è naturale, è artificiale e il cerchio, pur con tutte le eccezioni che però confermano la regola, Tomasi di Lampedusa, Berto, La Capria, si chiude. La migliore narrativa del nostro Novecento l’hanno scritta i saggisti, un giorno se vuoi te ne faccio l’elenco… Quanto ai romanzieri sopravvalutati, dei viventi direi tutti. Degli scomparsi, Camilleri. Fra i morti sottovalutati, Quarantotti Gambini.
Dovendo formulare un Nuovo Canone dell’Occidente, chiamiamolo così, chi sono gli autori di cui, con urgenza, vorresti scrivere la nota biografica?
Presumi troppo da me. Non sono Harold Bloom. Lasciami al mio dilettantismo, per quello che può valere.
La porzione più curiosa del tuo libro mette insieme Oriente, esotismo, snob. Si sente, quasi, una aristocrazia della dissipazione, l’arte di percorrere i deserti con impeccabile eleganza. Cosa ti attrae di quei temi?
Proprio quello che tu dici nella domanda, la dissipazione, l’eleganza, una certa aristocrazia del vivere, il non stare a misurare costi e benefici, il non mettere il proprio dio nella carriera, lo stupirsi e il lasciarsi andare, il perdersi sperando di ritrovarsi. L’inutilità, anche, ovvero l’appassionarsi a quello che non serve, l’abbracciare una causa proprio perché è una causa persa.
Mi pare che allo ‘stile’ con cui scrivi i ‘pezzi’ si imparenti uno stile nel vedere la vita, un modo di vivere. Qual è?
Nella scrittura lo stile è l’unico bene che sia nostro, è il marchio di fabbrica che ci contraddistingue, il nostro piccolo o grande contributo alla bellezza, alla creazione di qualcosa di bello. È anche ciò che ci riscatta dalla monotonia del vivere, fa da argine al dolore del vivere, anche se non lo elimina, ci tiene al riparo dalle brutture del mondo. C’è una bella frase della moglie di Chatwin relativa al marito: “Nel suo mondo tutti gli anatroccoli erano cigni”. Anche nel mio.
In fondo, a che serve la letteratura? Che senso ha attraversare i libri scritti da altri, scrivere le vite degli altri?
I libri, certi libri, ti aiutano a vivere, ti insegnano a vivere. Sono i compagni di solitudine di tutti quei solitari a disagio nella realtà: orgogliosi e scontrosi, timidi e superbi. Ti confermano nelle tue passioni e nei tuoi odi, ti rivelano quello che fino a un momento prima avevi solo intuito, sono una dinamo per la tua fantasia, contribuiscono alla formazione di un carattere perché ti mettono di fronte a degli esempi a cui sai che non potrai mai arrivare, ma ti tengono in uno stato continuo di tensione. Non è tanto o solo “attraversare i libri scritti da altri” o “scrivere le vite degli altri”… È la consapevolezza che una vita non basta, che siamo un io molteplice, che incessantemente si lavora per essere quel qualcos’altro che ci siamo scelti per modello: si indossano maschere che ci migliorano e che alla fine corrispondono meglio alla nostra natura perché illuminano ciò che vorremmo essere, ciò che potremmo essere se le circostanze, la vita, il caso non congiurassero contro, tarpandoci le ali del sogno. Nel voler essere c’è un’idea di grandezza che il lasciarsi vivere non contempla.
*In copertina: Salvador Dalí; Solinas gli dedica tre articoli, sotto il titolo “Come si fabbrica un genio”, pagine 491-496 del suo “Atlante”
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pangeanews · 5 years
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“Viviamo tutti nel cervello di Philip K. Dick”. Discorso sulla “Trilogia di Valis” (ovvero: questa vita non è la nostra…)
Mi aggiravo famelico per la metropoli. Ne ho metrato l’inconsistenza bibliografica. Avrò razziato, credo, una decina di librerie, in ogni rivolo di periferia. All’epoca non funzionava il commercio digitale – d’altronde, ora, mi rifiuto di farmi sua preda. Cercavo un libro. Uno e trino. “Valis”.
*
Non sono un fan di Philip K. Dick. Voglio dire. È un archivio di ossessioni e di intuizioni formidabili, d’inesausta energia. Preferisco altra scrittura. Diciamo che mi figuro l’incontro tra Philip K. Dick e Jorge Luis Borges sul lago di Ginevra, a discorrere come esseri fuori dal tempo di una Bisanzio su Venere. Eppure, per quel libro di Dick ho varcato Milano, sciacallo dei libri, da un lato all’altro.
*
Come sanno i fan, nel 1974 PKD è folgorato da una visione – quei giorni tra marzo e febbraio sono la sua Patmo, il suo Bodh Gaya, l’albero di fico e il roveto ardente, l’angelologia e lo scudo di Achille. PKD crede di essere stato ‘visitato’, finalmente, e con fierezza denuncia ciò che per i mistici è abbecedario minimo: “Ho fatto esperienza di una invasione della mente da parte di una intelligenza razionale e trascendente, come se fossi stato pazzo per tutta la vita, mi sono scoperto improvvisamente sano”. L’esito primo di questa esperienza mistica è un libro, imperfetto, Radio Free Albemuth, scritto nel 1976 e pubblicato postumo, nel 1985. Di fatto, è il canovaccio di “Valis”, opera inclassificabile, più vangelo che romanzo, più teologia che letteratura, più eresia che eremitaggio nel linguaggio. Il ciclo, pubblico tra 1981 e 1982, è costituito da Valis (1978; l’acronimo sta per “Vast Active Living Intelligence System”), Divina invasione (1980), La trasmigrazione di Timothy Archer (1981). Il ciclo, come “Trilogia di Valis”, è stato pubblicato da Mondadori nel 1993, la mia edizione è quella del 2000, per la ‘Piccola Biblioteca Oscar Mondadori’ (e la cura di Vittorio Curtoni); ora lo pubblica Fanucci.
*
Su “Valis” s’è detto tutto – per alcuni è il progetto letterario di un malato (ma senza malattia non si dà grande libro), per altri un capolavoro. Kim Stanley Robinson, nell’introduzione al libro mondadoriano, trova conforto citando William Blake: “Valis è il monumento di una mente che si è rimessa in sesto, dopo essere giunta sull’orlo del precipizio”. Ted Gioia fa la critica ai critici, parla del ciclo come di “una distorsione del Tractatus di Wittgenstein, riformato in incubo”, che, insomma, “questo lavoro regge il confronto con Pynchon, Heller, Vonnegut, e tutti quelli che hanno ridefinito i confini della narrativa americana degli anni Sessanta e Settanta”. D’altra parte, non c’è nulla di sconcertante in Dick: dal 2009 pure “Valis”, la trilogia, è stata installata nell’edizione sontuosa delle opere di PKD, presso la collana della “Library of America”. Come Melville, Hawthorne, Henry James e William Faulkner, anche PKD è uno dei cardini della letteratura – cioè, dell’immaginario – americana. “Viviamo, ora, nell’universo ideato da Dick allora: abitiamo nel suo cervello, in un certo senso”, ha detto Jonathan Lethem, che ha curato le opere di Dick per la “Library of America”. Sostanzialmente, ha ragione. In verità, qui siamo un passo in là.
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La trama del ciclo la trovate in rete, non è essenziale. Il romanzo di Dick – eccolo, il passo in là, nell’al di là della narrazione – non è sapienziale né gnoseologico. Non c’è nulla da conoscere, semmai da disconoscere; si assembla un’enciclopedia di maestri e di testi – da Eraclito ai Dogon, dal pensiero degli Esseni a quello taoista – per annientarli, per ucciderli citando (“le citazioni sono quindi la sintesi di un processo analitico frammentario, non verificabile, non omologabile – schizofrenico”, scrive Curtoni). Gli eroi dei romanzi, sgangherati, da Horselover Fat a Manny Asher a Angel Archer, cercano l’altro mondo oltre la crosta di questo, la parola vera che si nasconde sotto la custodia alfabetica di quella reale, la vita autentica al di là di questa, scalfita dalla menzogna, aggiogata al male.
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Dal punto di vista formale, PKD sconfina nell’altro lato del narrare. Crea trame che s’insidiano a vicenda e testi apocrifi, come il Tractatus: Cryptica scriptura che costituisce il ‘negativo’ di Valis. “La materia è plasmabile di fronte alla Mente”; “Uno a uno, egli ci estrae dal mondo”; “Se i secoli di tempo spurio venissero asportati, la data vera non sarebbe il 1978 ma il 103 a.C. Perciò il Nuovo Testamento dice che il Regno dello Spirito giungerà ‘prima che taluni di coloro che adesso vivono siano morti’. Dunque noi viviamo nei tempi apostolici”; “La Mente non parla a noi, ma per mezzo di noi. La sua parola ci attraversa e il suo dolore ci infonde di irrazionalità”. Il romanzo, Valis, è il commento al Tractatus. Non tanto la ricerca di Dio – il mostruoso, l’ignoto – ma il recupero dei frammenti. Suturare il patto – snaturare la follia in fede.
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Nel ciclo si discetta dello Zohar, della Prima lettera ai Corinzi di San Paolo, dei manoscritti di Nag Hammadi: PKD opera congiungendo l’invenzione al fatto, l’apocrifo all’apolide, perché la teologia, appunto, è la punta estrema della fantascienza. Tra i testi remoti che possono aver costituito lo schema del ‘romanzo teologico’ di PKD cito Il libro dei segreti di Enoch. Testo del I secolo, pubblicato per esteso nel 1880, racconta il viaggio celeste del patriarca biblico. “Il Signore chiamò Vereveil uno dei suoi arcangeli che era abile a scrivere tutte le opere del Signore. Il Signore disse a Vereveil: ‘Prendi dei libri dai depositi e consegna un calamo a Enoc e dettaglia i libri’. Vereveil si affrettò e mi portò dei libri screziati di smirnio e mi consegnò un calamo dalla sua mano. Mi diceva tutte le opere del cielo e della terra e del mare e i movimenti e le vite di tutti gli elementi e il cambiamento degli anni e i movimenti e le modificazioni dei giorni… e ogni lingua dei canti delle milizie armate” (cito dagli Apocrifi dell’Antico Testamento, a cura di Paolo Sacchi, Utet 1989). Scrivere significa accusare il potere di un altro, condividerlo, risignificare l’angelico.
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L’altro testo necessario è il poema gnostico, Pistis Sophia, sgorgato da Alessandria nel III secolo, noto dal Settecento. Il testo è, a tratti, una spiegazione dei detti evangelici di Gesù con lo scopo di elevare gli adepti/eletti al “regno della luce”, liberandosi dalla lordura materiale. “Rinunziate a tutto il mondo e a tutta la sua materia, per non assommare altra materia alla vostra”; “le emanazioni della luce, essendo pure, non hanno bisogno dei misteri; ne ha invece bisogno il genere umano poiché gli uomini sono tutti resti materiali” (cito da Pistis Sophiam a cura di Luigi Moraldi, Adelphi 1999). Il mondo è un enigma inviolabile, grave di violenza, perché la materia, lurida, rende ciechi. Scopo, attraverso la parola cifrata, di cui solo i pochi fanno pasto – PKD, d’altronde, è scrittore pop con scrittura esoterica – è slegarsi dallo schifo che ci impania, dalla ‘ragione’ e dalla ‘materia’ che ci appesantisce, nuotando verso la luce. Altra vita – la vita, in sé – è inutile, è ritorno al gorgo del fango.
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“Ho sognato di un altro luogo, un lago a nord con delle villette e piccole fattorie… Dove esiste in realtà questo lago, e le case e le strade attorno a esso? Un’infinità di volte l’ho sognato… Nei sogni sono sposato. Nella vita reale, vivo da solo. Cosa ancora più strana, mia moglie è una donna che non ho mai visto nella realtà. In un sogno, noi due siamo nel giardino posteriore, intenti ad annaffiare le rose e a potarle… Chi è questa moglie? Non soltanto vivo da solo; non sono mai stato sposato, né ho mai visto questa donna. Eppure nel sogno provo un amore profondo, piacevole, familiare per lei, il genere di amore che si forma solo con il passare di molti anni”. La dolce ferocia di PKD, qui, sembra la stessa che avvertiamo in una scaglia di Eraclito – viviamo dormienti, viviamo dormendo –, nella nostalgia di Gesù provata da Giacomo, nel verso abissale di Pindaro – “Sogno d’un’ombra, l’uomo” – nella poesia di Yeats, nel gergo di Shakespeare. Percepiamo, tutti, di avere avuto in premio un’altra vita, che qualcuno sta vivendo per noi, che siamo nel sogno di un altro, sinistro e dispari, nel sogno sbagliato, che hanno giocato a dadi con le culle, con le cronologie, con i pianeti, forse. (d.b.)
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pangeanews · 5 years
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“Da bambina leggevo Pinocchio e Piccole donne… i miei preferiti di sempre sono Rimbaud, William Blake, Melville e Burroughs, il mio maestro”: la biblioteca ideale di Patti Smith
Lo scorso venerdì 7 giugno Patti Smith è passata da Taranto, sul palco del Medimex. Chi l’ha sentita in quell’estremo punto sul mare si ricorderà dell’evento – Patti accanto alle cozze e ai pescatori, qualcosa di eccitante oggi che le abitudini americane ci sbattono ogni sera in faccia la pubblicità della cocacola da assortire con gli spaghetti.
Patti è un’americana di un’altra generazione, di diversa stoffa. Non è quella che cerca i suoi feticci americani in giro per il mondo. Quindi se arriva nella nostra docile periferia italiana, sia essa Bologna, Firenze o Taranto, si lascia travolgere da quel che vede. Una sola parola per lei: artista, poeta.
*
Patti Smith è come quei santoni che giravano nel mondo pagano quando i suoi abitanti non sapevano se passare al cristianesimo. Ogni volta che lei appare, poi, sbuca la lista delle sue letture consigliate: così si crea una lista affastellata ed è meglio non soffrire di vertigini perché i cantanti modaioli ci fanno scordare che ci sono eccezioni come Patti Smith: una lettrice onnivora. Poeta. Di nuovo. C’è solo questa parola per chi stila un elenco come quello che trovate qui e che rimane invariato da un decennio.
Davanti al profluvio d’arte che incrocia la vita e si scatena in una lista errabonda è inutile tentare di arrivare al cuore del labirinto classificando gli autori selezionati, pesando chi compare due volte e chi una sola e quanti autori parlano la stessa lingua. Meglio lasciarsi travolgere, farsi attraversare dalla preghiera di parole per cercare scampo negli autori amati.
La playlist di Patti Smith è quindi composta da Il Maestro e Margherita, da una doppietta di Herman Hesse e di Melville, dai sacri Burroughs, Ginsberg, Blake e Rimbaud. Poi, dalla meno scontata Charlotte Brontë, dalle preziosità di Wilde (Il principe felice) e di certo Gerard Nerval (Donne del Cairo). E ancora: dal potente Sotto il vulcano, dall’inquietudine di Pessoa, dalle bizzarrie di Daumal (La gran bevuta), di Lovecraft e Sebald. La scelta di Patti Smith si orienta poi verso libri più celebrali e saggistici come Huntley (The divine proportion) e si fionda in salvo in un angolino (Poeta a New York di Lorca e L’onore perduto di Katharina Blum di Böll).
*
Questi elenchi. È come se chi li inventa componesse un romanzo, più che un mosaico. Prendete un bibliotecario coraggioso come Borges, di lui rimane l’elenco formulato per Maria Ricci con La biblioteca di Babele (che palle quei caratteri elegantini, quelle copertine blu! per rubare l’opinione di Carmelo Bene al riguardo…). Del resto, chiedere un elenco è come cercare un medicamento: servirà? E quanto? Pensate un po’ che le ultime parole in USA sono un genere letterario-editoriale.
Ora miscelate le due cose: passione per le ultime volontà e lista dei libri imperdibili, e con Borges il risultato è tremendo, irriconoscibile, come quando si fa dire l’impossibile al destinatario delle nostre preoccupazioni.
Così, per la gioia dei folli, l’ultimo elenco stilato da Borges per Hyspamerica e tranciato, incompiuto, dalla morte dell’autore, si compone certo di libretti che da noi si chiamano ‘adelphine’. Ma spuntano poi ovunque certi autori impensabili per Borges, per come lo conosciamo dalle pagine scritte. Si trovano elencati Wilkie Collins (un Dickens fallito), Buzzati coi suoi tartari (come dire: Borges che si plagia), Ibsen (la noia astrofisica), Nobel improbabili (O’Neill) e scelte, appunto, da bibliotecario che ti volta le spalle e si fa i fatti suoi (Ariwara no Narihara).
Ecco perché oggi gli argentini veri sono scettici verso questo Borges mistificato, di maniera, reliquia pop e virtuale tirata su con elenchi postumi come quello per Hyspamerica.
*
Va sempre così, l’elenco è quello, si stratifica ma poi cambia poco. Ecco spiegato perché Patti Smith lo mantiene negli anni. Ed è comunque una lista più avventurosa di quella che girava da noi con le Centopagine, un ritrovato grazioso di Italo Calvino che ebbe vita postuma (la dannazione degli elenchi!) come supplemento de l’Unità.
Per dire, Calvino voleva rifilare al pubblico italiano questi filetti indigesti: Iginio Ugo Tarchetti, Fosca; Henry James, Daisy Miller; Edmondo De Amicis, Amore e ginnastica; Gaetano Chelli, L’eredità Ferramonti; Marchesa Colombi, Un matrimonio in provincia; Angelo Costantini, La vita di Scaramuccia; Guido Nobili, Memorie lontane;  Nyta Jasmar, Ricordi di una telegrafista… insomma, su 77 titoli il tremebondo languore italico sfondava, nei desideri di Calvino. Pensate che incluse anche questo lavoro di Giovanni Cena, Gli ammonitori, che leggete qui.
Conclusione lapalissiana: non si sbaglia mai così tanto, per gusti ed azzardi, come quando si redige un elenco. In questo contesto dove i sommi Borges e Calvino ci inducono a perplessità per le loro scelte di libri, è un toccasana dare uno sguardo all’America, alla sua poesia, alla sua musica. Meno male che Patti Smith ha toccato le coste italiane. Per capirla ancora meglio, eccovi una delle sue ultime interviste per Rolling stone. È stata rilasciata lo scorso dicembre prima del concerto al Greenwich Village di New York. Per il genere di domande gli yankee, quali gli asciutti puritani che sono, si tratta di un’intervista “ingenua”. Evviva le ingenuità allora, se vanno più a fondo degli alambicchi editoriali di Italo Calvino.
Andrea Bianchi
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Libri favoriti da bambina.
Tra i primi, Pinocchio, non la versione Disney ma quella di Collodi. Ho ancora la mia copia sbrindellata di Un giardino di versi per bambini di Stevenson e Uncle Wiggily che andava di moda un secolo fa. E poi Piccole donne!
Tra Piccole donne e un personaggio inventato per le sognatrici come Jo March, ti sembra che ogni generazione cada nel mal d’amore per le stesse cose?
Sai che io mi vedo in lei, era un po’ mascolina quando si arrampica sugli alberi e lassù leggeva libri, scriveva. Sono cresciuta negli anni Cinquanta, il genere era molto definito, come devo dirti? Ero molto stranita davanti a quel che mi si chiedeva in quanto ragazza, così incontro Jo ed è davvero come me: un’epifania, lei era responsabile e amava la famiglia ma si manteneva riservata e non si lasciava fasciare dalle aspettative del genere “come devo vestire e comportare?”. E questo è accettatissimo, oggi. Se guardi il retro di Horses, è del ’75, era una copertina fatta per provocare e resistere, diceva “oltre il genere”. Non volevo essere identificata in termini di genere – la mia identità doveva essere quella dell’artista.
Hai eseguito Horses recentemente, dall’inizio alla fine. Quel vinile resiste al tempo, che dici?
Se le persone vogliono ascoltare Because the night dopo, diciamo, 2000 volte che l’hanno sentita, io lo farò per loro finché gliela posso restituire con reale entusiasmo. Non farò un falso: se rientro in quell’impulso iniziale che me la fece scrivere, la canto ancora. (…)
Film o serie tv che guardi ogni settimana.  
Guardo tutte le serie di detective UK: non lo facevo mai, poi vent’anni fa mi è saltato il matto e ho cominciato a guardare i detective di ogni paese europeo. (…)
La musica che ti scuote. 
Amo troppo l’opera, da Wagner a Puccini, ma quando scrivo mi piace la musica senza parole, quindi potrei sentire Glenn Gould o – proprio ora – la mia colonna sonora ideale è quella di Ghost in the Shell, ma non il film, proprio il manga su schermo, l’ho fatto arrivare dal Giappone.
Le tue letture, oggi. 
Murakami ha un libro in arrivo che sembra buono, ho avuto occasione di leggerlo, mi piace molto l’autore. Roberto Bolaño: amore. Perché l’amore espande le cose come fa lui coi libri, quando li lega l’uno all’altro, ha proprio stabilito un nuovo calco entro il quale colare libri, paesaggi, esperienze con maestria di linguaggio. Inteso che amo allo stesso modo Modiano, sai che mi piace l’invenzione nei libri anche se per la maggior parte i libri che leggo sono in traduzione, per fortuna qui i traduttori lavorano bene. Quand’ero ragazza gravitavo verso la Francia letteratura e ora dedico più tempo alla Germania, al Giappone. Se sei lettore non cambi né cambierai: quando viaggio, dimentico calzini, spazzolini, intimo. Posso vivere senza. Se dimentico un libro non riesco a stare seduta tranquilla.
Alla mostra su Bowie è stata esposta una sua biblioteca portatile, stava in una valigia che si portava in giro. L’hai vista? 
No, ma penso che anche Bob Dylan vada in giro con pile di libri, io invece ne prendo un paio perché voglio essere leggera, almeno il mio bagaglio è il più leggero tra quelli della band e ho solo una piccola Rimowa: in aereo me lo metto ai piedi, altrimenti niente. Comunque l’idea di Bowie era carina: anche se in viaggio puoi fare scoutismo libresco e trovare quel che ti va ovunque tu vada.
Il miglior consiglio ricevuto. 
Ero abbastanza giovane, 1970 o 1971, mi era offerto molto denaro per fare un film e poi incidere un album ma quella proposta voleva mettermi in una forma che non era la mia. Non avevo soldi, lavoravo in libreria. E stavo seduta a parlarne con William Burroughs e mi dice “La cosa migliore che tu possa fare come artista è mantenere lindo il tuo nome”. Divenne il mio amuleto. Ti associano agli anni Settanta.
Cosa ti manca di quel periodo? 
Bene, la struttura economica, e la sua architettura, e poi la pizza! la pizza costava 25 centesimi a fetta ed era fatta in modo naturale, ovunque andassi, era squisita. Ora viene 4 dollari a fetta e non sembra nemmeno una cosa reale al palato. So che è un dettaglio, ma è indicativo di molte altre cose.
Essere madre – come si ripercuote sul lavoro? 
Da giovane artista, diventi il centro dell’universo o qualcosa di simile. Sei molto… compiaciuta. Anzi no, preoccupata solo per te stessa. Fa solo parte dell’orgoglio mitologico dell’artista. E poi per una volta hai una famiglia, intuisci che quel centro non c’è più, è stata una buona lezione da apprendere perché sono ancora in grado di svolgere il mio lavoro – solo con maggior disciplina che da giovane.
Spesso sali sul palco coi tuoi figli. Dicci. 
Mi piace, siamo famiglia. Abbiamo tutti responsabilità professionali, ma sono sempre la loro mamma, vedi, e loro i miei bambini, a volte è divertente, altre volte confortevole. Ma dico sempre ai miei figli “non vi preoccupate se qualcosa va male a causa vostra o mia – fate il vostro meglio e rimanete in collegamento”. Amo lavorare con loro perché hanno qualcosa di loro padre [Fred Smith, già chitarrista degli MC5] ed era in gamba come musicista. Entrambi gli fanno onore. Uno di loro ha un tono con la chitarra uguale a suo padre e mia figlia un modo di comporre al piano come lui, e quindi ne sento la compagnia quando suoniamo insieme.
La morte ti spaventa? 
No, voglio dire che vorrei vivere a lungo perché ho tanto da fare. Vorrei vedere crescere ancora i miei figli, ho moltissime idee. Così spero soltanto di sapermi prendere cura di me stessa e avrò tempo per il resto. Mai avuto problemi coi vizi, unica dipendenza il caffè: e poi anche amare è un’altra dipendenza. Non state a preoccuparvi per me.
* le traduzioni sono di Andrea Bianchi
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pangeanews · 6 years
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“Vorresti che l’uomo diventasse immortale?”: il questionario di Nabokov per la donna doc. T.S. Eliot, invece, s’impegnava a far pubblicare il romanzo lesbo
È uscito un altro pezzo da novanta dell’editoria griffata Faber&Faber: The letters of TS Eliot. Volume 8, £ 50,00. L’editore che fu di Eliot ne appronta l’edizione completa delle lettere. Anzi non proprio, alcune sono state scartate, le trovate qui (tseliot.com). Opera meritoria, quella inglese. Opera di pietà non solo per la storia, ma per l’uomo.
Voglio dire. Perché in Italia gli editori persistono ed insistono coi tomi monumentali ma trascurano il lato umano, talvolta umanoide e paranormale, del letterato, quello che viene fuori (se esiste) dalle sue lettere private? Una prima risposta plausibile. Siamo un popolo inguaribilmente spirituale, non ce ne f***e nulla di come si arriva a partorire l’opera. Che drammi ci sono dietro, per dire. Un italiano non capisce che se vuoi scrivere una buona biografia puoi mettere insieme fino a tre volumi e aggiungere due appendici dove copi l’elenco delle donne che frequentava lo scrittore, a pedaggio (non invento, prendere il volume terzo e ufficiale dedicato a Graham Greene).
Oppure, altro lato della medaglia. Siamo gente, al contrario, talmente crassa e materialista da dare per scontato che gli scrittori (i poeti, poi!) siano citrulli e le loro lettere un’esibizione inutile.
*
Fate voi. Io decreto in una biblioteca londinese occupata da ragazze velate, ché i brit sono nei grattacieli a sonnecchiare le finanze, che le lettere di Eliot sono di estrema qualità.
*
Scrive così ad esempio in una missiva inclusa nell’ultimo volume (e notare che Faber&Faber ancora rimanda l’edizione delle prose sapendo di contare sui devoti lettori di epistolari, e per Eliot ci sono ancora ventisette anni da coprire): “Sono discretamente d’accordo che ci siano in giro troppi libri, e che per la maggior parte questi siano poi troppo lunghi. C’è la tendenza dei libri a dire con sovraccarico di parole quel che si può dire in poche pagine, nessun dubbio al riguardo. E questo significa deterioramento della lettura in generale tra il pubblico, il quale diventa un bovino ruminante: può solo nutrirsi con chili d’erba, ma rifiuta cibo più concentrato e leggero”. Scritto a un articolista, poi, quindi senza riserve ipocrite come nel caso che si rivolgesse e a un lettore – anzi con tocco di rimprovero, perché chi più degli articolisti dice cose inutili e bazzecole.
*
Rimedio. Proposta consueta di almeno una poesia sulla prima pagina dei giornali. Poi, più sessualità in tutti i libri, e guardate che anche un fringuello infreddolito come Eliot faceva quel che poteva nel lanciare la letteratura erotica con Faber&Faber, mentre l’editore aveva riserve per Nightwood di Djuna Barnes (Adelphi 1983; libro del 1936 arrivato da noi con Bompiani nel 1962, altro che santa Inquisizione). Ebbene Eliot ribadiva all’editore: dobbiamo farlo. Anche se è storia che parla di una lesbica. Mentre Geoffrey Faber scrive a Eliot di essersi “sempre sforzato, nel privato, di evitare di ingigantire il sesso”, la risposta del poeta è secca. “Non vedo gran senso in tutto ciò. All’opposto, tentare di mettere il sesso al suo posto è di per sé segno di instabilità”.
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Insomma. Queste lettere di Eliot, 1100 pagine da sommare alle 7600 già pubblicate, ci stordiscono per il valore e il segno di grazia e il morso con cui ti stringono e ti annullano. Perché quel che conta è lo stile di Eliot. Sebbene ripetitive nel dare suggerimenti e avvisi a colleghi e e scrittori, queste lettere ci indicano nientemeno che una lezione di condotta e gentilezza, una posa che non si rifiuta mai ad un aiuto invocato. Una dimostrazione, hanno scritto i giornali UK, di grazia posta sotto pressione.
Non lo so. Mi viene da credere che forse in Italia non ci meritiamo figure simili. Non riusciremmo a capirle. È vero che anche Eliot aveva i suoi vezzi – ad esempio, fece domanda per essere ammesso nel Servizio e giustamente fu negletto perché non affidabile (in effetti rimase un americano).
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In definitiva, Eliot fu uomo complesso, uno che nelle lettere scriveva di tutto, ricette per insalate, appunti da Henry James, spunti sull’amore animale (“senza l’amore di Dio che informa ed intensifica ed eleva gli affetti umani, non ci distinguiamo dagli affetti animali”) e sull’affetto umano: “tra due persone, quali che siano, e più intime tra loro più notevole la cosa, interviene questo – un irrisolvibile elemento di ostilità. Attrazione e repulsione giungono a fare i conti tra loro e questo compone l’affetto permanente”.
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Siccome però le lettere di Eliot sono sovrastimate per malinteso senso patriottico albionico, voglio proporvi un saggio di cosa scrivono gli altri. Prima traduco una missiva di Ted Hughes (Faber&Faber 2007). Sentimento del cielo dove in una riga parli di botte e encomi, alla fine un apprezzamento ironico delle amicizie altrui. E il destinatario della lettera era una specie di Virgilio inglese, Stephen Spender (1909-1995).
Poi un pezzo girovago di Nabokov alla moglie Vera. Si erano sposati nel ’25, lui aveva 26 anni e lei 24 ma che freschezza nella lettera, che è della fine del ’26 (stampa Penguin, 2014).
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Nota per ragazze incazzose cui gli spasimanti mandano foto di uccelli e loro a dire ‘vogliamo le lettere d��amore come le nostre nonne’. Le lettere d’amore del Novecento non sono l’equivalente delle vostre diatribe fallofore su whattsapp, mi dispiace molto ma è così una volta si scriveva nella certezza che non esiste solo l’arnese e la sua amica, e che anche la penna secerne inchiostro glorioso.
Andrea Bianchi 
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Ted Hughes a Stephen Spender, 16 novembre 1985
Ho sempre pensato che i tuoi primi lavori fossero la poesia più viva del tempo, e penso sia ancora vero. Uno dei loro problemi (delle poesie) è che divennero troppo noti all’epoca. Ma questo avvenne, ne sono certo, per una ragione molto valida, e ora la generazione dei tuoi figli risentiti e invidiosi o sta tirando le cuoia o sta acquistando lumi di buon senso, è chiaro. Questo penso. La tua poesia era ‘viva’ nel senso che eri nudo davanti a te stesso, i livelli della tua percezione, primitivi immediati, si mostrano agevolmente sulla superficie della tua scrittura. Cosa che non accade in Louis McNeice e in WH Auden occorre solo nelle poesie mezzo-sonnambule – This lunar beauty.
Ma la stessa cosa (almeno per me) si manifesta in tutto il tuo scrivere ed è ancora molto forte nei pezzi diaristici recenti. Questi sono i miei favoriti. Mi sarebbe piaciuto che tu l’avessi fatto per tutta la tua vita. Non tanto per una questione di immagini ma di tono – atmosfera, una presenza.
Ora mi aspetto che invece di essere aggiogato per tutti i giorni ad Auden in pubblico, tu ti aggioghi a lui anche nei cieli – è vero siete entrambi Pesci ma avete la luna in Gemelli, un fatto curiosisismo.
Ted Hughes
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Vladimir Nabokov a Berlino a Vera Slonim nella Foresta Nera, sanatorio di san Biagko, Berlino 11 luglio 1926
Tigrotta,
Ho finito la carta da lettere – devo usare i fogli protocollo e non mi fa sentire libero. (…) Con Raisa ho composto le domande per un questionario che ti spedisco con preghiera di farci caso. (…) Mia dolce, solo quando tornerai ti dirò quanto tu mi sia mancata, senza fine – ma ora non dovresti saperlo – “mi sto divertendo un mondo” – e devi rimetterti in forze. Mia dolce, la piccola scatola da lettere color rosso ginger sta per esplodere, è grassissima, tanto di guadagnato per te invece. Ma le rose sono scomparse dal mio tavolo: sono durate più di un mese. Per qualche ragione ora sono stato a pensare che la vita sia lo stesso cerchio di un arcobaleno – ma possiamo vederla solo in parte, nell’arco colorato. Mia dolce…
V.
Questionario per immodesti e curiosi (per nessuno obbligatorio)
1- Nome patronimico e ultimo nome
2- Pen-name e se ne hai molti segna quello favorito
3- Età ed età favorita
4- Attitudine verso il matrimonio
5- E verso i bambini
6- Professione e professione favorita
7- In che secolo vorresti vivere
8- E in che città
9- Da che età hai i primi ricordi e quali sono
10- La religione esistente che più si avvicina al tuo modo di vedere
11- Che tipo e genere di letteratura preferisci
12- Libri favoriti
13- Opera d’arte favorita
14- Attitudine verso la tecnologia
15- Apprezzi la filosofia? Come studio, passatempo…
16- Credi nel progresso
17- Aforisma favorito
18- Lingua favorita
19- Su quali fondamenta poggia il mondo?
20- Quale miracolo compiresti, se potessi
21- Cosa faresti se ricevessi improvvisamente un monte di denaro
22- Attitudine verso la donna moderna
23- E verso l’uomo moderno
24- Virtù e vizio che preferisci e disapprovi in una donna
25- E in un uomo
26- Cosa ti dà il miglior piacere?
27- E la peggior sofferenza?
28- Sei gelosa?
29- Attitudine verso le bugie
30- Credi nell’amore?
31- Attitudine verso le droghe
32- Il sogno che non hai dimenticato
33- Credi nel fato, nella predestinazione?
34- La tua prossima reincarnazione?
35- Paura della morte?
36- Vorresti che l’uomo diventasse immortale?
37- Attitudine verso il suicidio
38- Sei anti-semita? Sì, no, perché?
39- “Ti piace il formaggio?”
40- Veicolo favorito
41- Attitudine verso la solitudine
42- E verso la nostra cerchia di amicizie berlinesi
43- Dalle un nome
45- Menù ideale
L'articolo “Vorresti che l’uomo diventasse immortale?”: il questionario di Nabokov per la donna doc. T.S. Eliot, invece, s’impegnava a far pubblicare il romanzo lesbo proviene da Pangea.
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