#perché poi mi veniva la nostalgia
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Oddio ci ricordiamo I film di step up
#io sì li vedevo tutti per farmi del male#perché poi mi veniva la nostalgia#come mi sta venendo ora#viva la tag
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#12Ottobre#EventiLondra#MichelFerrari#musicaitaliana#MusicaItalianaaLondra#RuPaul#Scala#ScalaKing'sCross#SimoneLangiu#SpaghettiDisco#TorrettaStile#VeryItalianPeople
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MAGP010 - Sabato Sera
[Episodio precedente] [Indice TMAGP]
[Il computer dell’O.I.A.R. si accende]
[Si sente della musica allegra, che svanisce poco a poco, sentiamo la presentatrice Geraldine ridere]
GERALDINE
Ora, di sicuro non serve che dica quanta nostalgia per gli anni ’90 ci ha dato. “Mr. Bonzo sta arrivando,” che è stata in vetta alle classifiche per oltre undici settimane -
NIGEL
(Scherzoso) Dodici.
GERALDINE
Dodici settimane, obliterando il record per la musica collegata a programmi televisivi e facendo decollare un impero di merchandise. Beh, oggi sono qui con il creatore di Mr Bonzo e storico presentatore di “Sabato sul Sei,” Nigel Dickerson.
NIGEL
È un immenso piacere essere qui, Geraldine. È bello essere di nuovo in TV.
GERALDINE
È passato un po’ di tempo, no?
NIGEL
Mi sono tenuto occupato.
GERALDINE
Allora, venticinque anni dal debutto di Mr Bonzo. Perché non ci racconti un po’ di come tutto è cominciato?
NIGEL
(Con una strana energia) Voglio dire, è iniziato tutto da uno scherzo. Canale Sei mi ha contattato nel ’94 per fare da presentatore e frontman nel loro variety show del sabato sera. È stata una mossa azzardata al tempo, ovviamente - Canale Sei esisteva solo da un anno e non è che io ero proprio un mostro sacro. Voglio dire, ero nei programmi per la famiglia della BBC, ma lungi dall’essere il primo nella lista di qualcuno.
Comunque, “Nigel Dickerson presenta Sabato sul Sei,” o “l’SOS di Nigel,” come hanno iniziato a chiamarlo, ha avuto davvero successo. Voglio dire, alla fine era sempre lo stesso tipo di variety show che anche la BBC e ITV mandavano in onda in prima serata il sabato sera: sketch, musica, interviste, qualche pezzo in-loco. Quello che ci distingueva però, era che non eravamo seri come loro. L’idea di fondo era che il set era allestito come delle gigantesche segrete in stile comico, e che io ero stato imprigionato da “Mr Sei.”
GERALDINE
Mr Sei?
NIGEL
Oh, era il nostro fittizio direttore di Canale Sei, e io dovevo organizzare uno show decente per essere rilasciato.
[Risata registrata, la sentiremo di nuovo durante l’intervista]
GERALDINE
(ridendo) Oh, ma certo.
NIGEL
Ci siamo divertiti molto con questa idea. All’inizio di ogni episodio ricevevo una telefonata da Mr Sei, che era sempre molto arrabbiato, e diceva che aveva ricevuto delle lamentele da qualche maldicente che si firmava con nomi tipo Signora GhignoAcido o Signor PiccoloArnese, e poi mi veniva detto che dovevo condurre tutto l’episodio senza… non so, usare le parole “il prossimo” o stando in piedi su una gamba sola o roba del genere. E le persone lo adoravano. Lo adoravano davvero.
GERALDINE
E quando è che Mr Bonzo è entrato in tutto questo?
NIGEL
(Cambia leggermente il tono) …Sì. Mr Bonzo. Ma certo.
Beh, una delle cose che ci contraddistingueva erano gli scherzi. Avevamo una sezione intera chiamata “Sei Stato Baccato!” dove invitavamo un qualche serio personaggio pubblico e lo facevamo passare da sciocco, tipo, uh, prendere un calciatore famoso per fare dei palleggi ma il pallone era stato appesantito, e alla fine io saltavo fuori e dicevo “Sei Stato Baccato!” E gli davo questo grosso trofeo dorato con un lampone. Era tutto con tono scherzoso, ovviante. Nessun ospite si è fatto male.
Quindi, un giorno, il mio produttore, ha avuto questa idea fantastica. Facciamo tutto il teatrino di invitare un personaggio famoso, qualcuno di davvero serio, e gli diciamo che gli facciamo fare uno spezzone con un personaggio popolare tra i bambini. Ora ovviamente questi personaggi non hanno idea di che cosa guardano davvero i bambini, quindi potevamo davvero inventarci una cosa orrenda, dire che i bambini lo adorano, e vedere quanto gli ci vuole per capire che lo scherzo è lui. Che era stato “Baccato.”
Quindi mi sono inventato questo orribile clown - questo grosso costume a forma di patata e a chiazze, che correva in giro, urlando il suo nome e comportandosi come se fosse uscito da incubo.
GERALDINE
Chi ha inventato il nome “Mr Bonzo”?
NIGEL
Sai, onestamente non ricordo. So che non sono stato io o Rich, ma a un certo punto qualcuno l’ha detto e il nome è rimasto. Davvero non so cos’altro dire a riguardo. Il suo nome è Mr Bonzo.
Mi ricordo il primo show in cui l’abbiamo usato. Avevamo invitato Gotard Rimbaeu – lo chef. Era un pezzo grosso ai tempi. Molte comparse in TV, una rubrica culinaria sul Times. Ma penso che stava cercando di ammorbidire la sua immagine pubblica dopo che il Mirror aveva fatto un reportage su di lui, non mi ricordo bene…
GERALDINE
“Lo chef più Altezzoso d’Inghilterra”
NIGEL
Quello. Sì, dopo quello ha acconsentito a fare uno schetck per il nostro show dove insegnava ai bambini a cucinare. Palesemente non aveva mai visto lo show ed era totalmente ignorante sui contenuti per bambini. Era assolutamente perfetto.
Quando Mr Bonzo è emerso dalla dispensa, l’effetto è stato… incredibile. Il volto di Rimbeau è sbiancato e sembrava sul punto di urlare. Sarò onesto, avevo già visto il costume, ma non l’avevo visto in movimento, e addirittura un po’ inquietava pure me.
Rimbeau ha provato a controllarsi, per quel che ne sapeva lui i bambini davvero amavano Mr Bonzo, ma quando quel grosso clown di gomma ha iniziato a buttare per terra le pentole e a spiaccicare uova in giro per lo studio, lo “chef Altezzoso” ha provato a nascondersi dietro degli scaffali. E alla fine, quando Mr Bonzo ha provato ad abbracciarlo, Rimbeau lo ha attaccato per davvero con una padella. Ha rotto il braccio del ragazzo che lo indossava, quello è stato il mio segnale per entrare con la Bacca D’Oro. Il tutto in diretta TV, non dimenticate.
GERALDINE
Sembra proprio un disastro!
NIGEL
L’ho pensato anche io. Ma secondo il nostro pubblico è stata la cosa migliore che abbiamo mai fatto. Nella settimana seguente abbiamo ricevuto letteralmente centinaia di lettere che chiedevano di vedere ancora Mr Bonzo.
GERALDINE
Nonostante il braccio rotto?
NIGEL
Beh, c’era un altro tizio nel costume, ovviamente. Ce ne sono stati diversi nel corso degli anni. Era molto impegnativo dal punto di vista fisico e quello non è stato l’unico infortunio. È diventato una sorta di rituale: il membro più nuovo della produzione indossava Mr Bonzo finché non entrava qualcun altro.
GERALDINE
O finché non veniva colpito da una padella!
[Lei ride, Nigel no]
NIGEL
Ha. Sì. Ovviamente, lo scherzo non poteva durare per sempre. Il problema di uno scherzo a sorpresa è che facendolo in prima serata di sabato sera, tutti ne vengono a conoscenza abbastanza presto, e gli ospiti sapevano che sarebbe successo. E una coppia addirittura l’ha richiesto. Quindi la parte dello scherzo è andata a morire, e lui è diventato solo una mascotte di SOS. Uno dei miei tanti aguzzini nelle segrete. Verso la fine avevamo pure mandato in pensione il Signor Sei, e c’era solo Bonzo.
GERALDINE
Chiaramente è stata la decisione giusta.
NIGEL
Di sicuro piaceva ai bambini. Alla fine davvero lo trovavano divertentissimo. Beh, quelli che non se la facevano sotto, per lo meno.
[Geraldine ridacchia]
NIGEL
C’era una linea piuttosto netta tra i due. Presto è iniziata la Bonzomania: le vendite del merchandise erano alle stelle; “Hit numero uno che non se lo merita” è diventata davvero la hit numero uno, e abbiamo addirittura iniziato la costruzione di un piccolo parco a tema, Bonzoland, a un certo punto.
È stato… è stato un bel periodo.
GERALDINE
(cambia il tono) E poi -
NIGEL
E poi sappiamo tutti cosa è successo. Alle persone… Mr Bonzo ha smesso di piacere.
GERALDINE
Se non ti senti a tuo agnio a parlare di Terrance Menki, potremmo passare a -
NIGEL
No, va bene.
Lo sai che è stato solo per l'ultimo, no? Quello dove è stato beccato? La polizia ha detto che c’erano undici corpi in tutto e il suo guardaroba era pieno di ogni genere di costumi fatti in casa - chi sa che cosa ha indossato per gli altri? Ma no. Visto che è stato beccato travestito da Mr Bonzo, la gente si ricorda solo quello, il, uh, il…
GERALDINE
Il “Bonzo Assassino.”
NIGEL
Il Bonzo Assassino! (Si altera) Ridicola spazzatura da tabloid. Non gli assomigliava nemmeno! Ha invertito i colori! Ma hanno comunque sbandierato l’immagine in prima pagina. Una reazione eccessiva.
GERALDINE
“Eccessiva”?
NIGEL
(si calma) No, voglio dire, uh, è stata una cosa inappropriata. Da mostrare al pubblico, voglio dire.
GERALDINE
Di sicuro ha avuto un forte impatto sul brand di Mr Bonzo.
NIGEL
La costruzione di Bonzoland è stata bloccata poco dopo, e i legali hanno deciso che era meglio interrompere la produzione in SOS “temporaneamente”.
GERALDINE
E che mi dici di te, a livello personale?
NIGEL
Beh, ovviamente ho ricevuto minacce di morte. Noi non avevamo niente a che fare con questa storia, ovviamente, ma la gente può essere molto stupida con questo genere di cose. In ogni caso, questo è quanto - all’occhio del pubblico, Mr Bonzo è cambiato.
…Da quanto ne so ha ancora qualche fan. Tra le, uh, parti più edgy di internet. Come “meme.”
GERALDINE
Sì, volevo chiederti - la marchandise di Mr Bonzo è ancora in vendita tramite il tuo sito web personale. Questo ti mette a disagio?
NIGEL
Cosa dovrebbe mettermi a disagio? Il fatto che qualche acquisto potrebbe essere dovuto a delle persone che provano ad essere edgy? Un uomo deve pur vivere, Geraldine, e non è che posso capire se qualcuno compra una maglietta ironicamente. Tra l'altro se le persone pensano a Nigel Dickerson, Mr Bonzo è una delle prime cose che gli viene in mente, quindi questo non si ripercuote sulla mia reputazione. Da un certo punto di vista adesso sono suo prigioniero più di quanto non lo sia mai stato nel mio show.
GERALDINE
E come rispondi alle voci più recenti?
NIGEL
(in guardia) Prego?
GERALDINE
Le dichiarazioni dei testimoni in tre omicidi negli ultimi cinque anni -
NIGEL
(a voce alta, parlandole sopra) Ho detto al tuo produttore che non avremmo dovuto toccare questo argomento.
GERALDINE
– che sostengono che una persona in un costume da Mr Bonzo era sulla scena del delitto? Pensi che si tratta di un emulatore?
NIGEL
(Allo stesso tempo, alzandosi in piedi) L’intervista finisce qui. Non contattateci mai più.
GERALDINE
ConttattarVI?
NIGEL
(urlando) Era uno scherzo, Chiaro!? Mr Bonzo doveva essere divertente, doveva far ridere la gente! Che cosa c’è di così sbagliato? Perchè sono sempre intrappolato in questa, questa - perché lui non mi lascia ?! Perché -
[La registrazione si interrompe improvvisamente.]
[Siamo di nuovo nell’ufficio dell’O.I.A.R., sentiamo il rumore di tasti]
[Doppio click, suono in 8-BIT]
[Silenzio nel resto dell’ufficio]
[un lungo sospiro - da Celia]
[Le rotelle di una sedia, lei si alza e va alla sala del personale]
[In fine dei passi:]
COLIN
Heilà?
CELIA
(dalla saletta del personale) Colin?
[Torna nella stanza]
COLIN
Scusa, non voglio interrompere la tua pausa.
CELIA
Tutto bene, ho appena messo su l’acqua. Vuoi una tazza?
COLIN
No, grazie. Sto cercando di limitare la caffeina… (a disagio)
CELIA
Celia.
COLIN
Celia. Già. Scusa.
CELIA
Nessun problema - sono ancora nuova.
COLIN
Dove sono tutti?
CELIA
Gwen ha un “incarico,” qualsiasi cosa voglia dire. Alice e Sam sono, uh, stanno indagando su qualcosa per un caso.
COLIN
(distratto) Già. peccato. Volevo l’opinione di Alice su una cosa. Te ne intendi di computer?
CELIA
Non proprio. Tu non eri in congedo?
COLIN
Per il mio cervello, sì. Non ha funzionato. Ho parlato con tre terapisti. Nessuno di loro sapeva cosa fosse un gate logico. A che diavolo mi sarebbe servito?
[Non è arrabbiato - il suo tono è monotono, stanco]
CELIA
Non so -
COLIN
A niente. Me ne sono stato seduto lì a girarmi i pollici. La cosa migliore che posso fare per me stesso è arrivare in fondo a questa storia.
CELIA
(per niente convinta) Giàààà.
COLIN
Quindi gli altri sono tutti fuori, giusto?
CELIA
Sì, ma -
COLIN
Fantastico. Questo dovrebbe semplificare le cose.
[Si siede a una scrivania, il computer si avvia]
COLIN
Magari non dirgli che sono stato ai loro terminal. Si farebbero un’idea sbagliata.
CELIA
Uh… certo.
[Colin inizia a scrivere, un po’ senza fiato]
[Il fischio in lontananza del bollitore]
CELIA
Okay. Beh, credo fosse il bollitore, quindi probabilmente ti lascio fare.
COLIN
Sì. Oh, e, um, Celia?
CELIA
Mm?
COLIN
Se Lena te lo chiede, io non sono stato qui.
[Inizia a lavorare al computer, borbottando da solo]
CELIA
…Certo.
[Si allontana]
[Suoni di un telefono]
[Passi veloci e cauti sotto la pioggia]
[Un gridolino da Alice - Sam la afferra]
SAM
Attenta.
ALICE
Sì, beh, sarebbe più facile se non stessi indagando tra delle rovine marce e sul punto di crollare sotto la pioggia.
SAM
E sarebbe ancora più facile se tu la smettessi di lamentarti e iniziassi a guardarti in giro.
ALICE
Touché. Anche se voglio far presente che non ho ancora la minima idea di cosa stiamo cercando. Sono delle energie negative? Perché credo di averle trovate.
[Scricchiolio di legno quando lei alza qualcosa - un’asse?]
ALICE
Oh, no. Falso allarme. Solo un ratto morto. Meraviglioso.
[fa cadere l’asse]
SAM
Lo saprò quando lo vedrò.
ALICE
Ma davvero? Perché sembra proprio il genere di cosa che qualcuno dice quando non sa cosa sta cercando. Onestamente non so cosa ti aspetti. Sono delle macerie. Legno bruciato, stanze crollate, detriti. Non è che sia proprio una caccia al tesoro.
SAM
Se la cosa ti dà fastidio, puoi tornartene a casa. Non voglio trattenerti qui.
ALICE
Sam, onestamente non vorrei essere da nessuna parte se non qui con te.
E per essere chiari, lo intendo in un senso profondamente deprimente. Del tipo, è un sabato sera e ho scelto di passarla in un buco con te. Un buco bagnato. E nemmeno uno di quelli divertenti.
SAM
(esitante) Beh, grazie, allora, credo.
ALICE
(imitando scherzosamente il suo tono) Beh, non c’è di che, allora, credo che -
SAM
Aspetta, cos’era quello?
ALICE
(improvvisamente interessata suo malgrado) Cosa?
SAM
Girati, punta la torcia… Sì!
[Si fa strada e inizia a lottare contro qualcosa]
ALICE
Aspetta, sei serio? Non alzare le aspettative. Sarà vuoto. E anche se non lo è, è impossibile aprirlo con tutta quella ruggine.
SAM
(sforzandosi in maniera penosa) Vuol dire che posso rompere il lucchetto…
ALICE
E trovare un articolo convalidato sul tetano che finirai per beccarti. Ti taglierai per della poltiglia di carta.
[La casa si apre lentamente con un cigolio]
SAM
Fatto!
ALICE
Allora? Qualche rivelazione che ti cambia la vita? O…
SAM
(Deluso) Poltiglia.
ALICE
(divertita) Poltiglia, altro che.
SAM
Cavolo!
[Tira un calcio alla cosa. Chiaramente si fa male]
ALICE
Tutto bene?
SAM
Sto bene!
…Ow.
ALICE
Senti, Sam, mi hai chiesto di venire, e io sono venuta. Mi dispiace che questo non sia la chiusura di un capitolo o quello che stavi cercando, ma penso che stai solo sprecando il tuo tempo. Siamo proprio fortunati che questo posto non ci sia già crollato in testa.
SAM
Io non mi sento fortunato.
ALICE
Allora siamo in due.
Senti, ti capisco, okay? Ci sono delle cose strane, te lo concedo. Quel pavimento con i bassorilievi nell’atrio principale - non so ma non mi convince. Ma i fantasmi che speri di beccare? Penso che non siano qui.
…Sam.
SAM
Va bene! Va bene, proviamo a…
[Inizia a cercare in giro]
ALICE
Sul serio? Ti ho appena convinto ad andare via, ti prego non dirmi che adesso hai trovato qualcosa che -
SAM
(Tirando fuori la mano) Aha!
ALICE
(Incerta) È una chiave.
SAM
Oh sì. E sai cosa vuol dire?
ALICE
Che la borsa per la palestra di qualcuno sta facendo la muffa in armadietto da qualche parte?
SAM
(implorante) Aliiice.
ALICE
(bonariamente) Ugh. Va bene. Altri 10 minuti. E l’ombrello lo tengo io.
[La TV si accende]
[Fuori, suona il campanello]
[Qualcuno scende le scale]
[Il campanello suona ancora]
NIGEL
(a bassa voce) Va bene, sto arrivando…
[Apre numerose serrature]
[La porta si apre]
NIGEL
Cosa?
GWEN
(controlla i fogli) Uh – Nigel Dickerson?
NIGEL
Hai idea di che ore sono?
GWEN
(formale) Sono qui per conto dell'’Office of Incident Assessment and Response.
NIGEL
(più tagliente) Oh?
GWEN
Ho un messaggio per lei. Mi è stato detto di consegnarglielo di persona. Ecco qui.
NIGEL
…non posso.
GWEN
Le mie istruzioni erano molto chiare. Andare a casa di Nigel Dickerson e consegnargli questa busta.
NIGEL
Non è per me.
[Una pausa, lui sospira]
Entra. E pulisciti le scarpe.
[Gwen segue la richiesta, e si chiude dietro la porta]
[Nigel sospira di nuovo, poi si allontana e accende un vecchio stereo]
[Parte la canzone “Mr Bonzo sta arrivando”]
NIGEL
Mi dispiace per questo.
GWEN
Uh… cosa?
[Nigel alza il volume della musica]
[Un passo pesante e bagnato sulle scale, qualcosa si sta trascinando al piano di sotto per incontrarli]
GWEN
Cos’è - Chi…?
NIGEL
Cerca di non fissare. Non gli piace quando le persone lo fissano.
[L’ultimo passo]
GWEN
(terrorizzata) Oh mio dio!
MR BONZO
B-B-B-Bonzo Bonzo Bonzo!
[La voce di Mr Bonzo è profonda e cigolante, a malapena sembra una voce]
NIGEL
Mr Bonzo, ti presento… a dire il vero non mi hai detto il tuo nome. Forse è la cosa migliore.
MR BONZO
BONZO BONZO BONZO!
NIGEL
(con urgenza) Ti ho detto di non fissare!
[Gwen non risponde, è chiaro che sta cercando di non andare in iperventilazione]
NIGEL
(a Bonzo, con cautela) A quanto pare ne hanno un altro per te. (a Gwen) Consegnagliela.
MR BONZO
BONZO!
GWEN
Io… cosa?
MR BONZO
(più agitato) BONZO! BONZO!
NIGEL
Il nome, l’indirizzo - devi dirgli dove andare.
GWEN
Cosa? Io non – (un altro tipo di terrore) Nessuno mi ha detto niente. Lì dentro chi c’è?
MR BONZO
(si arrabbia) BOOONZOOO!
NIGEL
(vicino al panico) Ma di che cosa stai parlando? La busta, devi dagli la busta e basta!
GWEN
S-Sa leggere?!
NIGEL
Fallo e basta!
[Gwen allunga la busta e Mr Bonzo l’afferra con la bocca, lo sentiamo che la mastica]
[I suoi denti non sono morbidi]
MR BONZO
(felice) BONZO! BONZO BONZO BONZO!
[Passi pesanti mentre la porta è spalancata di colpo, e Mr Bonzo esce]
NIGEL
(a corto di fiato per il sollievo) Oh grazie a dio. Per poco non finiva molto male.
GWEN
Io… io non -
NIGEL
Dì a quelli che ti hanno mandata, “non c’è di che. Di nuovo.”
GWEN
Ah – okay?
NIGEL
Adesso esci da casa sua.
[Da qualche parte, un registratore di cassette si accende con un click]
[Il suono in lontananza di un temporale, con il gocciolio dell’acqua]
[Qualcuno prova ad aprire una porta]
SAM
(ovattato, da fuori) Mi hai appena visto provarci, letteralmente.
ALICE
(ovattato) Pensavo che tu non eri riuscito ad aprirla. Non equivale a essere chiusa a chiave.
SAM
(ovattato, a disagio) Ecco che riparte con la storia di Sam, il gracile gamberetto.
ALICE
(ovattato) UNO. Non ti ho mai chiamato gracile gamberetto ma grazie per l’idea. DUE. chiudi il becco e dammi la chiave.
[La chiave entra nella toppa e gira a vuoto]
ALICE
(ovattato) Beh, ci abbiamo provato. Vieni.
SAM
(ovattato) Aspetta, qui il legno è molto danneggiato. Penso che…
[Con un Crack bagnato, il legno intorno alla serratura si rompe e collassa verso l’interno. Un tonfo.]
SAM
Ha! Cacchio!
ALICE
Ha fatto molto male, non è così?
[Sam sposta il peso tra i vari pezzi di legno taglienti]
SAM
Forse.
ALICE
Vieni qui.
[Lo aiuta ad alzarsi e a ripulirsi dai frammenti di legno]
ALICE
Davvero utile, la tua chiave.
SAM
Siamo qui, almeno, no?
ALICE
E questo qui che posto sarebbe, di preciso?
SAM
L’ufficio di qualcuno, credo? Sembra che abbia resistito molto meglio del resto…
ALICE
(raccoglie qualcosa) Che pensi che fosse Archi?
SAM
Huh?
ALICE
Ho trovato una di quelle placche col nome vecchio stile.
SAM
Uh… Architrave?
ALICE
Scusa, cosa?
SAM
Cosa?
ALICE
Sei andato direttamente ad “Architrave”? E non, che ne so, architetto? Archivio?
SAM
Cioè, ci sono dei libri, suppongo…
[Ne raccoglie uno. Un rumore umido]
SAM
(Deluso) Un tempo c'erano dei libri, in ogni caso.
ALICE
Bella sedia. Avrei un aspetto davvero sinistro se mi mettessi a girare su quella.
SAM
Non rischierei. A meno che tu non voglia delle termiti nel culo.
ALICE
Ew. Quelle spiegano i segni sul pavimento.
SAM
Oh sì… Quelli cosa sono?
ALICE
Segni delle termiti. O, sai, (facendo una Voce) simboli di un antico potere ultraterreno. Una o l’altra.
SAM
Senti, puoi essere spaventata o sarcastica ma non entrambe le cose.
ALICE
Guarda e impara.
[Passi mentre Sam si avvicina]
[Il pavimento di legno cigola in maniera preoccupante]
ALICE
Attento…
SAM
(Girandosi) Oh grazie al cielo che me l’hai detto, altrimenti mi sarei messo a saltellare su è giù questo pericolante -
[Il pavimento cede]
SAM
(Cadendo) Oh merd–!
[Alice lo afferra e lo tira in salvo]
[Uno splash distante; è caduto qualcosa]
[Sam fa un sospiro di sollievo, ma poi:]
SAM
Mi è caduta la chiave!
ALICE
Cosa scusa? Perché sembrava davvero un “Mi dispiace Alice, avevi ragione. Dovremmo tornare indietro adesso prima che mi ammazzi cadendo in un buco acquoso. Cristo, sei sexy, eccoti un ventino per il disturbo.”
SAM
Non possiamo! Questo è il primo indizio che abbiamo trovato!
ALICE
Indizio? Ma che indizio?! È un buco, Sam. È un buco buio e lurido in un ufficio buio e lurido in un edificio buio e lurido, invaso dagli insetti e chissà cos’altro. Mi dispiace, ma è abbastanza. Questo non è un grandioso indizio sulla tua infanzia. È un buco. È ora di andare, Sam.
[Sam lascia andare un lungo sospiro sconfitto]
ALICE
…mi dispiace davvero. Lo so che ci speravi.
SAM
No, hai ragione tu. non so cosa sto cercando. Ho… ho dei ricordi di alcune cose strane che ho visto qui, ma senza alcun contesto. Volevo sapere cosa stava succedendo, perché hanno scelto noi… perché non hanno scelto me. Forse trovare il punto in cui tutto ha iniziato ad andare storto.
Ma… è troppo tardi. E adesso… io sono l’unico a cui ancora gli importa.
ALICE
A me importa.
– Non molto, per la cronaca, non montarti la testa. Ma la verità è che, la chiusura avviene nei film, amico. Noialtri al massimo possiamo trovare solo dei luridi buchi.
[Una pausa]
SAM
(facendo un sorriso) Sai che per quello vendono una crema.
ALICE
(con calore) Ecco il mio gamberetto.
SAM
(sospira) Andiamo. Usciamo di qui prima che finiamo in quella che penso possa essere una fogna.
ALICE
Oh, pensavo che venisse da te! Avevo pensato che te l’eri fatta addosso quando sei caduto.
SAM
Che tesoro.
[Iniziano ad allontanarsi, le loro voci si fanno sempre più distanti]
ALICE
Sento un odorino. Ora, per quanto possa essere divertente ritrovarsi sul punto di finire in uno di quei casi inquietanti, avrei proprio voglia di bere qualcosa. Pensi che quel pub a cui siamo passati davanti è ancora aperto?
SAM
Siamo a Manchester, quindi sì, probabilmente. Che ci servano o meno quando puzziamo come una volpe morta è un'altra questione…
[Alla fine le voci svaniscono del tutto, a causa della distanza e della pioggia]
[Un lungo silenzio mentre il nastro continua a girare e l’acqua, più in basso viene mossa]
[Poi c’è un tonfo sul legno, e un lucchetto viene scosso]
[Il rumore distintivo di una chiave che viene trascinata sul legno, poi infilata in un lucchetto che scatta]
[La porta della botola si apre cigolando]
[[ERRORE] emerge e fa un respiro incerto]
[Poi un altro e un altro ancora]
[CLICK]
[Traduzione di: Victoria]
[Episodio successivo]
#tmagp#tmagp ita#the magnus protocol#il protocollo magnus#gli archivi magnus#traduzione italiana#tmagp010
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Non ho mai scritto più niente qua sopra dopo i 10 giorni dalla nostra rottura definitiva. Avrei voluto scrivere ogni giorno, ma decisi di concentrarmi sullo studio per la maturità, sulle vacanze, su qualsiasi altra cosa non fossi tu.
Nonostante in quel periodo io abbia avuto tantissimi svaghi, impegni e divertimenti che mi hanno aiutata tantissimo a non pensarti, è stato difficile mantenere il cosiddetto "pugno di ferro" per non scriverti, non risponderti quando eri tu a scrivermi e andare dritta verso quella che era la mia decisione: non ricascare nelle tue braccia.
Ho passato l'estate a divertirmi e a "ripulirmi" da tutte quelle energie cattive che avevamo accumulato attraverso i nostri continui litigi. Non avevo assolutamente la testa di impegnarmi ne tantomeno di conoscere nuove persone.
Nonostante tutto una persona l'ho conosciuta, inizialmente non c'era nessun interesse ne tantomeno malizia da parte mia. Ci siamo conosciuti senza alcun impegno, volevo godermi il momento, non pensavo a lungo termine, non pensavo minimamente ad un fidanzamento; c'era un'interesse caratteriale e l'ho coltivato, senza pretese e senza aspettative. Volevo prenderla come veniva.
Mai mi sarei aspettata che quella persona diventasse quello che ad oggi definisco il mio fidanzato da quasi 3 anni e mezzo. Tutto è nato per caso, non è stato un chiodo schiaccia chiodo, ci è voluto molto tempo per ufficializzare la cosa realmente perché è nato tutto con estrema calma e, ripeto, senza aspettative. Con lui sto bene, non litighiamo quasi mai, mi vuole bene, mi tratta bene, andiamo d'accordo e, soprattutto, ha la mia stessa visione su molti aspetti della vita, soprattutto per quanto riguarda le relazioni. Ciò che ci lega tanto è proprio il nostro essere molto simili nelle relazioni amorose: ci fidiamo, siamo liberi, non ci imponiamo nulla, non siamo gelosi, non siamo appiccicosi.
Ma non voglio parlare di lui adesso, bensì di te.
Da quando ci siamo lasciati non ci siamo mai visti tanto spesso. All'inizio ci beccavamo ogni tanto a via Toledo o sui quartieri, poi per molto non ci siamo visti siccome non si usciva a causa del del covid; tempo dopo ti ho visto l'ultima volta a settembre 2021 ad hellheaven. Da quel settembre non ti ho più rivisto per un anno, manco per sbaglio, manco uno sguardo, manco di sfuggita. Scomparso. Quest'anno, invece, ti ho visto in innumerevoli occasioni. Ti vedo ogni volta che vado a ballare, ma non solo, diciamocela tutta...beccarsi in un locale non è così difficile, nonostante possa essere pieno, ci sono più probabilità di vederci. Ma ultimamente ti becco sui quartieri, sotto la metro, a via Toledo, mentre attraversi la strada...è come se fosse destino.
Da quando ci stiamo beccando più spesso la mia mente non smette di pensarti. Non riesco.
Vederti generalmente non mi ha mai fatto questo effetto, o meglio...ho sempre provato nostalgia nel vederti, mi assaliva una leggera tristezza che però, dopo poco, andava via. E continuavo con la mia vita pensandoti solo raramente. Tra l'altro credo che pensare di tanto in tanto ad una persona che per te è stata importante sia più che normale.
Ma in questo ultimo periodo non ti penso raramente, ti penso sempre. Ti sogno la notte. Tutto ciò è partito da quando ti ho rivisto a venus a novembre la prima volta, da lì ti vedo ovunque, ti sogno e ti penso.
Mi chiedo cosa fai? come stai? come passi il tempo? Stai lavorando? Ti diverti? Mi pensi mai? Mi odi? Che effetto ti fa vedermi per caso in un locale o in mezzo alla strada? Tutto questo non posso saperlo se non chiedendotelo, ma non posso.
Non posso perché butterei all'aria tutto quello che abbiamo costruito in questi anni che siamo stati distanti. Io non so tu cosa hai costruito, non so se stai meglio o peggio, non so se tu sia migliorato o peggiorato. Ma so tutto quello che ho fatto io. Ho iniziato a studiare seriamente, mi sono impegnata, mi sono laureata, sto portando avanti una relazione sana, ho tenuto strette le mie vere amicizie, ho capito di chi non fidarmi, ho provato sport diversi, ho fatto viaggi, ho riso, ho pianto, ho urlato, ho litigato e fatto pace. Ho costruito un rapporto migliore con mia mamma e forse uno peggiore con mio padre, ho visto la mia famiglia sgretolarsi in altri mille pezzi, ho perso persone che amavo, ho sperato, ho iniziato a lavorare...
Sto costruendo la mia vita e il mio futuro a piccolissimi passi, ancora tanto incerti, ma curiosi per ciò che mi aspetta e fiduciosi che la vita non possa far altro che sorridermi, che tutto possa andare per il verso giusto, che possa realizzarmi e sentirmi appagata.
Non sai quanto vorrei raccontarti tutto ciò e quanto vorrei che tu mi raccontassi di te. Ormai siamo estranei. Ma sento un legame indissolubile ogni volta che i nostri occhi si incrociano per quel millesimo di secondo. So che lo senti anche tu. Io lo sento anche a distanza, sento delle strane vibrazioni, non so neanche spiegarlo. Non so come spiegarmelo.
Perché dopo quasi 4 anni mi sta nascendo tutto ciò? Perché non prima? Non mi sei mai stato indifferente per ogni volta che ti ho incrociato, ma adesso, sarà che ci stiamo vedendo più spesso, la nostalgia è fortissima e a volte, se ti penso, sento un nodo alla gola, un vuoto nello stomaco e le lacrime agli occhi. Vorrei capire cosa è.
Sento che c'è qualcosa di incompleto tra di noi e lo sto scrivendo piangendo nel mio letto.
Non so se questa incompletezza che sento è solo dettata dalla forte nostalgia e dal bene che provo nei tuoi confronti, dal desiderio che provo di poter fare una chiacchiera matura dopo quattro anni. Vorrei poter mettere un punto vero sole cose. Vorrei potermi perdonare per ciò che ho fatto. Vorrei che ci capissimo.
Penso se ti avessi risposto meglio nel 2020 ai tuoi tentativi di vederci, cosa sarebbe successo? Penso se avessi risposto al tuo "mi manchi" su Instagram, cosa sarebbe successo? Sai bene che visualizzare non è da me, ma la paura di risponderti era tantissima. Tra l'altro essendo fidanzata non mi sembrava giusto risponderti e soprattutto aprire qualche speranza in te.
Questo è quello che mi blocca più di tutto. So che ultimamente mi pensi di più anche tu. Qualche settimana fa sei passato sul mio profilo.
Non voglio illuderti, non voglio aprire speranze, non voglio che rifiuti il mio invito o che mi visualizzi, non voglio scriverti perché sono fidanzata...
Ho il caos nella mia testa, vorrei le risposte ai miei sentimenti.
L'unica cosa che so è che la nostra relazione, seppur breve, è stata bellissima e tormentata (per motivi interni ed esterni alla coppia), mi ha lasciato un segno sulla pelle che non andrà mai più via. Tu per me resti sempre tu.
Sei speciale e per sempre lo sarai nel mio cuore, dove ti custodisco con tutto il brutto ed il bello che c'è stato.
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Come sarò io e come sarai tu (con qualche giorno in più)
Altri capitoli
1. Non c'è tempo per la solitudine
Settembre 2004
Buttai il borsone sul pavimento e lo zaino sul letto. Sospirai dal sollievo di aver liberato le spalle da quelle due zavorre e mi guardai attorno. La mia nuova cameretta era carina, anche se non come quella della nostra casa a Torino, e i miei avevano fatto un buon lavoro per renderla accogliente.
La prima cosa che feci fu aprire il borsone e tirare fuori Mr. Bear. Lo strinsi forte a me e lo misi sul letto. Quando papà mi accennò, scherzando, che Mr. Bear poteva benissimo starsene a Torino, avevo talmente sbroccato che mi dovette tranquillizzare. Si può scherzare su tutto, ma non con Mr. Bear!
"Andrà tutto bene, vero?" chiesi al mio orsacchiotto, "E se non andrà bene, stringeremo i denti, porteremo a casa la maturità e torneremo a Torino. Possiamo farcela." mi dissi, mentre presi una foto delle mie migliori amiche, già incorniciata e messa in bella mostra sulla scrivania. Potevo scommettere qualsiasi cosa che era stata mamma a metterla lì, forse per farmi sentire meno nostalgia. "Posso farcela."
Quelle tre sceme mi mancavano un casino e persino tutti i miei compagni di classe. Non ci potevo ancora credere che stavo sacrificando il mio ultimo anno per colpa del lavoro di mio papà eppure eccomi qui, dopo un viaggio eterno, nel nostra nuova casa.
Per evitare di iniziare a piangere per l'ennesima volta, decisi di iniziare a sistemare le poche cose che mi ero portata, anche perché il grosso era stato portato dai miei con un furgoncino ai primi di agosto. Aprii l'armadio e con stupore notai che, attaccato all'anta, c'era un poster di Kevin dei Backstreet Boys. Alzai gli occhi al cielo e risi debolmente. Prima la foto delle mie amiche e ora il poster della mia prima cotta nell'armadio. Mamma non aveva solamente passato le sue vacanze a rendere accogliente la casa, ma aveva avuto anche l'accortezza di mettere in tutta la cameretta tante piccole cose che erano solamente mie, forse per farmi sentire meno la mancanza di tutto quello che avevo lasciato indietro.
La mia buona volontà durò ben poco. Dopo solo due magliette, un paio di jeans e una felpa, feci quello che mi veniva meglio: lasciare il lavoro a metà. Intanto le cose da mettere a posto non sarebbero scomparse nel nulla e con molta probabilità avrei finito dopo cena, ovviamente dopo essermi fatta rimproverare dai miei almeno un paio di volte.
Frugai nello zaino e presi il mio lettore CD. L'unica cosa che volevo fare era non pensare e stare da sola. Aprii la porta finestra e uscii sul balcone. Una folata di aria afosa mi colpì in pieno, ma questo non mi impedì di curiosare e scoprire, con stupore, che il nostro nuovo appartamento faceva parte di una casa di ringhiera. Questo voleva dire che il nostro ballatoio era diviso da quello dei vicino soltanto da un cancello e dovevo ammettere che il nostro era proprio bello. Inizio 1900, in ferro con fantasia floreale e ovviamente chiuso, pensai mentre muovevo la maniglia con un po' troppo vigore. Delusa, oltrepassai la mia camera e scoprii che anche il salotto affacciava sul balcone. Scostai la tenda della finestra e diedi davvero solo una sbirciatina alla stanza, perché non volevo che mamma mi vedesse cazzeggiare al posto di mettere in ordine il borsone, e poi ritornai verso la porta finestra della mia camera.
Senza fare rumore, mi misi seduta a gambe incrociate appoggiata al cancello di ferro. Il cielo era di un azzurro così intenso che guardarlo faceva quasi male agli occhi, oppure ero solo io che avevo una voglia matta di piangere.
Misi le cuffie, saltai le prime due canzoni perché volevo arrivare direttamente alla mia preferita, Stay di Tommy Vee. La compilation me l'avevano fatta le mie amiche con tutte le nostre canzoni, soprattutto quelle del sabato sera quando andavamo a ballare. Chiusi gli occhi e i ricordi delle nostre serate mi affollarono la mente. I chupiti offerti dal barista che ci provava con Valeria, Marina che si appartava negli angoli bui per limonare, Isabella che piangeva perché l'ennesimo ragazzo che gli piaceva non la cagava e io che ballavo per tutta la sera fino a che uno dei nostri genitori non ci veniva a prendere per riaccompagnarci a casa. Nonostante le nostre divergenze, eravamo un gruppo affiatato e quello che mi spaventava di più, non era solamente di essere dimenticata da loro, ma anche quello di non essere in grado di fare nuove amicizie. Chissà come sarebbero stati i miei nuovi compagni di classe e soprattutto la mia compagna di banco, oppure compagno. Per saperlo non avrei dovuto aspettare tanto perché domani era già il primo giorno di scuola e io non ero assolutamente pronta. Nuova città, nuovi professori, nuovi compagni di classe. Era tutto nuovo tranne la mia paura di non farcela a gestire tutti questi cambiamenti.
I miei pensieri vennero interrotti da uno strano rumore che stava interferendo con la riproduzione di Hey Mama! dei Black Eyed Peas. Scossi leggermente il lettore CD, pregando che non fosse lui ad avere problemi perché di comprarne uno nuovo non se ne parlava, ma nulla, quel pst pst continuava. Allora mi tolsi le cuffie e ci soffiai sopra. Proprio in quel momento sentii muoversi qualcosa alle mie spalle, oltre il cancello. Mi voltai di scatto e mi scappò dalla bocca un urletto stridulo che prontamente cercai di coprire con la mano.
"Oddio, scusami! Non volevo spaventarti."
Al di là del cancello c'era un ragazzo che mi guardava con occhi spalancati, probabilmente per colpa della mia reazione esagerata. Aveva lunghi capelli neri raccolti in uno chignon basso e sembrava essere più piccolo di me.
"Scusami tu! Ero sovrappensiero e non ti ho sentito…" mi giustificati, vergognandomi come una pazza. Odiavo mettermi in imbarazzo davanti alle persone e questo era uno di quei momenti in cui avrei voluto sotterrarmi. Poi, però, vidi il ragazzo davanti a me sorridermi e tutte le mie ansie si dissolsero.
"Sono Ethan," si presentò, porgendomi la mano dalle sbarre del cancello. Nonostante il suo aspetto da ragazzino la sua stretta era forte e sicura, "e tu devi essere la nuova vicina. Tua mamma ci aveva già avvisati del tuo arrivo. Beh, in realtà l'ha detto a mia mamma…"
Annuii, un po' scocciata dal fatto che mamma avesse parlato di me, "Sì, a volte a mia mamma piace chiacchierare troppo. Quindi saprai già tutto di me, nome, età, probabilmente anche numero di scarpe e che scuola frequenterò."
"In realtà so solo che vieni da Torino," disse, guardando a terra, "a quale scuola ti sei iscritta?"
"Al Manzoni, domani è il pr-"
"Al Manzoni?? Ma è dove vado io! In che classe sei?"
"Quinta B."
"Non ci credo!"
"Siamo in classe insieme?" chiesi speranzosa.
"Purtroppo no, io sono al quarto anno. Ma non ti preoccupare, c'è uno dei miei migliori amici in quella classe. Questa sera abbiamo le prove con il gruppo e glielo dirò di sicuro. Così magari ti sentirai meno sola."
"Grazie mille, sei davvero gentile!" Ethan annuì, labbra strette e il volto serio come se avesse appena risolto tutti i problemi dell'Italia, "Quindi suoni in una band?"
I suoi occhi si illuminano e io pensai che la musica e questa band fossero la sua passione, "Sì, suono la batteria. La band non ha ancora un nome, ma io e i miei due migliori amici ci stiamo pensando. Non è così facile, sai?
"Immagino! E che musica fate?"
"Più che altro facciamo cover. Grunge, rock anni '70 e '80, un po' di new wave e poi le canzoni del momento che ci piacciono. Adesso stiamo lavorando su The Reason degli Hoobastank."
"Adoro quella canzone!"
"Magari un giorno di questi puoi venire alle nostre prove. A proposito, sai per caso suonare il basso?"
Sorrisi, "L'unica cosa che so suonare è il campanello di casa!"
Ethan mi guardò serio, poi, tutto a un tratto, scoppiò a ridere, "Credo che io e te diventeremo buoni amici," sentii il cuore battere forte. Avevo un nuovo amico, non ci potevo credere! "Però non mi hai ancora detto come ti chiami."
"Ma io pensavo che mia mamma te l'avesse detto," mi sbattei una mano sulla fronte, "mi chiamo…"
"Rebecca," mia mamma aprì la porta della camera, "tra un quarto d'ora andiamo… Rebecca?" il suo sguardo vagò per la stanza finché non mi vide sul balcone, "Non dovevi mettere a posto?"
"Lo stavo facendo, poi ho aperto la finestra perché faceva troppo caldo e ho visto Ethan. Sai una chiacchiera tira l'altra!" mi voltai verso Ethan e gli feci l'occhiolino.
Mamma si affacciò dalla porta finestra, "Ciao Ethan, come stai?"
"Tutto bene, grazie signora Carisi." disse alzandosi in piedi.
"Sono contenta. Mi raccomando, salutami tua mamma," poi si voltò verso di me, "tra dieci minuti ti voglio pronta in salotto perché dobbiamo andare la spesa. Ok?"
"Ok!" risposi, mentre lo sguardo di mamma viaggiava veloce tra me e Ethan. Ci sorrise, girò i tacchi e uscì dalla camera. Volevo sapere a cosa frullava nella sua testa? Forse era meglio di no.
"Quindi, Rebecca," io annuii, sorridendo, "No, dai non ridere della mia erre moscia!"
"Non stavo ridendo di te, giuro! Stavo solo pensando che la tua erre è particolarmente adorabile," ed è solo quando vidi un leggero rossore sulle sue guance che capii che quello che avevo detto forse era stato un po' troppo sfacciato. Sentii le guance andare a fuoco, "Forse è meglio che vada a prepararmi. Ci vediamo a scuola domani?"
"Certo. Passa una buona prima serata a Roma!"
Stavo per entrare in camera quando mi sentii chiamare, "Rebecca, se vuoi possiamo andare insieme con il mio motorino."
"Perfetto! A che ora ci vediamo?"
"Sette e mezza al portone?"
"Sette e mezza al portone." gli sorrisi, poi entrai in camera e mi chiusi la porta finestra dietro la schiena. Non riuscivo a smettere di sorridere. Non solo mi ero fatta un nuovo amico, ma a quanto pareva avevo anche un amico di Ethan in classe con me. Forse alla fine questo ultimo anno di liceo non sarebbe stato così brutto.
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"Ho provato a licenziare Matteo Salvini per due volte" ha raccontato l'ex direttore de "La Padania" Gigi Moncalvo, nell'intervista di lunedì a Report. "La prima volta - racconta - fu a cavallo delle feste di fine anno. Durante quei giorni, chi veniva a lavoro, riceveva il triplo della paga. Salvini in quei giorni non c'era a lavoro. Non era nemmeno reperibile dove avrebbe dovuto. Ma quando a fine mese arrivò il foglio delle presenze lui lo firmò lo stesso". "La seconda volta fu quando scoprì che aveva falsificato quattro note per i rimborsi spesa. Quando glielo feci presente, a muso duro, lui mi rispose: tu passi, io resto. E credimi: diventerò sempre più potente". E aveva ragione. Quello che Report rivela nell'ora successiva a questa intervista, con tanto di documenti e dichiarazioni dei diretti interessati (russi e americani), avrebbe dovuto portare alla fuga di Salvini dall'Italia nascosto nel vano di una macchina, per evitare la ferocia della folla (la sua folla, quella patriota e col tricolore). Ma per fortuna del Capitano, ai suoi italiani, a quelli che sventolano il tricolore e parlano di "Patria", dell'Italia e della Patria non è mai fregato un cazzo. E se gliene frega davvero, non hanno capito nulla di ciò che sta accadendo. Proviamo a riassumerlo allora, per quanto sia vano. Ciò che in breve viene a galla dalla puntata di Report (e dalle inchieste de L'Espresso), è che in Russia e negli USA operano uomini e gruppi estremamente potenti e ricchi, che hanno (per procura?) un unico grande obiettivo: dissolvere l'Unione Europea, perché d'ostacolo agli interessi globali delle due Super Potenze Straniere. Come? La soluzione è semplice. Sostenere in Europa gruppi e forze politiche che - spacciandosi per "nazionaliste" e "patriottiche" - facciano in realtà gli interessi delle due potenze straniere: denigrare e indebolire l'Europa dall'interno. Il tutto facendo presa su ben determinate fasce della popolazione da manovrare con frasi semplici, foto, slogan, fake news, e alimentando sentimenti quali la paura, il vittimismo, la paranoia della minaccia esterna, il complottismo, la nostalgia, il tradizionalismo religioso, il nazionalismo. E' il 2013. Fino a quell'anno Matteo Salvini tiene ancora comizi contro l'Italia, per l'indipendenza della Padania, scrive sui social "Italia Paese di merda", insulta ancora i meridionali. Poi, all'improvviso, in quell'anno, nel 2013, inizia la sua "strana" conversione. Da storico anti-italiano diventa il più grande patriota italiano. Così, all'improvviso. E, guarda caso, l'anno successivo candida il suo partito alle Europee col nome di "Basta Euro". Il 2013 è l'anno della sua elezione a segretario della Lega. E quel giorno, sul palco, sale a parlare un tizio che nessuno aveva mai visto prima: un russo, un certo Alexei Komov. Che ci fa quel russo lì? Perché è lì? A spiegarlo alle telecamere di Report è un altro russo, l'uomo che fu invitato (al posto di Komov) al congresso della Lega: il potentissimo Konstantin Malofeev, meglio noto come "l'Oligarca di Dio", miliardario e ultraconservarvore cristiano: "Avrei dovuto esserci io quel giorno - dice - Ma ebbi degli impegni e mandai in mia sostituzione Alexei Komov". E perché, in Italia, avrebbe dovuto esserci al congresso della Lega lui, Malofeev, l'"Oligarca di Dio", il finanziatore di partiti di estrema destra anti-europei come il Fronte Nazionale di Le Pen in Francia (a cui, prima delle sanzioni, ammette di aver dato 2 milioni di euro)? Il giornalista di Report lo chiede a Salvini. Che prima finge di non ricordare chi sia Kostantin Malofeev (meravigliosa l'espressione che fa), poi ammette di conoscerlo, ma rinvia l'intervista: alla quale, ovviamente, non si presenterà più. Malofeev invece risponde, e racconta di aver incontrato l'ultima volta Salvini poco prima della sua nomina a vicepremier, lo scorso anno. Durante l'intervista Malofeev esplicita il suo pensiero. Degli omosessuali dice: "E' la Lobby dei Sodomiti e dei Pederasta. E' colpa dei gay pride se sempre a più maschi piacciono altri maschi". E delle donne cosa ne pensa? "Il loro ruolo è essere amate dai mariti. Non dovrebbero lavorare e restare a casa. Il loro ruolo deve essere di casalinghe e madri. Solo donne non amate e infelici diventano femministe". Ma Salvini condivide i suoi valori? "Certo - risponde Malofeev - il suo discorso a Verona è stato magnifico". E cosa disse Salvini a Verona un anno fa, durante il congresso mondiale sulle famiglie? "Mi incuriosiscono queste cosiddette femministe che se io fossi donna mi metterebbero in difficoltà". Che strana questa improvvisa avversione per le femministe. Ma c'è un'altra coincidenza. Malofeev è un ultra-conservatore cristiano, principale finanziatore (per decine di milioni di euro ogni anno) della "Fondazione San Basilio il Grande". Quell'anno, il 2013, Malofeev vola negli USA, dove crea con altri ricchi gruppi fanatici-cristiani americani una "Santa Alleanza" cristiana. E dagli USA ecco che arrivano finanziamenti alle fondazioni "cristiane" europee, per centinaia di milioni di euro. Le quali, politicamente, si schierano in Europa con i partiti anti-europei. In Italia, all'improvviso, sui palchi e sui social del Capitano Matteo Salvini, iniziano a comparire sempre più spesso Vangeli, Madonne, appelli ai Santi, al Cuore di Maria, crocefissi, rosari. Sarà un caso, ma dal 2013 in poi, tutto ciò che Malofeev vuole, lo vuole anche Matteo Salvini. Tutto ciò che a Malofeev interessa (distruggere la comunità gay, ridimensionare il ruolo della donna, distruggere l'Europa, eliminare le sanzioni contro la Russia, il ritorno dei nazionalismi in Europa, la promozione di una propaganda cristiana e fanatica basata sul culto degli oggetti e non del messaggio cristiano, la critica a Papa Francesco, la mitizzazione di Putin, l'avvicinamento dell'Italia alla Russia), trova in Salvini e/o nella Lega una propaggine completamente in sintonia. Salvini potrebbe chiarire, smentire, correggere. Magari rispondere sul perché il suo braccio destro in Russia Savoini trattasse con i russi affari da milioni di euro. Perché avesse detto di non sapere che Savoini fosse con lui, quando poi foto e video lo hanno smentito. Non lo ha mai fatto: né in Parlamento né coi giornalisti. Liquida le domande con battute, ma non risponde mai. Consapevole di aver ormai plasmato e anestetizzato il suo elettorato, tanto da poter fare e non fare quel che gli pare, senza doverne più rispondere. Emiliano Mola
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"Ho provato a licenziare Matteo Salvini per due volte" ha raccontato l'ex direttore de "La Padania" Gigi Moncalvo, nell'intervista di lunedì a Report. "La prima volta - racconta - fu a cavallo delle feste di fine anno. Durante quei giorni, chi veniva a lavoro, riceveva il triplo della paga. Salvini in quei giorni non c'era a lavoro. Non era nemmeno reperibile dove avrebbe dovuto. Ma quando a fine mese arrivò il foglio delle presenze lui lo firmò lo stesso". "La seconda volta fu quando scoprì che aveva falsificato quattro note per i rimborsi spesa. Quando glielo feci presente, a muso duro, lui mi rispose: tu passi, io resto. E credimi: diventerò sempre più potente". E aveva ragione. Quello che Report rivela nell'ora successiva a questa intervista, con tanto di documenti e dichiarazioni dei diretti interessati (russi e americani), avrebbe dovuto portare alla fuga di Salvini dall'Italia nascosto nel vano di una macchina, per evitare la ferocia della folla (la sua folla, quella patriota e col tricolore). Ma per fortuna del Capitano, ai suoi italiani, a quelli che sventolano il tricolore e parlano di "Patria", dell'Italia e della Patria non è mai fregato un cazzo. E se gliene frega davvero, non hanno capito nulla di ciò che sta accadendo. Proviamo a riassumerlo allora, per quanto sia vano. Ciò che in breve viene a galla dalla puntata di Report (e dalle inchieste de L'Espresso), è che in Russia e negli USA operano uomini e gruppi estremamente potenti e ricchi, che hanno (per procura?) un unico grande obiettivo: dissolvere l'Unione Europea, perché d'ostacolo agli interessi globali delle due Super Potenze Straniere. Come? La soluzione è semplice. Sostenere in Europa gruppi e forze politiche che - spacciandosi per "nazionaliste" e "patriottiche" - facciano in realtà gli interessi delle due potenze straniere: denigrare e indebolire l'Europa dall'interno. Il tutto facendo presa su ben determinate fasce della popolazione da manovrare con frasi semplici, foto, slogan, fake news, e alimentando sentimenti quali la paura, il vittimismo, la paranoia della minaccia esterna, il complottismo, la nostalgia, il tradizionalismo religioso, il nazionalismo. E' il 2013. Fino a quell'anno Matteo Salvini tiene ancora comizi contro l'Italia, per l'indipendenza della Padania, scrive sui social "Italia Paese di merda", insulta ancora i meridionali. Poi, all'improvviso, in quell'anno, nel 2013, inizia la sua "strana" conversione. Da storico anti-italiano diventa il più grande patriota italiano. Così, all'improvviso. E, guarda caso, l'anno successivo candida il suo partito alle Europee col nome di "Basta Euro". Il 2013 è l'anno della sua elezione a segretario della Lega. E quel giorno, sul palco, sale a parlare un tizio che nessuno aveva mai visto prima: un russo, un certo Alexei Komov. Che ci fa quel russo lì? Perché è lì? A spiegarlo alle telecamere di Report è un altro russo, l'uomo che fu invitato (al posto di Komov) al congresso della Lega: il potentissimo Konstantin Malofeev, meglio noto come "l'Oligarca di Dio", miliardario e ultraconservarvore cristiano: "Avrei dovuto esserci io quel giorno - dice - Ma ebbi degli impegni e mandai in mia sostituzione Alexei Komov". E perché, in Italia, avrebbe dovuto esserci al congresso della Lega lui, Malofeev, l'"Oligarca di Dio", il finanziatore di partiti di estrema destra anti-europei come il Fronte Nazionale di Le Pen in Francia (a cui, prima delle sanzioni, ammette di aver dato 2 milioni di euro)? Il giornalista di Report lo chiede a Salvini. Che prima finge di non ricordare chi sia Kostantin Malofeev (meravigliosa l'espressione che fa), poi ammette di conoscerlo, ma rinvia l'intervista: alla quale, ovviamente, non si presenterà più. Malofeev invece risponde, e racconta di aver incontrato l'ultima volta Salvini poco prima della sua nomina a vicepremier, lo scorso anno. Durante l'intervista Malofeev esplicita il suo pensiero. Degli omosessuali dice: "E' la Lobby dei Sodomiti e dei Pederasta. E' colpa dei gay pride se sempre a più maschi piacciono altri maschi". E delle donne cosa ne pensa? "Il loro ruolo è essere amate dai mariti. Non dovrebbero lavorare e restare a casa. Il loro ruolo deve essere di casalinghe e madri. Solo donne non amate e infelici diventano femministe". Ma Salvini condivide i suoi valori? "Certo - risponde Malofeev - il suo discorso a Verona è stato magnifico". E cosa disse Salvini a Verona un anno fa, durante il congresso mondiale sulle famiglie? "Mi incuriosiscono queste cosiddette femministe che se io fossi donna mi metterebbero in difficoltà". Che strana questa improvvisa avversione per le femministe. Ma c'è un'altra coincidenza. Malofeev è un ultra-conservatore cristiano, principale finanziatore (per decine di milioni di euro ogni anno) della "Fondazione San Basilio il Grande". Quell'anno, il 2013, Malofeev vola negli USA, dove crea con altri ricchi gruppi fanatici-cristiani americani una "Santa Alleanza" cristiana. E dagli USA ecco che arrivano finanziamenti alle fondazioni "cristiane" europee, per centinaia di milioni di euro. Le quali, politicamente, si schierano in Europa con i partiti anti-europei. In Italia, all'improvviso, sui palchi e sui social del Capitano Matteo Salvini, iniziano a comparire sempre più spesso Vangeli, Madonne, appelli ai Santi, al Cuore di Maria, crocefissi, rosari. Sarà un caso, ma dal 2013 in poi, tutto ciò che Malofeev vuole, lo vuole anche Matteo Salvini. Tutto ciò che a Malofeev interessa (distruggere la comunità gay, ridimensionare il ruolo della donna, distruggere l'Europa, eliminare le sanzioni contro la Russia, il ritorno dei nazionalismi in Europa, la promozione di una propaganda cristiana e fanatica basata sul culto degli oggetti e non del messaggio cristiano, la critica a Papa Francesco, la mitizzazione di Putin, l'avvicinamento dell'Italia alla Russia), trova in Salvini e/o nella Lega una propaggine completamente in sintonia. Salvini potrebbe chiarire, smentire, correggere. Magari rispondere sul perché il suo braccio destro in Russia Savoini trattasse con i russi affari da milioni di euro. Perché avesse detto di non sapere che Savoini fosse con lui, quando poi foto e video lo hanno smentito. Non lo ha mai fatto: né in Parlamento né coi giornalisti. Liquida le domande con battute, ma non risponde mai. Consapevole di aver ormai plasmato e anestetizzato il suo elettorato, tanto da poter fare e non fare quel che gli pare, senza doverne più rispondere. Emilio Mola
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L’avventura di due sposi al tempo del Coronavirus. Una riscrittura di Italo Calvino
Alle nove di sera, l’operaia Elisa, tornando a casa dal lavoro dopo un lungo viaggio in tram da parte a parte di Milano, annunciò al marito: “La sai la novità? Da domani si sta a casa tutto il giorno!”.
Italo Mazzoni, turnista di notte, raggiunto da una notizia così incredibile mentre stava indossando il giaccone impermeabile per andare in fabbrica, mormorò, con gli occhi ancora spenti e appannati di sonno: “Ti hanno licenziata?”.
“Ma no! È a causa del virus che sta infettando mezza Italia. Il padrone non ha sanificato gli ambienti ed è stato denunciato e costretto a chiudere la fabbrica”.
“La fabbrica! Dio, ho fatto tardi?” urlò Italo, e come un automa si allontanò senza neppure guardarla, con in mano le chiavi della macchina e l’immancabile pacchetto di sigarette.
Elisa ebbe un attimo, appena un attimo di smarrimento nell’accorgersi che lui non l’aveva ascoltata, ma poi gli corse dietro e lo raggiunse sulle scale. Disse: “Amore, non hai capito. La fabbrica rimarrà chiusa per un mese”.
Allora Italo, improvvisamente scosso dal suo ipnotico torpore, intuì che qualcosa di grosso era accaduto. Un disastro o un evento fortunato? Prima che potesse iniziare a darsi una risposta, la sua attenzione si concentrò sulle mani di lei, sporche di cioccolata.
“Ma cosa hai fatto?”.
“Sono stata al centro commerciale, ho preso due dolci. Uno anche per te”.
Infilò una mano nella borsa e tirò fuori una ciambella al cioccolato. Disse: “Volevo festeggiare. Mi vergogno un poco perché fuori la gente sta morendo e il rimedio contro questo maledetto virus non l’ha ancora trovato nessuno. Ma finalmente avremo tempo per stare insieme. Sei contento?”.
Italo allargò le braccia in un gesto che manifestava tutta la sua sorpresa. Disse: “Non dovrò più andare in fabbrica di notte? E neanche tu, di giorno?”.
“Esatto. La produzione è stata bloccata. Siamo in cassa integrazione fino a nuove disposizioni del Governo. E a me sta bene”.
“Dormiremo insieme?”.
“Dalla sera alla mattina”.
Si strinsero forte e pensarono le stesse cose: niente più caffè presi al volo, niente incontri fugaci sulla porta di casa, niente corse nella nebbia, niente grane sul lavoro.
Erano trascorsi quattro mesi da quando il coronavirus aveva fatto la sua comparsa in città, dando il via a quella che nel giro di poche settimane sarebbe diventata un’epidemia diffusa. Nelle famiglie obbligate a rimanere in casa, il bollettino dei morti era diventato un argomento di conversazione perfino più ricorrente della crisi economica. Per evitare l’ulteriore diffondersi del virus, il Governo aveva reagito con misure draconiane, chiudendo scuole, negozi, ristoranti e ora anche quelle fabbriche dove gli operai erano costretti a lavorare gomito a gomito. Ai cittadini era stato ordinato di limitare i contatti sociali.
Stando tutti e due a casa, Elisa e Italo avrebbero finalmente vissuto la vita da sposini che il lavoro gli aveva sempre negato: andare a letto insieme, nudi e un po’ eccitati, scambiarsi qualche parola oscena e poi fare l’amore ogni sera, con la stessa emozionante e convulsa serialità.
Vivevano a Sesto, periferia industriale di Milano, in un monolocale di 40 metri quadri. Il cucinino era umido e buio, il bagno aveva la finestra a tetto, ma Elisa diceva di essere innamorata di quel posto perché gli ricordava Un amore in soffitta, un telefilm che guardava da ragazza.
Italo invece amava l’agricoltura, e se avesse avuto una casa in campagna e un fazzoletto di terra da coltivare non si sarebbe fatto pesare qualche ora di auto in più per raggiungere la fabbrica. Tuttavia, per non mettere in difficoltà sua moglie, che era stata bocciata alla scuola guida un numero impressionante di volte, si era adattato a quello spazio angusto che gli dava ansia.
Ormai erano sposati da sette anni ma non avevano mai vissuto insieme per più di qualche ora al giorno. La chiusura della fabbrica li proiettava in un territorio sconosciuto, una convivenza vera che non li spaventava, poiché volevano viverla con tutto l’amore che erano stati a lungo costretti a reprimere.
La prima notte insieme fu meravigliosa. Senza bisogno di parole, riuscirono a darsi esattamente ciò che volevano: una brama di interezza mai provata, una passione incandescente, tanta pace.
La notte successiva ci fu un piccolo imprevisto. Elisa si accorse che Italo russava. Non era cosa da poco, perché la costringeva a prendere sonno con un concerto di tromboni nelle orecchie.
Questa piccola scoperta la turbò, come una nuvola nera apparsa in un giorno di sole.
Lui dal canto suo, era abituato a dormire da solo nel letto a due piazze, e aveva molta difficoltà a condividere il materasso. Ripensava con nostalgia a quando si coricava e, dopo qualche minuto, piano piano si spostava dalla parte di Elisa, assorbendone l’assenza e il tepore. E così s’addormentava.
Ora invece, se provava a uscire dal suo confine, veniva ricacciato indietro con parole di fuoco: “Italo, non riesci a stare fermo? Ogni volta che sto quasi per dormire, sento che mi tocchi una gamba e perdo il sonno!”.
Poi a Elisa sembrò che suo marito avesse l’alito pesante. Fu indecisa se dirglielo, per paura che lui la prendesse male, ma poiché quel difettuccio non passava, dopo quattro notti nelle quali ebbe l’impressione di dormire con un ubriaco che si era bevuto un cocktail di superalcolici e aglio, si fece coraggio e gli suggerì di lavarsi i denti prima di mettersi a letto.
Ma lui si offese e ribatté: “Ieri notte ti è scappato un peto”.
“Non è vero!”.
“Sì, è così. Avrei voluto aprire la finestra ma ho preferito non svegliarti per non essere insultato”.
“Quando ci vedevamo poco, l’amore c’era”, disse lei, in tono amareggiato.
Lui annuì: “Ora le cose dovrebbero andare meglio, e invece è il contrario”.
Si tennero il muso per ore, ma la sera, passando in rassegna gli inconvenienti che erano accaduti, pensarono che in fondo si era trattato di piccoli malintesi, equivoci senza importanza.
Convennero che anche nella persona che amiamo di più al mondo può esserci qualcosa che non ci piace ma che non deve mandarci il sangue alla testa in un secondo. Bisogna comprendere e pensare al buono. Così la rabbia finisce lì, senza emozioni distruttive.
Si promisero pazienza, ma non servì.
Da quando faceva i turni di notte, a causa delle alterazioni del ciclo sonno-veglia, Italo era ingrassato ― ormai sfiorava i cento chili ― e dopo una piccola corsetta il cuore gli batteva all’impazzata. Come se non bastasse, aveva sviluppato un’ipertrofia prostatica che lo faceva correre al bagno appena sentiva lo stimolo. Se dentro c’era Elisa, gli montava il nervoso e cominciava a dare pugni alla porta.
“Amore, mi scappa! Lo sai che sto male! Non posso fare la pipì sul pavimento, fammi entrare! Se non mi fai entrare, spacco tutto!” gridava, come un bambino capriccioso.
Elisa era furiosa. Tra i mille oltraggi cui non amava sottoporsi, il peggiore era trovarsi sulla tazza del cesso con un pazzo che le chiedeva di fare in fretta. Ma anche Italo aveva le sue ragioni: la vescica che scoppiava non era il suo unico problema. L’abitudine a riempire le giornate con il lavoro era così consolidata che, dovendo restare chiuso in casa, si sentiva morire di noia e, per quanto odiasse la fabbrica, la preferiva a una stanza in cui camminare avanti e indietro come una belva in gabbia.
Di giorno non aveva sonno e non sapeva che fare. Accendeva la tv e si innervosiva nel vedere che tutte le trasmissioni parlavano del coronavirus. Metteva qualcosa a cuocere e la dimenticava sul fuoco. Sfaccendava, creando un gran disordine. Accendeva la stufa anche se non faceva freddo. Elisa cominciò a temere che prima o poi l’avrebbe visto impazzire.
E infatti una sera, alle nove e tre quarti, Italo prese il portavivande, il termos, si mise l’impermeabile e uscì.
“Dove vai?” chiese lei. “A quest’ora i supermercati sono chiusi. C’è il coprifuoco”.
“Vado in fabbrica”.
Elisa capì che la vita a volte offre dei regali. Era stanca di litigare. Proprio stanca. Perciò non provò a fermarlo. Disse solamente: “Aspetta, prendi la mascherina”.
E lo salutò con un bacio.
Italo corse giù velocemente, in modo macchinale, infrenabile, ma non riuscì a dare un passo fuori dal portone perché un militare armato di mitra gli fece cenno di tornare indietro.
Scoraggiato, rimase per un tempo incalcolabile seduto sulle scale, con la mente perduta in una zona d’ombra tra l’alienazione e la fuga. Poi gli venne sonno e si addormentò.
Anche Elisa, rimasta sola, spense la luce e andò a letto.
Accucciata sotto le coperte, nel silenzio riconquistato, allungò un braccio verso il cuscino di suo marito e lo portò verso di sé.
Meditò su quell’amore che aveva bisogno di non essere mai del tutto con lei.
Sentì il veleno della nostalgia, doloroso e incurabile, dentro al petto.
Francesco Consiglio
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Ho un problema con gli abbracci. Da sempre non sono mai riuscita a darli a nessuno, nonostante tante volte avrei voluto strigere più di ogni altra cosa al mondo la persona che avevo davanti. Per questo motivo molto spesso mi viene rimproverato di essere una persona gelida, sempre a distanza e poco dolce. Quando stavo insieme a te, ogni volta che ci incontravamo, dopo un bacio, ti abbracciavo forte. Le mie braccia finalmente si distendevano e prendevano la forma delle tue spalle, ed il cuore era vicinissimo al tuo. Questo è un mistero che non riuscirò mai a comprendere, il perché mi venisse così semplice farlo con te. Forse mi sentivo al sicuro o forse volevo tenerti più vicino a me, per lasciare un’impronta quando non avrei potuto farlo più. Non lo so, ma mi veniva tanto spontaneo da non accorgermene nemmeno subito, ma solo dopo, e mi scioglievo dalle tue braccia per non sentirne poi troppo la mancanza. L’ultima volta che l’ho fatto me l’hai chiesto tu, dopo che mi avevi detto che non mi amavi più e ci salutavamo “per sempre”. Dopo aver fatto cenno di no con la testa mi sono fiondata in quell’abbraccio che resterà per sempre il più triste del mondo. E io fra le tue braccia e tu fra le mie abbiamo pianto, tutti e due, sapendo che sarebbe stato l’ultimo. E così è stato.
E adesso accanto a lui, mi sento di nuovo gelida, sempre a distanza e poco dolce. Ma tu dimmi, come posso fidarmi di un abbraccio, di prendere una mano, dopo che un abbraccio mi ha fatto tanto male? Dopo che una mano è stata capace di salutarmi per sempre? Dimmi ti prego, come faccio ad affidarmi a qualcuno che non sia tu, dopo che persino tu che mi hai amata tanto, sei riuscito a trasformarmi in una fotografia del tuo album di ricordi, ormai troppo lontani. Di quelli che guardi e sorridi, con un po’ di nostalgia, ma senza la forza di ricostruirli.
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Paperinik Vs Darkwing Duck (Con aiuto del maestro Lucio Leoni)
Dunque... senza nulla togliere a Darkwing Duck... io scelgo e sceglierò sempre Paperinik. Che siano le vecchie storie o le nuove (o quelle che verranno) non posso fare a meno di adorare il personaggio. Anche ci sono storie dal punteggio basso, anche se ci sono molte discordanze tra una storia e l'altra, anche se alcuni nemici sembrono usciti dal supermercato sotto casa... Paperinik è Paperinik.
Innanzitutto, dietro la maschera c'è un personaggio ancora più amato: Paperino, personaggio simpaticissimo nonostante perda spesso la pazienza e la sfortuna lo perseguiti. Proprio per questo, ha ancora più motivazione la nascita di Paperinik, perché troppe storie finivano con un Paperino perdente.
Mi ricordo quando da piccola girando in una piccola biblioteca, per puro caso trovai un librone (sì, delle dimensioni di un atlante) dove raccontava il riscatto di Paperino di fronte alle malefatte dei suoi parenti. Me ne innamorai all'istante. Poco mi importava il peso nel portarlo a casa (ancora adesso mi chiedo l'utilità a fare volumi così ingombranti) o il disagio nel girare le grandi pagine... Paperinik mi ha fatto amare ancora di più Paperino.
C'è da dire che nelle prime storie Paperinik ci andava pesante con i parenti, ma con il tempo e il susseguirsi di sceneggiatori, il personaggio migliorava e si evolveva.
Certo, tutt'altra storia sarebbe stata se Paperinik fosse nato negli Stati Uniti, dove c'è un po' più libertà nelle storie. Qui in Ialia infatti, ha avuto alcune "limitazioni" che hanno reso le storie adatte anche per i più piccini. Forse è un bene da una parte, perché è bello che un bambino possa appassionarsi alle sue storie, ma dall'altra parte non sempre si poteva dare più profondità (come già citato nel video) al personaggio.
E' anche vero che un bravo disegnatore/sceneggiatore riesce a tirare il meglio di sé, se viene messo alla prova con dei paletti. E c'è da dire che si meritano un applauso i disegnatori italiani, perché nonostante si tratti di un "fumetto" (un genere che ancora oggi viene sminuito) danno anima e corpo per realizzare belle storie (sbavo di fronte ai colori e ai disegni). Ciononostante, non posso fare a meno di pensare, che senza quei paletti Paperinik avrebbe raggiunto dei livelli spettacolari.
Ora, io non posso tanto giudicare Darkwing Duck, perché anche se la sua sigla mi rimaneva impressa, il suo fumetto non veniva venduto, come lo era Paperinik su Topolino. Quindi io sono cresciuta a base di Paperino, Paperinik e cereali a colazione XD E il mio giudizio quindi potrebbe essere influenzato dalla mia infanzia, però è anche vero che Paperinik non si è fermato a quelle storie del passato. Ha continuato a crescere e crescere e diventare quello che è oggi.
Con l'evoluzione del web è ora possibile far conoscere a più persone Paperinik. Vedo commenti entusiastici da chi legge per la prima volta le sue storie, e che potrebbe avere più fans con un po' più di diffusione delle sue migliori opere.
Non posso certo imporre alle persone che sono cresciute con Darwing Duck (perché non conoscevano ancora Paperinik) a preferire un altro supereroe.
Il fattore nostalgia ha un gran peso.
Però, ho il presentimento che se PK fosse nato negli Stati Uniti, magari ci sarebbero più persone che lo preferirebbero a DD.
Io poi, DD lo confondevo con Paperone per via delle basette XD E non andavo pazza per la figlia (ma anche Qui Quo e Qua non erano i miei preferiti... fino a qualche anno fa).
Per non dilungarmi troppo (perché ne avrei tante da dire in favore di PK), penso che Paperinik è un personaggio che continuerà a vivere e migliorarsi per tanti altri anni. Ma se anche così non fosse, resta uno dei migliori fumetti/personaggi italiani. E non lo si può mettere in dubbio.
#paperino#paperinik vs darkwing duck#duck avenger vs darkwing duck#donald duck#pk#paperinik#darkwing duck#recensione#per me sempre paperinik
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Lettera #1. 07/03/2021 3.04am
All'uomo che dovrei essere.
"Ciao soldato come va? È tanto che ti aspetto, dove sei finito?
In realtà anche se ti aspetto da una vita è la prima volta che penso di scriverti.
Si, perché è dura sai pensare a te e vedere me.
Non è facile ammettere che ormai sei talmente distante da te stesso da non riconoscerti più.
Però magari se ti scrivo, o se mi scrivo, magari riesco un po' a riprenderti dentro di me, un po' come da bambino, quando ci immaginavo una cosa sola e mi veniva naturale fare di tutto per realizzarci.
Eppure oggi non è così.
Sai caro soldato mi sento un po' solo, un po' vuoto e quindi ho deciso di raccontarti un po' quello che ti sei perso negli ultimi anni, sai, giusto per farti capire un po' quanto cado in basso senza te.
Non che con te fosse tutto rose e fiori,certo, però con te avevo la forza di rialzarmi, e sempre grazie a te stavo diventando l'adulto che oggi vorrei essere.
Poi non lo so cosa è successo, però è successo ed ora sono qui a scriverti di ritornare.
Soldato, mio caro soldato, sai ho iniziato a fumare, proprio io che sono sempre stato contro.
Ora sono 7 anni che fumo, e devo essere sincero ho preso anche il vizietto delle canne, mi aiutano a non pensare.
Perché si, come ben sai, mio grande amico, penso troppo e male.
Mi odio per questo, sai soldato? Penso ogni giorno al fatto che mi sto, nemmeno troppo lentamente, uccidendo e che godo nel farlo, penso che bruciando il mio cervello possa farlo soffrire meno e mi convinco che va tutto bene così e che smettere non serve.
E invece non è così, ma di questo, se vorrai, parleremo più in là.
Sai soldato oggi volevo parlarti della mia situazione sentimentale.
Oggi se fossi qui probabilmente non parleremo di questo, ma non ci sei e quindi te ne parlo.
Quando eravamo insieme era veramente fantastico e ti chiedo scusa se non l'ho capito prima.
Oggi sono uno dei tanti morti di figa che non sa cosa dire ad una ragazza.
Non che prima non fossimo morti di figa attenzione, però lo eravamo con stile.
Si perché anche se eravamo brutti forte ci provavamo con tutte e pure se ci respingevano non ci importava niente.
Oggi invece non é più così.
Sai ho pensato che forse potevo sfruttare le mie doti per diventare il protagonista della mia vita sentimentale e invece ho finito per diventare uno spettatore inerme da quando te ne sei andato.
Ho smesso di provarci e rialzarmi, ogni volta che cadevo avevo più paura, sempre di più, sempre di più, ed oggi sono così. Un involucro pseudo pensante quasi asessuato.
Asessuato non per mia scelta o forse si, ma non so se ho ancora il coraggio per accettarlo.
Asessuato non perché non mi piacciano il sesso o le donne.
Asessuato perché ho paura di prendere l'ennesimo palo e quindi non mi butto.
Brutto così eh soldato? Nemmeno a dire che vengo sconfitto, perdo in partenza.
Però che ci vuoi fare, non ci sei più tu a dirmi come fare e a consolarmi quando sbaglio.
Soldato mio, se solo ti raccontassi quante ne ho passate.
La verità é che ho paura di essere giudicato probabilmente e che per questa paura sto cancellando lentamente la nostra identità.
É molto più facile montare una maschera sul viso, come a Venezia nel rinascimento. Una maschera con il naso grande, gli occhi piccoli e un grande sorriso beffardo.
Ovviamente é più facile perché se ti colpiscono il viso é protetto, ma mi sono accorto di un piccolo effetto collaterale.
Eh sì, perché nonostante così sia bello, mi sono accorto che più la indosso più il mio volto avvizzisce.
Credo sia per via del fatto che é una maschera e come tale é rigida, dura, e non mi permette di crescerci dentro.
In realtà é un po' che non vedo cosa c'è sotto ed inizio a vedere qualche crepa sulla superficie, ma ho paura di cosa potrei trovare o di non riuscire a toglierla.
Quindi un po' come faccio con le donne, che anche se sento forti pulsioni le ignoro per paura di essere ferito, così faccio con la maschera, tenendola su per paura.
Non so più se é vero il sopra o il sotto.
O se c'è realmente un sopra e un sotto.
Ma so che nessuna delle due piace alle donne e questo mi ferisce terribilmente.
Soldato mio per oggi credo di averti tediato abbastanza, sono stanco anche se nemmeno oggi riesco a dormire.
Spero che questa prima piccola finestra su casa nostra possa averti fatto venire un po' di nostalgia e voglia di tornare.
Soldato mio mi manchi,ti scriverò ancora lo so che lo farò, ma tu sbrigati a tornare che abbiamo una vita da conquistare.
Sempre tuo,
EF."
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Soirée in the Canary Hall
Epilogo 1
Luogo: Canary Hall
Il giorno del live
Madara: Anzu-saaaaaan, grazie per avermi invitato oggiiiiiii!
Nazuna: Madara-chin, non pensi di spaventare Anzu se le parli a voce così alta~?
Hmm? Come mai siamo arrivati insieme? Ci siamo incrociati in centro, perciò visto che stavamo venendo qui entrambi abbiamo deciso di fare la strada insieme.
Grazie per avermi fatto avere un biglietto, Anzu. Sono davvero felice di poter vedere questo posto ancora una volta, prima che venga abbattuto.
Madara: Hmm? Nazuna-nii, è per questo che sembri un po' malinconico?
Nazuna: Ahaha... Ho cercato di prepararmi, ma ho un sacco di ricordi legati a questo posto. Se penso che questa è l'ultima volta che starò dentro a questa hall, mi sento un po' triste, e mi viene nostalgia.
Madara: Hmm... Sai, ho sentito che vogliono demolire questo posto per costruire un nuovo edificio per eventi.
Visto che la maggior parte del mobilio e altri particolari sono ancora in buone condizioni, vogliono salvare tutto quello che possono e rendere il nuovo edificio il più simile possibile alla vecchia Canary Hall.
Però, visto che il progetto è ancora agli inizi, non posso davvero promettere che sarà sicuramente così.
Nazuna: Lo so, ma è un sollievo anche solo sentirlo. Anche se non sappiamo ancora i dettagli, è bello sapere che qui continuerà ad esserci un posto in cui tenere esibizioni.
Se quando succederà i Ra*bits potranno esibirsi qui, ne sarei davvero felice, perciò ci impegneremo per farcela!
Koga: Hmm~, quindi è questa la Canary Hall, huh?
Woah, Leon. Fai il bravo cane e comportati bene, okay?
...Ecco, molto meglio.
Nazuna: Huh? Sei stato invitato anche tu, Koga-chin?
Koga: Hmm? Ah, ci sono Nito-senpai e Mikejima-senpai, huh~? Volete dire che voi non siete stati invitati?
Nazuna: Ah, no, io ho solo avuto un biglietto da Anzu. Ma ora sono un po' curioso del tuo rapporto con questo posto.
Gli UNDEAD hanno avuto un live qui o qualcosa del genere? Ma immagino che se fosse così, dovrebbe essere qui l'intera unit... allora, forse hai una connessione personale con la Canary Hall?
Koga: Nah, niente di ciò. Non ci sono mai stato, ho pure dovuto cercare sul telefono per arrivare qui.
Ho avuto un invito da Tsukinaga-senpai. Cioè, la verità è che è stato Leon a ricevere l'invito, quindi lo sto solo accompagnando...
L'invito era “per Leon-cama” e poi c'era scritto “per favore vieni insieme al tuo padrone”.
Che bastardo~, non si ricordava neppure il mio nome!
Madara: Leon? Ah, è il nome del tuo cane? Hmm... penso che Leo-san se lo sia ricordato perché è simile al suo nome. Probabilmente è per quello che ha indirizzato l'invito a Leon-san.
Hahaha, e ora ecco Leo-san!
Nazuna: Hmm...? Ah, è Leo-chin che sta venendo qui?
Leo: O~i, Mama!
Ah, e c'è anche Leon! Sei riuscito a venire, Leon~ sono contento ♪
Madara: Fufu, sembra che i cani ti piacciano.
Leo: Vero! Ma non solo i cani- amo tutti gli animali!
Oh, e sei venuto anche tu! Benvenuto~♪
Koga: Oi, bastardo compositore~ Non che non voglia l'invito, ma com'è che l'hai mandato a Leon e non a me?
Leo: Ah, quando stavo scrivendo l'invito il tuo nome non mi veniva... Ma mi ricordavo quello di Leon, perciò ho messo il suo!
Oh, o forse avrei dovuto mandarne due comunque, visto che vi stavo invitando tutti e due?
Koga: Non m'importa granché che hai fatto~ Ma grazie per l'invito.
Leo: Capisco, che sollievo... aaaaaah!
Koga: Woah, non metterti a gridare così dal nulla~! F-fai prendere un colpo a qualcuno~!
Leo: No è solo che... Mi ero ripromesso di farlo appena ti vedevo, ma ora mi stavo quasi scordando di scusarmi. Per l'altra notte, scusami se non ti ho restituito la pallina quando me l'hai chiesto!
Koga: Hmm? Ma poi abbiamo aggiustato, no~? Perciò siamo a posto così~ non preoccuparti.
Izumi: ...Ou-sama.
Dovevamo vederci dietro le quinte per ripassare tutto l'ultima volta prima del live... ma tu non c'eri, e ho dovuto venire a cercarti.
Su, andiamo- ti stanno aspettando tutti.
Leo: Sì, sì. Ma non c'è bisogno che mi stringi così forte il braccio, non ho intenzione di scappare. Starò sul palco fino alla fine.
Farò del mio meglio, e tutti coloro che ci vedranno dovranno pensare che sia un'esibizione degna del canto del cigno della Canary Hall.
Abbi fiducia in me, Sena.
Izumi: ...non ho mai detto di non avere fiducia in te. Ma siamo davvero alle strette coi tempi, perciò se sei qui solo per salutare, chiudi in fretta.
Leo: Sì, qui ho finito! Allora, tutti voi- ci vediamo presto~☆
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❀ 𝐍𝐞𝐰 𝐫𝐨𝐥𝐞 𝐰𝐢𝐭𝐡: Genevieve ❀ 𝐃𝐚𝐭𝐞: 20.04.2020, sera, #ᶠˡᵃˢʰᵇᵃᶜᵏ ❀ 𝐏𝐥𝐚𝐜𝐞: Albero Hayawia ❀ #ravenfirerpg
Meravigliosi tatuaggi adornavano l’esile figura di Diane, coperta quella sera da un abitino che nulla lasciava all'immaginazione. Non albergava malizia nella sua pura e candida persona, bensì solo semplice e genuina voglia di contatto con la natura. Essere una fata e vivere lontano dal bosco era ritenuto normale a quei tempi, ma una vita da essere umano non modificava la linfa che scorreva nelle vene di quelle eteree creature. Sicché la minore delle Ferris sedeva ai piedi dell’albero che le aveva dato la vita. Le spalle scoperte aderivano perfettamente alla corteccia, le ginocchia erano piegate al petto e circondate dalle di lei toniche braccia e lunghe ciocche di crini biondi incorniciavano il suo argenteo viso. Era immobile e respirava profondamente, illudendosi che il sussurro della natura genitrice potesse fugare i suoi dubbi. Molteplici, infatti, erano le domande che la tormentavano da giorni e giorni e che — per l’uno o per l’altro motivo — sembravano non avere risposta. Chi era la donna che si era seduta di fronte a lei qualche giorno prima? Perché aveva avuto l'impressione che ci fosse dell'altro dietro ai suoi quesiti? E, sopratutto, che cosa voleva da una come lei? Chinò il capo, poggiandolo afflitta sulle sue braccia e assumendo così una posizione fetale. "𝖣𝗎𝗇𝗊𝗎𝖾 𝖾̀ 𝗊𝗎𝖾𝗌𝗍𝗈 𝖼𝗁𝖾 𝗏𝗎𝗈𝗅 𝖽𝗂𝗋𝖾 𝖼𝗋𝖾𝗌𝖼𝖾𝗋𝖾? 𝖤𝗌𝗌𝖾𝗋𝖾 𝗂𝗇𝗏𝗂𝗅𝗎��𝗉𝖺𝗍𝗂 𝗂𝗇 𝗎𝗇 𝗏𝗈𝗋𝗍𝗂𝖼𝖾 𝖽𝗂 𝖽𝗎𝖻𝖻𝗂?", si domandò, mentre un involontario singhiozzo la scuoteva. Stava piangendo, tanto per cambiare. Rimase in quella posizione per interminabili secondi, muovendosi però di scatto quando un rumore provenne della sue palle. "𝖣𝖾𝗏'𝖾𝗌𝗌𝖾𝗋𝖾 𝗎𝗇 𝖺𝗇𝗂𝗆𝖺𝗅𝖾", pensò fra sé e sé, alzando il capo e incontrando — in maniera del tutto inaspettato! — lo sguardo di una delle sue sorelle.
"Hey!"
Sussurrò, stendendo le gambe in avanti e asciugandosi le lacrime. Non vedeva Genevieve da circa un anno e (quasi) le spiaceva mostrarsi in quello stato, ma non poteva fare altrimenti. Aveva trascorso delle brutte giornate e Diane era un libro aperto per chiunque.
"Che bello vederti!"
Genevieve Amélie S. Hale
Ciò che era successo nelle ultime settimane aveva scombussolato non poco la giovane fata che, nonostante tenesse tutto dentro di sé, continuava a rimuginare sul ruolo delle fate in quella faccenda. I ragazzi catturati erano evasi e ora nascosti chissà dove ma la tensione che si avvertiva in tutta Ravenfire poteva essere tagliata con il coltello. Le fate sembravano aver avuto un ruolo cruciale nell'aiutare e supportare i veggenti, ma la Hale si chiedeva quando e come sarebbero potuti tornare alla vita di sempre. Vivere la propria condizione sovrannaturale di fata non era sempre felice, v'erano giorni in cui il contatto con la natura si faceva sentire in modo più prepotente e altri in cui il desiderio di evadere dalla cittadina della Virginia diventava sempre più forte. Tuttavia Genevieve sembrava gestire egregiamente il proprio equilibrio, destreggiandosi spesso tra impegni prettamente umani e lunghe passeggiate immersa nella natura o facendo visita al loro albero sacro, esattamente come stava facendo quella sera. Ricaricare le batterie per le fate era assolutamente normale, e lo era anche fare visita alla corte fatata, ma di certo non si aspettava di sentire quel singhiozzo che scuoteva la calma di quel luogo. Avanzò lentamente, incuriosita da chi potesse essere e solo quando vide la figura di Diane, le labbra della Hale si serrarono in un'espressione in cui traspariva la comprensione per quella giovane sorella. « Diane... » Mormorò gentilmente prima di avvicinarsi maggiormente e mettersi poi seduta accanto a lei. Spesso la Hale veniva definita superficiale, attaccata a quelle cose inutili della vita terrena, ma la verità era che Genevieve desiderava mettersi in gioco a trecentosessanta gradi. Inclinò appena il capo prima di allungare una mano e prendere quella della sorella, in una stretta confortevole. « Che succede? Non piangere... Raccontami ogni cosa. »
Diane Ferris
Le vicende che avevano interessato la sua esistenza non corrispondevano all’idea che ella aveva di vita, né all’immagine a cui il suo aspetto rimandava. Diane era da tutti considerata una ragazza fragile, una fanciulla sbadata, un abitante di un mondo fantastico a cui lei sola riusciva ad accedere. Pochi la ritenevano parte di quella comunità e/o le avrebbero affidato qualcosa che non fosse un fiorellino o un animaletto. Era la sorellina minore che tutti desideravano proteggere, persino da se stessa. Eppure, nell’ultimo periodo ella non riusciva più a sentirsi in quel modo. Era cambiata e, per quanto molti aspetti della sua vita fossero migliorati, vi erano dei (rari) momenti in cui ella ricordava la propria spensieratezza con nostalgia, dei momenti in cui non faceva altro che chiedersi cosa sarebbe successo se fosse rimasta sulle sue e se non si fosse affacciata al mondo. Sarebbe cambiato qualcosa? Sarebbe stata più felice? Erano domande che la tormentavano, ma a cui nemmeno un potente veggente sapeva rispondere. Ella, allora, si limitò a reagire nell’unico modo che conosceva, piangendo ai piedi di suo padre e cercando ristoro nella sua clemenza. Fu proprio mentre lo faceva, tuttavia, che l’arrivo di una delle sue sorelle la spinse ad asciugarsi le lacrime, rendendosi un minimo più presentabile. “È un periodo difficile per me.” Sentì il tocco della mano della maggiore e le fu grata per quel contatto, ma ancora non riuscì ad aprirsi. Al contrario, le sarebbe piaciuto avere la capacità di mentire, di poter dire che andava tutto per il verso giusto e che non valeva la pena raccontare il suo dolore; ma Diane non poteva mentire. Era una fata e la linfa che scorreva nelle sue vene la obbligava ad essere sempre sincera. “A te come va?”
Genevieve Amélie S. Hale
Quante volte avevano giudicato superficiale Genevieve? Quante volte gli estranei s'erano soffermati solamente su quell'aspetto così etereo, con quella pelle dorata che sembrava riflettere la luce ogni volta che questa la colpiva? Aveva perso ormai il conto, eppure il carattere della fata era sempre lì, ad osservare il prossimo con attenzione, divertendosi perfino nel vedere come tutte le persone che credevano di conoscerla, non facessero altro che sbagliare. Non era nella sua natura mentire, come non lo era per nessuna delle sue sorelle, ma poter confondere le idee del prossimo era un qualcosa che sapevano fare piuttosto bene. E quante volte s'era divertita. La verità, tuttavia, era che sotto quell'aura così irraggiungibile si nascondeva una persona con un buon carattere che sapeva ascoltare, sapeva esserci per le persone che avevano bisogno di una mano, ma soprattutto la Hale era quanto di più lontano dall'essere superficiale. Quanto sentì quei singhiozzi, la fata non ci aveva pensato due volte ad avvicinarsi per dare il suo supporto a Diane, s'era seduta accanto a lei e sperava che quel semplice contatto potesse darle conforto. « Ehi, non piangere... » Ripeté ancora una volta la Hale prima di rendersi conto che ci sarebbe voluto del tempo prima che la sorella potesse fidarsi di lei tanto da aprirsi. Inclinò appena il capo e il cuore venne stretto in una morsa nel vedere come la sorella fosse abbattuta. « Io sto bene... Ma non voglio parlare di me, che ne dici di raccontarmi dal principio? » Replicò con un tono di voce basso, confortevole quasi prima di stendere la mano libera per asciugarle le lacrime che le stavano rigando il viso. Fece passare la punta del pollice sulle gote prima di cercare i suoi e sperare di darle un po' di conforto.
Diane Ferris
Roventi lacrime continuavano a scivolare sul suo viso candido, che via via si tingeva di vermiglio. Molteplici erano state le volte in cui aveva cercato ristoro in quel luogo — anche solo dopo una lezione di danza troppo dura o brutto voto —, ma mai il dolore che provava era stato così forte. Si sentiva come se un’arpia avesse infilato i propri artigli nel suo petto e le avesse strappato il cuore, come se la linfa che scorreva nelle sue vene si fosse tramutata in lava e come se la sua candida pelle fosse destinata ad andare a fuoco. Si rannicchiò su se stessa, portando le spalle al petto e sperando di alleggerire il peso che lo opprimeva, ma ogni suo sforzo fu vano. Era come bloccata in un limbo, come imprigionata fra la sua sofferenza e l’oblio. Poté, dunque, solo restare immobile, impassibile persino al leggero tocco di sua sorella. “Perché non dovrei?” Pose quelle domanda con tono afflitto, alzando il capo e specchiando i suoi occhi azzurrini in quelli più scuri di lei. Non era quello il caso, ma Diane aveva sempre trovato peculiare l’avversione che tutti avevano verso il pianto. Eppure, almeno secondo lei — che piangeva praticamente per qualsiasi cosa —, non vi era modo migliore per esplicitare la propria sofferenza, il proprio stupore e persino la propria gioia. “Non basterebbe un’intera giornata per raccontare ciò che mi tormenta.” Non vi fu brutalità nelle di lei parole, ma solo pura e semplice sincerità. Come tutte le sue sorelle, Diane era impossibilità a mentire, ma comunque non ne avrebbe visto il senso. Chiunque avesse avuto a che fare con lei nell’ultimo anno, infatti, sapeva più che bene che il destino le aveva riservato parecchi colpi bassi. “Ti riassumo brevemente: mia zia è morta, il mio ragazzo è un fantasma quindi è morto anche lui e qualche giorno fa una tizia strana mi ha riempita di domande.”
Genevieve Amélie S. Hale
Avrebbe voluto replicare che possedeva tutto il tempo necessario per ascoltarla, ma Genevieve preferì rimanere in silenzio e dare così tempo alla sorella di calmarsi. Non era contro alle lacrime di per sé, solo la fata sapeva quanto avesse sofferto durante l'infanzia, ma vedere una sorella in balia della propria sofferenza era un qualcosa che le faceva male. Continuò ad asciugare le di lei lacrime, cercando di immaginare che cosa la turbasse così tanto, ma fu solo quando sentì quel semplice resoconto che la Hale si ritrovò a fare un profondo sospiro. « Non dovresti piangere perché non puoi risolvere nulla piangendo, ma so che è un buon modo per lasciarsi andare... » Commentò la Hale portando dietro l'orecchio una delle ciocche di capelli della sorella. Aveva così un bel viso che era un peccato rigarlo da cotale sofferenza. « Credo di essere la sorella sbagliata, ma non so se sai quale sia la mia storia... Come tutte noi, sono stata adottata da una famiglia del posto, ricordo di aver passato gli anni più belli, fino a quando colui che consideravo mio padre è stato ucciso durante un'incidente in macchina. Per me ed Elizabeth, così si chiamava, sono stati momenti difficili, ho vaghi ricordi di quel periodo, ma non posso dimenticare quella mattina di Natale quando l'ho trovata sanguinante in cucina. Aveva fatto il gesto più estremo e io mi sono sentita assolutamente impotente... Fa male perdere una persona, un dolore che è impossibile da superare, ma ci si convive tesoro. Mi dispiace tantissimo per la tua perdita... Ma il tuo ragazzo è ancora qui, accanto a te, come lo sono io e lo siamo tutte. Mi preoccupa di più la tizia strana... Che cosa ti ha chiesto? »
Diane Ferris
Alzò lo sguardo azzurrino, per poi puntarlo in quello più scuro della sorella. Diverse volte aveva udito frasi di quel tipo, ma piangere era — senza ombra di dubbio — l’attività che ella svolgeva più spesso. Aveva pianto quando aveva invitato Colin a casa sua per la prima volta, aveva pianto quando aveva adottato il suo gattino e piangeva ogni volta che prendeva un bel voto. Le lacrime erano il suo modo di esprimere le sue emozioni, belle o brutte che fossero. Quindi, no, probabilmente non avrebbe mai smesso di andare ai piedi di quell’albero a disperarsi. “No, nessuno me ne aveva mai parlato. Mi dispiace.” Espresse il proprio cordoglio in modo pacato, non plateale. Nessuna delle sue sorelle le aveva riferito la triste storia di Genevieve, ma non le incolpava per questo. Dopotutto, era solo colpa sua sé tutte la consideravano una specie di bambolina da proteggere, no? “Il mio ragazzo è qui e ora, ma domani? Che cosa accadrà quando lui rimarrà giovane e io invecchierò?” Aveva posto quella domanda a più di una persona, ma nessuno era riuscita a darle la risposta giusta, nessuno le aveva detto che era impossibile amare un immortale, che la sua storia era destinata a terminare fra atroci sofferenze. Erano state tutte sognatrici, accomodanti, forse persino false, ma quella era un’altra storia. “Ha iniziato domandandomi quali fossero i miei progetti di vita, quindi abbiamo chiacchierato un po’. Ad un certo punto, però, mi ha chiesto sé questa città mi abbia mai portato via qualcuno. Non lo trovi strano?”
Genevieve Amélie S. Hale
La fata non era mai stata una persona dai grandi discorsi, spesso veniva perfino giudicata superficiale, eppure durante quella confidenza la Hale aveva dimostrato che v'era molto di più in lei. Non sapeva se Diane avesse mai sentito qualcosa su di lei, e sperava con tutto il cuore che potesse darle un po' di sollievo, eppure la sua successiva domanda era più che lecita. « Non devi dispiacerti... Non abbiamo semplicemente mai avuto occasione di parlarne. E non so dirti come andranno le cose con il tuo ragazzo, non ho la sfera di cristallo per dirlo, ma posso dirti che vale la pena vivere il momento. Precludersi qualcosa di bello per la paura del futuro è qualcosa che nessuno dovrebbe fare, soprattutto una persona come te, Diane. » Probabilmente non erano queste le parole che la sorella avrebbe voluto sentirsi dire, eppure che altro avrebbe potuto dire Genevieve? Non poteva dare certezze su un qualcosa che era impossibile da prevedere, e non l'avrebbe fatto. Serrò le labbra per un momento prima di concentrarsi sulle sue successive affermazioni, le quali apparvero decisamente strane. Si ritrovò così ad aggrottare appena la fronte, un piccolo cipiglio in mezzo alle sopracciglia prima di annuire con un cenno del capo. « E' strano... Forse, forse dovresti parlarne con Leah. » Non era certa di che cosa significasse, ma se qualcuno poteva aiutare Diane era senz'altro la loro nuova caporazza.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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BOOMERANG
Improvvisamente, un giorno, il signor Remo iniziò a odiare il suo cane. Non era un uomo cattivo. Ma qualcosa si era rotto dentro di lui quando era rimasto vedovo. Aveva perso la moglie e gli era restato il cane, un botolo salcicciometiccio, grasso e nerastro, con orecchioni da pipistrello. Si chiamava Bum, ovvero Boomerang, perché riportava indietro qualsiasi cosa gli tirassero, con prontezzza e perseveranza. Un tempo il signor Remo e Bum avevano fatto lunghe passeggiate insieme e conversato del mondo umano e canino, di Cartesio e Rin Tin Tin. C'era grande intesa tra loro. Ma ora non si parlavano più. Il signore stava seduto in poltrona guardando il vuoto e Bum si accucciava ai suoi piedi, guardandolo con smisurato affetto. Era quello sguardo di assoluta dedizione e totale fiducia che il signor Remo soprattutto detestava. Il mondo non era che perdita, solitudine e dolore. Che senso aveva in questo pianeta orribile quella creatura incongrua, che scodinzolava e uggiolava di gioia, e riempiva del suo peloso, sovrabbondante amore una casa desolata? Il padrone iniziò a non dar più da mangiare al cane. Lo lasciava anche due giorni senza cibo. Ma Bum continuava a seguirlo amorosamente. Quando il signor Remo si sedeva a tavola per il suo pasto, il cane non chiedeva nulla, né si avvicinava. Guardava con mite curiosità, e negli occhi aveva scritto: se tu mangi, ebbene anche io mi sazio. E più il padrone si ingozzava, ostentatamente e rumorosamente, più tenero diveniva lo sguardo di Boomerang. E quando finalmente il cane veniva sfamato, non correva frenetico alla ciotola, no ... scodinzolava composto e riconoscente come per dire: avrai le tue buone ragioni se mi hai fatto digiunare, ti ringrazio oggi che ti sei ricordato. Il padrone, forse avvelenato dall'ultima stilla di rimorso, si ammalò. Gli venne la febbre alta e Bum lo vegliò. Nella notte, quasi nel delirio, il signor Remo si destava e vedeva gli occhi spalancati e amorevoli del cane, e le lunghe orecchie dritte, come antenne. E sembrava dire: anche la morte morderò, padrone mio, se si avvicina a te. Nell'anima ormai riarsa del signor Remo, l'odio per quell'amore smisurato crebbe. Non portò fuori il cane per quattro giorni. Bum aprì con la zampa la porta del terrazzo e lì pisciò con discrezione. Contrasse il suo metabolismo a venti gocce di urina e un cece fecale ogni due giorni. Non guaì, né diede segni di nervosismo, solo ogni tanto guardava il giardino fuori dalla finestra emettendo un piccolo sbuffo, come un sospiro di nostalgia, ma niente più. Il padrone guarì e, appena rimesso si in piedi, senza una ragioone, tirò un calcio al cane. Bum si nascose sotto il letto e il signor Remo si vergognò. Lo chiamò, il cane venne. Il padrone gli fece una carezza falsa e forzata e disse: - Bum, devo abbandonarti. Mi dispiace. Non riesco più a occcuparmi di te. Anzi, ma questo tu non lo puoi capire, ti detesto. Il cane lo guardò con infinito affetto e dedizione. Perché non lo affidò a un canile o a qualche conoscente? Per pigrizia, anzitutto. Ma anche perché ricordava una frase della mooglie. Gli aveva detto: Remo, se io morissi, mi raccomando, non lasciare solo il nostro Bum. Allora Remo si era arrabbiato per quella frase: come si poteva dubitare di questo? E invece, povera Dora, lei conosceva bene il grumo di cattiveria dentro al cuore del marito. Lei lo aveva abbandonato. E abbandonando il cane, ora lui si prendeva una folle rivincita sul destino. Così il signor Remo prese la macchina e portò Boomerang fuori città, in un grande prato dove spesso giocavano insieme. Il padrone camminava dietro e il cane davanti. Remo notò la caratteristica camminata aritmica di Bum. Ogni dodici passi ne zoppicchiava uno, alzando la zampetta posteriore come se il terreno bruciasse. Spesso lui e la moglie avevano trovato buffa e irresistibile questa andatura. Ora il padrone guardava ondeggiare il grasso sedere di Bum con disgusto. Perciò, quando furono lontani da occhi indiscreti, legò il cane a un albero e senza voltarsi se ne andò. Tornò a casa, e cucinò con cura, come non faceva da tempo. Calciò la ciotola di Bum in un angolo. Prese il guinzaglio e la museruola, e li buttò nella spazzatura. Ma quella notte verso le tre, sentì grattare alla porta. Era Boomerang. Un po' sporco e bagnato, gli saltò addosso festoso, e fece il giro della casa per manifestare la sua gioia. Non sospettava nulla. Non c'era posto per il tradimento, nel suo cuore semplice e quadrupede. Il signor Remo quasi non dormì per la rabbia. Sognò massacri di foche e colbacchi di barboncino. La notte dopo caricò Bum in macchina, percorse cento chilometri di autostrada e abbandonò il cane nel parcheggio di un autogrill. Tornò indietro e andò al cinema. Vide un film con un mostro preistorico che usciva dai ghiacci e terrorizzava tutta l'America. Notò che, in una scena, il mostro sbatteva la coda proprio come Boomerang. Il mostro fu liquidato a micidiali colpi di missile e di dialogo. Il signor Remo dormì saporitamente. Il giorno dopo al supermercato incontrò una signora, proprietaria della cagnina Tommasina, amica di Boomerang. -Dov'è Bum? - Ahimè - disse il signor Remo, e spalancò le braccia. La signora si mise una mano sulla bocca teatralmente. Non chiese nulla, rispettò quel riserbo. Sfiorò con la mano la mano del signore. - Immagino sia un grande dolore per lei. - Non sa quanto - rispose il signor Remo. Tornò a casa. Mentre saliva le scale, sentì un rumore lieve ma inconfondibile. Unghie sul marmo. Era Boomerang, sul pianerottolo. Il signore si chiuse in bagno, seduto sul water tutta notte. Attraverso il vetro smerigliato della porta, intravedeva la sagoma inconfondibile di Bum in attesa. Verso l'alba il cane grattò al vetro, preoccupato. - Vattene, bastardo - ringhiò l'uomo. Il cane dimenò la coda. Il suo padrone era vivo, dopo tutto. Due giorni dopo il signor Remo prese nuovamente la macchina, guidò tutto il giorno e col cane arrivò in riva al mare. Lì salì su un traghetto. Alcuni bambini giocavano con Boomerang, e un siignore disse: - Beato lei che può portarlo in vacanza. Il mio è troppo grosso. Si vede che siete uniti. - È proprio così - disse il signor Remo. Era il tramonto. Il signore portò Boomerang sulla spiaggia, e gli tirò un legnetto nel mare. Bum nuotò, addentò, tornò a riva e naturalmente il padrone non c'era più. Il signor Remo, sul traghetto del ritorno, trangugiò due cognac ed ebbe la nausea. Passò una settimana, La signora, che aveva visto tornare Boomerang la prima volta, chiese notizie della nuova sparizione. - Ahimè, - disse il signor Remo - si era ripreso, poi una ricaduta. La signora fece una faccia compunta, e anche la cagnina Tommasina versò una lacrima, forse di pena forse di cimurro. Fu una settimana triste per il signor Remo, ma non certo per la mancanza di Boomerang. Anzi, si accorse che nella casa il tappeto e il divano puzzavano di cane, e li deodorò. Il signor Remo era triste perché si era rotto il televisore. Il tecnico finalmente venne. Armeggiò, parlò del più e del meno, e vide la ciotola di Boomerang. - Lei ha un cane? - disse. -Non più. - lo invece adesso ne ho uno, ed è proprio un problema. Pensi, ero in vacanza al mare. Al ritorno, sul traghetto, un cane grassottello e brutto mi salta dentro la macchina. I miei figli dicono: dai papà, è un cagnolino abbandonato, teniamolo, teniamolo. Sa come sono i bambini ... - Certo - disse il signor Remo. - Insomma, adesso ce l'ho qui sotto in macchina, cerco quacuno a cui darlo. Lei non conosce mica nessuno? - Di che colore è il cane? - chiese il signor Remo con un brivido. - Nero. Con due orecchie come un pipistrello. Il tecnico uscì. Il televisore funzionava. Il signor Remo si sedette, ma non guardava lo schermo. Guardava la porta. Dopo un istante, sentì le unghie raspare. Al signor Remo tornò in mente un vecchio film della sua infanzia, con sepolti vivi e cadaveri che uscivano dalla tomba. Ma era nulla, in confronto al terrore di quel momento. Boomerang il dolce zombie era tornato. Ancora più grasso, perrché i bambini lo avevano rimpinzato. E lo guardava, con immutato amore, fedeltà e fiducia e altri sentimenti nobili. - Ma lo vuoi capire che ti ho abbandonato? - urlò il signor Remo. - Ci sarà un perché. Tu sei il mio saggio padrone, e ti voglio più bene di prima - rispose il cane con l'alfabeto della coda. Allora il signore preparò un piano perfetto. Avrebbe cambiato paese, addirittura continente, per un lungo viaggio. Lo rimuginava da tempo. Prelevò i risparmi, si comprò una giacca bianca e un cappello di paglia. Una mattina chiuse a chiave Boomerang in terrazza, e partì. Prese un aereo e volò quattordici ore. Quando scese dall' aereo, già si sentiva diverso e tropicale. Al ritiro bagagli si mise accanto a una ragazza abbronzata e le sorrise. Sì, era lontano, lontano da tutto. Odore di mare e sole, non di cane. Fu allora che si accorse di una strana scena. Una signora stava piangendo tra due poliziotti. Indicava una gabbia per cani, appena sbarcata dall' aereo. - Ma non è possibile! - gridava con voce stridula - dov' è il mio Rufus? - Signora, si calmi - diceva un poliziotto grattandosi la testa. - Non può essere successo quello che lei dice ... Incuriosito, il signor Remo si avvicinò. Septì il poliziotto che parlava con l'addetto ai bagagli smarriti. - E accaduto qualcosa di molto strano. La signora ha inviato regolarmente il suo cane, in una gabbia nella stiva. Ma adesso diice che quello non è il suo animale. - Impossibile ... - Il mio cane è un setter irlandese, - disse la signora piangen- do - questo è un botolo grasso e orrendo. Mi ricordo benissimo che, alla partenza, stava girando libero per l'aeroporto. - Vuole dire, signora, che qualcuno le ha sostituito il cane? - Ma sì - rise l'addetto ai bagagli - ... oppure il botolo ha aperto la gabbietta e si è sostituito al suo. - Non faccia l'ironico, - disse la signora -lei non sa quanto soono intelligenti i cani! Il signor Remo non aspettò che la gabbia venisse aperta. Di corsa, trascinando la valigia a rotelle, scappò per i corridoi dell' aeroporto, e sentì alle spalle il galoppo frenetico di Boomerang che lo inseguiva. Al volo salì sul taxi e disse: - All'Hotel Tropicana, subito, di corsa. - Non posso, senor - disse il tassista. - Davanti all' auto c'è un brutto cane sdraiato che non mi fa passare. Il signor Remo salì nella sua camera, all'ultimo piano dell'hotel. Aprì il finestrone della terrazza. Boomerang annusava la moquette, soddisfatto. Il signor Remo si tolse la giacca bianca e il cappello. Guardò il mare e l'orizzonte lontano. Prese la rincorsa e saltò. L'ultima cosa che vide fu Boomerang, grasso e compatto come un proiettile, che precipitava al suo fianco, con uno sguardo di adorazione. Un gioco nuovo, padrone? La stampa locale dedicò anche un titolo alla triste e commovente storia. Li seppellirono insieme.
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9 LUG 2019 16:33
SALUTO ROMANO (SERGIO) – “NIXON ERA MOLTO SIMPATICO, GORBACIOV NON L’HO MAI STIMATO, A BERLUSCONI RICONOSCO ENERGIA E CORAGGIO” – “IL MIGLIOR ITALIANO IN POLITICA ESTERA ERA ANDREOTTI. LA CAPIVA E LA SAPEVA FARE. SU MORO KISSINGER NON AVEVA TORTO” – IL ’68 E D’ANNUNZIO, MUSSOLINI E SALVINI: “NON MI PIACE, MA IL SOVRANISMO È DIVERSO DAL FASCISMO, PERCHÉ…” – VIDEO
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Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera – Domenica”
Sergio Romano, qual è il suo primo ricordo privato?
«Sono a Pegli, recito La Nave di D' Annunzio vestito da marinaretto. E al pensiero non so se oggi prevalga il sorriso o la nostalgia».
E il primo ricordo pubblico? Rammenta il Duce che proclama l'impero?
«Certo. Non avevo ancora sette anni, ma si percepiva nell'aria una generale soddisfazione, un certo orgoglio».
E la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940?
«Non fu accolta con entusiasmo. Gli italiani la guerra non la volevano. Il 1939 era stato un anno di popolarità per Mussolini, attestato anche dai rapporti dei prefetti che in altre occasioni avevano registrato il malcontento popolare: gli italiani erano grati al Duce che li aveva tenuti lontani dalla guerra».
Cominciarono subito i bombardamenti.
«Il 14 giugno Genova fu colpita dal mare. Io cercai scampo nel rifugio della clinica dove mia madre era stata operata per un cancro al seno. Morì meno di due anni dopo. Scoprii dalla lapide che era nata nel 1906. Per civetteria diceva di essere del 1909».
Come la ricorda?
«Ricordo l' ultimo incontro ma preferisco non parlarne. Benché Tolstoj dica esattamente il contrario, tutte le infelicità si assomigliano. I dolori, gli amori: viste sotto questo profilo, le vite degli uomini si assomigliano».
Il Duce lo vide mai?
«Una volta sola, a Milano, di ritorno dall'ultimo discorso, al Lirico. Salutava la folla dall'auto. E la folla gli rispondeva. Più per abitudine che per affetto. Anche perché c' era il rischio, in caso contrario, di essere apostrofati con durezza dalle brigate nere».
Però non vide piazzale Loreto.
«Mi rifiutai di assistere a quella che Valiani definì macelleria messicana».
E ha scritto di non capire cosa ci fosse da festeggiare all'arrivo degli americani. Non era lecito festeggiare la fine dell' occupazione nazista?
«Sì. Ma gli americani e i soldati delle varie nazionalità non erano nostri alleati. Erano occupanti. Ci ricordavano che avevamo perso la guerra. Avevano tutti i diritti; ma non quello di pretendere la mia cordialità. Un fondo nazionalista mi era rimasto. In parte era un retaggio veneto».
Nazionalisti i veneti?
«Lo erano molto. Avevano vissuto la Grande Guerra».
Lei ha scritto di un drammatico incontro nei giorni di Caporetto tra suo nonno, ufficiale al fronte, e suo padre, giovane convittore che aveva l'incarico di portare i compagni più piccoli a Bologna.
«La famiglia di mio padre era friulana, mia nonna ricordava con un pizzico di orgoglio di avere visto D' Annunzio in uniforme nella piazza di Latisana. Ma anche mia madre, che era di Vicenza, aveva vissuto la guerra: se gli austriaci avessero sfondato sull'altopiano di Asiago, il giorno dopo sarebbero stati in città».
Come ricordavano Caporetto?
«Nessuna sconfitta è stata sviscerata e quasi celebrata con altrettanto compiacimento».
Come lo spiega?
«Il fascismo si impadronì della vittoria, e la mise in scena in forme spesso rozze e retoriche. Questo aiuta a capire la rimozione successiva».
Nel 1946 lei è a Milano. Al concerto per la riapertura della Scala. Che impressione le fece Toscanini?
«Anche dall'ultima fila del loggione si percepiva il suo carisma. Ma l'impressione più grande me la lasciarono i milanesi. Pronti a far ripartire l'economia, a rilanciare le arti. Andai alla prima del Piccolo: amavo il teatro, ho anche scritto tre atti unici Davano "L' albergo dei poveri" di Gor' kij. Quarant'anni dopo rividi la stessa pièce a Mosca: in una versione modernizzata che non mi convinse; e poi, in un altro teatro, in una versione basata sulle note di lavoro del primo regista, Konstantin Stanislavskij. Era uguale a quella del Piccolo. Strehler aveva studiato gli appunti di Stanislavskij con una attenzione filologica».
Al referendum del 1946, se avesse già avuto ventun anni, avrebbe votato monarchia o Repubblica?
«Ho votato Repubblica, grazie a mia nonna. Lei era del 1883, come Mussolini: al tempo era quindi considerata molto anziana. Considerò che le conseguenze di quella scelta storica avrebbero riguardato più la mia vita della sua. E mi disse che avrebbe votato seguendo le mie indicazioni. Anche mio padre votò Repubblica. La seconda moglie di mio padre, monarchia».
Che cosa motivò la sua scelta?
«Mi rendo conto solo oggi che forse influì su di me anche la propaganda anti-monarchica della Repubblica sociale, che rinfacciava al re il suo voltafaccia. Una propaganda aggressiva, in cui però c'era del vero».
Nel 1948 lei era a Parigi. Paolo Conte, destinato a diventare una star in Francia, mi ha raccontato di aver trovato da ragazzo un forte sentimento anti-italiano, tipo nero in un quartiere bianco dell'Alabama.
«Io ebbi l'impressione contraria. L'occupazione italiana era stata molto diversa da quella tedesca. Nella nostra zona l'esercito aveva protetto gli ebrei, e questo i francesi lo sapevano.
Inoltre non erano particolarmente orgogliosi di come si erano comportati tra il 1939 e il 1944. Si nascondevano con ipocrita eleganza che molti di loro avevano collaborato con i nazisti».
Poi prese il treno per Londra. Come la ricorda?
«Nella capitale vincitrice il clima duro del dopoguerra si sentiva molto di più. Appena arrivato avevo fame e chiesi due uova al piatto: mi guardarono sorridendo. Le uova erano razionate, come il pane e la stoffa per i vestiti. Il governo socialista di Clement Attlee voleva pianificare tutto, compresi i pasti al ristorante: c'erano solo tre menu in tutta l' Inghilterra, e anche nel locale più esclusivo nessun conto poteva superare i cinque scellini».
Com'era l' atteggiamento verso gli stranieri?
«La polizia arrivò alle 4 del mattino per vedere se avevo i permessi in ordine. Cominciava la prima immigrazione. E gli inglesi non la volevano».
Poi lei andò a Berlino, la capitale distrutta e occupata.
«Era il 1951. Mi colpirono le cataste di pietre e mattoni, ognuna con un numero: la ricostruzione era già cominciata. Ripartiva anche la vita notturna, la gente era allegra. Ero invitato al festival cinematografico di Berlino Ovest, ma volli visitare gli studi di Babelsberg a Est, dove Fritz Lang aveva girato Metropolis e Marlene Dietrich era stata l'angelo azzurro. Gli organizzatori mi rimproverarono: ero stato a trovare i loro nemici. Con me c' era Curzio Malaparte, che non se l'era sentita di seguirmi dall'altra parte del confine».
Come mai? Com'era Malaparte?
«Convinto di essere molto importante. Vedeva nemici personali dappertutto, e temeva di correre a Berlino Est chissà quale pericolo. Si chiamava in realtà Kurt Erich Suckert ma non parlava tedesco. Gli facevo un po' da interprete».
Nel 1952 lei andò in America.
«Passai da Long Island a trovare la sorella di mia madre, con cui avevamo perso i contatti da anni. Più tardi andò a visitarla anche mio padre, che provò a parlarle in veneto. Rispose in un misto di dialetto, italiano e inglese con accento americano».
Fu l'anno dell' elezione di Eisenhower.
«Studiavo all'università di Chicago. Nel voto precedente c'erano stati brogli - già funzionava la Chicago-machine che nel 1960 fu decisiva per la vittoria di Kennedy -, e alcuni studenti stranieri furono mandati come scrutatori nei seggi. Il mio era una casa privata, nel quartiere dei neri. Furono gentilissimi. Insistettero perché mangiassi il loro pollo fritto, retaggio delle radici del Sud».
Anni dopo, quando lei lavorava al Quirinale, fu l'interprete di Saragat nei colloqui con i presidenti americani. Il primo fu Lyndon Johnson.
«Molto cordiale, alla mano. Non era particolarmente brillante, ma aveva un controllo assoluto del partito e del Congresso. Quando Saragat espresse il dissenso italiano sulla guerra in Vietnam, lo guardò senza muovere un muscolo. Entrambi del resto non vedevano l'ora di parlare d'altro».
Il secondo fu Nixon.
«Uomo molto simpatico, alquanto diverso da come veniva descritto. Nixon aveva tutta la stampa contro, e anche a noi non piaceva: eravamo abituati ai Wilson e ai Roosevelt, a presidenti di statura internazionale; Nixon ci sembrava un politico minore, quasi locale. In realtà, ebbe intuizioni importanti. Era anche spiritoso».
Incontrò anche Bob Kennedy?
«Non facemmo in tempo. Ero presente però all'incontro di Saragat con Christian Barnard: grande cardiochirurgo, grande playboy».
Lei arrivò all'ambasciata italiana a Parigi in un momento cruciale: Maggio '68.
«All'inizio guardai la rivolta con gli occhi del conservatore. Poi passai una notte nel quartiere latino, con mia moglie, e cominciai a guardarli con simpatia. Era una ribellione che sarebbe piaciuta a D' Annunzio».
Come ricorda De Gaulle?
«Un gentiluomo. Studiava i curricula dei suoi interlocutori, sapeva tutto di noi. Mi chiese perché avevo fatto il diplomatico e cosa mi sarebbe piaciuto fare».
Lei cosa rispose?
«Il giornalista».
E Mitterrand?
«Mi affascinava meno. Uomo di contraddizioni: era stato a Vichy; da ministro dell'Interno aveva sostenuto l' Algeria francese. Però era un uomo di grande cultura e di tratto elegante.
E amava sinceramente l'Italia».
Gorbaciov?
«Non l'ho mai stimato. I colloqui con lui si assomigliavano tutti: poneva una domanda, fingeva di interessarsi alla risposta; poi partiva con un monologo interminabile, in cui spiegava quel che voleva fare. Ma forse non lo sapeva nemmeno lui».
Lei fu accusato, in particolare da De Mita, di non aver compreso l'importanza della svolta di Gorbaciov.
«Dubito che De Mita abbia letto i miei rapporti da Mosca. Forse quelli che glieli hanno riassunti l'avranno tratto in errore. Forse avranno detto che a Mosca, secondo me, non accadeva nulla. Ma io scrivevo che non capivo la strategia di Gorbaciov. Aveva avviato una riforma velleitaria dalle conseguenze imprevedibili».
La conseguenza fu la fine della guerra fredda.
«E non è detto che sia stato un bene. La guerra fredda ha garantito la pace».
Tra i politici italiani, chi è stato il migliore nella politica estera?
«Andreotti. La capiva e la sapeva fare. Ogni volta che veniva a Mosca, la Pravda lo intervistava in prima pagina. Non erano interviste dirimenti: il giornalista non faceva domande scomode, e Andreotti badava a non scoprirsi.
Era un segno di stima. I sovietici sapevano che gli altri andavano e venivano, compreso Craxi che pure era un uomo intelligente; Andreotti sarebbe rimasto».
E Moro?
«Purtroppo Kissinger non aveva torto. Tradurre Moro in inglese non era soltanto difficile; era spesso inutile: i suoi interlocutori stranieri non avrebbero capito. Ricordo un nostro incontro. Gli dissi che il vizio dell'Italia era l'incapacità di innovarsi, di sperimentare. Rispose che era proprio così. Ma palesemente la considerava una virtù».
Lei passa per un nemico di Israele.
«Non lo sono. Partecipai dell'entusiasmo per la nascita di Israele nel 1948. A Milano e a Vienna vidi i sopravvissuti dei campi di concentramento cominciare il loro lungo viaggio verso la nuova patria, proseguito spesso su navi italiane. Oggi di questo entusiasmo non vedo tracce. Gli israeliani hanno dilapidato un immenso patrimonio di simpatia e sostegno».
Ma hanno un leader forte come Netanyahu.
«Che non mi pare stia facendo una politica lungimirante. Certo per i palestinesi, cui nega il diritto a uno Stato nazionale; ma probabilmente per il suo stesso popolo. Dirlo non significa essere anti-israeliani, anzi».
Cosa resterà di Berlusconi?
«Ho sempre avuto simpatia per lui. Gli riconosco energia e coraggio. Ma è sempre rimasto un uomo d'azienda: cosa impossibile per un uomo politico, che deve legiferare e agire nell'interesse generale. Ricordo un incontro al Corriere . Gli posi la questione. La evase. Insistetti. Continuava a non rispondere. Dovette intervenire Ferruccio de Bortoli, a farmi notare che i miei sforzi sarebbero stati vani».
Cosa pensa di Salvini?
«Salvini non mi piace. Non mi piace quel che dice, non mi piace quel che fa, non mi piace quel che vuole».
Qualcuno vede in lui germi di un nuovo fascismo.
«No, è un fenomeno diverso. I sovranisti sostengono il recupero dell'identità nazionale, dopo vent'anni di egemonia del pensiero liberaldemocratico, aperto alla società multiculturale.
E manifestano una certa nostalgia per l'epoca - avversata dai loro nemici - dei regimi autoritari e identitari. Una nostalgia che non ha nessuna ragione d'essere».
Come vede il futuro dell' Italia?
«Non lo vedo bene. Anche se il nostro rimane un Paese per certi aspetti ammirevole».
Quali aspetti?
«Abbiamo avuto tre guerre civili: al Sud dopo il Risorgimento; poi negli anni tra la Grande Guerra e la marcia su Roma; infine tra l'8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945: una guerra tra italiani che in Emilia durò ancora per un altro anno.
Per tornare alla pace civile abbiamo fatto compromessi: abbiamo traslocato una buona parte dello Stato borbonico nello Stato monarchico, una buona parte dello Stato giolittiano nel regime fascista e l'intero Stato fascista nello Stato repubblicano. Non fu bello, ma fu una prova di saggezza. Per questo però siamo un Paese zoppo. Limitato nella sua libertà di pensare, di immaginare. Di sperimentare, come avevo detto a Moro».
Lei crede in Dio?
«No, purtroppo; se credessi tutto sarebbe più semplice.. Ma preferisco definirmi agnostico piuttosto che ateo. L'ateismo è un'ideologia religiosa».
Come immagina l'aldilà?
«E se non esistesse?».
Cosa resterà allora di noi?
«Questo è un pensiero che ci sta a cuore finché siamo in vita. Dopo, probabilmente, no».
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«Sul cavallo bianco»: il ricordo di Tizianlo Terzani. Di Ferruccio De Bortoli.
«Sul cavallo bianco»: il ricordo di Tizianlo Terzani. Di Ferruccio De Bortoli. (il testo che Ferruccio de Bortoli dedicò alla memoria di Tiziano Terzani sul Corriere della Sera del 30 luglio 2004) «Ho visto che c’ è un bel posto sotto il mio albergo, vagamente orientale, prendiamoci un t��..». Tiziano Terzani non veniva volentieri a Milano. Ma quella volta, due anni fa, doveva presentare Lettere contro la guerra, edito da Longanesi, il libro che raccoglieva i suoi articoli apparsi sul Corriere. Si rifugiava al Manin, con la vista sui Giardini Pubblici. Era una giornata buia con una pioggia sottile e sporca. Telefonò poco prima dell’ appuntamento, la voce un po’ turbata. «Senti, non vediamoci in quel posto, servono dell’ orrendo sushi, c’ è una musica soffusa ma infernale, tanti ragazzi incravattati...». Terzani amava l’Oriente ma non conosceva i posti orientali alla moda, né il rito dell’ happy hour. Scegliemmo il bar dell’albergo. Terzani si presentò in un completo bianco di maestosa bellezza, con i capelli raccolti dietro la nuca, la barba curatissima. Un’eleganza persino civettuola. Un vestito di ottimo taglio, lacci al posto dei bottoni, revers arrotondati. L’ abito doveva essere in armonia con il corpo e con l’ ambiente. Un lampo di luce in un interno milanese. Nel dolore per la morte di un collega e di un amico mi vengono in mente i passi del suo ultimo libro Un altro giro di giostra, in cui racconta la sua lotta contro il cancro. «Mi parve che tutta la mia vita fosse stata una giostra, fin dall’ inizio mi era toccato il cavallo bianco e su quello avevo girato e dondolato a piacimento, senza che mai, mai qualcuno fosse venuto a chiedermi se avevo il biglietto». Terzani non aveva, come tutti, il biglietto. «Bene, ora passava il controllore, pagavo il dovuto e, se mi andava bene, riuscivo a fare un altro giro di giostra». Quell’ arrivo non fu improvviso, gli era stato anticipato e lui ne aveva scritto in Un indovino mi disse. Uno degli indovini, capaci di leggere il riassunto di una vita su una foglia ingiallita, Raimanickam di Singapore, gli aveva predetto che fra i cinquantanove e i sessantadue anni, avrebbe dovuto superare una «strettoia», forse un’operazione; che insomma qualcuno gli avrebbe chiesto il biglietto. Quando arriva a New York per farsi curare, pieno di nostalgia per la quiete himalayana, Terzani va da un barbiere e gli chiede di raparlo a zero. Il barbiere si rifiuta. «Ci ripensi, non vorrei che domani tornasse e mi incendiasse il negozio». Tiziano lo convince, ma non a tagliargli i baffi. Troppo belli. Se li taglierà da solo. Aveva deciso di farseli crescere quando aveva perso una scommessa su Nixon: lui pensava che non sarebbe mai stato eletto. A New York lascia le sue bellissime vesti orientali ed entra in un negozio di abbigliamento Duffy’s cheap clothes for millionaires, dove compra due tute da ginnastica e due berretti di lana. Quando esce incontra un vecchio amico e collega, che non lo riconosce. È l’unica volta in cui, credo, si sarà sentito a suo agio, nei nuovi vestiti. Il viaggio nella malattia è uno splendido viaggio nella vita, «nel bene e nel male del nostro tempo». Uno strano paziente, Terzani. «You wait, you die», gli dice una premurosa dottoressa «Tu aspetti, tu muori». Lui si chiede perché nella cura del cancro si usi un’inutile terminologia bellica. Il nemico da combattere? Non è meglio considerarlo parte di noi? Un monaco buddista vietnamita gli aveva consigliato anni prima: «Ogni mattina, appena sveglio, dica qualcosa di gentile al suo cuore e al suo stomaco. Dopotutto molto dipende da loro». Il viaggio è lungo. Nelle cure, nelle medicine e nelle culture del mondo. Dalla chemioterapia all’omeopatia, all’ ayurveda, al qi gong, discipline tibetane, cinesi. «Lei che cosa fa nella vita, dottor Terzani?». «Il malato esperto». Poi, il viaggio finisce con un’ operazione. Un chirurgo che apre e richiude. «Il miglior medico è dentro di noi». Sarà stato il migliore, ma non ce l’ ha fatta. Il tè a Milano. Tiziano aprì la bustina di Twining’ s con un certo fastidio e forse disgusto. Il male era dentro di lui, ma lui l’ aveva accolto sorridendo. Sorrideva, scherzava. Come se anche in quel posto si fosse sentito in armonia con l’ universo. Come fosse stato seduto sui talloni ad occhi chiusi. In meditazione. Poteva essere lì come nel suo rifugio a tremila metri. «L’ indirizzo email è sempre lo stesso?». «Sì». Nemo Nessuni. Bellissimo. Pensavo fosse il suo modo originale di nascondersi. La ragione vera l’avrei scoperta leggendo l’ ultimo libro. Quando Terzani si ritira, tra una cura e l’ altra, a studiare un po’ di sanscrito in un ashram decide di chiamarsi Anam, il senza nome. «Un nome appropriatissimo, mi parve per concludere una vita tutta spesa a cercare di farmene uno». Al momento di lasciarci mi regalò un piccolo fossile. Lo strinse in un pugno e poi me lo passò. «Conservalo, tienilo vicino». Forse quel sasso è come la foglia ingiallita dell’indovino. Peccato non saperlo leggere.
(il testo che Ferruccio de Bortoli dedicò alla memoria di Tiziano Terzani sul Corriere della Sera del 30 luglio 2004) «Ho visto che c’ è un bel posto sotto il mio albergo, vagamente orientale, prendiamoci un tè..». Tiziano Terzani non veniva volentieri a Milano. Ma quella volta, due anni fa, doveva presentare Lettere contro la guerra, edito da Longanesi, il libro che raccoglieva i suoi articoli…
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