#più focaccia con le cipolle per tutti
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I piaceri della vita ❤️
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Focaccia messinese: alla norma, capricciosa, con funghi tradizionale con patate e pancetta, con cipolla
Mimì e Gegè e la focaccia alle cipolle
“Gegè devi dormire!!” Si disse per l’ennesima volta girandosi nel letto che a forza del suo inquieto muoversi prima da un lato poi dall’altro era uno sfacelo con coperte e lenzuola ormai per conto loro. Il fatto era che aveva litigato con Mimì e quando questo accadeva, gli veniva una raggia (rabbia) che per un giorno aveva nu scattu di nebbi che avrebbe preso il mondo e lo avrebbe buttato all’aria. Con la mente ritornò all’inizio della tragedia, quando erano entrati nella rosticceria del loro amico Geraldo. Una volta arrivati la moglie di Geraldo non era alla cassa per accompagnarli al tavolo come amichevolmente faceva di solito. Seduta alla cassa c’era la suocera di Aldo, una signora ancora con l’aria giovanile, con un enorme decolté dove un delfino tatuato nel seno sinistro saltava in una minna enorme che, con la gemella, si allargavano abbronzate, profumate e vogliose per la gioia degli occhi dei clienti del locale. La signora, con la sua chioma ossigenata, era tutta cunsata (vestita elegante), con un vestito turchese ed era avvolta in una nube di Paciulli tanto forte che stordiva. Per completare il quadro aveva gli occhi pittati (colorati) con un ombretto dello stesso colore turchese del vestito, cosa che a Gegè ricordò subito il trucco delle donnine nude che da sole o a coppie si offrivano sulle copertine dei film porno danesi degli anni settanta. La signora si alzò e li accompagnò al tavolo ancheggiando con il culo enorme quanto il seno e ormai informe ma proprio per questo volgarmente provocante. Mostrava inoltre, a causa della gonna che arrivava a metà coscia, due gambe scolpite dalla cellulite ma messe in bella evidenza senza vergogna alla “mangiami-mangiami” Gegè era entrato immediatamente Nella modalità “Studdutu di sticchiu”, nel senso che si era dimenticato dove era e con chi era e seguiva quel culo come il gregge segue il culo del pastore. Arrivati al tavolo si era perso nel seguire il delfino tatuato saltargli davanti mentre la signora allisciava la tovaglia per liberarla da pieghe invisibili facendogli dondolare sotto gli occhi quel seno floscio ma abbondante, disponibile e voglioso. Infine seguì con interesse l’ammasso di gelatina del sedere allontanarsi mentre ballonzolava ad ogni passo degli zamponi depilati della signora. Tutto questo Gegè osservava senza accorgersi di come Mimi lo stesse a sua volta pietosamente guardando stupita e delusa, e, cosa peggiore, incazzatissima. Gegè si voltò nel letto perché a questo punto viene la parte peggiore della serata: arriva il cameriere! Un essere strano e lungo-lungo, che tutto gentile incominciò a chiedere a Mimì cosa volesse mangiare e lei ripeté quello che da sempre aveva preso da Geraldo: un arancino, duecento grammi di focaccia tradizionale, duecento di Norma e duecento con le patate e per finire uno sfincione di riso ricoperto di zucchero. Insomma, il minimo per sopravvivere e di ben inferiore a quello che Gegè avrebbe ordinato. Ora, quell’anima longa del cameriere incominciò a dire che la focaccia con le patate non c’era! Doveva scegliere tra quella alle cipolle o quella con i funghi. I due incominciarono a discutere su quale fosse la più buona. Ogni tanto il cameriere guardava Gegè di sfuggita, forse solo per tenerlo buono, gli faceva un sorrisino da pigghiata pu cucu (presa in giro) e tornava a parlare fitto fitto con Mimì. Poiché negli altri vediamo sempre i nostri difetti, Gegè incominciò a pensare che il cameriere dava corda a parlare a Mimì per poter vedere dall’alto la sua scollatura che era cosa che faceva resuscitare i morti. Al pensiero degli occhi lascivi di lui sulla morbida e soffice pelle di Mimì, il sangue gli incominciò a pulsare nelle tempie. Per cui incominciò a guadarlo di traverso, come pure guardava la moglie mezzo incazzato per il suo smuffuniari cu da cosa longa e ‘nutili. Si incazzò ancora di più quando il cameriere se ne andò e lei lo osservò andar via guardandogli il culo. “Chi ti vaddi?” chiese con uno scatto di nervi. Lei lo guardò stupita e seccata rispose “Picchì? Jo non pozzu vaddari?” Gegè capì dal tono e da come lei aveva pronunciato “Jo” che stava per cadere in un precipizio e, malgrado ne avesse coscienza, sentandosi nel giusto come tutti i ladri che hanno appena rubato, ci si buttò senza esitare. “Ma comi? Se sei cu mia ti metti a vaddari l’autri?” “Ma tu lo sai chi è quello?” “Chi minni futti cu jè e cu nun è: se ci sono io, a me devi guardare” “Ma se tu hai lasciato una scia di bava dietro il culo della suocera di Aldo ora mi vieni a fare la predica” “Non cambiare discorso…” “E poi quello lo sai chi è ? - Gegè stava per rispondere ma ormai Mimì era scatenata - Quello è Tonino u Sciantusu, u zitu di Cammelu “gnagnà”” La visione di Cammelu detto Gnagnà per evidenziare le sue movenze molli e la sua parlata strascicata e femminina (che accentuava quando a Carnevale si vestiva da damina veneziana del ‘600), gli apparve di fronte con effetti devastanti “Il fidanzato di Cammelu…?” “Si u zitu u zitu! Jo non m’aviria a preoccupari picchi a vecchia ci vaddi u culu e non ti accorgi che u Sciantusu buttava l’occhio tra le tue gambe a prendere le misure: non hai visto come si nagava (ancheggiava) per richiamare la tua attenzione? “ “A me attenzione? Ma chi minni futti ammia du Sciantusu” “E da soggira di Aldo tinni futti o no?” “Ma figurati si pensu a da vecchia….” “Eh si intantu i minni ci vaddavi a di sacchi i bettula vacanti chi ti pinnuliavanu davanti (sacche flosce, di bettola che ti pendevano davanti)” E per sottolineare il concetto fece dondolare mollemente davanti a lui la mano chiusa punta “Ma chi dici….” Ma ormai l’ira di Mimì era un crescendo inarrestabile di critiche e lamentele. Alla fine , mangiato l’arancino, lui chiese di mettere tutto in una scatola portavivande e di andarsene a casa a finire il pranzo. Fu peggio. Se da Geraldo lei si lamentava di lui sottovoce, in macchina gridava e a casa urlava. Alla fine disgustata, dopo aver sbattuto tutte le porte di casa, Mimì se ne andò a letto dove, dopo qualche ora, con la speranza che lei dormisse, andò anche lui, senza però riuscire a prendere sonno. Raccontato il triste antefatto torniamo in tempo reale con Gegè che si gira e rigira nel letto passando dal sonno alla veglia con randomica continuità. Stava sognando che era su una spiaggia colore della pelle delle minne monchie (molli) della vecchia suocera, con le onde del mare colore del vestito da vecchia jarrusa (buttana). Le onde andavano e venivano con lui che pancia all’aria cercava di sciogliere il proprio io nel mare e finalmente dormire. Invece si svegliò nuovamente. Mimì girandosi nel letto nervosamente lo aveva richiamato alla realtà. Si girò verso di lei per addormentarsi e nel buio vide che era sveglia e che lo guardava con due occhi che sembravano due stelle gemelle nella notte. Gegè penso che l’amore è solo una minchia di parola che ti rovina la vita, ma lei ci credeva, e questa sua fede, rendeva questa parola reale, vera! Lui non poteva passarci sopra e lasciare che la sua ciolla si godesse Mimì mentre gli donava il bene più grande che sentiva, per poi pensare di fottersi la prima vecchia monchia che incontrava. In amore bisogna pensare per due, trovare un punto di equilibrio e viverlo insieme. Se uno pensa solo per se, l’amore diventa una prigione da cui si vuole solo scappare. Lei lo amava forse di più di quanto lui l’amava, la prova era nel suo non riuscire a dormire, sconvolta come lui dal litigio avuto, mentre lui voleva solo dormire per dimenticare tutto e nascondere il problema. Non poteva far finta che non era successo niente e lasciarle sprecare il suo amore. Quell’amore apparteneva anche a lui e lui doveva santificarlo come se fosse il bene più prezioso che, chi lo amava, gli affidava. Un figlio invisibile di cui lui doveva prendersi cura. Tutto questo pensò stupendosi lui stesso della lucidità e profondità che aveva avuto. Capì anche che in fondo erano questi pensieri (che la parte più profonda del suo io distillava dentro di lui) che non lo facevano dormire frustandolo con sensi di colpa e impietose considerazioni di se stesso. Si avvicinò e mise le sue gambe tra quelle di lei che subito vi si attorcigliarono intrappolandole. Avvicinò lentamente le sue labbra a quelle di lei e la baciò “Scusami – sussurrò con un filo di voce – mi sono comportato da scemo” E la baciò ancora Sentì le sue labbra cedere mollemente come la prima volta che l’aveva baciata “Si cretinu – fece lei impietosamente - chi vaddi i vecchi e laidi quannu ci sugnu jo…..?” “È chi nui masculi ragiunamu ca minchia….” Sentì la mano di lei scendere lungo il suo corpo ed afferrare il sopradetto centro del ragionamento dei maschi “Jo ta tagghiu sta cosa sa mustri (se la mostri) a n’otra” “Farivi nu tortu sulu a tia stissa” Rispose lui pronto e prima che lei potesse rispondere le mise tutta la lingua in bocca, a sfidare la sua perché lei a stringere u micciu (lo stoppino) l’aveva fatto crescere a dismisura “Faresti solo un torto a te stessa – ripetè sorridendo - u sai chi jè sulu toi.” Mimì sorrise e nel buio il suo sorriso apparve a Gegè la luce di una stella cadente “Videmu” e prese tra sue labbra il labbro superiore di lui succhiandolo e mordendolo e mentre lui apriva la bocca per rispondere al suo attacco, la lingua di lei ne approfittò per entrare e scendergli fino quasi in gola. Lui lasciò fare mentre la sua mano scivolava sul seno si lei e lentamente scendeva verso il cespuglio che lei aveva tra le gambe ad abbellire u pacchiu. Ma non arrivò fino a li in fondo, si mise a stringere e tirare forte i peletti , come a sfidarla. Lei accettò la sfida e mentre la sua mano destra stringeva il micciu di lui e con il pollice ne sfregava la punta per farlo crescere da XL a XXXL, con la mano manca, la mano del diavolo o del cuore, gli stringeva e rilasciava le sfericità terminali, quasi a gonfiare l’asta di cui l’altra mano violentava la parte più sensibile della punta. Il risultato fu che lui senti defluire verso quel pezzo di carne periferico, tutto il sangue del suo corpo. Lei rimase soddisfatta e forse ingolosita dalle dimensioni e dalla durezza, o forse voleva sottolinearne la sua proprietà assoluta e quindi ne prese possesso rovesciando lui sulla schiena e salendogli sopra e facendo scomparire l’obelisco dentro il suo ventre. Incominciò a muovendosi avanti ed indietro, come una valchiria sulla sua cavalcatura celeste, schiacciando il corpo di Gegè contro il materasso con le braccia tese appoggiate al suo petto, mentre le minne le dondolavano seguendo il suo divorare e rilasciare e nel far così, sbattevano contro la sua camicia da notte, gonfiandola e sgonfiandola nella penombra della stanza. Lui afferrò le minnone e le strinse come se fossero palloncini di plastica da far scoppiare. Mimì aumentò il ritmo alzando la testa e chiudendo gli occhi come se dentro di lei stesse crescendo qualcosa che non voleva fermare. Lui lascio la minna e fece scendere lentamente la sua mano destra sulla schiena di lei sfiorandola appena e facendole venire la pelle d’oca. Ora, tanto per non limitare il racconto ad una minimale storia pseudo erotica, devo dirti che Gegè amava immensamente la schiena di Mimì. Di nascosto l’aveva fotografata con il telefonino dopo che lei si era fatta la doccia e si stava asciugando i capelli. Al lavoro osservava sempre quella foto con la schiena tutta nuda e le mani di Mimì tra i suoi capelli a farla risaltare nella sua sinuosa seduzione. Ogni giorno ne studiava ogni dettaglio, ingrandendola per poterne vedere ogni neo, ogni più piccola parte che sognava di poter baciare, accarezzare e leccare. I primi tempi che osservava il telefonino si era sentito un maniaco e preso da uno stupido sussulto di perbenismo, pensò di cancellare la foto, ma non vi riuscì. Quella era la sua Mimì, quella che viveva dentro i suoi desideri, non poteva vergognarsi di lei, di come le veniva la pelle d’oca quando la sfiorava scivolando con le dita dalla spalla fino a dove la schiena da piatta diventava tonda. Gegè pensò a lungo a questo suo pensiero dominante in cui la schiena di Mimì era la sua porta del piacere. Si disse infine che ormai, quando facevano l’amore, erano come due ballerini di tango che sanno a memoria i gesti e le mosse l’uno dell’altra. Così lui sapeva come portarla avanti ed indietro nella loro danza sensuale e lei lo seguiva lasciando fare, sapendo dove lui voleva arrivare e pretendendo che lui capisse cosa lei volesse senza doverglielo dire. Lo scopo della loro danza non era il godimento finale, intenso e provvisorio, ma il viversi continuamente e per sempre. I loro corpi erano solo un mezzo per poter vivere e dare sfogo a quello che dentro di loro sentivano. Come amanti, esistevano grazie all’abbraccio dei loro corpi a prova di quello delle loro anime. Era questo quello che la foto gli aveva fatto capire e per questo conservava nel telefonino la sinuosa e pallida schiena di Mimì, perché quella era l’essenza ed il motivo di baci delicati di morsi e leccate che ognuno di loro due apprezzava dentro di se nel suo modo, ma insieme all’altro. Nel desiderare e immaginare, lui capiva e sentiva il suo amore per lei e in questo non c’era nulla di sbagliato perché alla fine tutto quello che facevano, senza limiti e per come desideravano e sognavano, non era altro che il modo di concretizzare e vivere il loro amore. Per questo la mano destra di Ģegè incominciò a scendere fino al tondo sedere e provando il piacere di immaginare di farlo con la sua lingua, come già aveva fatto e come presto avrebbe rifatto, perché Mimì sapeva rendere reali tutte le fantasie che gli nascevano dentro. Questo per lui era amarsi: godere l’uno dell’altro. Arrivato in fondo, alzò la mano e diede uno schiaffone rumoroso a quella golosa sofficità dicendole, quello che sentiva dire in simile circostanze nei tanti film porno che aveva visto e da cui aveva imparato quell’alfabeto del sesso che Mimì aveva trasformato in poesia. Così con enfasi le disse “Moviti Troia” Era il suo sogno mutuato da altre perversioni, ma non era quel tipo di gratificante degradazione che Mimì poteva condividere in quel momento, visto che lui la stava paragonando alla vecchia sucaminchie della suocera di Aldo. Mimì sembrò svegliarsi dalla salita verso l’estasi che aveva intrapreso e Gegè vide le sue minnone scendere minacciose verso di lui e la piccola mano di Mimì afferrargli i capeli e, stringendoli, piegare la sua testa a novanta gradi, quasi a staccargliela. In quella posizione scomoda vide brillare gli occhi tondi della sua caramellosa Dea-bambina e la sua piccola dolce bocca aprirsi per sillabare con veemenza “Strunzu!” Gli occhi di fuoco di Mimì lo incenerirono e poi le labbra di lei prossime a quelle di lui, lo baciarono o forse lo morsero perché nel viscidume delle lingue che lottavano per dare od avere ancor più piacere, lui sentì anche sapore di sangue. Il bacio di Mimì fu come buttare benzina su un pagliaio che già bruciava, tanto che lui incominciò a stringerla schiacciandola su quell’enorme vulcano di fuoco che lei stessa, per la sua volontà e piacere aveva creato e che ora lui le donava senza alcun risparmio. Mimì staccò le sue labbra da quelle di lui ed i suoi immensi occhi tornarono a guardarlo quasi a vederlo per la prima volta mentre la bocca restava aperta a mostrare il piacere per l’intensità con cui il suo corpo era unito a quello di lui e di come quello di lui la stesse intensamente e profondamente esplorando “Si strunzu …..” Ripetè in un sospiro addolcito dal mieloso fuoco che la divorava e tornò a baciarlo, delicatamente, pudicamente quasi fosse un bambino a cui bisognava perdonare una monelleria. Lui ne approfittò e intreccio le sue mani dietro i fianchi di lei spingendola ritmicamente avanti e indietro contro la sua boscaglia di peli, con il suo ciollone-batacchio che suonava a festa nella campana di lei. Mimì si eresse su di lui illuminata nel buio della stanza, dalle righe di luce dei lampioni che filtravano dalle persiane. Lanciò un grido silenzioso per far uscite i raggi del sole che stava splendendo dentro di lei. Gegè la trovo bellissima e con la mano entrò tra le loro due pelurie anch’esse mischiate, bagnate e aggrovigliate, andando a cercate l’inizio delle sue labbra e il punto dove incominciava il suo piacere. Raggiuntolo, incominciò a giocarci accarezzandolo velocemente e poi agganciandolo con un dito, lo tirò quasi a strapparglielo. Mimì si curvò su di lui con la bocca spalancata a far uscire il troppo piacere che era esploso dentro di lei. Alla fine cadde su Gegè travolta dall’intensità di quanto provava, con il respiro e il cuore che correvano per dare aria all’anima travolta del Big Ben di luce che aveva creato dentro di lei un universo di beatitudine. Gegè la strinse a se, quasi provando nel vibrare delle sue cosce, nel fuoco che era avvampato tra di esse e nel loro liquido scomporsi, lo stesso suo piacere. La danza che li aveva uniti e portati in una dimensione fatta solo dei loro corpi e delle sensazioni che provavano era improvvisamente finita. La realtà era tornata nelle righe di luce sul soffitto, nel suono di una sirena che si allontanava, nello scroscio d’acqua di qualche bagno nel condomino. Lei aprì gli occhi dopo non si sa quanto tempo e guardandolo gli disse “Vieni” Volendolo su di se per donargli quanto lei aveva già provato “No si stanca …. Domani” Disse Gegè sentendo il suo respiro affannoso e vedendola stravolta dalla fatica e dal piacere. Lei si accuccio tra le sue braccia e lui tirò la coperta a coprirli fino alle orecchie. Bastò meno di un minuto perché Mimì sembrò addormentarsi mentre Gegè restò ad osservarla stupito di quello che avevano fatto non per la solita abitudine e senza averlo programmato, quasi per semplice istinto, per riconfermarsi che quanto era successo non aveva nessuna importanza. Poi lentamente scivolò finalmente sulla soglia del sonno e stava felicemente attraversandola quando Mimì con gli occhi chiusi disse qualcosa in un sospiro, “Ti lassai a fucaccia ca cipudda. Dumani mancittilla (mangiatela)” Allora Gegè al pensare che domani alzandosi avrebbe fatto colazione con la focaccia calda con le cipolle dolci, fu intensamente felice che Mimì esistesse e che l’amasse quanto lui non riusciva neanche a immaginare. La strinse forte e abbracciato a lei scivolò lentamente nel desiderato sonno pensando che questo per lui era l’amore: sacrificarsi per chi si ama.
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Buon sabato a tutti🥂. Dopo la diretta di facebook di ieri voglio postarvi le tre fotografie delle focaccia di patate che abbiamo fatto ieri insieme. E ricordarvi ancora una volta la ricetta. FOCACCIA DI PATATE. 300 gr di patate bollite 1 kg di farina 500 gr di acqua 30 gr di olio evo 30 gr di sale 25 gr di lievito schiacciate le patate, unite gli altri ingredienti e fato un impasto morbidissimo ma molto liscio. Mettete subito l’impasto in una teglia oleata e allargatelo subito. Se volete condito come ho fatto io con pomodorini e cipolle e salvia e fatelo lievitare per 2 ore. Condite con acqua e olio evo sbattuti insieme, un pizzico di sale grosso e cuocere le focacce a 180 per 15 minuti circa. Non vi rimane che provare a farla e sono sicuro non smetterete più #focaccia #focacceris #diegobongiovanni #chef #cucinatipica #cucinapiemontese #poattitipici #italianstyle #cucinaitaliana #cucinadicasa #pizza #corsidicucina (presso Costigliole d'Asti) https://www.instagram.com/p/B_slzJKgqQX/?igshid=di2wd8k49bic
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Esercizi di stile (filastrocche in rima)
Fin dal primo incontro con Diego Marcon, l’artista che segue il gruppo di OGR YOU per tutto il 2019, abbiamo ragionato su come la variazione della forma può determinare il contenuto dell’opera. Prendendo spunto dal libro di Raymond Queneau “Esercizi di stile” (Exercices de style, 1947), dove lo stesso racconto viene narrato in 99 chiavi diverse, questa volta l’aneddoto di base proposto da Diego si è trasformato in poesie e filastrocche in rima. Buona lettura!
Nicola Cassarino
Panettiere verso sera
entro sola e tutta seria
un, due passi, prendo un trancio,
me ne vado, sto correndo.
Alla fermata la mattina
felice abbraccio la mia bambina
non mi guarda, non c'è storia
lei è sola e tutta seria.
Elisabetta Ghignone
Dall’altro lato della strada
penso sia dove vada,
a far con il pane dei bocconi
per i colombi, che sembrano piccioni.
È la ragazza che ieri sprezzante,
saltò la fila incurante,
con un vecchietto che indispettito,
le gridò contro alzandole il dito.
Eleonora Numico
Le luci pallide dei lampioni
riflesse in una ciocca bionda
e nella crosta oliosa
di una focaccia appena comprata
Si spengono nel becco
di una colomba affamata.
Anche la bellezza
si può mangiare.”
Sofia Casini
“Voglio quattro ciabatte e un po’ di focaccia
Se obietti ti dico una parolaccia.”
“Signorina, mi scusi, lì c’è una fila”,
Dice il vecchio seduto sulla panchina.
Ma la ragazza non se ne cura,
Tanto lui presto andrà in sepoltura.
Accanto a una chiesa la riconobbi
dar da mangiare a dei colombi.
Eriсa Vallerga
Venticinque anni aveva la donna
le gote rosate e ciocche fino alla gonna
a grandi falcate compie un gesto oltraggioso:
saltando la fila fa un vecchio geloso,
che allora si arrabbia e alzando la voce
la sgrida — e da lei manco uno sguardo veloce.
Lo ignora e poi esce, soddisfatta e fiera,
l’indomani mattina sfama un’intera schiera
di colombi o piccioni a nessuno è poi chiaro:
la fretta sfama anche il pennuto più ignaro.
Francesco Scollo
Avere vent'anni e sempre fame,
Capelli lunghi e gote arrossate
Avere molta fretta o poca educazione
Saltare la fila per ordinare.
Averne sessanta, tutti sul broncio
Che ti si stampa sul viso per rimproverare
Chi ha vent'anni e ha preso un trancio
E porta il figlio a passeggiare.
Benjamin Cucchi
Ciabatte sotto braccio,
in fila in edicola
a procurarsi un libraccio
temendo di sembrar ridicola.
Legge il libraccio aspettando
il pullman, la noia va ammazzando.
Sale e verso un posto va
dove non sa che cosa troverà.
Marco Giordano
Dal fornaio di via Flaiano
Una donzella entra pian piano
E con sguardo noncurante
Si dirige dal mercante
Un vegliardo arzillo e tardo
La rimprovera dello sgarbo
Ma infischiandosene altamente
Se ne va beatamente
Il mattino dopo, dai gradoni
Con un pupo sfamai piccioni.
Fiammetta Fulio Bragoni
Si sta
come in panetteria
sulla focaccia
le cipolle
Papà alza la voce
vergogna atroce
tu non te ne interessi
neanche ci guardi, due fessi
domani ti rivedo
per la strada mi chiedo
ma ai colombi non piace di più
il pollo allo spiedo?
Mattia Cervo
Una ragazza
Una focaccia
Un signore
Col bastone
La mattina
La signorina
Con un bimbo
E un colombo.
Beatrice Tozzi
Alla sera,
del pane vorrei comprare
Solo un po’ di spesa
si tratta di fare
Mi superano, io non protesto
a guardare la bionda ragazza già mi svesto
Quattro ciabatte e un trancio di focaccia alla cipolla,
della coda se ne sbatte,
aria da rampolla.
Michele Borrè
Ero in coda dal panettiere vero sera
E già da un po' la mia faccia di rabbia è nera
Entra una bionda che senza alcun pretesto
Supera la fila con passo lesto
Ordina quattro ciabatte e una fetta di focaccia
Io mi giro verso il mio amico e sussurro “avvedi sta bagascia!
Queste son le cose che proprio non accetto
Prima che esca le faccio lo sgambetto”.
Matteo Abrate
La ragazza venne di notte
Entra dal panettiere, via alle botte
Davanti a lei un signore
Lui la guarda senza amore
Lei la supera a gambe tese
Lui la manda a quel paese
Focaccia con cipolle e ciabatte
Prende tutto e se ne sbatte
La morale della storia
Superare la coda non porta gloria.
Alberto Nidola
Ogni sera almeno una volta ci guardiamo
ma non possiamo dire che ci desideriamo;
a chiamarci non è un desiderio, un’attrazione,
ma tante piccole cose che ci circondano.
A richiamare il nostro sguardo è la voce di un anziano che rimprovera un ragazzo,
è la fila che ci separa, il profumo della focaccia.
Lì alla fermata del pullman,
è il tubolio dei colombi a chiamarci.
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Una meta charmant. Il Principato di Monaco
I suggerimenti più glamour per un soggiorno nei quartieri storici del Principato di Monaco
Il Principato di Monaco, che da sempre attrae per la sua aurea regale, in primavera risveglia i sensi: le rose che tornano a fiorire regalano nuovi odori, l’offerta enogastronomica rinnova i sapori, le Spa rigenerano corpo e anima e i tramonti sul mare garantiscono visioni spettacolari.
Con una premessa del genere non possiamo certamente rimanere sedute davanti a un computer. Prepariamo la valigia e andiamo insieme alla scoperta del Principato di Monaco.
Non distante dalla nostra amata Italia sorge il Principato di Monaco, città-stato indipendente conosciuta per l’eleganza degli edifici, le ripide scogliere a picco sul mare e il mix di lusso e tradizione.
Tra i suoi quattro quartieri storici troviamo Monte Carlo, meta incantevole da cui comincia il nostro viaggio; Monaco-Ville, il quartiere più antico che sorge sull’originario nucleo fortificato; La Condamine, il cui porto ospita la sede dello Yacht Club de Monaco; Fontvieille, di fondazione risalente agli anni ’70 del secolo scorso.
Monte Carlo. Il quartiere del lusso e dello charme
Cominciamo la giornata con una colazione all’italiana da Cova, in Boulevards des Moulins, dove tradizione e lusso trovano il connubio perfetto.
Rimaniamo colpite dal suo design, che riprende lo stile raffinato dei Café milanesi, con l’unica ma sostanziale differenza che qui siamo sotto il sole della Costa Azzurra.
Ricaricate le energie, ci spostiamo in Piazza del Palais Princier. Qui ogni giorno alle 11.55 si svolge un particolare rituale che attrae chiunque desideri rivivere le tradizioni regali del passato: il cambio della Guardia dei Carabinieri del Principe.
Non solo, il Palais Princier è anche uno scrigno di tesori contenente opere d’arte inestimabili, con la sua galleria italiana e i suoi affreschi del XVI secolo. Trascorriamo così la mattinata all’insegna dell’arte e del passato, cose che sappiamo fare bene all’anima.
Per pranzo ci rechiamo nella prestigiosa Place du Casinò. Nel gennaio 2019, nella lussuosa cornice dell’Hotel de Paris, è stato inaugurato il nuovo ristorante Ômer del grande chef Alain Ducasse in grado di deliziare i palati più esigenti.
Ci lasciamo così ispirare dai piatti delle cucine della tradizione mediterranea. Dopo aver fatto esperienza di questi profumi e sapori, decidiamo di dedicare il pomeriggio allo shopping.
A pochi passi dalla centralissima Place du Casinò sorge il Métropole Shopping Center: luogo esclusivo dove passeggiare tra gli oltre 80 negozi e boutique di brand famosi in tutto il mondo.
Concludiamo la giornata sorseggiando un cocktail rinfrescante dal rooftop panoramico sul mare Mediterraneo del Nikki Beach, da cui godiamo di un romantico tramonto.
Il Nikki Beach è adatto agli amanti della vita mondana, in quanto frequentato da celebrities; agli amanti dello sport, per l’affaccio sulla celebre “curva Fairmont” che regala una posizione privilegiata per assistere al Gran Prix di Formula 1; e a chi ama deliziare il palato, grazie ai suoi piatti gourmet.
Ebbene si, Monte Carlo sa adattarsi a tutti i gusti, anche a chi è alla ricerca di relax: le Thermes Marins sono il regno del benessere monegasco.
I suoi servizi esclusivi, quali idroterapia, massaggi manuali rilassanti e trattamenti tecnologici all’avanguardia, consentono di rigenerare mente e corpo.
La piscina panoramica con acqua di mare e il ristorante Hirondelle, che mette a disposizione prodotti freschi di stagione, ci regalano il benessere e l’equilibrio per concludere al meglio il nostro soggiorno a Monte Carlo.
La Condamine, Monaco-Ville, Fontvieille
La Condamine è famoso per il suo mercato storico, punto di incontro per monegaschi doc, produttori locali, fioristi e fruttivendoli.
I palati più golosi qui possono degustare le eccellenze gastronomiche del Principato di Monaco: i tipici Barbajuan, ravioli fritti ripieni di formaggio e spinaci; la Pissaladière, deliziosa focaccia rustica con cipolle, acciughe e olive; e molto altro ancora.
Non solo cibo a La Condamine: la Brasserie de Monaco, situata a Port Hercule, offre agli intenditori una selezione di birre dal gusto autentico dei malti biologici.
A Monaco-Ville sorge il Tempio del Mare: il museo oceanografico situato presso i giardini Saint Martin ed edificato sotto l’egida di S.A.S Principe Alberto I.
Ospita oltre 6000 specie di rara bellezza, dal microcosmo che popola la barriera corallina alle vasche dedicate alla fauna del Mediterraneo.
Fontvieille è uno dei quartieri più romantici e charmant del Principato di Monaco. In particolare vi consigliamo di visitare il roseto in memoria della Principessa Grace.
Soprattutto nel mese di maggio, quando le rose tornano a fiorire, gli oltre 4000 roseti con oltre 150 varietà provenienti da tutto il mondo offrono lo scenario adatto a piacevoli passeggiate in coppia.
Spostandosi poi sul porto di Fontvieille è possibile concedersi una degustazione di ostriche presso una romantica ambientazione ai piedi del Palazzo dei Principi Grimaldi.
Uno scenario regale suggellato da un calice di vino. Il colore caldo del tramonto tinge le bollicine di riflessi dorati. I bicchieri si sollevano all’altezza del viso e le labbra accennano un dolce sorriso. Concludiamo così il nostro soggiorno, brindando a tutto lo charme del Principato di Monaco!
Chiara Pompeo
Per maggiori informazioni: www.visitmonaco.com
Lo charme del Principato di Monaco Una meta charmant. Il Principato di Monaco I suggerimenti più glamour per un soggiorno nei quartieri storici del Principato di Monaco…
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Un estratto dal libro “Genova Macaia” (ed.Laterza), in cui l’autore racconta le testimonianze raccolte nelle aule di tribunale di quanto accaduto nei giorni del G8 nel carcere di Bolzaneto Sulla caserma ho affrontato in tribunale gli sguardi degli imputati, di tutti gli imputati, compresi gli sguardi dei «colleghi». Lo sguardo poco rassicurante di chi sa che certe cose non verranno dimenticate. E ho sentito e letto di tutto. E poi dovevo scriverne. Vivevo a Milano, fino alla mia partenza per la Cina, e facevo il pendolare al contrario: tutte le mattine alle 7.10 prendevo il treno. Alle 8.50 arrivavo a Genova, alla stazione Principe. Scendevo, tempo di immettermi in via Balbi e la prima focaccia arrivava secca sullo stomaco. Focaccia con le cipolle e cappuccino, se si pensava di avere tempo perché l’udienza iniziava più tardi. Dopo il G8, quando mi è capitato di dire «sono di Bolzaneto», ho sempre visto un impercettibile movimento delle labbra e degli occhi nel mio interlocutore. È un lampo nell’animo, un ricordo tagliente; che uno sia stato a Genova o meno in quei giorni del 2001, Bolzaneto è quella roba lì: una ferita comune, un’offesa comune. E il problema, da genovese, è che è l’ennesima. Bolzaneto è diventata cosa? È diventata la «posizione del cigno», è diventata il triage del dottor Toccafondi, le dita spaccate di una ferita alla mano, un salame sui genitali, «vi stupriamo come in Bosnia», «un due tre Pinochet». È il ministro della Giustizia che non vede nulla, niente, tutto a posto! È l’assessore alla sicurezza del sindaco Marino, che nel 2001 è magistrato addetto a Bolzaneto, che non vede nulla, niente, tutto a posto! Ma, oltre alle vittime, c’è un cazzo di infame. Un infermiere. Infermiere penitenziario. Un genovese. Che racconta un’altra storia. In quelle aule di tribunale si fa presto a far diventare la minaccia di uno stupro un titolo di giornale. Sono capaci tutti. All’epoca ci guardavamo sconvolti: mesi di lavoro e di testimonianze, e una dose di cinismo che cominciava a riempire di tacche il cuore, ma quando uscivano fuori le atrocità commesse dentro la caserma di Bolzaneto, era troppo anche per noi. Io sognavo manganelli e pietre che volavano, rincorse, sbuffi dei poliziotti e carabinieri, sentivo l’aria passarmi accanto rapida, mentre dormivo. L’odore di benzina e gli elicotteri lì sopra. Ancora oggi alcune persone si terrorizzano a sentire gli elicotteri. Ancora oggi alcune persone si terrorizzano a sentire nominare la caserma di Genova Bolzaneto. È una storia, del resto, che sembra non finire mai. Un ragazzo che ha dieci anni meno di me mi ha detto: «Genova per me è un incubo: qualunque cosa si faccia, Genova incombe». La pesantezza delle sconfitte. A Bolzaneto fu rappresentata in modo plastico. È il 6 maggio 2005. Il giudice per l’udienza preliminare di Genova rinvia a giudizio 45 imputati appartenenti alle forze dell’ordine in servizio a Bolzaneto fra il 19 e il 21 luglio 2001, formulando a loro carico ben 120 distinti capi d’imputazione: avere ingiustificatamente e ripetutamente percosso, o avere consentito che altri percuotessero, con calci, pugni e schiaffi e talvolta colpi di manganello alla testa, al volto, alla schiena, ai reni, allo stomaco, ai testicoli, nonché attingendole con gas asfissianti e urticanti, le perso- ne arrestate presenti nella caserma di Bolzaneto, cagionando a vari arrestati malori e/o lesioni personali e, in un caso, una lesione grave (cagionata da un agente di polizia che divaricò con forza due dita di una mano di un arrestato, provocando- gli così una ferita lacerocontusa guarita in 50 giorni); avere costretto, o non impedito che altri costringessero, le persone arrestate presenti nella caserma di Bolzaneto a «rimanere per numerose ore in piediall’interno delle celle, con il viso rivolto verso il muro della cella, con le braccia alzate oppure dietro la schiena, o sedute per terra ma con la faccia rivolta verso il muro, con le gambe divaricate, o in altre posizioni non giustificate […], senza poter mutare tale posizione», e a subire «percosse calci pugni insulti e minacce, anche nel caso in cui non riuscivano più per la fatica a mantenere la suddetta posizione nonché per farli desistere da ogni benché minimo tentativo, del tutto vano, di cercare posizioni meno disagevoli»; avere minacciato, o comunque non impedito che altri minacciassero, di infliggere violenze sessuali o lesioni fisiche a numerosi arrestati, in un caso simulando addirittura un’esecuzione sommaria;avere costretto, o non impedito che altri costringessero, le persone arrestate che dovevano essere accompagnate ai bagni a «camminare con la testa abbassata all’altezza delle ginocchia e le mani sulla testa», mentre altro personale appartenente alle forze dell’ordine presente nei locali le derideva, ingiuriava e percuoteva; avere mantenuto, o avere consentito che altri mantenessero, le persone arrestate senza rifornimenti di cibo, bevande e generi necessari alla cura e alla pulizia personale in quantità adeguata in rap- porto alla lunga durata del periodo di permanenza presso la struttura; avere costretto, o comunque non impedito che altri costringessero, taluni degli arrestati a ripetere frasi fasciste o comunque contrarie alle loro convinzioni politiche, o comunque «ad ascoltare espressioni e motivi di ispirazione fascista contrariamente alla loro fede politica» (quali inni e slogan fascisti); avere costretto, o comunque non impedito che altri costringessero, a compiere movimenti innaturali aventi lo scopo di umiliarli; avere costretto, o avere consentito che altri costringessero, un’arrestata a subire il taglio di tre ciocche di capelli; avere pesantemente offeso, o non avere impedito che altri offendessero, l’onore delle persone arrestate a mezzo di «insulti riferiti alle loro opinioni politiche (quali ‘zecche comuniste’, ‘bastardi comunisti’, ‘comunisti di merda’, […], ‘Che Guevara figlio di puttana’, ‘bombaroli’, ‘popolo di Seattle fate schifo’ e altre di analogo tenore), alla loro sfera e libertà sessuale e alle loro credenze religiose e condizione sociale (quali ‘ebrei di merda’, ‘frocio di merda’ e altre di analogo tenore)»; avere costretto, o avere consentito che altri costringessero a mezzo di percosse o altre violenze, taluni degli arrestati a firmare i verbali relativi all’arresto con- tro la loro volontà; avere danneggiato o sottratto, o consentito che altri danneggiassero o sottraessero oggetti personali alle persone arrestate; non avere consentito alle persone arrestate di avvisare familiari e parenti del loro arresto, e agli arrestati di nazionalità stranieri di avvertire l’ambasciata o il consola- to del paese di appartenenza, attestando anzi falsamente sui verbali relativi all’arresto – o consentendo che altri attestassero falsamente sui verbali medesimi – la volontaria rinuncia degli arrestati a tali facoltà. Simone Pieranni da DinamoPress
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Le donne di Ouarzazate
“Si, le donne di Ouarzazate sono tutte bellissime”. Un lampo di orgoglio fa luccicare gli occhi neri neri di Ahmed, con tutta lagioia dei suoi sette anni. Sulla veranda del piccolo bar che si affaccia sulla strada polverosa continua da dieci minuti buoni a strofinarmi le scarpe nere da ginnastica. Mezz’ora fa mi ha tirato per una manica, poi mi ha seguito per tutto il paese, “Lemie scarpe stanno bene cosi”, “Lascia perdere, ti do lo stessoqualche Dirham”.,. macché, non c’è stato verso. “Messieur _ dice lui _ questo è il mio lavoro, non è bacshish”, non voglio la carità. Ok, lustra, Ahmed,
Un’aranciata dolce e neanche tanto fresca per me, una per lui, alla luce di un tramonto rosato e morbido ci raccontiamo in un francese improbabile. Io arrivo da Casablanca via Marrakech, lui è nato e cresciuto qui, a Ouarzazate, ai piedi dell’Atlante, montagne di roccia e polvere rossa alle spalle, l’orizzonte infinito del Sahara davanti. Gli racconto che a Marrakech, al festival del folklore, ho visto danzare e ho parlato con un gruppo di ballerine di Ouarzazate, bellissime. Due le ho pure fotografate, sotto una grande tenda berbera nel parco della città: una donna imponente, dallo sguardo severo, impenetrabile e dai modi alteri. E una ragazzina forse sua figlia « dai grandi occhi marroni di gazzella e dal sorriso limpido. Si — dice Ahmed con l’aria di chi la sa lunga « le donne di Ouarzazate sono tutte bellissime”.
Le scarpe sono lucide come non lo sono mai state, “Hai fatto un ottimo lavoro, te li sei meritati”, dico al mio piccolo amico mentre lo ricompenso. Gli chiedo dove posso mangiare, e poi dormire. Ma qui è tutto semplice, tranquillo, il tempo sembra giocare dalla tua parte. E a volte sembra fermarsi ad aspettarti. Il barista ci porta due frittate e un piatto di pomodori e cipolle tagliati sottili, mentre scende la sera. Ahmed è un piccolo adulto che racconta le sue piccole grandi cose tutto preso nella parte dell’ospite, beve un the alla menta dolce come il miele, poi mi indica un’afflttacamere sopra la stazione dei puilman, nella piazza centrale di Ouarzazate, mi da un bacino sulla guancia e corre a casa, che si è fatto tardi.
Mica mi sento solo, mentre bevo il mio the dolce. Mi pare di esserci dentro a quel bicchierino zuccheroso e tiepido, nel bel mezzo di un paese neanche tanto bello, stretto fra la montagna e il deserto, attirato qui — potenza delle parole * da un nome carico di fascino esotico: Ouarzazate.
Sono arrivato a Casablanca, o come dicono qui a Casà, una settimana fa: un paio d’ore di volo, ed è subito Africa, cielo, sole, terra d’Africa. Una piatta periferia di baracche e antenne paraboliche mi ha accompagnato all’Hotel, moderno e pure troppo comodo, sull’ampia Avenue Hassan 11. Sono partito subito alla scoperta della Casablanca che avevo sognato, quella del Rick’s Bar per intenderci. Che naturalmente non c’è più. Che naturalmente non c’è mai stata, Dai grandi, ariosi boulevard sono entrato nella Medina, la città vecchia. Non senza diffidenz& L’odore e i colori delle spezie, il canto dei muezzin: ecco il Marocco, ecco l’Islam, Un cinema proietta un poliziesco italiano anni Settanta, su un piazzale sterrato una ventina di ragazzi di tutte le età giocano a pallone, gara dura, sudata, polverosa, a perdifiato
La moschea di Hassan 11, la grande moschea, nuova di zecca, domina la Corniche, il lungomare di Casà, col suo minareto alto 200 metri, missile squadrato che spunta dalle armonie geometriche di un’immensa terrazza. Poco più in la, i cannoni difendono le mura della Medina, guardano al mare, sembrano ancora pronti a proteggere la città bianca dalle scorrerie dei corsari cristiani.
Di nuovo nella Medina, mentre cala la sera: spiedini di montone conditi dal sorriso pitturato di due anziane prostitute in una taverna con poca luce e pochi clienti sono la cena. “Lah shukran”, “No grazie”, cerco di essere gentile. Ma la diffidenza resta, ogni ombra è un brivido nelle viuzze della città e lungo le Avenue illuminate a giorno, fino al mio Hotel americano, moderno e comodo, pure troppo.
La diffidenza, quella sarà svanita solo fra I5 giorni, quando tornerò a Casà sudato, stanco e con due dita di polvere rossa da lavare sotto la doccia del mio Hotel americano. Ma sereno, tanto da sentirmi il re di Casà per una notte, tanto da incrociare un fiume di occhi neri e curiosi, e sentirli tutti amicL Tanto da trovare all’ultimo momento il mio Rick’s bar, un ristorante anni Quaranta gestito da un libanese che pare Edward G. Robinson, e vivere anche, ultimo regalo di Casà, la mia notte alla Boogie.
Il puilman parte dal piccolo inferno dell’autostazione alle 10 precise. Inutile chiedere quando arriva a Marrakech, o quante ore impiega da una città all’altra, Ti guardano stupiti, tu dai la colpa al tuo maledetto francese, ripeti la domanda con un giro di parole. Ti guardano stupiti. Basta un solo viaggio per capire il perché. I puliman sembrano gli stessi che ha visto partire Paul Bowles più di mezzo secolo fa. E forse lo sono. I bagagli vanno in una grande rete sopra il tetto, un ragazzino salta fuori dal finestrino agile come un acrobata prima di ogni fermata, col puilman in corsa, allenta la rete, carica i bagagli dei nuovi passeggeri, rientra col puilman in corsa. Compro una bottiglia d’acqua da un bambino e mi siedo in fondo alla vettura, con le gambe allungate nel corridoio.
Il puilman si riempie di pastori, donne con bambini, un iman vestito di bianco, un carcerato in manette, con la testa china, in mezzo ai suoi angeli custodi. Un uomo mi chiede un po’ d’acqua, beve alla bottiglia; la riprendo malvolentieri. Ci si ferma spesso, a raccogliere gente lungo la strada. Ci si mette anche la polizia, che ferma a più riprese la vecchia corriera, ci scruta tutti, controlla qualche documento, saluta militarmente e ci lascia passare. L’uomo della bottiglia compra da un ambulante un sacchetto cli mele piccolissime e verdi, e le offre a tutti i viaggiatori, e tutti ne prendono. Lo stesso fa un vecchio con un sacchetto di semi di girasole. Il detenuto con un cenno mi chiede una sigaretta, il poliziotto annuisce, ne offro un paio al carcerato, altrettante ai poliziotti. Il detenuto incrocia i miei occhi, ha nello sguardo una rassegnazione infinita. Una gomitata del poliziotto, e lui ringrazia con un cenno stanco del capo.
Facciamo sosta in un villaggio di poche case: scendono tutti, fanno la fila davanti a due piccole macellerie che fanno da posto di ristoro. In mezzo a nuvole di mosche si scelgono polpettine rosse, spiedini, costolette di montone da saltare sul fuoco di qualche griglia annerita. La tadjine, una sorta di stufato in una pentola di terracotta, è l’alternativa, con tanto sugo dove affondare grossi pezzi di focaccia, tante patate e un unico pezzetto di carne. Si aspetta senza fretta che l’ultimo dei viaggiatori abbia terminato, e si riparte. Prima di arrivare, un boato ci sveglia dal torpore, e la corriera sbanda cigolando. E’ scoppiata una gomma, l’iman scende, stende la stuoia verso La Mecca e ne approfitta per pregare. Mezz’ora, e ripartiamo; dieci minuti, un altro boato, e un’altra gomma. Altro cambio: ora le ruote di scorta sono finite. Se ne salta un’altra devono venirci a prendere. Chissà quando. Per fortuna arriviamo a Marrakech senza altri intoppi. Sono passate 6 ore, ma potevano essere 3 o 9. E pensare che c’è chi chiede a che ora arriva il puliman.
Ci sono città che si insinuano in te come una malattia, e te le porti dentro per tutta la vita. Marrakech è una di queste. La polvere dei vicoli, il rosso delle mura, la puzza di orina d’asino, il muezzin che annuncia l’alba di una notte dolce che profuma di arance e di menta.
La piazza Jamaa Ei Fna è il cuore di Marrakech, un caravanserraglio di musicanti e incantatori di serpenti, coloratissimi venditori d’acqua e cartomanti, giocolieri e danzatrici, un circo felliniano a cento piste aperto 24 ore al giorno. Oltre le basse arcate della piazza, il suk grande come una città, un mercato diviso in quartieri dove trovi di tutto. Nascoste nel suk.. le moschee e le scuole islamiche, perle architettoniche intessute di ombrosi arabeschi.
Nel suk contrattare è uno stile di vita: ti siedi su uno sgabellino e puoi andare avanti tre, quattro ore hai tutto il tempo del mondo — per comprare un tappeto o una collana Tuareg. Nel frattempo bevi cinque o sei the alla menta, racconti e ascolti. Alla fine il venditore è un amico, non di rado ti inviterà nella sua casa per una cena tipica o per passare la notte se non hai dove dormire, Al contrario, se acquisti subito, se non contratti, per quanto tu possa pagare lo stesso oggetto dieci volte tanto, sarai disprezzato e forse anche un po’ schernito.
A Marrakech è il mese di giugno come ogni anno è in corso il grande Festival del folklore Musicanti e ballerine arrivano a centinaia da tutto il Maghreb, e danno vita a notti di vera magia. AI mattino provano, sotto le coloratissime tende berbere piantate nel parco della città. Seguo ammirato i movimenti sinuosi delle danzatrici, i ritmi avvolgenti dei suonatori, poi uno di loro mi da una specie di tamburo, e mi dice di suonare. Panico, ma dura poco: in pochi secondi prendo il ritmo, e batto a hmgo sulla pelle tesa del tamburo, sempre più preso dalla musica, finché non mi fanno male le mani. L’applauso più grosso alla fine è per me. A sera, il grande spettacolo: danze, musiche, un banchetto da mille e una notte, caroselli a cavallo. Un sogno arabo per turisti, che qui sono tanti, specie inglesi.
La mattina dopo, a mezzodì, prendo la corriera per Ouarzazate. Otto ore per traversare l’Atlante, con scorci superbi di una montagna imponente e amata, perché porta un bene prezioso: l’acqua. Un corteo di matrimonio, a piedi naturalmente, donne che lavano i panni nell’acqua del torrente, e ancora polpette e spiedini e mosche. Superato il passo, ecco il vento caldo e sabbioso che soffia dal Sahara.
Il deserto è un’esperienza unica, personale, forse mistica come e più del mare. Er Rachidia è un antico forte militare. Scendo dal pullman a mezzogiorno, e resto solo in una grande piazza sotto un sole dardeggiante. Dopo un’ora trovo un grand Taxi per Erfoud, una vecchissima sgangherata Mercedes sulla quale ci pigiamo in otto, spendendo pochi Dirham.
Erfoud è un villaggio western allineato su una pietraia infuocata, Abdullah e Abdel hanno 13 anni e si autonomimano mie guide ufficiali, Del resto dicono — abbiamo lavorato con Salvatores in Marrakech Express, e mostrano una foto di loro bambini con Abatantuono. Mi trovano da dormire in un alberghino in stile moresco un oasi di fresco nella calura, e il giorno dopo mi conducono sulla Land Rover di un cugino nel tour degli Car, antiche utta fortificate fino a Rissani, dove passo il pomeriggio al mercato del bestiame, boigia di polvere, vento caldo e animali che ragliano, muggiscono, belano sotto il sole.
Un’altra tiepida notte di stelle, ed eccoci tutti in Land Rover diretti a Merzouga, l’oasi, con le palme, 11 ruscello, i bambini che giocano con salamandre che chiamano “pesci di sabbia”. Vicino c’è anche un lago nel bel mezzo del deserto di pietre, e i fenicotteri che volano lenti non sono un miraggio. Ma lo spettacolo vero è l’Erg Chebbi, l’inizio del grande deserto: si scorge da lontano, una lunga linea rosso fuoco all’orizzonte. E’ un’infinita catena di dune di sabbia rossa e morbida, alte più di 150 metri. Da qui in poi è tutto deserto, per giorni e giorni, e le oasi più vicine sono distanti centinaia di chilometri.
Mohammed è un giovane Tuareg, o almeno così dice. Gestisce un barrino proprio sotto le grandi dune, è vestito di blu e il turbante lascia vedere solo gli occhi. “Italiano?” chiede, “di dove?”. Toscano. Ride: “Vuoi una Coca ‘ola con la ‘annuccia ‘orta” mi dice? Al mio stupore spiega che lì arrivano parecchi toscani con Avventure nel Mondo. Poi mi fa scegliere un cammello: “Buona scelta”. “Ha un nome?”, chiedo. “Certo, si chiama Jimy Hendrix. Perché? E’ pazzo come lui...”. Gli dico che avrei preferito Eric Clapton, poi mi rassegno e in groppa a Jimy Hendrix mi avventuro per qualche chilometro caracollando nel deserto. Mohammed mi segue.
Gli chiedo di lasciarmi solo, non fiata, si allontana e sparisce nel mare di sabbia. Resto li, quasi al tramonto, in mezzo a dune infinite, nel silenzio più completo, nella solitudine più totale. Ma con dentro di me un senso di totale serenità. Per oltre un’ora, il deserto ha i miei occhi, e io faccio parte del deserto. “Sei un uomo fortunato”, dirò a Mohammed sulla via del ritorno. “Lo so”. Poi via di nuovo verso Erfoud, silenziosa e deserta sotto il chiaro di luna.
E’ mattina presto quando lascio in fondo alla strada polverosa Erfoud, il ricordo rossastro del mare di sabbia, e un pezzo di cuore. Sono stato fortunato, il grand taxi per Fez ha trovato subito i suoi passeggeri: con l’autista dai baffi curati, alto, magro e scuro di pelle, c’è un giovane sulla trentina dall’aria sveglia. E’ amico dell’autista, col quale parla fitto fitto; davanti con loro un anziano contadino, Dietro, con me rincantucciato in un angolo, una giovane donna — probabilmente una vedova — con gli occhi nerissimi, tenuti bassi dietro al chador corvino, e i suoi due bambini, lei di una decina d’anni, silenziosa e tranquilla, si pende cura di una bamboletta di stoffa; lui di tre o quattro anni, che mi guarda, mi fa le boccacce, mi sorride seminascosto dietro il braccio protettivo di mamma.
Il ragazzo davanti si presenta, Abdilmajid, e pare molto interessato alle mie storie. L’autista ascolta silenzioso, come la donna, mentre la scassatissima Mercedes macina chilometri sotto un sole dardeggiante, con la pietraia sotto le gomme che si trasforma prima in uno stradello sterrato, poi in asfalto bollente, Si superano puliman scoppiettanti e fumanti, in difficoltà sulle salite, e greggi di pecore. Ci stringiamo dietro, e sale anche un altro contadino, e anche lui non apre bocca. La apre invece, la bocca, il piccolo Selim, il bambino, che prima mi guarda con una faccia sgomenta, poi mi vomita addosso i dolcetti mangiati per colazione. Ci fermiamo, la madre è desolata, si scusa con lo sguardo; la tranquillizzo. Dovrò farlo altre tre o quattro volte, tante quanti i malesseri di Selim, che ogni volta mi guarda con aria un po’ colpevole, e mi innaffia da capo Inconvenienti del grand taxi. In compenso i miei fazzolettini al profumo di limone diventano il gioco più bello per la bimba, che ora cura il fratellino e la bambola con lo stesso amore.
Finalmente, è mezzogiorno, ci fermiamo ad una piccola trattoria lungo la strada, mosche e polpette, ma anche spiedini e costolette, e aranciata e the alla menta. Chiedo il conto, il padrone mi scruta nella penombra e butta li una cifra. Mi sembra parecchio, ma al cambio saranno si e no tremila lire. Faccio finta di niente e sto per pagare. Mi ferma Abdilmajid: “Quanto ti ha chiesto?” dice in francese, Rispondo. “Troppo, dagli un quinto di quello che ti ha chiesto”. Non faccio in tempo a replicare, lui è già su tutte le furie, inveisce in arabo contro il padrone, capisco solo una parola, “vergogna”. Il padrone non ci sta, gli dice di farsi gli affari suoi, devo intervenire per separarli. Abdilmajid è fuori di sé, pronto a scattare come una molla: prende pochi dirham, ci sputa sopra, li tira in faccia all’oste, che urla minacce incomprensibili.
Risaliamo sul grand taxi, tutti si scusano con me, anche la donna scuote la testa. E io li a dire che non è successo niente: macché, sono desolati, discutono con calore per un’altra mezz’ora. Intanto il paesaggio cambia, si sale su strade di montagna, ma ben diverse da quelle dell’Atlante: la chiamano la Svizzera marocchina: pare impossibile a queste latitudini, ma è proprio così, ci sono foreste d’abeti, e baite in legno col tetto a punta e i fiori alle finestre. E’ un posto da ricchi, mi dice Abdilmajid, in inverno ci vengono a sciare.
Qualche decina di chilometri, e le linee verticali degli abeti si ammorbidiscono in coloratissimi boschetti di aranci. Il sole inizia a calare quando si apre davanti al muso del Mercedes la grande vallata di Fez, un puntaspilli di minareti, da lontano un puzzie fittissimo di vita, case, colori. Abdilmajid mi chiede dove ho l’albergo. “Devo cercarlo”, rispondo: gli occhi gli luccicano; parlotta con l’amico autista, poi mi dice con l’aria di chi non ammette repliche “Stasera resti con noi”.
Lasciamo la vedova con i bambini in una piazzetta sterrata in periferia, fra baracche di mattoni e lamiera, e proseguiamo in quartieri dall’apparenza un po’ meno povera, case squadrate in mattoni chiari e per tetto ampie terrazze. Ci fermiamo davanti ad una casa a tre piani. Abdilmajid dice di essere studente universitario, ha trascorso due mesi a casa, a Er Rachidia, e ora è di nuovo qui, per una lunga stagione di studi nell’antica università di Fez, L’autista è un suo parente che l’ha portato gratis. Ho accettato l’ospitalità dopo qualche resistenza, e sono già pentito. Mi fingo tranquillo, ma qualche preoccupazione ce l’ho, seppure cerchi di nasconderlo anche a me stesso: ok, vediamo cosa succede.
Saliamo al secondo piano nell’ingresso piccolissimo, un metro per due, una cucina a gas, quindi una grande stanza Dentro due ragazzi e due ragazze, nessun mobile né armadi, solo vecchi tappeti lungo il perimetro pochi abiti stinti appesi ad attaccapanni di fortuna. I ragazzi e le ragazze saltano addosso ad Abdilmajid e Io ricoprono di baci ed abbracci, Lui mi presenta, e divento il centro dell’attenzione Mi fanno sedere su un tappeto, mi offrono il the. Due ragazzi lei davvero molto carina sono fidanzati, si vede subito. Non abitano qui, sono amici, e la cosa mi dispiace un po’. Qui con Abdilmajid vivono invece, Habiba, una cicciottella un po’ invadente e chiacchierona, Mohammed, un lungagnone sui 25 anni un po’ stonato, sempre con un dito nel naso, e fin troppo affettuoso, e un quarto silenzioso e schivo di cui non capisco bene il nome. Stanotte restiamo qui anche io e l’autista del gran taxi.
Mi raccontano in un francese lento e sinuoso brandelli di vita universitaria, lontano da casa, mica tanto diversa dalla nostra: però qui tutto è essenziale, praticamente non ci sono oggetti, mobili, soprammobili. Due abiti, uno pesante e l’altro leggero, una pentola, un grande vassoio dove si mangia tutti. Una buca in uno stanzino, su a tre piani, in terrazza, e una catinella con l’acqua sono i servizi igienici. Scende una sera tiepida come una camomilla, e facciamo una passeggiata tutti insieme all’università, bassi edifici bianchi, file di studenti in attesa dell’esame, rituali e scaramanzie, sorrisi e lacrime, non c’è differenza con le aule dei nostri atenei. Mi tranquillizzo: una punta di preoccupazione che mi resta solo per le eccessive effusioni che vedo scambiarsi fra uomini: i miei amici camminano per mano o abbracciati, si accarezzano, si tengono stretti stretti: nessun problema, ma evitato ormai il rischio di cadere in mano a rapinatori o che so io, mi risparmierei volentieri esperienze sessuali alternative, Scoprirò solo molto più tardi che il linguaggio dei gesti nei paesi arabi è ben diverso dal nostro. E mi sentirò in colpa per aver dormito con un occhio solo.
Torniamo a casa, e mentre Habiba e Mohammed mi ricoprono di domande e di premure, mangiamo insieme dai grande piatto uno stufato di agnello e olive dall’aspetto non troppo invitante: invece è buono, mi resterà nella memoria come uno dei piatti più buoni mai assaggiati. Andiamo avanti fino a tardi, raccontandoci: mezzanotte è passata, quando saliamo in terrazza. E’ una notte calda e dolce, profumata di arance e di menta, e le stelle sono più del solito, e più brillanti, Mohammed, col suo dito nel naso, pende dalle mie labbra, Habiba vuoi sapere tutto e subito, Abdilmajid mi chiede soprattutto dell’italia. Il suo sogno è di laurearsi, poi di venire subito da noi; un suo lontano parente vive a Brescia e fa sapere che non sta male, meglio che in Francia. E poi l’ha visto anche in televisione, come vivono gli italiani: “Sono bravi, sono amici, sono come noi marocchini: io lavorerò con loro, gli farò vedere quanto valgo”.
Lascia perdere, Abdilmajid, non è una bella vita quella che ti aspetta in Italia, e la gente non è poi così buona. Macché, lui ha il suo sogno, e non vuole lasciarselo incrinare. Buonanotte Abdilmajid, buonanotte a te e a tutti i ragazzi come te che hanno cercato l’America in Italia: da domani, lo so già, nei loro occhi vedrò i tuoi occhi. La mattina tardi mi accompagnano tutti alla stazione, il treno mi riporterà a Casà, a cercare la mia notte alla Bogart. Habiba mi abbraccia, Abdilmajid mi stringe forte la mano, col suo sguardo franco e ancora pulito, Mohammed, non mi si stacca di dosso, mi guarda salire sul treno e piange silenzioso, col suo dito nel naso.
Casablanca, giugno 1995
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Martedì 8 Agosto 2017
[Foto: La vista sulla valle dal rifugio Regina Elena] Mi sveglio alle 7, passo una notte insonne nel rifugio a causa di un tizio di Genova della Protezione Civile che sembra Jerry Calà obesissimo, con le trofie al pesto al posto della barella. Russa tutta la notte costantemente e mi sento fortunato perchè posso ascoltare questi rumori de profundis direttamente dal letto a castello a fianco, poltronissima numerata riservata VIP. Durante la giornata precedente conosco Diego, simpatico e incredibilmente somigliante ad un mio amico spilungone che ha appena avuto un figlio che ha chiamato Dieg- GIURO. Comunque Diego è simpatico, ma è anche un Carabiniere, quindi quando deve salire sul letto a castello in alto, salta sul mio letto e su quello a fianco con fare ardito et atletico, nel mio ricordo accenna anche diversi “Op! Op! Eh-‘llaah..” Mi sembrava brutto fargli notare la scaletta dall’altro lato del letto a castello, così decido di portare questo ricordo con me per poterlo appoggiare qui.
Martedì è una bellissima giornata dentro al rifugio. Conosco Renata e Piero, la coppia di ultrasettantenni che è responsabile in queste settimane della gestione da parte dell’Associazione Nazionale Alpini. Persone di buon carattere, forte morale, e di natura gentile; lei un po’ apprensiva e lui decisamente fascista col culto della Madonna, si vanta di aver cenato più volte con (quel porco merdoso di) Bagnasco, ma sono disponibili quando si tratta di cose pratiche come fare il bucato, scambiare due chiacchiere, farsi intervistare dal sottoscritto per capire com’è la vita nei loro panni. Trovo un tubo che raccoglie l’acqua a monte, ha un rudimentale rubinetto attaccato e cade in una tanica lercia da fare schifo, lo dico mentre penso a quanto facevo schifo io in quella situazione, quindi credetemi: non ci avrebbe messo il muso un maiale. Lavo tutto nell’acqua gelata, trovo un catino bucato ed un modo per riuscire a riempirlo, resto con addosso un indumento che sarebbe stato perfetto per una giornata caldissima di sole da solo in montagna. Diciamo che se non mi si vedeva direttamente il cazzo era molto facile intuirlo, questo dettaglio mi fa un po’ ridere per la vergogna altrui, un po’ dispiacere perchè è brutto gettare scandalo in una microsocietà all’antica. Il vento che soffia durante la mattina diventerà verso le 15 una tempesta che asciuga i miei panni in orizzontale, a tratti li bagna, poi fa comparire il sole, di nuovo lo fa sparire. Dal rifugio la giornata trascorre serena, mentre i volontari della Protezione Civile concludono i lavori iniziati il giorno prima, finiscono di catramare e dipingere il tetto di primo mattino prima che il vento ceda alla pioggia e creano delle piazzole per tende nel parco sotto l’acqua. Questa attività non è esattamente legale ma tutto sommato è giusta, il rifugio è troppo piccolo, e per parecchi kilometri non c’è un’altro luogo dove cercare riparo in caso di maltempo. Non ci sono piazzole, tutta l’area è una sassaia o un giardino di pietre e rododendri cresciuti su un pugno di terra. Poter piazzare una tenda da quattro potrebbe concretamente salvare delle vite, specie quando il rifugio è chiuso ed i suoi 6 letti a castello non sono disponibili.
A metà mattina ho dato una mano alla signora Renata, dopo il bucato attacco bottone e la aiuto in cucina. Siamo tantissimi per il pranzo, molti amici sono venuti a trovare i volontari che custodiscono il rifugio e quelli che oggi si occupavano di ristrutturarlo, perciò A PRANZO HO MANGIATO UN SACCO DI FOCACCIA CON LE CIPOLLE E SENZA. Ripeto: la focaccia. In montagna. Mentre fuori c’è la tempesta. E la crostata di albicocche, madò me la stavo dimenticando, meno male che l’ho segnata sui miei appunti di viaggio. Lascio spazio ai viaggiatori più classici (senza tenda che cercano nel rifugio un albergo spartano dove mangiare e dormire) perchè a pranzo non c’è posto a sedere, ne approfitto per fare altro bucato e rilassarmi. Mangio alle 14:30 e aiuto la Renatona a fare i piatti. Alla fine mi promette un letto anche per questa notte e questa sera un piatto di pasta al pesto fatto da lei; è nato un bellissimo circolo virtuoso di ospitalità, lavori manuali, chiacchiere, e cibo, siamo tutti molto felici.
Gioco a fare l’affascinante straniero dal fosco passato venuto a cercare rifugio tra i monti per il tempo che serve. (mentre scrivo questa descrizione rido da solo) Fondamentalmente trascorro quindi una giornata a fare lavori per rendermi più comodo il viaggio che mi aspetta, e mangio ligure 100% con mia somma sorpresa. Dormirò molto meglio senza Jerry Calà.
La sera incontro quattro persone speciali che avevo visto il primo giorno al Soria-Ellena (pazzesco poi incontrarli al Regina Elena, anche solo per l’assonanza). Ho sbirciato questi francesi mentre giocavano a Bridge e mi ha stupito come uno dei quattro avesse un viso furbo e navigato, l’altro un po’ da ingenuo, uno stacco che mi ha fatto pensare ad una bella amicizia o ad una situazione losca con scenari di malaffare e crimine sulle Alpi Marittime (d’altra parte molti passi e sentieri portano ancora i nomi dei ladri che sconfinavano con chissà quali criminosi intenti). Parlo con loro e finisco per spiegare cosa mi porto nello zaino, rimangono colpiti dal mio sistema per mangiare, faccio da interprete per Renata che ovviamente pora stèla non sa una parola d’inglese, e li guardo giocare a Bridge con una gioia negli occhi che solo chi conosce questo massacro di ultraviolenza spacciato per un gioco di carte conosce. Mi raccontano che sono amici di vecchia data, una coppia di Marsiglia (quella con il tipo furbo, come in un racconto hardboiled raga!) ed una di Parig- EH NO, APPENA IL MARSIGLIESE DICE PARIGI GLI ALTRI LO CORREGGONO: “SIAMO DI VERSAILLES” Ne approfitto per ricordare loro che abitare in quella zona è fonte di quel misterioso mal di gola associato a cervicale che viene sovente guarito dalla separazione del cranio dal resto del corpo tramite una pesante lama a caduta, quindi cortesemente che se la menino di meno. Faccio due mani con loro, una la vince il marsigliese all’ultima mano perchè si è affrancato un sette e vince di quello, poi mi spiegano alcuni modi per contarsi bene i punti in mano in base a quanto sei estremamente lungo o estremamente corto di un seme (ad una mano avevo 6 picche mediocri e non sapevo bene come contarle).
Giocare a Bridge mi ha fatto pensare molto ai miei zii, alle estati in Corsica in campeggio oppure in Sardegna in casa, a quante mani giocate col culo e a quanti “Tuffi nel Naviglio” fatti perchè non si sono asciugate le briscole. Credo che anche questa parte del viaggio sia stata magica, anche se non ho camminato in queste 24 ore ho avuto riferimenti simbolici a persone lontane e scene di ricordi passati che sento sempre vicini. Son contento anche di aver bevuto un bicchiere di vino e di aver staccato dal ritmo preciso del viaggio. Purtroppo son costretto a rivedere i miei piani, l’8 che dovevo disegnare sulla mappa diventerà un grosso anello. L’indomani partirò per i laghi di Valscura, lungo il sentiero potrò racchiudere in un anello di terra l’impronta di un lupo che ha fatto il mio stesso percorso poco prima.
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