#perché in questo paese mi sta andando tutto male non lo so
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È da circa una settimana che è stato annunciato che il mio collega e migliore amico di qui, che ho praticamente conosciuto dal giorno 3 che sono arrivata e con cui ho fatto praticamente tutto: dalla scalata al Fuji ai corsi inutili in azienda... verrà trasferito in un'altra città.
Penso che quando se ne andrà, non è che mi crollerà il mondo addosso, ma una cosa del genere.
#perché in questo paese mi sta andando tutto male non lo so#tra l'altro ora sta facendo un viaggio in Kansai e già mi manca e ci videochiamiamo ogni 2x3#ci siamo già promessi di vederci almeno una volta al mese#che palle sta vita#my life in tokyo
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Non sarebbe questa l'ora più giusta per fare certi pensieri, soprattutto se sono delle situazioni che non hanno, in un certo senso, una soluzione. Non dovrebbe esserci nessun "ma" o nessun "però", ma... eccolo qua.
Non so è che mi chiedo soltanto: come è possibile vivere così?
Lo immagino a letto, incapace ormai di alzarsi, col tumore al polmone che lo sta logorando fisicamente e mentalmente. E mica solo lui: sua moglie che non ha pace perché lui non ha pace, i figli, i nipoti. Il papà, il marito, il nonno alto e grosso che ribaltava casa sotto e sopra. Il classico tipo: omone grande, ignorante, ma gentile, generoso e intelligente, che ne ha passate tante tra problemi fisici, economici; lo stesso uomo lì ridotto adesso a starsene a letto senza nemmeno potersi alzare per andare in bagno, tra tumore e morbo di Parkinson. La moglie, piccola, isterica ma che è sempre stata al suo fianco ogni volta che questo omone si spezzava e che nella loro ignoranza sono comunque riusciti a campare, che è sempre stata il pilastro portante di lui tanto quanto lui lo è stato per lei. E lei ora deve badare al marito ridotto in quello stato, alla casa e soprattutto deve iniziare a pensare ad affrontare la morte di lui, ed una eventuale vita senza lui. Come farà? Come fa? Come si può vivere così?
Penso a lei che si è aggravata in un colpo solo. Chissà cosa è successo e pure lei ora: buttata in un letto, incapace di parlare bene, di alzarsi dal letto da sola, quasi senza capelli per via della radioterapia, che malgrado l'età fino allo scorso anno guidava, faceva tutto da sola. Poi così, è bastato un soffio più forte ed è venuto giù tutto: tumore al cervello, Parkinson. Ma come può essere?
Una famiglia, poi, praticamente disastrata: lei che ha perso completamente quel piccolissimo bagliore di ragione che possedeva. I figli: uno di sedici anni che si ritrova ad avere una madre con gravi turbe psicologiche ed è intrattabile, una madre che è sempre stata violenta e oppressiva tra l'altro, e che deve avere a che fare con la sua età, con i suoi sedici anni e tutto ciò che comporta avere sedici anni in un paese di merda nel buco del culo del sud Italia (= degrado assoluto); l'altra figlia di trent'anni, anche lei cresciuta nella violenza fisica e verbale da parte della madre, che sta andando a sposarsi con uno violento verbalmente e molto probabilmente anche fisicamente (come la madre) che la tiene sotto scacco (come ha sempre fatto la madre) che la reputa una feccia inutile e stupida (come ha sempre fatto la madre); il marito che in tutti questi anni si è lasciato manipolare dalla moglie e che ora non riesce a gestirla e dopo un giorno di fatica a fare un lavoro che manco è in grado di fare e con tutti gli acciacchi e problemi fisici che ha deve fare pure i conti con una moglie psicologicamente instabile che rende il clima in casa insopportabile (come ha sempre fatto, ma prima la "colpa" era dei figli, ora è del marito che la tradisce, che non la considera ecc). Li vedo dall'esterno e mi sale la nausea. Mi metto nei panni di ognuno di loro e mi chiedo: ma come si può campare in questo modo?
Loro poi. Che a volte mi sembrano così strani, che fanno cose che mi inquietano perché non so bene come si evolveranno; che se ci penso, mi rendo conto che non sono mai stati in grado di campare pure se non sono manco il peggio. Ed io ho paura per loro e di loro, di quello che potrebbero fare proprio perché non so bene cosa potermi aspettare.
Penso poi a lei che è un po' come me, credo. Che patisce questo paese di merda, che patisce il suo lavoro perché comunque ritrovarsi a 28 anni a fare le pulizie, in nero, a casa di due anziane ultra ottantenni che non sono manco tanto di compagnia e che però deve ritenersi "fortunata" (per modo di dire) innanzi tutto perché ha trovato questo lavoro, poi perché malgrado ciò l'ambiente lavorativo non è "male" (diciamo che almeno la trattano con simpatia e almeno il minimo sindacale di rispetto in quanto essere umano è dato, anche se relativamente). Penso al fatto che lei vorrebbe andarsene ma è consapevole che da sola è quasi del tutto impossibile, a come riesce nonostante la sua insicurezza e la sua ansia a reggere e superare tutto da sola: l'emorragia cerebrale del fratello, la gestione amministrativa e finanziaria della sua famiglia, il lavoro, la rottura col suo ex ragazzo, le delusioni e le cattiverie delle sue vecchie amicizie e delle persone che ha intorno. E lei ha il coraggio di stimare e vedere qualcosa di buono in me, ma che cosa? Davvero un mistero. Mi chiedo come ha fatto, come fa, qual è la forza motrice che la spinge ad andare avanti. Oltre il fatto che ha una purezza che ho visto solo in una sola persona, in tutta la mia vita. E per purezza non intendo candore, ma quella tautologia che suona pure mezzo assurda del: l'essere è, ecco lei è così, senza ombre. Ha poi un cagnolone che è buono e sincerone come lei, e pure testardo come lei.
L'altra, invece, che si è ammogliata e si è accasata e ora è tutta casa, lavoro e maritino e boh, ha già raggiunto il massimo della sua aspirazione ed è felice e soddisfatta così e riesce ad esserlo pure in questo paese di merda. Boh, mi chiedo come fa a campare così. Oltre al fatto che si è fatta ubriacare dai soldi del marito dimenticando lo stato di miseria e degrado in cui viveva fino ad un anno fa e ora fa la signora finta umile.
Penso poi a me e... pensieri contrastanti, angoscianti. Vedo intorno a me bruttezza o bellezza sporcata e logorata ed è tutto così insopportabile e penso che non è nemmeno il peggio e mi chiedo: ma come si fa, come si fa a campare così o pure peggio? Come si fa a campare con l'ombra costante della morte vicino? Fino a quando non ci pensi è tutto ok, ma poi certe cose ti ricordano che tutto va in rovina e... come si fa? A me dispiace allora per tutte le mancanze che ho avuto e che ho. Vorrei essere una persona migliore, ma il peso del "non lo sopporto" è troppo e non ci provo nemmeno. Mi rintano e mi allontano con la speranza di non farmi toccare da queste cose, ma sono più presenti che mai. Non si scappa.
Mi guardo intorno e penso: tutto questo non mi appartiene; io non sono tutti loro, non sono tutto questo e non mi riconosco in niente, qua e quasi nessuno e ammetto che ci si sente abbastanza smarriti.
Penso allora che dovrei essere più grata di quello quello ho, ma c'è un lato di me che si dice: a me è dovuto. In realtà no ma questi discorsi del "niente ci è dovuto", come se non meritassimo niente mi puzzano parecchio. Ciò non toglie che dovrei iniziare a sforzarmi di vedere più bellezza, malgrado lo sporco che la abbruttisce.
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ciao Kon spero di non ammorbarti troppo con quello che sto per scriverti, ma alla faccia degli anon di settimana scorsa io le tue riflessioni e risposte le trovo sempre molto belle e utili.
mi sento un po' scoraggiata dalla situazione attuale, soprattutto leggendo le notizie o guardando i tg l'idea che poi uno si fa è che il disastro sia dietro l'angolo ormai; ho proprio l'impressione che il governo stia facendo poco e male, checché ne dicano gli esponenti intervistati: sì certo, i fondi per i posti letto sono stati stanziati, ma la firma per avviare il progetto Arcuri l'ha posta all'inizio di ottobre credo (hey, con solo 3 mesi di ritardo), il bando per l'assunzione di altri medici se non sbaglio è di qualche giorno fa e non è che i medici spuntino come funghi all'occorrenza, ma soprattutto se prendono provvedimenti basandosi sui dati dell'ISS bisogna capire che stanno lavorando con dei numeri che rispecchiano la situazione del Paese di una settimana prima, e quando esce il DPCM le cifre sono già cambiate un'altra volta, spesso in aumento e così si finisce per rincorrere l'andamento della pandemia invece che anticiparla con misure sensate.
Ma poi, a che serve dare disposizioni una settimana, fare in modo che chi si doveva adeguare si adegui, e poi col decreto dopo voilà, cambiare tutto un'altra volta? a che serve fare sti passetti nani che non servono a niente e nessuno, se non esasperare allo stremo il povero cittadino che prova a stargli dietro?
ho una frustrazione enorme ddosso perché non posso fare nulla per cambiare le cose, so benissimo che angosciarsi non serve a niente, ma l'idea di starmene con le mani in mano ad aspettare mi fa stare veramente male
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Hai detto una cosa IMPORTANTISSIMA nella terz’ultima riga e dopo due o tre(cento) mie righe sull’incipit del tuo post, ho intenzione di dedicarle la maggior parte delle mie energie fisiche e cerebrali.
Intanto, davvero vuoi fare un’analisi socio-politica della situazione e spendere giudizi sull’altrui operato?
No, perché comunque non solo sarebbe un tuo diritto ma a occhio e croce quello che dici mi pare più sensato del 95% di quello che sento vomitare in giro.
Ma...
Questo ti sta restituendo qualcosa, oltre la frustrazione di una cosa a tuo avviso mal gestita e magari il piccolo dubbio attanagliante che parte del problema può essere l’incompetenza ma che il restante comunque una scelta economica e politica ben specifica?
Te lo richiedo... questo tuo ragionamento ti sta restituendo qualcosa - chessò - magari maggiore chiarezza nelle scelte che dovrai fare o più forza d’animo o fermezza nelle decisioni da prendere?
Perdonami ma non mi sembra nulla di quanto da me detto.
Scoraggiata, disastro, esasperare, stremo, povero, frustrazione, angosciarsi, mani in mano, male...
Questo è lo stato d’animo di una persona che vede arrivarsi un treno addosso e spera, immobile, che qualcuno lo devi su un altro binario.
Beh... perlomeno non sei da sola.
Siete da soli in qualche milione.
Guarda cos’ha detto nella terz’ultima riga:
non posso fare nulla per cambiare le cose
E io, invece?
Ti pare che io stia sintetizzando il vaccino per il Sars-CoV2? Sto forse girando con l’elisoccorso a beccare la gente al volo da scaricare in rianimazione? Ho costruito un nuovo ospedale o stampato in 3D 60 milioni di respiratori?
Ti dico cosa sto facendo e bada bene che lo scrivo solo per farti capire che è nulla dal basso del mio essere nessuno e non una roba acchiappa bene-bravo-bis.
Questa mattina ho telefonato a una ragazza la cui sanità fisica e mentale sta arrivando a fine corsa, ho scritto a un mio coetaneo il cui silenzio mi stava preoccupando (a buon ragione, ho scoperto poi), a una giovane coppia per chiedere come stesse andando la loro convalescenza da Covid, ho telefonato a una giovane mamma, a un vecchio amico, risposto a una figlia preoccupata e scritto in privato a mille persone con preoccupazioni, angosce, dilemmi e richieste di aiuto.
Dici che non hai le forze, l’animo e il cuore per poter essere d’aiuto a qualcuno che ha bisogno perché sei tu la prima ad averne?
Tendi una mano e chiedi a qualcuno di camminare in tua compagnia.
Come ho già detto un tempo, da sola forse potrai andare più veloce ma stringendoti ad altri potrai andare più lontano.
Vedi come mi è difficile dire queste cose senza sentirmi ridicolo e scontato io per primo?
Volemose bbene, andrà tutto bene, insieme ce la famo, viva l’Italia!
Forse perché scelgo bene le cose da dire e scelgo bene le persone a cui dirle... e non perdo tempo prezioso a inveire, a incazzarmi, a denunciare, a decostruire, ad analizzare, a dietrologizzare e a mostrare la soluzione che qualche lobby di qualcosa non vuole che si sappia.
C’è qualcuno solo e pieno di paura e io gli dico ‘Coraggio, ci sono io con te’... e magari questo qualcuno non saprà mai che in realtà è lui a far sentire meno solo e spaventato me.
Vabbe’... ti auguro una serena notte e scrivimi ancora se ti fa piacere :)
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“Non potevamo essere normali?”
19.12.76, Porticato Interno
D: Gli ci vuole poco per rendersi conto della presenza di qualcuno, anche se non comprende subito di chi si tratta. È il profumo che gli arriva alle narici a fargli accendere una lampadina, lasciandolo con un solo e unico nome nella testa “Merrow”.
M: Le ci vogliono dunque parecchi istanti meditabondi prima di buttare un`occhiata in direzione del resto del porticato, cogliendo solo ora la figura di Nico che sembrava non aspettare altro che un suo sguardo: occhi che si fanno più accesi, sorriso storto che inclina verso il basso la punta della Merlino`s, ed un cenno del capo per incitarlo ad avvicinarsi. «Che hai fatto?» ciao Dom «Dove Gramo hai messo la faccia?» per essere più precisa, mentre smolla la sigaretta tra le labbra e la destra s`allungherebbe per cercare di portargli via un po` di quello sporco dal viso con il pollice delicato, lo sguardo completamente rapito dal proprio gesto.
D: «Che?» ciao anche a te Merrow. «Da nessuna parte» cosa vuoi donna? Lui non è proprio consapevole di avere quelle macchie bianche e blu sul viso, è convinto di averle tolte tutte. Ma poi la ragazza allunga la mano per portarla sul suo volto, lasciandolo un po’ sorpreso di quel gesto, come la prima volta, eppure non si scosta nemmeno di un millimetro, non come la prima volta. Solo nel ritirare l’arto noterebbe il colore rimasto a sporcare la pelle candida di Merrow, e subito la mano andrebbe a sfregare lo stesso punto su cui prima l’altra ha posato le dita, lo sguardo basso e forse anche un po’ imbarazzato. «Dannazione, pensavo di averlo levato tutto. Io e Liu ci siamo messi a colorare dei sassi che ha portato in sala comune, con dei colori commestibili e delle immagini di Natale. Poi c’è la griglia del tris, così potete giocare con i sassi a tris.» È una bella idea no? Notice me senpai. E lo sguardo laterale verrebbe anche ricambiato ad un certo punto, tramite una leggera inclinazione del capo verso di lei… «Tu vai a casa o rimani?» a giocare a tris. Mica a fare altro.
M: Sta in silenzio, lo ascolta, aggrotta un secondo la fronte e poi mormora «Scusa, ma se sono sassi, che senso ha dipingerli con la roba commestibile? Cioè uno gioca a tris leccando la pietra?» perché no, non sembra essere in grado di capire il processo cognitivo che ha portato quei due Primini a prendere quella scelta. Torna ad inspirare, muove il capo e gli occhi verso il cortile «Non lo so ancora» sentenzia inspirando aria sta volta «Senti, ma a te farebbe piacere tornare a casa per le vacanze? O preferisci rimanere al castello?» occhiata in tralice e viso che resta immobile.
D: «Ma che ne so io!» perché hanno fatto tutto con la vernice commestibile. «Li ha portati Liusaidh i colori! Però non credo che leccare le pedine fosse nel piano iniziale…» le sopracciglia vanno ad aggrottarsi un poco, pensierose, sulla questione. «Però se vuoi farlo… Tanto il disegno è commestibile.» Scuote anche le spalle socchiudendo gli occhi, restando però posizionato accanto a Merrow; con un’aria fin troppo tranquilla… La questione vacanze di Natale è sempre un po’ scottante per lui. E affrontarla due volte in un giorno ancora peggio. «Mhm… Mi avevano proposto una cosa…» tipo di andare da Brandon. «Però poi a picco. Quindi rimarrò al Castello.» Sia perché lo preferisce, sia perché non ci sarebbe nessuno ad aspettarlo a casa. Ma questo non lo specifica.
M: Ascolta la cosa dei colori, almeno, questa è l`idea che si può fare Dominic, ma tanto lei continua ad alternare le labbra al filtrino in inspirate più o meno profonde, continuando ad alternare i colori della sigaretta da blu, ad indaco, ad argento, e poi di nuovo bluastro. Sembra esserci un pattern in quella ciclicità, come se fosse il giro d`un pensiero ossessivo: è un tormento, costante, non cosciente, ma che perpetrato a lungo prima o poi raggiunge il disastro sperato «Non è la risposta alla mia domanda. Bastava dire che sarebbe stato meglio qualunque posto, pur di non tornare lì.»
D: Lo sa anche lui che non è una vera e propria risposta, ma magari non voleva rispondere. Magari non voleva dare voce alla sua situazione particolare; la situazione a cui dà voce proprio la Loghain, nemmeno gli leggesse nella mente e nell’anima. «Anche se volessi tornare non sono il benvenuto.»
M: Le parole di Nico le arrivano, e lei ci mette ancora qualche istante prima di trovare la voglia di rispondere con un misero «Hm» gutturale, sbuffando via dell`argenteo fumo, dalle labbra «Volevo farti un regalo.» lo dice così «Ho vinto il premio di Casata del mese d`Ottobre. Cavalcare Abraxas sui Grampians.» dando per scontato che l`altro sappia delle creature magiche in questione «Ma per andarci non posso tornare al castello, ma dovrei tornare a casa a natale.» leggero disgusto sul viso, che dura veramente meno d`un battito di ciglia «Volevo dare a te il mio premio. Oppure portarti con me.» inspira dalla Merlino`s e tace qualche attimo, trattenendo il respiro e rilasciandolo rumorosamente assieme al profumo di mandorla amara «Ma entrambi non vogliamo tornarci, a casa, no?» e non è davvero una domanda, anche perché continua a non guardarlo, preferendo fissare il paesaggio innevato «Perché non sei il benvenuto?» chiede poi, a bruciapelo, in quella domanda che è davvero veloce come una frusta «Perché esisti?» e ridacchierebbe anche, amara, amarissima: fiele in un sorriso troppo giovane.
D: E sta per rispondere a alla domanda retorica dell’altra, quando viene bloccato dall’ennesima, cruda espressione cinica dell’altra; e il capo va di nuovo a perdersi nel bianco paesaggio innevato, vacuo e assente ormai. «Lo sai perché non sono il benvenuto.» Glielo ha detto pure davanti al camino, tempo prima. E infatti l’altra da voce alla motivazione subito dopo. «Sì.» proprio perché esiste. Non trova davvero altre motivazioni. Ci ha provato, ma non le trova. «Abbiamo finito?»
M: «No… Sì… No» ci ha ripensato, in un altalena d`umore che davvero sta cominciando ad infastidire anche lei «Io volevo portartici» ora sembra quasi irata, nonostante rimanga inquietantemente composta «ma facciamo così schifo che non possiamo nemmeno goderci le cose belle perché continuano ad essere contornate da una palude di me**a» sbuffa «Voglio diventare maggiorenne. Voglio andarmene. Mi sono rotta il ca**o di questa scuola, di queste persone, di questo ca**o di cognome.» oramai è un fiume in piena: magma lavico che fonde tutto ciò che trova «E tu.. e tu sei uguale» a lei, troppo simile «e la cosa mi urta terribilmente.» non spiega perché, ma solo adesso va a piantargli gli occhi addosso, con la mascella contratta e rigida «Non potevamo essere normali?» lo chiede ad un undicenne «Ma vaffa-» torna dritta, fa un mezzo giro su se stessa per voltarsi e comincia ad incamminarsi da dove è venuta.
D: E poi. Merrow. Sbrocca. E lui la ascolta ugualmente, impassibile, andando a piantare gli occhi verdi su di lei; le sue parole che in parte lo colpiscono e rimbalzano via, in parte lo attraversano. Sono uguali? Davvero? Lo sguardo si fa un poco più duro, mentre la guarda senza paura, e anche quel pizzico di ammirazione sembra essere stato cacciato via chissà dove. Perché offeso con lei ancora non riesce ad esserlo. «Mi dispiace di urtarti terribilmente.» Atono. Non è davvero dispiaciuto. Ma nemmeno urtato o offeso. Sembra quasi un automa a ripetere quelle scuse. E poi l’altra fa quella domanda. E lo manda a quel paese. E fa anche per andarsene. Ma lui non ci sta zia. Infatti allungherebbe il braccio verso la ragazza… una ragazza di 15 anni, 20 centimetri più alta di lui, che potrebbe atterrarlo con la forza di uno sguardo. Ma lui ci prova comunque, allunga la mano e prova ad afferrarla per fermare la sua “fuga”. «No.» Che non potevano essere normali. E la voce va ad abbassarsi, facendosi profonda e poco normale per un ragazzino di 11 anni. «A quanto pare non potevamo. Ma tu non fai schifo.» A riferirsi alla parole dell’inizio del discorso di Merrow.
M: Lo fissa con occhi sbarrati ed una frase molto simile al "non azzardarti a toccarmi" premuta tra le labbra e non espressa a voce: perché nonostante la sua furia, lo capisce che certe cose no, non può proprio dirle. Eppure è tutta un fascio di nervi, ed il suo "no" ulteriore non fa altro che farle scuotere il capo come un cavallo imbizzarrito «Fan***o» a lui? Alla situazione? A se stessa? «Cosa ne sai?! Cosa ne sai che non faccioschifo, come ca**o tipermetti di direchenonè così che nonsainiente! Dimedei miei, dicasadi qui del castello! Di quelliche se ne fo****odi quellichestraparlano. Che diconoche ci tengono e nonèvero, che diconochenoncitengono e non è vero nemmeno quello!» non alza la voce, anzi, è un sibilo pericoloso che le esce, in quella maledizione che prende corpo proprio nel momento peggiore, proprio mentre osserva il suo sguardo tradito «Perchètanto te ne andrai pure tu cometutti, che tantosei piccoloedio sono solo quella più grande e stranachenon si sa perchè aiuta i primini» schiocca la lingua al palato in un suono di disgusto «Ma checa**o ne sapete, ma chica**o telo fa fare di prenderti stasbatta. Ma cosa vuoi da me?! Cosa ti aspetti?Chenontifaccia male? Ti sbagliionefaccio sempre. A tutti, costantemente.» occhi di fuoco, con il respiro affannoso e la maledizione che finalmente cessa, lasciandola quasi con la testa che gira.
D: E non si fa problemi a toccarla. E si prende il “fanc**o” della ragazza come è abituato a prendersi tutti gli insulti e il male che la vita gli ha riservato, perché no, non è normale, come ha fatto notare la Loghain poco prima. E si becca quel Soliloquium in piena faccia, come uno schiaffo rovente, inaspettato e doloroso sì. Ma non può essere arrabbiato, non con lei, con nessuno. Perché tanto è colpa sua. Di tutto. Come al solito. E dalle sue parole si rende conto, più di prima, di cosa li accomuna veramente. E rimane lì. Fermo. Immobile. Con le braccia lungo il corpo e la testa alta, a guardarla esprimersi senza controllo, senza freni inibitori. Perché è quello che vuole; preferisce prendersi sulle spalle tutti i suoi problemi, così, piuttosto che vederla andare via senza spiegazioni. E quasi la ammira in quel fuoco che sembra avvolgerla nel suo sproloquio. Fino alla fine. Perdendo ogni traccia di astio o offesa che era prima presente nella sua espressione. «E l’hai capito tutto da sola?» cosa? Che vuole? «Che me ne andrò? Come tutti gli altri? Perché io non sono normale»…«Quando avrai capito. Che non voglio niente di più da te» niente di più di quello che lei non è già. «Sai dove sono.»
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La grande fuga
Parole: 1773
No beta, we die like men
Fandom: Sanremo RPF
Avvertimenti: sdolcinatezza, hurt/comfort, poca empatia nei confronti di Morgan
Ship: Amadello/Amarello
Note autore: Ormai sono caduta nella tana del Bianconiglio e non si torna indietro... Ho scritto questa cosa con la bellezza di cinque ore di sonno alle spalle, vi prego di considerarlo nel giudicare gli orrori che avrò scritto.
Ringraziamento a @just-one-more-fandom e @dreamers-queen per l’idea (se non dovesse essere di vostro gradimento avete diritto a richiederne la riscrittura)
Sono momenti di sconcerto, di panico e di terrore sul palco dell’Ariston. Amadeus cammina quasi come un automa mentre il suo cervello fatica a stare al passo con quello che sta succedendo. È il disastro. In confronto a questo, l’orchestra che lancia gli spartiti al festival condotto dalla Clerici sembra una barzelletta. Amadeus non ha dovuto affrontare qualche polemica per la classifica, tanto quelle ci sono sempre, Amadeus ha dovuto affrontare la scomparsa di un artista. Questa non è roba da poco: questa è roba che finisce sui social, sui giornali, che diventa meme, che diventa aneddoto, questa è roba che la gente non si scorda mai. La sua conduzione del festival sarà da adesso per sempre legata alla Grande Fuga di Bugo dal palco. Amadeus potrebbe piangere se non fosse troppo confuso anche solo per parlare.
Fiorello corre sul palco e per un breve istante la mente di Amadeus si schiarisce quando pensa “Oh, Ciuri, sei qui meno male”, ma è solo un momento e subito ritorna la consapevolezza del suo grande fallimento. Non solo Bugo è fuggito: c’è stato almeno mezzo minuto di insulti in forma di canzone da parte di Morgan che è strato trasmesso in diretta mondiale. Non potrebbe essere peggio di così. Amadeus si sente la testa dolorante e le membra pesanti mentre Fiorello parla con Morgan e con i tecnici per capire cosa sta succedendo, per poi tornare accanto a lui. La sua presenza è rassicurante, ma il suo cervello è così in cortocircuito che è difficile anche godere dell’effetto calmante di Fiore.
«Se eventualmente dovessero essere in grado di cantare, lo dico anche al maestro, li faccio tornare ed eseguono la canzone…» Amadeus finisce di calmare il pubblico e poi si rivolge a Fiorello «C’è Bugo?» Fiore alza le braccia in segno di resa e commenta «Non c’ho capito niente. Però va bene, a questo festival ne succedono di ogni…» Fiorello ride ed Amadeus non può fare a meno di lasciarsi contagiare per un attimo dalla sua risata. Riesce a respirare e sente i suoi nervi che si distendono. Fiorello intanto continua a scherzare «Comunque posso dire che questo festival, con tutto quello che è successo già dalla prima puntata, che dico dalla prima puntata! Da ottobre! Perché tu stai facendo danni da ottobre!» Amadeus scatta in allarme per un momento, sa benissimo che Fiore scherza, però non può fare a meno di sentire i sensi di colpa che lo pungono. «Quindi adesso è colpa mia?» risponde ridendo per mascherare lo stato d’ansia «Certo! Sei tu che li hai scelti, no?» continua Fiorello, ma nel dirlo tocca le braccia del conduttore in un gesto che Amadeus sa essere di conforto. Ovviamente deve continuare a scherzare perché c’è un pubblico da intrattenere, ma si è assicurato di farse sapere indirettamente al suo Ama che non intende una sola parola di quello che dice. Amadeus respira ancora. «Con tutto quello che è successo, questo festival se lo ricorderanno! Anzi io propongo di chiudere qui, che dici? Annunciamo il vincitore e domani non veniamo, tanto non è che hai vertici della Rai servano davvero i soldi della pubblicità!» conclude Fiorello entusiasta ed Amadeus riesce a ridere sinceramente e a sentirsi più leggero.
Appena riescono a trovare un momento per appartarsi nel backstage, Fiorello abbraccia Amadeus e gli accarezza la schiena «Oh. Respira, respira. Va tutto bene. Sei teso come una corda di violino, Ama.» sussurra Fiore. «Scusa è che… Sta andando tutto malissimo… E adesso ho pure perso uno degli artisti… Insomma i tecnici hanno cercato Bugo ovunque e non si trova… Sono tutti incazzati… Morgan è ingestibile…» Amadeus sente di star sprofondando di nuovo nell’umore più nero e Fiorello lo stringe ancora «No, no, no… Non fare così… Se ti concentri sulla negatività non ne esci più. Sei un ottimo conduttore, sei professionale e risolverai questo casino, intanto devi concentrarti sul finire la serata.» Amadeus mugola e appoggia la testa contro la spalla di Fiore «Hai ragione, Ciuri… Grazie…» risponde «E se proprio hai bisogno tirarti su di morale, Antonella è ancora in giro, fatti raccontare da lei come è andato il suo Sanremo e il tuo ti sembrerà subito un grande successo.» aggiunge Fiorello con una leggera risata e dopo aver controllato che non ci sia nessuno intorno da un veloce bacio a stampo al suo Ama.
La serata continua e non ci sono altri incidenti, se si esclude la conferma della squalifica di Morgan e Bugo… E Morgan che prima fa lo stronzo con tutti nel backstage e poi sparisce anche lui, senza dire dov’è diretto e perché… Niente di grave insomma. Eppure Amadeus è ancora completamente nel pallone e Fiorello continua a lanciargli occhiate preoccupate fino alla fine ufficiale della serata.
«Ciuri… Nessuno ha trovato Bugo nel backstage e da nessuna parte del teatro… Non riusciamo a contattarlo e adesso nessuno sa neanche dov’è Morgan… È un disastro… Anche escludendo il festival… Potrebbe essere successo di tutto a Bugo e mi sento responsabile, insomma io dovrei tenere le cose sotto controllo e invece…» dice il conduttore mentre esce dal teatro con Fiorello «Io lo devo andare a cercare, capisci? È una mia responsabilità…» continua e Fiorello per qualche momento non riesce a dire niente. Prende un respiro profondo e mette una mano sulla spalla di Amadeus «Ti aiuto.» dice, il conduttore sta per protestare, ma Fiorello lo zittisce appoggiando un dito contro le sue labbra «No, niente “ma”. Sono le tre di notte, assolutamente non ti faccio girare da solo per Sanremo.» aggiunge e Amadeus si arrende, rilassando le spalle.
Le tappe obbligate in albergo e nelle varie sale stampa del festival, il ritorno all’Ariston per un’approfondita ricerca di ogni sua parte e il giro di tutto il vicinato del teatro non danno alcun risultato. Amadeus continua a cercare di chiamare Bugo senza ottenere risposta. Fiorello lo aiuta a restare sveglio, ma non riesce a calmare i suoi nervi. Amadeus passa tutto il tempo ad immaginare titoli di giornali catastrofici sul concorrente fuggito da Sanremo ritrovato in qualche fosso. Bugo potrebbe essere finito chissà dove per colpa sua.
La stanchezza si fa sentire più si avvicina l’alba ed iniziano a perdere le speranze. Sono entrambi arrivati quasi alla disperazione, quando Amadeus riceve un messaggio da Bugo che gli chiede di tornare all’Ariston. «Grazie al cielo! Ciuri! Bugo mi ha detto dove si trova!» Amadeus si sente come se gli avessero tolto un macigno dalle spalle. Bugo è vivo, non è più disperso e sta bene. Oddio loro non sanno ancora se sta bene, ma Amadeus non si può permettere di andare nel panico di nuovo o rischia di restarci secco.
Grazie all’assistenza della sicurezza Amadeus e Fiorello rientrano all’Ariston e vanno verso l’attrezzeria dove Bugo gli ha detto di trovarsi. Il cantante è seduto sul pavimento in paziente attesa quando la coppia piomba dentro alla stanza con fare affannato. Amadeus vorrebbe fare una scenata, ma tra la stanchezza e Bugo che lo guarda con gli occhi da cagnolino bastonato non trova le forze. «Stai bene?» si limita a dire e Bugo annuisce senza proferire parola «Ci hai fatto prendere un colpo... A tutti quanti hai fatto prendere un colpo!» interviene Fiorello e Bugo abbassa la testa «Scusate… Io so che non avrei dovuto… Mi dispiace davvero… Non era mia intenzione rovinare la serata ed il festival… Io ci tenevo davvero… È per quello che me ne sono andato… Morgan era lì che mi insultava e a lui non gliene frega niente perché lui non ci voleva davvero venire a Sanremo, non quanto lo volevo io… E…» la voce del cantante si spezza e gli occhi gli si riempiono di lacrime mentre ricorda gli eventi della serata. Amadeus riesce a capire come si deve sentire: anche per lui presentare Sanremo è un sogno, ci tiene davvero e teme, come Bugo di aver rovinato tutto. «Non fa niente… Non hai rovinato proprio niente, eravamo solo preoccupati per te: sei sparito così all’improvviso e non riuscivamo a trovarti…» lo tranquillizza il conduttore e Fiorello si aggrega «Altro che rovinare tutto! Hai fatto una cosa meravigliosa: hai mandato a quel paese Morgan in diretta mondiale! Sai quanti vorrebbero avere questo privilegio?» lo showman riesce a strappare una risata sia a Bugo che ad Amadeus e tutti i tre ritornano in albergo.
Appena Amadeus e Fiorello entrano in camera, il conduttore crolla sul divano esausto, coprendosi gli occhi con un braccio e non si toglie nemmeno le scarpe. Gliele slaccia Fiorello dopo essersi inginocchiato di fronte a lui. Amadeus sbircia da sotto il suo braccio e sorride debolmente «Grazie...» sussurra e subito dopo senza che neanche lui capisca bene perché, inizia a piangere. Fiorello subito si siede accanto a lui e gli accarezza le spalle «Ama? Ama, cosa c’è?» chiede preoccupato mentre il conduttore si volta tutto tremante e affonda la faccia nell’incavo del suo collo «Sc- Scusa… Io… Sono così stanco…» riesce a dire a fatica con la voce impastata dalle lacrime e Fiorello lo stringe più forte che può. Capisce cosa vuole dire. Ha sopportato troppe emozioni per una serata sola. «Lo so, lo so. Va tutto bene adesso…»
Fiorello spinge leggermente Amadeus così che si ritrovino sdraiati sul divano e continua a sussurrare parole di conforto, poi comincia a cantare piano, mentre il respiro del conduttore si calma e le lacrime smettono di scendere. “Ma se dovessimo spiegare in pochissime parole/il complesso meccanismo che governa l’armonia del nostro amore/basterebbe solo dire senza starci troppo a ragionare/che sei tu che mi fai stare bene quando io sto male”. Amadeus si accoccola contro Fiore e solleva la testa per dargli un piccolo bacio. Ha scelto una canzone perfetta. Così perfetta che sembra quasi scritta per loro.
La mattina dopo vengono svegliati da una chiamata del reparto tecnico di Sanremo che ha bisogno di Amadeus per le prove. Il conduttore afferra il telefono e grugnisce in fretta due risposte al povero tecnico dall’altra parte della linea prima di chiudere la telefonata. Butta il telefono sul tappeto e si rivolta sul divano per stringersi a Fiorello. «Ama…» sussurra lui aprendo un occhio «Forse è il caso di alzarci.» conclude «Uhm.» mugugna Amadeus.
I due si alzano lentamente, doloranti e ancora stanchi morti. Miracolosamente riescono a sgrovigliarsi senza cadere entrambi. «Stai meglio?» chiede subito Fiorello appena si è svegliato abbastanza e abbraccia Amadeus appoggiandosi a lui. «Sì… Grazie a te… Grazie davvero… Per avermi seguito, per avermi tenuto calmo… Per la splendida serenata personale… Un po’ meno per avermi fatto addormentare sul divano, sai non ho più l’età per dormire così…» dice Amadeus con la voce ancora roca per il sonno «Qualsiasi cosa per te, Ama.» risponde Fiorello prima di dargli il bacio del buon mattino.
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Ossitocina
Confondere l’ossitocina con la citrosodina è un attimo, persino il compilatore automatico ha le sue difficoltà a riconoscere i termini. Voi sapete di che si parla, sì? La citrosodina non è altro che idrogenocarbonato di sodio, il caro vecchio bicarbonato che le mamme accorte usano per pulire la frutta e la verdura; l’ossitocina, invece, è quell’ormone che, tra le altre cose, aumenta durante quello che delle mamme vieppiú accorte tendono a definire un amplesso coi fiocchi.
Mi capita sempre, alzarmi dopo un lungo sonno ristoratore e avere in mente questo tipo di idiozie. Ristoratore si fa per dire visto che lavoro quaranta ore la settimana, al mattino mi sveglio all’alba per preparare i miei due figli per la scuola materna, convincendoli con trucchetti e mezzucci a fare colazione, indossare abiti decorosi e non costumi di Halloween, ingannarli circa il malfunzionamento del televisore ed uscire comunque in ritardo accumulandone di ulteriore una volta arrivati e trovando all’ingresso la più cattiva delle spose di dio che mi scocca occhiate furenti, biasimandomi come madre per non essere in grado, nemmeno una volta, di consegnarle i miei figli in orario.
Il più piccolo dei miei figli ha 4 anni, credo che sia più o meno quella del suo concepimento l’ultima volta che ho fatto l’amore con qualcuno. Sembra una cosa da sfigati, e probabilmente lo è, ma trovo sia poetico che quel momento così lontano nella memoria sia stato celebrato dalla nascita di un bambino. Oddio, non per la nascita del bambino in sé, quanto, piuttosto, per il fatto che sia stato procreato con amore. Ok, divago è probabile e non sono nemmeno riuscita a spiegarmi tanto bene.
Ogni volta che mi fermo al semaforo vicino al cinema, relativamente vicino al posto dove lavoro, mi si avvicina il solito zingaro che chiede a tutti se vogliono una lavatina al vetro in cambio di qualche spicciolo. A me non lo chiede più, infatti una volta che mi riconosce passa oltre. Viviamo in una sorta di limbo di imbarazzo perché una volta che ero ferma lì, nonostante mi sbracciassi per manifestargli il diniego di pulire il mio parabrezza, lui lo fece comunque facendomi arrabbiare parecchio, poi però se ne andò senza chiedermi nemmeno una monetina, solo guardandomi come fossi pazza. Io, da allora, vorrei evitarlo perché sento, come con la suora, il suo sguardo di biasimo che mi penetra fin dentro le ossa, ma per arrivare all’ufficio non c’è nessun’altra cazzo di strada.
Spesso quando arrivo a lavoro mi sento felice, non che ci sia niente che possa rendermi tale lá dentro, ma l’idea di essere per qualche ora libera dell’impegno di dover crescere da sola i miei due marmocchi, mi alleggerisce la giornata. Purtroppo non la pensano alla stessa maniera le mie colleghe che anziché parlarmi di dio solo sa cosa, hanno come argomento principe, ogni singolo giorno che dio le mette in terra, i figli. Non che sia una cosa totalmente negativa, ogni tanto salta fuori qualche dritta utile, tipo un rimedio efficace contro la diarrea che esclude i farmaci o altre delizie del genere, però, insomma, qualche volta parlare di un libro che si è letto o del culo del tipo che ci consegna il caffè non sarebbe male.
Il padre dei bambini mi ha lasciata quando il più grande aveva un anno ed in minore era, in sintesi, appena nato o giù di lì, non che questi siano i pensieri nei quali mi crogiolo quando sono a lavoro, tutt’altro, non ci pensò quasi mai, lo raccontavo a voi solo per completezza di informazioni, tipo quando vi chiederete “com’è che non c’è un cazzo di uomo nella sua vita?” avrete già la risposta bella che pronta. Non ho ben chiaro il motivo della fine della nostra relazione, penso che fosse perché ormai si sentiva pronto per un rapporto più serio e maturo con una che ha vent’anni meno di lui, e così una sera, dopo che me li sono ritrovata avvinghiati come serpi in calore in uno dei lettini dei bambini, ha preso il coraggio a due mani e mi ha confessato di voler esplorare nuovi orizzonti, aprire un chiringuito su di una spiaggia e fare tutte quelle cose che uno di cinquant’anni è propenso a fare.
Da allora i nostri amici, per lo più miei, la mia famiglia, persino la sua, sono molto gentili e disponibili con me, probabilmente temono che possa avere un crollo per come sono andate le cose, ma obiettivamente, chi potrebbe avere un crollo per essersi levata di torno un coglione di siffatta mole?
E no, non è il risentimento che parla, io in certe cose sono piuttosto obiettiva, sono in grado di capire la differenza tra bar e chiringuito, così come tra una persona a modo è uno stronzo, è di certo una capacità che si affina con gli anni, ma l’importante è arrivarci.
Nella fretta dell’attività mattutina ho scordato, come spesso accade, il pranzo sul tavolo della cucina, il gatto ci avrà probabilmente già rovistato e, altrettanto probabilmente, avrà gettato per terra tutto perché lo urta aprire i sacchetti e trovarci dentro becchime, biologico e altre stronzate salutiste che mi sono convinta ad ingerire da un bel po’ di tempo a questa parte.
Avete notato? Sì, ora vi dico cosa avreste dovuto notare. Negli ultimi anni nel nostro paese il numero di nuovi individui vegetariani è cresciuto in maniera esponenziale ma tant’è, appena ti ritrovi con amici e parenti e li metti a parte della tua nuova scelta in termini di alimentazione saltano tutti sulla sedia e si mettono a farti le domande più disparate. Una volta mia madre mi ha chiesto se non mi sentissi in colpa nei confronti delle lumache, che quelle sí mangiano solo lattuga e io gli sto sensibilmente riducendo la materia prima del loro sostentamento a disposizione. Non sono sicura scherzasse, ma è probabile, lei è un po’ una che scherza. Quando ha saputo della storiaccia con il mio ex, mi ha chiesto se poi, andando via, s’è portato dietro anche qualche giochino per la nuova fiamma o se quantomeno i lego sono rimasti a me. Bella solidarietà da parte di una madre, prendermi per il culo così, poi si preoccupano del crollo. Ah!
Sono scesa a prendere un tramezzino al bar qui sotto, il solito che frequento da che lavoro qui, vale a dire almeno dieci anni, è da altrettanto tempo il barista, che si crede un figo e, probabilmente, in un altro pianeta lo è, mi propina complimenti stucchevoli e battute da macho con un’alternanza encomiabile e al contempo distopica. Oltretutto, voglio dire, ci vuoi provare seriamente, anche solo nell’eventualità di un frettoloso amplesso consumato nel retrobottega? Offrimi quanto meno un caffè di quando in quando, invece niente, sia mai si vedesse fallito. Cosa che, tra l’altro e per ben altri motivi, già è.
Nel pomeriggio mi ritrovo nell’area comune per un caffè con le colleghe più giovani, un po’ per sfuggire ai discorsi da nursery delle mie coetanee, un po’ per tenermi aggiornata su quello che propone la società contemporanea. Vi sto mentendo, in realtà frequento i caffè delle colleghe più giovani solo per una sorta di immaginifico vouyerismo circa le loro relazioni mordi e fuggi. Questa, se l’avete notato, e se non l’avete notato ve lo dico io, è una cosa che di solito tendono a fare le persone sposate da tempo. Amano frequentare persone più giovani e preferibilmente single per vivere, attraverso i loro racconti, quelle scappatelle che bramano ma che non si sognano di realizzare perché, poveri loro, capiscono che la famiglia che hanno costituito è più importante di una botta e via. Ogni tanto, mentre sono lì che ascolto e, nel frattempo, penso a come mi sarei comportata io nella medesima situazione, qualcuna delle young tenta di propinarmi qualche suo amico veramente brillante per un aperitivo casual e da cosa nasce cosa. Io faccio gentilmente notare che da cosa sono già nate altre due cose, ovvero i miei figli, e che non mi sento tanto propensa a frequentare baldi giovani che, questi sì, hanno il legittimo diritto di sognare di aprire un chiringuito dio solo sa dove.
È raro, nel mio lavoro, che non insorga qualche problema dell’ultimo minuto che implichi dover vedere agitarsi sotto il mio naso l’indice della suora che mi rimbrotta per essere arrivata nuovamente in ritardo a recuperare i bambini e che minacci, dovesse accadere ancora, di chiuderli fuori dal cancello come sacchi della spazzatura in attesa che un netturbino, ops, operatore ecologico pedofilo se li porti via entrambi. Alla fine è una brava donna anche se non sembra, è che sta cosa della puntualità la fa svalvolare. La capisco, anche io prima di avere una famiglia, o almeno tre quarti di essa, ero una ragazza puntuale, anzi, peggio, ero una di quelle che arrivano sempre cinque o dieci minuti prima perché “non si sa mai”, salvo sapere sempre che poi avrei dovuto attendere quaranta minuti per gli imprevisti altrui. Essere puntuali equivale alla dannazione eterna, vorrei lo capisse anche la suora, sarebbe senz’altro dalla mia con ste argomentazioni, ma chissà perché non abbiamo mai il tempo di parlarne.
Prima di tornare a casa, se i marmocchi non hanno da svolgere qualcuna delle loro duecento attività che li tengono impegnati tanto quanto il presidente degli Stati Uniti durante una crisi internazionale con tanto di ostaggi, ci fermiamo a fare un po’ di spesa. La maggior parte delle volte lascio i bambini in auto, con un baffo di finestrino aperto così che quelli della Peta non avanzino denunce, lo so che non è un comportamento da brava mamma, ma se me li portassi dietro avanzerebbero pretese sul cibo che manco Mick Jagger prima di un concerto a central park, solo che, al contrario di Jagger, anziché cocaina, mi chiederebbero tonnellate di cioccolata e merendine che una come me fa persino fatica a pronunciare tanto sono chimiche e sofisticate. Oltretutto, diciamocelo, una donna da sola in dieci minuti è in grado di acquistare, senza margine di errore alcuno, la spesa per una settimana intera mettendo in preventivo anche qualche eventuale ospite o colpo di scena tipo serata estrema con teletubbies e pop corn. Una donna che fa la spesa con due maschi, beh, le cose cambiano parecchio, vi basti sapere di quella volta che chiesi al mio ex di fermarsi al market di rientro da lavoro e di comprarmi degli assorbenti con le ali, inviandogli tanto di foto esplicativa sul cellulare. Lo vidi rientrare a casa con una confezione di quella specie di guaine che negli anni novanta, quando c’erano ancora le giacche con le spalline, giusto per fornirvi una collocazione temporale, mettevi sotto le ascelle per evitare che le camicie bianche si pezzassero con il sudore. Ragazzi io, dopo anni, sono ancora qui che mi interrogo quale buco spazio temporale abbia imboccato per riuscire a trovare in vendita quei cosi!
Quando rientro a casa dopo la spesa e con i bambini al seguito sembra sempre di vedere una di quelle scene in cui ai terremotati viene concesso di rientrare nelle loro case messe in sicurezza.
Una delle cose più divertenti da fare in casa quando hai due figli piccoli e sei l’unica adulta che può badarvi è lavarsi. Noi abbiamo ovviato al problema di chiamare un parente o una baby sitter per tenerli d’occhio mentre io, dopo anni, mi faccio una lunga, calda e rilassante doccia in solitaria, facendo un bel bagnetto insieme tutti e tre.
Altra cosa che fa di me una mamma approssimativa, forse, ma loro si divertono, mi chiedono conto ogni volta di tutti i miei ciuffetti caduti in disuso, e sono puliti, mentre io ho quello che da anni si avvicina di più ad un momento di intimità con un uomo, ovvero giocare con la loro papera galleggiante. Non siate maliziosi, non c’è alcuna volontarietà nel sedervicisi sopra, vorrei vedere voi in tre in una vasca da bagno.
Ve la ricordate la serata estrema tutta teletubbies e pop corn? È una di quelle. Ci sta, l’inizio della settimana è in salita per tutti, specie se sei un quattrenne con zero aspettative di sbocchi professionali nel tuo paese e la prospettiva di finire all’estero a campare di fagioli in scatola e lenticchie, almeno i primi mesi. Peggio per il cinquenne la cui medesima prospettiva è più prossima di almeno un annetto.
Durante uno degli avvincenti episodi di sti stura lavandini iper colorati mi messaggia mia madre, una delle poche donne della sua età coscientemente iper connesse, per chiedermi come è andata la mia giornata, se ho trovato l’uomo della mia vita e se lo zingaro del semaforo continua ad odiarmi e evitarmi. Ve l’ho detto che ha una notevole vena ironica. Le racconto a grandi linee di come sono sopravvissuta a questa jungla metropolitana senza beccarmi nemmeno una denuncia per abbandono di minore e le auguro la buonanotte. Non so cosa facciano fare a sti ragazzini alla materna, probabilmente cucire palloni per paesi più evoluti del nostro a cinquanta centesimi l’ora, il che giustificherebbe ampiamente la stanchezza che manifestano, deo gratias, la sera.
Loro sono a letto che aspettano la favola della buonanotte, solitamente un breve estratto da un libro di Raymond Queneau perché non voglio che abbiano una vita facile e, se proprio ci tengono, l’ignoranza è una cosa che si conquisteranno da soli o con l’aiuto del padre se proprio un giorno decidesse di tornare a farsi vivo, io vorrei raccontarvi ancora qualcosa e voi, certamente, bramate di sapere qualcos’altro della mia giornata, insomma, uno stallo alla messicana in piena regola. Ovviamente non occorre che vi dica chi vincerà.
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IL MIO MONDO DI LA’
Con attenzione cercai di aprire la porta senza far rumore, ma le chiavi del portone e del negozio si urtarono tra di loro provocando un leggero rumore metallico per cui sentii subito la voce della Regina delle Lavatrici venire dal bagno in fondo al corridoio “Stai uscendo? – e senza aspettare una risposta aggiunse – aspetta che vedo come sei messo!” Ed arrivò ciabattando di corsa. “Sono tutto in ordine" Dissi seccato dal dover subire ogni volta che uscivo un’ispezione “Si – disse lei scettica – come quella volta che stavi andando in chiesa con giacca e cravatta e con solo i boxer!” “Faceva caldo e non mi ero accorto che ero senza pantaloni!” “Si? e quella volta che sei uscito con un mocassino nero e uno marrone? - Continuò impietosa la Regina delle Lavatrici - o quando sei uscito con l'impermeabile all'incontrario…?” “Ho capito - risposi ancor più seccato – ma ora sono a posto!” E la guardai con aria di sfida “Ma se hai la patta dei pantaloni aperta? Vuoi far vedere a tutti che hai i boxer verdi?” Guardai tra le gambe ed effettivamente dalla cerniera dei pantaloni si vedeva uscire un pezzettino di stoffa verde. Tirai su la cerniera seccato di essere stato preso in fallo un'altra volta! Poi però il Mondo di Là ebbe il sopravvento e sorridendo le dissi “Ti ho mai raccontato la storia di quel signore che doveva andare a fare una presentazione degli aspirapolvere Folletto e aveva finto tutte le mutande pulite; si mise allora quella che gli avevano regalato per fine anno i suoi amici: una mutanda rossa comprata dai cinesi che aveva sul davanti una testa di elefante con una grossa proboscide! A vederlo di fronte si notava un notevole rigonfiamento. Lui fa la presentazione di fronte a una decina di signore e tutte che guardano il rigonfiamento in mezzo alle gambe, cosi, appena dice che sarebbe andato a casa di chi avesse comprato il folletto per fare la prima prova, tutte le signore ne ordinano uno! Infine, riesce a vendere tutti gli aspirapolvere e quando il suo capo gli chiede come ha fatto, lui risponde che è merito della proboscide” Finita la storia la guardai sorridendo, ma lei mi guardò seria seria e disse solo. “non fare tardi che dobbiamo andare da Rosa che questa mattina si opera per la fistola” Mi ricordai che Sogno d’Estate era in ospedale e che dovevo andare a trovarla perché lei era cresciuta sentendo tutte le mie storie e quando qualcuno racconta una storia e qualchedun’ altro lo ascolta, si crea un legame che resta per sempre, indipendentemente da chi racconta e chi ascolta per cui io e Sogno d’Estate eravamo legatissimi. Salutai La Regina delle Lavatrici ed usci. Mi dispiaceva che lei non avesse riso alla mia storia, perché quando lei ride anche il Mondo di Qua mi sembra bello. Usci percorrendo il bordo del fiume di ferro e arrivai al ponte con il Ciclope con l’Occhio Rosso, dove c’era Anima Bianca che vendeva i fazzoletti di carta a chi navigava nel fiume di ferro. Lui è uno di quelli che ha attraversato il Mare dei Disperati su una di quelle Barche della Morte e ora raccoglieva i soldi per andare nel Paese del Bengodi dopo le grandi montagne. Siccome ha la pelle nera, nessuno gli da lavoro e lui li cerca dove ci sono i Ciclopi con gli Occhi Rossi che fermano per un momento il fiume di metallo. Non so bene perché ma il Mondo di Qua tiene in grande considerazione i colori e quindi chi ha la pelle nera o bruna è considerato di meno di chi ha la pelle bianca, come chi ha i capelli gialli e gli occhi azzurri dicono sia più bello di chi li ha neri. Ad esempio anche quelle cose che chiamano soldi hanno colori diversi a seconda di quello che dicono sia il loro valore. Io non capisco molto queste cose, ma un foglio verde chiaro ha un valore diverso da un foglio blu e al negozio dove faccio il barbiere se mi danno un foglio arancione devo restituire un foglio blu e uno rosso ma non posso fare all'incontrario. Nello stesso tempo non si deve mai mangiare una banana quando è verde ma solo quando è gialla e che quindi se è verde, la Regina delle Lavatrici non la compra. Ma allora il verde non ha sempre lo stesso valore? Il Mondo di Qua è molto complicato e tutti tengono in grande considerazione cose che nel Mondo di Là non hanno importanza, come andare in chiesa con i boxer. Anche quello sulla croce in chiesa ha solo le mutande e non penso che faccia caso se sto davanti a lui in mutande, no? Il Mondo di Qua è strano, io non so orientarmi con tutte queste regole che non capisco da dove vengono. Ad esempio quando tagliavo i capelli ad un signore vestito di verde (il che voleva dire che era una persona importante, visto che non era una banana che se sono verdi non contano) lui mi disse che c’era questa usanza di certe donne di uccidere i bambini che avevano in pancia e che era una cosa gravissima. Io convenni con lui e gli dissi che era come quando nel Mare dei Disperati non facevano attraccare le Barche della Morte dove c’erano i bambini neri. Lui si arrabbio molto perché disse che quelli non erano come i bimbi nella pancia perché non avevano la carta di identità italiana. Io non sapevo che chi non aveva la carta di identità potesse essere ucciso. Pensai che forse era per questo che tutti la rinnovavano appena scade, perché se no li avrebbero messi in una Barca della Morte e lasciati nel Mare dei Disperati a morire. Cosa peggiore, non mi ricordavo neanche dove era la mia carta di identità e cambiai discorso perché se no mi avrebbero portato nel Mare dei Disperati a morire con i bimbi neri che erano senza carta di identità. Forse, pensai, anche i pantaloni sono come la carta d’identità e se ti presenti in mutande davanti a quel signore in mutande sulla croce, ti mandano nel Mare dei Disperati. O forse quel signore in mutande era stato crocifisso proprio perché non aveva i pantaloni e poiché nel Mondo di Qua chi non ha nulla ha sempre torto, gli era toccato finire in croce visto che allora non c’erano le Barche della Morte dove lasciarlo in mezzo al mare con gli altri come lui. Forse lo hanno crocifisso per dirci che non dobbiamo andare in giro in mutande e che se non facciamo come fanno gli altri che vanno in giro con i pantaloni ci mettono anche a noi in croce perchè non abbiamo le loro idee. Non lo so, ammetto di essere confuso, il Mondo di Qua mi fa nascere sempre un sacco di domande a cui non so dare risposta, per questo preferisco stare nel Mondo di Là dove è tutto è più semplice e vi sono solo le mie storie. E siccome Anima Bianca ascoltava sempre le mie storie, mi fermai a salutarlo. “Ciao – gli dissi come sempre – oggi come va” “Male - rispose lui scuotendo la testa – oggi nessuno vuole fazzoletti” “Devi avere pazienza, prima o poi qualcuno abbocca – gli dissi ripetendo quello che dicevo ai pescatori che stavano sulla banchina del porto e gli allungai un dischetto di metallo a due colori che se lo dai nei bar ti regalano un caffè – la vuoi sentire una storia?” “Certo – rispose sorridendo – le tue storie sono sempre divertenti” “Allora, c’è uno del tuo colore che faceva il tuo lavoro ed un giorno davanti a lui si ferma una grande macchina sportiva e scende un ragazzo uguale a lui “Ciao - gli dice - non ti ricordi di me? Sono tuo cugino venuto in Italia a giocare il calcio: sono diventato famoso, ho anche la carta d’identità! sali sulla mia macchina e facciamo un giro” Lui sale e suo cugino lo porta in giro per la città, gli regala vestiti firmati costosissimi, lo porta a mangiare nei migliori ristoranti, poi, finita la partita se ne va nella città del nord dove sta. Quello del tuo colore rimane solo vestito elegantemente e non sapendo cosa fare torna a fare il lavoro di prima, ma questa volta tutti si fermano perché lo ricordano di averlo visto con suo cugino, il grande calciatore, e lasciano sempre i soldi e lui diventa presto ricco e felice” Anima Bianca sorrise divertito “Mi hai dato un’idea “ disse contento e mentre io attraversavo il fiume di metallo lo sentì gridare “sono il cugino di Kean, sono il cugino di Kean” e tutti a fermarsi per farsi un selfie con lui perché a quanto ho capito, se sei famoso il tuo colore scompare o è come se avessi la carta di identità. Non ho capito perché ma mi sembra un'altra di quelle strane regole che non capisco nel Mondo di Quà. Arrivai finalmente dalla Signora del Fuoco per comprare gli accenditori di legno, quelli che servono ad accendere il Fiato del Drago quando si fa da mangiare. Lei mi chiese subito una storia, perché le piacciono quelle d’amore. “C’era una giovane pianista che doveva fare un grande concerto, ma il giorno prima della serata ebbe un incidente di macchina e le dovettero tagliare il braccio sinistro. Allora era disperata e voleva morire, ma il suo produttore le disse di non piangere e la fece suonare ogni giorno per quasi un anno con il solo braccio destro e quindi le annunciò che aveva fissato la data per un altro grande concerto. La ragazza non capiva come potesse suonare in un concerto con solo una mano, ma la serata del concerto il suo produttore le presentò un bellissimo ragazzo con solo la mano sinistra dicendole che avrebbe suonato con lei. I due si guardarono e si sedettero al pianoforte un po’ sconcertati, ma quando iniziarono a suonare scoprirono che ognuno di loro due suonava molto bene la sua parte tanto che sembrava che non fossero nemmeno due mani separate. Allora lui la guardò e le sorrise e lei fu felice perché finalmente poteva suonare e lo trovò bellissimo perché suonava benissimo e quando finirono, prima ancora che il pubblico applaudisse si guardarono negli occhi e lui si chinò e la baciò e lei capì che l’amava perché l’amore in fondo è trovare in un altro la parte che ci manca per vivere i nostri sogni. Allora il pubblico applaudì e i due pianisti diventarono tanto famosi che girarono tutto il mondo per suonare concerti.” La Signora del Fuoco si commosse e si mise a piangere dimenticandosi di darmi il resto, poi suo marito mi rincorse e mi diede i dischetti di metallo e gli accenditori di legno che mi ero dimenticato da loro. Tornai quindi a casa raccontando altre storie a chi incontravo ed arrivando giusto in tempo per andare con La Regina delle Lavatrici nella Casa del Dolore per trovare Sogno d’Estate. Quest’ultima fu molto contenta di vedermi e mi fece molte feste chiedendomi di raccontarle una storia. La Regina delle Lavatrici e la Sorella più Piccola, che era la madre di Sogno d’Estate, andarono a parlare con il dottore ed io restai con lei. Mentre parlavamo le infermiere portarono in barella un bambino tutto intubato che piangeva. Sogno d’Estate mi disse che era un bambino che con i suoi genitori aveva avuto un incidente in macchina fuori Messina. I genitori erano sotto i ferri e lui lo avevano spostato da lei perché non c’era un altro posto nella Casa del Dolore. Il bambino dopo un po’ smise di singhiozzare ma dai suoi occhi che fissavano il soffitto uscivano sempre delle lacrime. “Parlagli – mi suggerì Sogno d’Estate – tu sei bravo a dire le cose, magari se gli parli lui si distrae e non pensa ai suoi problemi” Mi avvicinai a lui che mi guardò stupito “Ciao – gli dissi sorridendo – io sono il Contastorie, a tutti quelli che incontro racconto una storia, ne vuoi sentire una?” Lui però scosse la testa a dire di no. “Hai ragione - gli dissi – quando si hanno tanti pensieri o si soffre, le storie sembrano inutili. Ma se non vi fossero le storie, saremmo tutti prigionieri nel Mondo di Qua. Tu lo sai cos'è il Mondo di Qua?” Lui era stupito per questa domanda e con la testa fece segno di no. “Il Mondo di Qua è il mondo della tristezza, quello in cui si da importanza solo alle cose che fanno male a qualcuno, quello dove non ci sono sogni e sorrisi e tutti devono fare le cose che non vogliono fare o non hanno quello che desiderano. E’ un mondo comandato dai Maghi delle Bugie, che vogliono risolvere i nostri problemi facendoci odiare qualcuno, che si ritengono migliori di tutti e racchiudono i sogni nei telefonini dove tutti li cercano.” Il bambino mi guardò ancora più stupito. Io feci ampi cenni del capo come a dire “Si” e confermare la mia tesi “E’ un mondo dove regalano dolore e ti fanno prigioniero delle cose. Dove hai solo doveri e devi fare tante cose che non servono a niente solo perché te lo dicono gli altri. Per fortuna c’è il Mondo di Là dove tutti è più bello, dove i colori sono solo colori e non pregiudizi, dove non si odia e non si soffre e dove esistono tutte le cose che ti fanno felice e non c’è il dolore e nessuno ti lascia o ti tradisce o se ne va soffrendo e facendoti soffrire.” Il bambino mi guardò sorridendo ed io continuai “Io prima non sapevo che ci fosse il Mondo di Là. Pensavo che esisteva solo il Mondo di Qua e come tutti correvo come fanno i topi quando gli scienziati li mettono su una ruota e loro corrono, corrono inseguendo stipendi, macchine nuove, orologi di marca e pensandosi importanti solo perché hanno tanti pezzi di carta colorata, mentre invece restano fermi sempre nello stesso punto, e sono solo e sempre dei topi che corrono inseguendo la propria solitudine. Poi Salvo mi fece scoprire il Mondo di Là!” Mi fermai un secondo dubbioso e poi gli chiesi “Tu sai chi è Salvo?” Lui fece segno di no “Salvo era mio figlio, aveva più o meno la tua età quando La Grande Gomma l’ha cancellato dal Mondo di Qua e lui è andato nel Mondo di Là. Era un ragazzo allegro e felice, a cui raccontavo sempre tante storie, tante cose belle e lui le ascoltava felice, perché quando dentro di tè nasce un mondo nuovo sei sempre pieno di idee, di desideri di voglia di fare: è come allargare la propria anima e da fiume diventare un mare. Lui era sempre contento poi La Grande Gomma è arrivata ed io non l’ho visto più. Era da qualche parte, qui nella Casa del Dolore, e degli esseri piccoli piccoli gli hanno divorato la forza fino a che la Grande Gomma non è venuta a levarlo da questo mondo perché doveva rinascere nel Mondo di Là. E’ lui che me ne ha parlato, che mi ha raccontato di questo mondo bellissimo dove tutto quello che per noi è bello finisce quando La Grande Gomma li cancella nel Mondo di Qua. Tu mi chiederai come faccio a sapere che il Mondo di la esista….” Ancora una volta il bambino fece segno di si “… perché ogni tanto i due mondi si incontrano perché non possono vivere l’uno lontano dall’altro o l’uno senza l’altro; sono come il sole e la luna, la sabbia ed il mare, gli uomini e l’amore. Quando sogni, ad esempio! Ecco, quando sogni i due mondi entrano l’uno nell’altro e tu non li distingui più; o quando sei felice o quando ami qualcuno, è allora che il Mondo di Qua diventa il Mondo di Là ed è tutto più bello. E tu lo capirai subito, quando rivedrai i tuoi genitori o qualcuno a cui vuoi bene. Io lo vedo sempre perché ormai non voglio del male più a nessuno e lascio perdere quello che di cattivo gli uomini dicono e pensano e che rendono il Mondo di Qua differente dal Mondo di La. Quando lo rivedo o mi parla, anche Salvo me lo dice che il Mondo di Là è come quando al mattino sei sulla spiaggia del mare e non c’è nessuno che gridi, corra e lascia sporcizia, oppure è come i boschi che coprono i monti e nessuno li brucia o li taglia. Per questo quelle sensazioni brutte che ora provi, non sono vere, come non erano vere quelle che provavo quando la Grande Gomma è venuta a cancellare Salvo. Il vero Mondo è quello di Là, dove le storie che racconto sono reali e non c’è dolore, nessuno fa morire di fame o in miseria chi gli è accanto e la Grande Gomma non viene mai a cancellarti.” Qualcuno mi tocco ed io mi girai. Era la Regina delle Lavatrici che chissà da quanto era dietro di me “Dobbiamo andare adesso, il bambino deve riposare” “Va bene – le dissi seccato, perché avevo ancora tante cose da dire al bambino e rivolgendomi a lui conclusi – perciò non ti fare fregare dal Mondo di Qua, non credere che sia il tuo vero mondo: è solo un apparenza, una cosa che vedi ma che non esiste, come la nebbia o i miraggi!” Lui fece segno di si e sorrise Salutai Sogno d’Estate che aveva gli occhi pieni di acqua anche se non le avevano fatta alcuna puntura; la Regina delle Lavatrici mi prese per mano e andammo verso l’ascensore. Quando arrivò l’ascensore ed entrammo le stavo per raccontare una storia ma lei mi precedette “Lo sai come finisce la storia del venditore dei Folletto?” “No” risposi sconcertato che lei finisse una delle mie storie “Che una signora lo invita a casa per la prova e lui quando arriva le dice vergognandosi che lui la proboscide non l’aveva” “E lei?” chiesi stupito da questo finale che non avevo pensato “Lei gli dice che l’aveva invitato solo perché la guardava come se vedesse il Mondo di La” “E lui?” “Lui la baciò” Allora baciai anch’io la Regina delle Lavatrici perché in fondo lei è la porta del mio Mondo di Là.
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Capitolo I
Giuditta sa di piacere, e sa che non c’è nulla di male.
In fondo, lo sanno tutti quanto è ingiusto il mondo: ci sono persone che sono sempre state bellissime e che lo saranno fino alla vecchiaia. Non è questione di trucco o postura, è proprio il loro possesso di un’eleganza elettrica e innata, forse ereditaria.
Trovo più ragionevole vedere Giuditta come una ragazza fortunata nel suo essere così affascinante piuttosto che abbandonarmi al fatto che sia una specie di dea adolescente.
Sdraiata per terra nella sua casa sull’albero, fissa il soffitto con quello sguardo sempre lancinante al punto giusto. La canottiera extralarge del suo ragazzo le copre mezza parte delle cosce, e posso affermare con convinzione che Giuditta Moschella non è mai stata così bella come in questo momento.
Mi sembra serena. Non sorride, magari non è felice, ma è sicuramente serena. Con il braccio sollevato e la mano destra sistemata a sostegno della nuca come per simulare la presenza di un cuscino, assume una posa così regale che potrebbe apparire in una qualsiasi rivista di moda.
La sigaretta ancora spenta che le pende dalle labbra, poi, non è nulla se paragonata a quel mento leggermente pronunciato, sul quale i suoi pochi brufoli diventano quasi un abbellimento più che un difetto.
“Sono contenta di non essere l’unica che è rimasta sveglia stanotte” mi confessa a mezza bocca, mentre la sua mano sinistra comincia a tastare il pavimento circostante alla ricerca dell’accendino.
“Solitamente lo sei?” le chiedo, tenendo le mani nelle tasche dei miei jeans. Dopo essersi accesa la stizza, annuisce.
Il suo sguardo rimane fisso sul soffitto di legno, debolmente illuminato dalle luci colorate appese alle pareti.
Ho avuto l’occasione di studiare Giuditta già dai banchi di scuola delle medie. Non siamo mai stati semplici conoscenti, c’è sempre stata un’intesa molto forte tra noi due, ma non è esattamente la persona a cui confiderei i miei segreti o a cui scriverei un messaggio per chiedere consiglio. Non penso di averne mai avuto l’occasione, a dire il vero. Ormai ognuno ha i propri amici, la propria routine e i propri interessi. Inoltre, ho sempre nutrito un certo timore nel relazionarmi con lei.
Quando si passano diciannove anni della propria vita in una cittadina come Cordello, è abbastanza difficile evitare due cose: odiare i propri genitori per essersi bloccati in un posto simile, e non conoscere almeno di vista ogni coetaneo che attraversa le strade del centro paese. In fondo, il nostro liceo è uno solo, e la città vera e propria più vicina è a un’ora e venti di treno da qua.
Siamo tutti bloccati in questo paesino di tremila abitanti che si estende per nove chilometri quadrati, in un claustrofobico ammasso di ville tanto decorate quanto vuote. Ad oggi, sono convinto che si sia dato un nome per sole questioni di orgoglio e comodità amministrativa.
E ora Cordello è anche peggio del solito: sta arrivando l’autunno, è tutto ancora più nebbioso e grigio. In questa casa sull’albero, però, c’è ancora aria di piena estate.
“Pensavi sarebbe rimasto sveglio qualcun altro?” sussurro a Giuditta, come se considerassi insincera la sua gratificazione nell’avermi al suo fianco.
Lei assume una smorfia altezzosa, come per giudicare tutte le persone che non hanno voluto fare after con noi, e si volta verso Stefano, steso in un angolo. Sta dormendo in una posizione che sembra scomodissima: è ingarbugliato peggio dei cavi di un quadro elettrico, con il cranio inclinato verso il basso e le braccia incrociate. Russa molto pesantemente.
“Hai deciso cosa fare con lui?” domando, notando come Giuditta si sia un po’ inorridita nel vedere il suo ragazzo in condizioni simili.
“Che devo fare? Ci sto insieme e fine. Se dura, dura, se non dura, ciao.”
Non riesco a capire se non voglia parlarne o se è un argomento che la fa arrabbiare.
“Dico solo che è l’ultima notte che poteva passare con me. Poteva evitare di andare a giocare a calcetto con Davide e tutti gli altri coglioni per poi collassare all’una alla mia festa” aggiunge, alzando il tono al punto di disturbare i pochi superstiti che ci circondano, ora intenti a muoversi e fare facce strane nel sonno. Fortunatamente, nessuno si sveglia.
Prendo Giuditta per mano, prima di alzarmi da terra e mimarle di stare in silenzio.
Mentre mi dirigo a passo felpato verso le scale casarecce per scendere dall’albero, mi accorgo quante lattine di birra abbiamo lasciato sul terreno del giardino.
Settembre si sta facendo sentire: nonostante indossi una felpa e dei jeans corti, ho i brividi. Sono le quattro e mezza di mattina, effettivamente, e il sole sta giusto ricomparendo all’orizzonte.
Alzo lo sguardo al cielo, già chiaro e grigio.
“Non so se sono pronta a una relazione a distanza” mi dice Giuditta, camminando a piedi scalzi sul prato che circonda la sua casa sull’albero. Senza distogliere lo sguardo dalle pochissime deboli nuvole sopra di noi, la seguo.
In una mano tiene le sue Vans beige, con l’altra l’accendino. Assume una postura gobba, come se fosse stanca.
Le macchine in strada sono l’unica cosa che provoca rumore al momento, anche perché non saprei bene cosa dire a Giuditta per aiutarla.
“O meglio, non so se mi piaccia abbastanza per tentare una relazione a distanza.”
Si ferma, poco lontana dall’entrata posteriore della sua casa, e aggiunge: “voglio dire, alla fine parto anche per scappare da Cordello, non me ne voglio portare dietro un pezzo.”
Scrolla le spalle mentre lo dice, come se si fosse arresa all’evidenza che per questo suo viaggio dovrà fare molti sacrifici, ed entra in casa. Mi lascia la portafinestra aperta, come per invitarmi a entrare. Probabilmente si è accorta che sto gelando.
Do un’ultima studiata al cielo, prima di attraversare il salotto e raggiungere Giuditta nella sua camera, al piano di sopra.
Uno degli elementi più interessanti di casa Moschella è che unisce un arredamento che tenta di essere ultramoderno e futuristico a un sacco di fotografie famigliari appese alle pareti. Noto, in particolare, una piccola Giuditta intenta a costruire un castello di sabbia in una spiaggia a Bali.
Quando entro nella sua stanza blu, una versione triste e cresciuta di quella bambina mi lancia uno sguardo fulminante dal letto.
Forse voleva che me ne andassi.
Mentre lei ritorna a usare il suo cellulare, mi accorgo quanto soltanto dalla sua stanza si possa capire cosa andrà a studiare.
“Mi piacciono le stelle” le dico, indicando timidamente gli adesivi fosforescenti attaccati al soffitto.
Lei ridacchia, spiegandomi che le ha da quando andava alle scuole elementari ma non è mai stata alta abbastanza per riuscire a toglierle, anche con l’aiuto della grata di scale del padre. Al mio chiedergli perché non si faccia aiutare, mi rendo conto da solo che Giuditta non ama chiedere favori, soprattutto ai suoi.
Mi avvicino alla sua biblioteca, attento a non calpestare i vestiti sparsi in giro per il parquet.
Osservo la collezione di enciclopedie, film spaziali e romanzi fantascientifici dalle copertine luminosissime.
Afferro il DVD de La conquista dello spazio, studiando attentamente le condizioni della custodia. Sembra uno di quei classici degli anni cinquanta con un capitano mega virile e cazzuto che mi annoiano fino alla morte.
In realtà, lo spazio è sempre stato particolarmente interessante per me. Ci sono tanti di quegli studi che affermano molte cose spettacolari e devastanti al riguardo e, davvero, l’astronomia è uno di quegli argomenti per cui riservo una particolare devozione senza una ragione apparente.
Non che mi sarà mai utile.
Io non sono determinato o intelligente come Giuditta, e soprattutto, non ho i suoi mezzi per poter continuare gli studi.
“Verrai a trovarmi?” mi chiede, sempre a letto, cogliendo la mia aria sognante nell’osservare la cartina europea appesa alla parete.
Le dico di sì, sferrando un sorriso agrodolce. In realtà, lo sappiamo entrambi che è un no, mi ha fatto una domanda stupidissima. Mi insospettisce come sembri aver bisogno di assicurarsi che la gente non si dimentichi di lei, come se non fosse una delle ragazze più apprezzate e intriganti della cittadina.
Da sotto il letto afferra una bottiglia di coca-cola, mentre io mi appresto a cercare un accendino in giro per la stanza. Mi appoggio una mano sulla tasca posteriore dei jeans per controllare che il mio personal sia ancora lì.
Ne lascio sempre uno per quando finisce una festa.
Mi piace fumare l’ultima canna mentre cammino verso casa alle cinque di mattina perché è quando la cittadina sembra ancora più morta e statica di quanto non lo sia quando le strade si riempiono di nonnetti e mogli che portano a spasso i propri cani bavosi. Dove almeno per un po’ non sono parte di quella realtà, ma l’imperatore di un territorio distrutto. Mi piace mettermi le cuffiette e ballare in mezzo alla strada, sapendo che non passerà mai neanche una bicicletta. Nulla attorno a me è in grado di illuminarsi se non la mia corona.
Devo però ammettere che, per quanto essere ospite della navicella spaziale di Giuditta Moschella non fosse nei miei piani iniziali, mi ritrovo comunque in un posto dove posso permettermi di mettere un po’ di musica e rilassarmi prima di lanciarmi sul mio letto per qualche ora.
Mi ritrovo da solo sul balconcino della camera di Giuditta. Mi accendo il personal e comincio a scenerare per terra. Tanto Giuditta parte domani, i suoi non le faranno certo pulire casa.
“Come sta andando con Sami?” mi chiede lei, quasi agitata. Sembra non voler stare in silenzio, o magari non ci riesce ora che un quasi-estraneo è nella sua camera.
Ci sono molti cinguettii di uccelli intenti a rendere l’ambiente ancora meno quiete, e una fine pioggerellina sembra volermi dire di tornare dentro casa.
Ignoro il consiglio.
“Tutto bene” le dico, schietto: “è un po’ la solita storia, ecco.”
“Ho visto come guardavi il culo a Davide stanotte” mi confessa, con un sorrisetto malizioso.
Scrollo le spalle, continuando a fumare dal balcone.
Guardo Giuditta negli occhi, io appoggiato alla ringhiera in legno del balcone mentre lei sta ancora sul letto, senza togliersi quel ghigno da Stregatto. Penso mi stia sfidando.
“Lo sai che non tradirei mai Sami” le dico, con in testa l’immagine di Davide che balla in mezzo alla casa sull’albero: “Davide ha dei bei lineamenti, okay, è atletico. Ma non mi dice niente, e mi sa di coglione” continuo.
Giuditta si alza, comincia ad avvicinarsi con una camminata delicata e lenta.
Si sta comportando come se non volesse svegliare qualcuno, ma siamo a casa da soli.
Mi prende la canna dalle mani e comincia a fumarla.
“E’ un ragazzo in gamba il nostro Sami, non fartelo scappare.”
Si espone col busto al di fuori della ringhiera. Il vento sbuffa sui suoi capelli e li scompiglia, ma lei non sembra infastidita dalla cosa. Continua a fumare, cercando di guardare oltre la nebbia con gli occhi socchiusi.
“Se ne andrà pure lui via da qui, prima o poi” le dico, e il solo pensiero mi fa salire un’angoscia in grado di tritarmi la gola: “Sami è parte della Cordello bene, come te.”
“Christian” sussurra, appoggiando una mano sulla mia spalla: “chi ti dice che non scapperai via anche te?”
Mi ripassa la canna, prima di sdraiarsi sulle mattonelle arancioni del balcone.
“I soldi. Come sempre.”
Giuditta sbuffa, prima di usare le mani per alzarsi col busto e guardarmi in faccia, quasi scocciata.
“Che palle i soldi, mamma mia.”
“Non dirmelo.”
Soprattutto te, che non hai mai mosso un dito in vita tua perché sei nata col cordone ombelicale d’oro.
“Cosa vorresti fare da grande?” mi chiede.
“Non lo so. Mi basta andare via da Cordello un giorno, per quel che mi interessa posso anche prostituirmi per andar via di casa.”
Non era un discorso che volevo trattare, soprattutto ora. Volevo stare tranquillo.
Lancio il rimasuglio puzzolente della canna lontano dal balcone di Giuditta, prima di rientrare in casa.
Sono quasi le sei. Ci metterò una quindicina di minuti a tornare a casa e mio padre si sveglia tra venti per andare a lavoro.
“Devo scappare.”
“Puoi dormire qui per un po’, se ti va… parto alle tre di pomeriggio” mi comunica lei, mentre io mi avvicino alla porta.
Mi giro. Lei mi guarda con un fare simile a quello di un gatto che vuole farsi grattare. Se non fosse circondata da valige ancora da fare, forse rimarrei.
“Mio padre si sveglierà tra poco, devo andare” ripeto, più convinto. Non la guardo negli occhi: so che mi convincerebbe a restare.
Giuditta mi sembra dispiaciuta, ma non insiste. Con la sua sfilata elegante mi raggiunge e mi abbraccia. Non profuma, ma non puzza. Sento il suo odore vero, e mi piace.
“Ti vedrò per le vacanze di Natale, no?” le dico, ancora attaccato a lei.
“Sì, tornerò” risponde, prima di interrompere l’abbraccio.
Mi prende per mano e mi porta al piano di sotto come un Virgilio particolarmente sicuro di sé.
Esco dal retro, diretto verso il cancello che si affaccia alla strada.
Mi giro un’ultima volta per salutarla. Sarà strano non vederla più in piazza.
Comincio a camminare verso casa, sotto la pioggia. Vorrei tanto una sigaretta ora, ma ho finito il tabacco.
Mogio mogio raggiungo le strisce pedonali che mi allontanano dal quartiere di Giuditta, addentrandomi nel parchetto comunale.
Sospiro. Vorrei davvero ritrovare della magia in queste strade, ma ormai mi nauseano da quanto le ho viste.
Ho sempre pensato che un turista straniero troverebbe questo paesino italiano un piccolo capolavoro se lo visitasse in piena estate: alla fine c’è molto verde, è piuttosto curato e abbiamo un sacco di campi attorno al centro abitato.
Però, ecco, se lo stesso turista fosse confinato qui per mesi, probabilmente cambierebbe idea.
Tengo il ritmo della musica tamburellando le dita tra di loro, ormai arrivato alla fine del parchetto.
Raggiungo la piazzetta davanti al cimitero mentre sento dei passi infrangersi con le pozzanghere d’acqua dietro di me.
Mi giro mentre mi tolgo le cuffiette, giusto in tempo per vedere Giuditta corrermi incontro.
Mi salta addosso, baciandomi.
Rimango stizzito, mi immobilizzo.
Lì, davanti al cimitero di Cordello, Giuditta Moschella mi ha baciato nella sua ultima mattinata da ragazza di paese. Non so cosa pensare, né se mi sta piacendo.
Mi sento come se fossi ancora nella sua stanza, a guardare con meraviglia le stelle attaccate al suo soffitto.
Sondaggio: 29 Aprile 2019, 03.26 am
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Ragà uccidetemi ve prego
Non so perchè lo scrivo qui, tantomeno perchè usi il dialetto romano. Comunque sono qui, a casa, le lezioni sono finite e non sto più andando nella città dove studio. E ci risiamo, è sempre la stessa storia: io che sono sola, chiusa in casa tutto il giorno a esaurirmi, mentre tutte le persone che conosco e con cui vorrei stare sono lontane da me, a godersi più o meno la vita.
Io odio questo paese, odio questa vita, odio me stessa, il mio corpo, il fatto che stia ingrassando, ma non sappia esattamente di quanto, visto che la bilancia si è rotta. Dovrei mangiare meno e meglio, ma non voglio farlo, sento che l’unica cosa che mi è rimasta, so che mi sto rovinando, forse in fondo è quello che voglio, non lo so
Se volete un consiglio da una persona che non sa assolutamente nulla della vita, non investite i vostri soldi nel forex. Soprattutto se non sapete NULLA di investimenti. Fate debiti e basta, e state peggio di quanto non stiate già.
Poi, è proprio inquietante vivere a casa mia: i miei vivono da separati in casa da più di otto mesi, cioè non si parlano assolutamente, e ovviamente in casa c’è un clima di tensione perenne. Roba che i comunisti sotto Stalin stavano da Dio, con la polizia segreta e tutto il resto, gente che ti poteva denunciare da un momento all’altro se per sbaglio facevi vedere il tuo dissenso verso il grande e irreprensibile Stalin. Mia mamma è fissata col fatto che secondo lei non bisogna parlare di nulla quando c’è mio padre: soldi, questioni di famiglia, spese varie, principalmente di argomenti che riguardano i soldi.
“Devi stare attenta a quello che dici” Cit.
Manco fosse una super spia pronta a spifferare tutto ai “poteri forti”
Mio padre si è talmente incazzato con mia mamma che non vuole più avere nulla a che fare con lei, e non vuole che lei gli lavi i vestiti, gli cucini, e via di seguito. Non mangia insieme a noi (da otto mesi). Così ha deciso che è più bello e più normale sedersi sulla poltrona, quella di fronte al tavolo della cucina, a fare finta di guardare la tv o di stare al cellulare, mentre in realtà ci fissa mentre mangiamo.
Io me ne accorgo, perchè gli do le spalle, e davanti a me (quindi anche davanti a lui) c’è un forno con una specie di specchio (non so come si chiami, scusate), e quindi io vedo che mi fissa mentre mangio la carne, la pizza o la verdura,e la cosa MI INQUIETA ASSAI.
Cioè. già peso cento chili e la gente mi guarda male a prescindere, oppure come se fossi il loro caso pietoso; non posso mangiare nulla senza ritrovarmi addosso i loro sguardi da “Eh, ma non dovresti mangiare così”. CERTO, PERCHÉ TU STAI CON ME H24 E SAI ESATTAMENTE COSA E QUANTO HO MANGIATO OGGI Sì. TORNA A STRAFOGARTI AL MC E NON ROMPERMI LE BALLE, SU.
Cioè, io già ho problemi con la gente che mi guarda e questo che cosa fa? Mi fissa mentre mangio. è inquietante, dai. Ma non solo mentre mangio. Oggi spazzavo a terra e mi ha fissata per una mezz’ora tipo. Ed io cercavo di fare finta di nulla PERCHé MI INQUIETA ESSERE FISSATA AIUTO. A ‘na certa mi giro, lo guardo e mi fa un cenno per dire “Me ne sto andando”, E CI VOLEVA TANTO DIO BONO
Questa roba sa di fantascienza, di trash assurdo, ma è la realtà. Questi sono pazzi. Non vogliono divorziare e fanno impazzire me.
Mia mamma che mi tratta come se io fossi la sua migliore amica e parla male di mio padre con me e davanti a me, senza crearsi il minimo scrupolo. LO VUOI CAPIRE CHE SONO TUA FIGLIA E NON LA TUA MIGLIORE AMICA E SE VUOI UNA CONFIDENTE TE LA DEVI CERCARE ALTROVE?
Indovinate chi si sta esaurendo a casa e non sta preparando manco mezzo esame, nonostante ne abbia uno tra meno di due settimane
Questo è il mio senso di colpa che parla
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DF - All’ Università Ep 6 Guida
- Risultato negativo / Risultato neutro + Risultato positivo / o + Significa che il mio Lov’o’metro con quel personaggio è al massimo, ciò vuol dire che il risultato può essere sia neutro che positivo.
Punti Azione: 900 - 1.000 massimo
Illustrazioni: 5 in totale, una per ogni ragazzo. E’ possibile prendere 1 sola illustrazione. Per ogni illustrazione serve il colpo di fulmine. Nathaniel: Per la sua illustrazione, consiglio di rispondere negativamente a Castiel non ottenendo la sua immagine. Solo così potrete ottenere l’illustrazione di Nath.
La zia: Compare nella cucina del bar, appena a inizio episodio,dopo aver messo l’allarme.
Soldi: - 125 $ completino foglie: Rayan/Priya - 125 $ jeans strappati: Castiel/Nath - 125 $ gonna: Hyun
~ Il gioco riparte con la scoperta di Hyun.
Hyun: A. Cosa ci fai qui? Non sei più ammalato? - B. Non è come pensi! - Rayan C. Stai bene? +
A. Ma qualcun altro mi ha aiutata. - B. Sono riuscita a farcela grazie all’aiuto del professor Zaidi. / C. Devo dire che non è facile. Non so come fai tu da solo per la chiusura del bar, ci vuole un sacco di tempo. /
A. E’ uno dei miei professori, non ha fatto niente di male. - B. Mi sta simpatico, è uno dei miei migliori professori. + C. E perché? /
Se scegliete C A. Non lo siamo, è solo il mio prof. + B. Sei…geloso? –
A. Dici sul serio? Non ne hai proprio la minima idea? + B. Non fa niente, ho deciso di non farci caso. /
Se scegliete A A. Però non riesco a credere che tu non te ne sia mai reso conto… B. D’altra parte, la capisco… +
A. Pare proprio che ti manchino. + B. Ahahah, che carini. / C. Mi fai pensare al fatto che la mia, di famiglia, non l’ho ancora chiamata per dare mie notizie… -
A. Non vedo perché dovrei incontrarli… - B. Sarei davvero felice di conoscere la tua famiglia! + C. Sembrano simpatici, è vero. /
A. Quello che conta è l’intenzione. - B. Se tu potessi non dire in giro che il professore Zaidi è venuto qui, mi faresti un piacere… - C. E’ servito a rimetterti in forma, guarda, non sembri davvero più ammalato. /
Se scegliete C A. Magari dovresti tenermi sul tuo comodino a portata di mano, non si sa mai. + B. La prossima volta non andare dal dottore, vieni direttamente da me. /
~ Tornate in camera per dormire.
Yeleen: A. E’ gentile da parte tua, ma… avrei potuto farlo, sai. / B. In genere non mi piace che qualcuno tocchi le mie cose. Grazie lo stesso. - C. Grazie, è davvero gentile da parte tua. +
A. Ehm, buongiorno. / B. No, ma non ti preoccupare, metto in ordine stasera. - C. Non ho avuto tempo. -
Chani: A. No te lo giuro, ha persino pulito la mia scrivania dicendomi che le faceva piacere. / B. Non lo so, dopo tutto me lo sarò sognato! +
A. Mi mandi in panico con la tua tesi. / B L’urbex è una buona idea, potrebbe essere originale! / C. Mi spaventa l’idea che tu vada a visitare dei luoghi abbandonati da sola… potrebbe essere pericoloso. +
A. O essere inseguita da uno psicopatico con un’ascia in mano. / o + B. Uhm, il tesoro inestimabile, devo dire non sarebbe male. Non mi dispiacerebbe abbandonare il posto di lavoro al bar e andare in vacanza nei Caraibi. /
Se scegliete B A. Non lo so… non mi ci vedo con una gamba di legno e una benda sull’ occhio. + B. Direi che avevo ambizioni di questo tipo quando avevo sei anni. -
Rosa: A. Ma certo, io e Chani stavamo andando in mensa, vieni con noi, parleremo lì. / Chani e rosa B. Vuoi che andiamo al parco io e te? - Chani e / Rosa C. Uhm… va bene, Chani, mi dispiace, ci ritroviamo dopo a lezione. /
A. Cominci a spaventarmi. / B. Ci sarà qualcosa da mangiare? Perché dopo devo tornare a lezione! + C. Sai, Chani non dice niente a nessuno… puoi avere fiducia in lei. E’ diventata una vera amica. /
A. Perché tieni assolutamente a che nessuno ci senta? - B. Aspettiamolo. Non dovrebbe tardare. +
~ Andate alla boutique, dove troverete una sorpresa.
Leigh: A. Leigh!! / B. Leigh!! Finalmente! Rosalya mi parla sempre di te, ma non siamo mai riusciti ad incontrarci finora! /
A. Ho saputo per i tuoi genitori… mi dispiace. / B. (Meglio non accennare alla morte dei suoi genitori, preferisco parlare di qualcosa di più allegro.) +
Se scegliete B.
Rosa: A. Davvero Rosa? Sei sicura che non è perché sei la ragazza del proprietario, e che hai i vestiti a metà prezzo? + B. E’ vero. Adoro le tenute che ci sono qui. /
Priya: A. Ma credo che Rosalya voleva parlare con me e Alexy da soli… / B. Cosa gli è preso all’improvviso? +
Rosa: A. Alexy, credo che Rosa volesse parlare a noi due soli, senza gente intorno… + Priya B. Rosa, diglielo. /
A. Rosa, comincio a preoccuparmi, di solito non ti dà fastidio parlare di fronte a Priya. + B. Ok allora, cerchiamo di vederci dopo? /
A. (Ho preso qualche tenuta, in particolare una gonna con le bretelle e una borsetta bianca) (Illustrazione Hyun) B. ( Ho preso qualche tenuta, in particolare una saloupette corta con una paio di scarpe rosse che erano in vetrina.) (Illustrazione Priya/Rayan) C. ( Ho preso qualche tenuta, in particolare un paio di jeans e una giacca kaki che ho trovato molto carina.) (Illustrazione Nath/Cas)
~ Tornate al campus.
Rosa: A. Ed è grazie a questo che ho potuto ritrovarti, è stata la decisione giusta. + B. E dove sareste andate se foste partiti? /
Alexy: A. Cosa stai cercando di dirmi esattamente? / B. Stai parlando di me e del professor Zaidi? / Alexy e - Priya C. Stai parlando di Melody? / Se scegliete C A. No, no, davvero non è niente. B. Ho solo sorpreso una conversazione che non avrei dovuto ascoltare tra Melody e… il professor Zaidi. - Priya
A. (Devo avere al più presto una piccola discussione con Hyun.) - Priya (lascerete tutti per andare a parlare con Hyun) B. Cosa vi ha detto esattamente? / (continuerete la conversazione, verso illustrazione Priya)
Se scegliete B.
Priya: A. No, è solo un professore. (Verso illustrazione Priya.) B. Non lo so. –
Se scegliete A. A. (Ho ripensato al nostro professore di storia dell’arte al liceo.) E’ che mi fa pensare a Pierrick. / B. No. Non avrei mai potuto. - C. Ammetti che è piuttosto sexy. (Illustrazione)
Se scegliete B. A. Cosa? / B. C’è qualcosa che non va, Priya? -
~ Tornate al campus da sola.
Hyun: A. (Ho scritto: “Hai tempo in giornata? Dobbiamo parlare.”) / B. (Ho scritto: “Hai detto a Alex e Morgan che c’era qualcosa tra me e il mio prof. di Storia dell’arte?!”) -
Chani: A. Ma va… non abbiamo avuto un attimo di pace. + B. scusa di nuovo per prima. /
A. Va bene, come vuoi. Sii prudente per favore. - B. Sei sicura che non vieni? Le lezioni finiscono più in fretta quando sono con te. / C. Va bene, a dopo!
~ Andate in biblioteca. Nath: A. Cosa ci fai qui? - B. Vieni all’università?! /
A. Vai a quel paese, Nath! - B. (Mi sono limitata a guardarlo col sopracciglio alzato aspettando la fine della frase.) /
Ambra: A. Non lo riconosco più! / B. So che è tuo fratello, ma… si è comportato come un ragazzino maleducato. +
A. Ha a che vedere con quello che è successo dopo il concerto dei Crowstorm? Stai meglio? / B. In che senso, “prenderti più cura di te”? / C. Non riesco ancora a capire perché vuole “lasciare” l’università. Mi sembrava molto portato per gli studi prima. /
A. Però ti confesso che la prima volta che ti ho vista, ho avuto uno shock. B. Insomma… se mi avessero detto al liceo che un giorno avremmo potuto parlare senza crisi di nervi, non ci avrei creduto. + C. Tu in particolare. /
A. (Sono rimasta senza parole.) + B. (E’ più forte di me, mi sono gettata su di lei per abbracciarla.) / C. E’ un po’ comodo… -
~ L’arrivo di Castiel.
A. (Sono ridicole, preferisco andarmene verso i dormitori. Vado a ritrovare Hyun, come previsto.) - Castiel B. (Ho proprio voglia di farmi strada tra tutte le sue groupie per andare a salutare Castiel.) + Castiel (verso illustrazione)
Se scegliete B. Castiel: A. Uff? come se non ti facesse piacere… - B. Non dev’essere sempre facile suscitare un tumulto ogni volta che vai da qualche parte. + (verso illustrazione) C. Allora sei di ritorno all’università? /
A. E’ vero che non è molto piacevole…/ B. Potrei farci l’abitudine. + (illustrazione)
~ Andate ad incontrare Hyun.
Hyun: A. Allora a quanto pare, io e il professoer Zaidi pomiciamo in mezzo alla strada? B. Cosa hai detto a Alexy e Morgan? - C. Pensavo che avessimo parlato insieme di quello che era successo, noi due, e che le cose fossero chiare… +
A. Perché averne parlato a Alexy e Morgan? - B. E cosa ti diceva la tua intuizione? + (verso illustrazione) C. Sono forse affari tuoi?
A. Perché tieni tanto a saperlo? / B. Mi piace, certo… Come professore! + (illustrazione) C. Forse. C’è qualcosa di male? –
Mamma Yeleen: A. Le chiedo scusa signora, la giacca è mia, e a dir la verità, sono io la più disordinata delle due. È Yeleen che si è data da fare per rimettere in ordine la camera oggi. + yeleen B. (Sono rimasta in silenzio facendo finta di immergermi di nuovo nella lettura.) - Yeleen A. Mi scusi signorina, ma… Yeleen ha ragione. + yeleen B. Volete che vi lasci sole? C. (Ho fissato di nuovo il libro senza rispondere.)
Se scegliete A Yeleen: A. Stai bene? Vuoi un bicchiere d’acqua? B. Mi dispiace, avrei dovuto star zitta… +
A. E tuo padre, che ne pensa? + B. Dai, vieni, altrimenti arriviamo in ritardo a lezione.
~ Andate a lezione.
Rayan: A. La lezione è stata annullata? / B. E’ stato licenziato? /
Se scegliete A A. E non c’è posto a sufficienza nelle altre aule? E’ la nostra lezione che deve saltare? + B. Oh, capisco.
A. Ha fatto bene ad annullare la lezione se non si sentiva in condizione di farla. / B. Non dev’essere stato facile decidere di annullare la lezione. + C. Capisco il rettore. -
A. Potremmo approfittarne per cercare di conoscerci meglio. + (verso illustrazione) B. Posso farle una domanda sull’ultima lezione? / C. Me ne vado, non voglio disturbarla.
Se scegliete A A. E lei? Perché ha deciso di insegnare questa materia? + (verso illustrazione) B. Cosa ha fatto prima di venire ad insegnare all’università Anteros? / C. Le sue camicie sono tutte aperte in questo modo? - A. E lei? / B. Spero che stia meglio. + (verso illustrazione) A. No, per niente. - B. Hyun era solo sorpreso di vedermi così tardi con un professore. (Verso illustrazione)
Se scegliete B A. D’accordo, ma non c’è ragione. Stavamo solo parlando. B. Ha ragione a farsi delle domande? (illustrazione)
A. Va bene, a domani. / B. Mi dispiace di aver approfittato del suo tempo. - C. Peccato, mi sarebbe piaciuto andare a lezione adesso. +
~Tornate in camera.
Nath:
A. (Sono andata a aprire la porta.) / B. (Ho chiesto con un tono deciso.) Chi è? / (verso illustrazione)
Se scegliete B A. Non lo so… dato il tuo comportamento di prima a lezione, preferisco che ti prendano per un cretino davanti alla porta. + (verso illustrazione) B. (Ho aperto tirando un sospiro.)
Se scegliete A A. Sono esausta perché uno stupido mi ha stancata durante la lezione di oggi. + B. E’ vero, lavoro alla tesi.
A. Tutto qui? È tutto quello che hai da dire? B. Perché ti sei comportato così? + (verso illustrazione)
A. Perché ti dà così fastidio per Ambra? - B. Perché non decidi di tornare all’università, allora? + (verso illustrazione) C. Non ti riconosco più… a lezione eri così rispettoso…
A. Pare che preferisci le feste studentesche ai corsi. / (verso illustrazione) B. Ogni volta sei con una ragazza diversa. - C. Sei spesso coinvolto in risse. /
A. Non ho mai avuto l’intenzione di evitarti. / (illustrazione) B. Non so ancora cosa pensarne… / C. Hai fatto di tutto per spingermi ad evitarti e adesso mi dici di pensarci prima di farlo? /
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Una delle cose di cui mi pento è quella di non aver fatto delle foto alla metropolitana di Parigi. Sì, che avevo paura dei vari tornelli, una volta con la carta non mi volevano far passare perché per sbaglio l’avevo passata una volta troppo in anticipo, quando ancora stava passando una mia compagna, si chiuse il tornello senza che io potessi passare e non leggeva più la carta, e come fare? Tutte le mie compagne di scuola erano passate ed io stavo andando in panico, anche perché non avevo l’agilità che avevano alcuni di saltare il tornello. Un’altra volta la porta mi si stava chiudendo addosso e mi portai nel B&B un braccio dolorante. Mi sono portata questa paura anche nella metropolitana di Napoli: anche lì non riuscivo a passare i tornelli e andavo in panico perché significava buttare un biglietto per comprarne un altro. Però ecco non ho fatto alcuna foto alla metropolitana, alle varie fermate, ai tunnel per me incomprensibili, alle piastrelle bianche, a tutta la gente che si muoveva. A volte Parigi sa essere un ricordo triste e doloroso: chi ci ritornerà più? Non siamo così positivi all’idea di poterci permettere un viaggio, né tanto meno di poterci permettere una vita all’estero. Quell’esperienza ormai è andata e perduta per sempre. Così come sono andate e perdute altre esperienze come Napoli, come altri posti. Ché a rimetterci piede posso pur sempre farlo, però, ci sono delle cose che si sono rotte e che non si possono riparare. Si sono rotte proprio dentro di me: vedo le cose con occhi diversi, c’è molta rabbia, senso d’ingiustizia, fastidio. Ma stavo parlando di Parigi. Parigi sarà sempre il mio sogno realizzato, nel senso che assume proprio le fattezze di un sogno, di immagini oniriche, lontane, invivibili sebbene vissute. Vorrei vivere quelle quattro settimane a Parigi adesso, con la consapevolezza che ho ora, o semplicemente andare via proprio adesso. Non so perché ho questa voglia di andare via, non so bene da cosa; forse da questa angoscia, da questa insignificanza di cui mi sto pian piano infagottando. Ma è un pensiero adolescenziale. Ricordo che finito il liceo stavo con la speranza di trovare un lavoro, mettermi i soldi da parte e poi partire e tentare la vita all’estero. E ci credevo pure: può essere che prima o poi non avrei trovato un lavoro? Può essere che non ci sarei riuscita? Nella vita tutto può essere e così è stato. Abbiamo abbandonato, quindi, l’idea di andare a vivere altrove, di vivere realtà diverse da questo paese e da queste idiozia, da questa asfissia aculturale e amorale. Il massimo a cui aspiriamo, adesso, è di non finire sotto ad un ponte tra qualche anno, dato che nemmeno la prostituzione ci potrebbe essere d’aiuto. Le metropolitane di Parigi comunque erano veramente belle. Lì mi sentivo parte del mondo, della metropoli. Forse è questa la potenza che ti dà una grande città. Sì, bello il paese, tranquillo, allegrotto e movimentato quando sei fortunata, desolato e fatiscente quando non lo sei tanto; però la metropoli ti fa sentire membro attivo della società, come se anche tu ti muovi per un qualche scopo, pure fosse una semplice passeggiata. In un paese, invece, pure che hai uno scopo, un motivo per un’uscita, ti sembra di muoverti sempre e comunque intorno al nulla, alla desolazione. È questa la sensazione che ho ritrovato anche a Napoli - parlo della sensazione di potenza - soprattutto quando eravamo alla stazione o nelle fermate “bene”, per il resto Napoli è snervante. Ma forse come ogni qualsiasi grande città: grande il luogo, grandi i contrasti. E noi non amiamo i contrasti, soprattutto quando così forti, soprattutto quando così fondati sull’ingiustizia. Salerno sta a metà, ci piaceva pure. Anche il ricordo di Salerno si è rotto, si è spezzato. Non vivremo, se ne avremo l’occasione di farlo, più Salerno allo stesso modo. È stato corrotto dal cattivo, dal male e queste cose segnano per sempre. Da quel che ricordiamo Salerno era abbastanza vivibile nelle sue periferie, pure se non possiamo dirlo con certezza e pure se una mattina ci svegliammo e dalla finestra del B&B trovammo sui binari lì vicino, di fronte al B&B, il corpo di una donna coperto da un telo bianco: s’era suicidata, a quanto pare, durante la notte. Noi non sentimmo nulla. La mattina che facemmo quella scoperta, io dovevo partire. Piangevo a dirotto ed erano tutti inteneriti da quella cogliona che piangeva e piangeva. Ma ero pure più piccola, 24 anni e sembravo pure qualche anno più piccola, quindi sì che facevo tenerezza. Ah, la tenerezza dei 20 anni! La carne fresca, viva, ingenua e profondamente erotica, sessualizzata! Stiamo perdendo anche questo. Tra qualche anno arriveremo ai 30 e saremo delle volgari donne, con i segni del tempo che iniziano a farsi vedere, il corpo già di per sé rotto per tutta una serie di motivi, che inizia a farsi pure... maturo. Altro che teengirl, altro che daddy’s girl. Saremo delle donne, mature, non vecchie ma mature e mai come arrivate ai 30 anni, non potremmo più permetterci alcun atteggiamento che richiami anche solo un poco l’infantilismo. E chi lo vuole un figlio. Chi lo vuole il matrimonio. L’abbiamo già detto: il massimo a cui aspiriamo è di non finire sotto un ponte. Per il resto non sogniamo matrimoni, né famiglie, né figli, né studi né carriere né l’estero: non possiamo permetterci queste false illusioni. Pensare il futuro non è poi una gran bella cosa. I ricordi sono troppo sbiaditi, slavati per essere un rifugio, il futuro è troppo misero per ricavarne forza, il presente è abbastanza vuoto e traballante, che guardare allora? Rivedere le foto ci fa male.
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Ciò che mi è dispiaciuto la volta scorsa quando siamo andati a C è che non ci siamomrimaste più tempo. In fondo abbiamo fatto presto, potevamo rimanere fino al pomeriggio più "tardi" così da farci un giro per quella città, ma niente non c'ho pensato. L'unica cosa è che siamo andate all'Eurospin e da MD discount che sinceramente. In quell'eurospin c'era il reparto gastronomia, reparto forno con prodotti più particolari e più vari rispetto al lidl, c'era pure la salumeria e non ricordo se ci fosse la macelleria anche. Era parecchio più bello, mi è piaciuto. MD non mi è sembrato così conveniente, sinceramente. Però abbiamo trovato l'insaporitore per le grigliate: 120 gr x €0,99 cent che è pochissimo. Alla conad con meno spezie lo prendi a €1,49 x 80 gr. Questo per le verdure grigliate poi difficilmente si trova, è un peccato. A me piace parecchio utilizzare gli insaporitori, a parte che limiti l'uso di sale e poi sono comodi perché il mix di spezie ed erbe secche sta là già bello pronto e non ti devi prendere cinquanta spezie ogni volta (io ne usavo assai). C'erano pure gli hamburger di bovino che erano praticamente neri. Mah, mi è dispiaciuto che poverina le ho fatto fare tutta quella strada di corsa e che non ci siamo potute fare un giro per il paese, non esce praticamente quasi mai se non per delle visite mediche e soprattutto pure che esce comunque sottostà alla volontà di mio padre e quello è un pigro di merda, non passeggia, si annoia ecc. I risultati si sapranno tra 20 gg: se arriva una lettera a casa è tutto ok, se telefonano non è tutto ok. Io ho il terrore che chiamino e soprattutto mi aspetto quello. Spero di no, ovviamente, spero che sta bene ed è in salute, almeno sotto quell'aspetto. Ora lui invece lamenta di questo male dietro al ginocchio, boh a volte non so proprio cosa pensare. Temo solo la morte e temo che le cose vadano peggio di quanto già non stanno andando. In poco tempo ci siamo praticamente ritrovati con le pezze al culo ed è terribile soprattutto perché loro iniziano ad avanzare con l'età, iniziano a venire i primi acciacchi dovuti ad anni di trascuratezza e quindi la cosa mi impaurisce, impensierisce, mi confonde.
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EDS4
20) L'amore è un lusso
È stata la nostra ultima volta, pensavo che avrei avvertito un velo di tristezza ma quello che provo è più simile ad un senso di liberazione.
Mi alzo dal letto sfatto dove il suo corpo addormentato giace in una posa rilassata, l’unico momento in cui può permettersi di abbassare la guardia. Raccolgo l’abito da terra e mi rivesto, lasciando per ultimi i ganci della giarrettiera che tengono le calze. Sono l’unica in paese a portare ancora calze di nylon, sono introvabili, troppo costose per la povertà che ci ha messo in ginocchio e certe frivolezze non sono più in cima alle nostre priorità. La verità è che nemmeno io me lo posso permettere, si tratta di un regalo, che insieme agli altri ricevuti, sta facendo insospettire. Sono sempre stata molto attenta a non farmi scoprire, per venire qui, entro dalla strada parallela passando per la cucina della trattoria dove lavoro, attraverso il locale ed esco dalla porta principale collegata alle camere in affitto. Qui, l’odore è sgradevole, sa di muffa e stantio, nessuno si prodiga nella pulizia di queste stanze che vengono occupate dai nazisti. Gli squadroni arrivano una volta alla settimana, piombano nelle strade con arroganza e violenza, in cerca di tracce dei partigiani che si nascondono sulle montagne. Dappertutto c'è solo fame, freddo e tanta disperazione. Dicono che la guerra la stiamo perdendo e che finirà male, ma io cerco di scacciare il pensiero perché nascosto tra quelle montagne c'è anche mio padre e con lui, i miei amici, quei ragazzini che con appena un filo di barba sono stati catapultati con scarponi buchi e divise con le toppe, a salvare una patria che non volevano nemmeno difendere. Papà è un disertore, così vengono chiamati quelli che hanno deciso di andare contro il duce, quelli che hanno scelto di salvare il popolo italiano combattendo contro questi maledetti nazisti; uomini che lottano per tenere salda la loro dignità.
Sono passate più di tre settimane ormai dall’ultima lettera di papà e iniziamo a temere il peggio, la mamma piange tutte le notti e all’alba consuma il rosario in cerca di un segno. Finge, perché io lo so che ha smesso di credere in Dio molto tempo e molto dolore fa.
Lui, è arrivato in paese un giorno insieme ai suoi sottoposti, avrebbe dovuto fermarsi il tempo di una ronda ma un focolaio di polmonite l’ha costretto a letto e a una lunga degenza. Io, come tutti in paese, ho desiderato che morisse, sarebbe stato un orrore in meno che camminava su questa terra, ma Hans sapeva come curarsi, in Germania aveva studiato medicina. Su ordine del comandante, la trattoria mi mandava ogni giorno a portargli i pasti caldi e ad accertarmi che stesse recuperando le forze, io andavo controvoglia e qualche volta ho sputato dentro il piatto prima di portarglielo, versando così il disprezzo che provavo per lui e per tutta la sua nazione.
Hans parlava un poco di Italiano e mi trattava in modo gentile, ringraziava e sorrideva quando entravo nella sua camera buia. Io lo odiavo ancora di più per questo, non rispondevo nemmeno ai suoi saluti pronunciati con quel forte accento tedesco. Finché un giorno, entrando nella stanza, l’ho trovato addormentato. Era una giornata estiva di quelle torride in cui il sudore ti si appiccica addosso e il torpore avvolge tutte le cose, il suo corpo nudo era sdraiato di traverso sul piccolo letto. Non avevo mai visto un uomo completamente nudo, le mie esperienze fino ad allora, si erano limitate a toccare senza guardare, così come il pudore ci aveva insegnato. Ma anche il pudore, con l’arrivo della guerra, è diventato un vezzo che non ci si poteva più permettere. Quella vista ha riportato in vita istinti sopiti da molto tempo, è stato come se le mie cellule venissero risvegliate da un sonno profondo. Mi sono avvicinata, come attratta da una forza magnetica e mi sono soffermata a guardare la schiena muscolosa e la curva dei glutei, sembravano duri, sicuramente allenati dalle lunghe marce. La mia attenzione è stata catturata da una serie di striature sulla pelle, segni di cicatrici da frustate e di quelle, ne avevo già viste fin troppe. Mi sono chiesta cosa avesse fatto per esser stato punito in quel modo e la mia testa ha iniziato a fantasticare trasformandolo da carceriere in vittima del sistema.
Accade così, basta un attimo, un dettaglio e i sentimenti si fanno strada bucando anche la corazza più dura. Accade così, che si abbassa la guardia.
La mia mano si è mossa da sola, volendo andare a tastare i solchi lasciati dalla tortura, con tocco leggero ho percorse le righe fino a che la sua mano mi ha afferrato il polso con forza facendomi trasalire, poi mi ha guardato dritto in faccia, prima di baciarmi. Mi aspettavo un assalto rude e invece mi ha sorpreso cercandomi con una certa dolcezza, con gesti misurati, come se volesse chiedere il permesso. La sua bocca è scesa lentamente lungo il mio collo mentre le mani mi stringevano i fianchi. Ho avvertito il calore tra le mie cosce e ho riconosciuto la fame di contatto, quel bisogno ancestrale di sentirsi vivi quando tutto il mondo intorno sta marcendo. Ho lasciato che la sua bocca scendesse sul mio seno, esposto dopo che l’unico bottone del mio vestito liso si è aperto, mentre le sue mani erano scivolate sotto la gonna e stavano già sfilando l’intimo. Con calma mi ha invitato a sedermi sopra di lui, sdraiandosi sulla schiena e offrendomi, nella sua totale nudità, la vista del suo sesso eretto e duro. La mia testa era ovattata, persa in una trance di emozioni, a differenza del mio corpo che sembrava sapere esattamente come comportarsi. L’ingresso è stato doloroso ma non tanto come immaginavo, la voglia stava facendo il suo dovere lubrificando la mia intimità. Hans aveva atteso il momento, penetrandomi poco alla volta, fino a che aveva capito di poter spingere un po’ di più. È venuto poco dopo, uscendo da me. Il suo orgasmo mi ha risvegliato dal sogno lucido che stavo vivendo, con velocità sorprendente mi sono infilata le mie mutande e sono fuggita via, il volto paonazzo e la mia voglia ancora pulsante in mezzo alle gambe. Sono corsa fino a casa e mi sono rifugiata nella stalla, dove ho lasciato che le mie mani finissero il lavoro rimasto in sospeso, esplodendo in un pianto disperato e colpevole.
Il giorno dopo sono tornata per portargli il pranzo, un po’ intimidita e decisa a non farmi toccare mai più. L’ho trovato seduto alla piccola scrivania intento a scrivere una lettera, non ha nemmeno alzato lo sguardo su di me quando sono entrata nella stanza. Me ne stavo andando, piena di rabbia e di vergogna, quando mi ha richiamato e attirandomi a sé, mi ha baciato con una passione che avevo visto solo al cinema.
È così che è iniziata la nostra storia. Mi ha istruita ai piaceri del sesso, con lui ho imparato a godere e a farlo godere.
Qualche volta mi fermo un po’ di più e parliamo, nel suo Italiano stentato mi racconta cose che con il tempo ho capito quanto potessero essere utili a tutti. Con un po’ di astuzia ho imparato a fare le domande giuste e sono riuscita a farmi dire come sono organizzati i turni di guardia, le squadre, gli addestramenti e anche gli spostamenti. A volte, con la scusa di insegnargli la nostra lingua, gli chiedo di tradurre le lettere che scrive e registro tutte le informazioni importanti. Sono diventata una spia e sono fiera di me. Quando torno a casa, riporto tutto in lettere che partono verso le montagne, passano di mano in mano con la speranza che arrivino ai partigiani e soprattutto a mio padre.
Hans dice di amarmi e io gli rispondo che lo amo anch’io ma non esiste l’amore per chi sa di poter morire da un momento all’altro, l’amore è un lusso che, chi soffre la fame e vive di paura, non si può permettere. Da quando è guarito gli capita di andare e tornare dalla città e porta con sé sempre qualche regalo: cioccolato, calze di nylon, sigarette e a volte medicine. Le porto a casa e le nascondo, so che mia madre non le accetterebbe mai, ma so che, se un giorno dovesse averne bisogno, non si farebbe troppe domande sulla loro provenienza.
Domani Hans partirà per una missione che lo porterà lontano, dice che tornerà presto ma non sa che quando lo farà non mi troverà più, anche io sono in partenza, vado sulle montagne, voglio avere notizie di mio padre prima che mia madre muoia di crepacuore.
Mi aggiusto il grembiule e mi piego per dare un ultimo bacio a quest’uomo che, a suo modo, è stato importante per me, ma il tonfo della porta che viene spalancata di colpo me lo impedisce, facendomi trasalire. I miei occhi sono sbarrati dallo stupore, davanti a me distinguo la canna di un fucile carico. Lo sparo rimbomba nell’aria, improvviso e fulmineo, seguito da un filo di fumo. Nel tempo di un attimo, il mio amante giace riverso e senza con vita, con una pallottola in fronte e la bocca aperta per il terrore. Io sono atterrita, così scossa da non riuscire a reagire né a proteggermi dal secondo colpo che mi colpisce dritta al petto. Il rumore mi esplode nelle orecchie, un ultimo barlume di lucidità mi aiuta a vedere in faccia l’uomo che, con gelida freddezza, ha messo fine alla mia giovane vita. La vista si annebbia, mi rimane solo un fiato per esalare le mie ultime parole: “Bentornato papà…”.
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CAPITOLO 8
"Ma'! Io esco!" Gridai, con ancora in bocca l'ultimo pezzo di ciambellone mezzo masticato.
"Hai finito di fare colazione?" Urlò di rimando mia madre, impegnata a stirare le camicie di mio padre, nella stanza da bagno trasformata, per l'occasione, in lavanderia.
"Si, mamma!"
"Bene, allora metti la tazza nel lavandino e vai. Ma ricorda di tornare per l'ora di pranzo. Puntuale, altrimenti tuo padre te le suona un'altra volta."
"Contaci, ma'. Ciao!" E uscii alla stessa maniera di sempre: scaraventandomi giù per le scale.
Erano le nove e trenta di una bella mattinata di sole. La giornata prometteva bene, sperando che poi avrebbe mantenuto. Trovai i miei amici al solito posto, ad attendermi, seduti sui gradoni della fontana di Piazza del Castello. Il nostro quartier generale. "Forza, Pietro! Sei sempre l'ultimo ad arrivare. Manco fossi la sposa!" Fu la calorosa accoglienza di Tonino.
"Veramente sono il penultimo. Che fine ha fatto Bomba? E' sempre il primo ad arrivare!" Risposi, non potendo fare a meno di notare l'ingombrante assenza.
"Bomba non viene."
"Come non viene? Che cazzo vuol dire? Dai, andiamolo a chiamare, altrimenti facciamo tardi."
"Ma che sei diventato sordo? Ho detto che non viene. I suoi lo hanno messo in punizione. Non lo fanno uscire. Ci ha già provato il Tasso a chiamarlo. Dai Tasso, raccontaglielo." Lo esortò Tonino.
"E' vero, Pietro, ci sono passato prima di arrivare qui. E quella stronza della madre mi ha pure tirato un secchio d'acqua dal balcone!" Disse il Tasso cercando di assumere l'espressione più innocente di cui fosse capace.
"Ma che è ancora incazzata per la storia del fiume? Dai, racconta come è andata!" Lo esortai. Sapevo che poteva essere una storia divertente. Del Tasso non c'era mai da fidarsi, gliene succedevano di tutti i colori.
"E' andata così: stamattina mi sono svegliato presto e quando sono arrivato alla fontana, non c'era ancora nessuno. Ho pensato che fosse strano, Bomba arriva sempre una mezz’ora prima di noi tutti. Allora sono andato a vedere se gli era successo qualcosa. Ho suonato il campanello, una decina di volte, ma niente. Non si è affacciato nessuno."
"Allora cosa hai fatto?" Domandò Schizzo, anticipandomi. Gli altri lo guardarono stupiti e ridacchiando. Io lo guardai e basta. Il Tasso invece, strano a dirsi, si incazzò e disse: "Ma cosa cazzo dici: e allora? E allora sei tutto deficiente! A te l'ho raccontata appena dieci minuti fa la storia!"
"Ero distratto, non ho sentito la fine."
"Ma se hai pure riso!"
"E allora? Ridevano tutti, ho riso pure io! Mica sono scemo!"
"No che non sei scemo, lo sanno tutti. Sei deficiente! Sei matto come un cavallo, Schizzo. Ecco cosa sei." Ora il Tasso era davvero inferocito.
"E piantala! Finisci di raccontare." Lo esortai.
"Dunque, visto che, secondo me, il campanello non funzionava, ho iniziato a gridare forte: Bomba! Bomba! A quel punto è uscita fuori quella stronza della madre. Era una furia. Mi ha guardato a brutto muso e mi ha detto: "Che cavolo hai da urlare, maleducato? Cosa cerchi?" "Cercavo Bomba, avevamo un appuntamento." Risposi. Non l'avessi mai detto! Si è incazzata come una biscia. Faceva la bava dalla bocca, tanto era cattiva. "Brutto teppistello balordo," Mi ha risposto, inviperita, "Mio figlio ha un nome e non è quello che hai usato tu. Vedi di ficcartelo bene in quella tua testolina di legno. E non venire mai più a chiamarlo. Non voglio che esca con voi piccoli delinquenti. Ieri è tornato a casa bagnato fradicio e ora i vestiti gli vanno stretti, tanto si sono ritirati." Non ci ho visto più e gliele ho cantate: "Guarda che a tuo figlio, i vestiti gli andavano stretti pure prima! Lo ingozzate come un maiale!"
Ragazzi, dovevate vederla! E' diventata paonazza, le si sono gonfiate tutte le vene del collo, ho avuto pure paura che esplodesse. A iniziato a farfugliare cose senza senso, ha riempito un secchio d'acqua e me lo ha tirato addosso. Mancandomi, per fortuna. "Vattene, brutto disgraziato! Vattene e non farti più vedere!" ripeteva. Ma così forte che pure le vicine di casa si sono affacciate.
"E tu? Che hai fatto? Te ne sei andato?" Chiesi. Ma la risposta era scontata: il Tasso voleva avere sempre l'ultima parola. A tutti i costi.
"Che cazzo di domande fai, Pietro? Certo che me ne sono andato. Che altro potevo fare?"
"Senza dire nulla? Non ci credo! Quella tua linguaccia non riesce a stare ferma."
"Beh, qualcosina ho detto..." Rispose, guardando altrove.
"Cosa?" Lo incalzai.
"Vaffanculo tu e quel rotolo di coppa di tuo figlio! Ecco cosa ho detto!"
Ridemmo a crepapelle, felici come bambini. Anche perché eravamo davvero bambini. Un vero peccato essersi persi quella scena meravigliosa.
"Però Bomba, in questa storia, non c'entrava niente. Non dovevi mandare affanculo pure lui." Obiettò, non senza ragione, Sergetto.
"Ero incazzato nero!"
"Tu sei sempre incazzato. E pure nero."
"Non è vero!"
"Si che è vero."
"Senti, Sergetto, non ti ci mettere pure tu, altrimenti mi incazzo di nuovo e te le suono." Ringhiò.
Gli saltammo tutti addosso e lo riempimmo di cazzotti sulle spalle, ridendo sguaiatamente. Era uno dei tanti modi per cementare la nostra amicizia. Sicuri che non sarebbe mai terminata.
"Certo che la madre di Bomba è proprio una stronza. Fosse per lei, non lo farebbe mai uscire di casa. Lo farebbe imbalsamare, piuttosto. Povero Bomba." Disse Tonino, quando ci fummo calmati.
"Mia madre dice che lei beve come una spugna. Per questo è così. E' più ubriaca la mattina, che la sera." Rincarò la dose Sergetto, mentre, con la coda dell'occhio, seguiva i movimenti furtivi di un grosso gatto nero.
"E il padre allora? Il padre non fa un cazzo dalla mattina alla sera! Se ne sta tutto il santo giorno al bar, a bere mezzi litri e a giocare a carte con i suoi amici. Mio padre è convinto che, prima o poi, farà una brutta fine." Rincarai la dose.
"Se continua in questa maniera, più prima, che poi. Inoltre...Guardate! Un gattaccio nero! Porta sfortuna! Pussa via, bestiaccia!" Disse il Tasso, cambiando repentinamente discorso. Raccolse una bella pietra da terra e la lanciò contro l'animale che se ne stava andando per i fatti suoi. Ma non lo prese. Il Tasso non ci prendeva mai. Non avrebbe colpito neanche un camion con rimorchio.
"Lascialo in pace, che ti ha fatto di male?" Lo rimproverai.
"Io li odio i gatti! Non li posso soffrire!"
"Tu odi tutti gli animali, Tasso!"
"Questa è una cazzata, Pietro! E pure bella grossa. I cani, per esempio, mi piacciono! Lo dice anche mio padre: il cane è obbediente, fedele, pure se lo prendi a calci, ritorna sempre. E si farebbe ammazzare per difenderti. Il gatto invece è ladro e traditore."
Che volete farci? Vivevamo in un piccolo paese. E nei paesi, la fiera del luogo comune rimane sempre aperta. Anche la Domenica. E si fanno degli ottimi acquisti. Che, a ben guardare, non è che nelle città se la passino meglio. O peggio.
"Allora anche tu. Se ti prendono a calci, rimani sempre fedele." Lo attaccai, cercando di metterlo in difficoltà, senza sapere bene dove andare a parare.
"Che c'entra? Mica io sono un cane!" Si difese.
"Però neanche il gatto è un cane!" Si intromise Schizzo.
Perdio se aveva ragione! Lo aveva steso con quattro parole. Non c'era modo di replicare a quella fulminante osservazione. Ce ne restammo per una mezz'ora sulle scale della fontana a cazzeggiare. In pratica si faceva di tutto, ma senza fare niente. Lo so che non è facile da spiegare e neanche ci provo. Dico soltanto che era uno dei nostri abituali passatempo. Non costava nulla e, tutto sommato, era pure divertente. Divertente fino ad un certo punto, perché poi stancava. Soprattutto se hai dodici anni e le cose che vorresti fare sono così tante. E anche l'energia è così tanta che a metterle insieme e ad infilarle di forza nel poco tempo a disposizione proprio non ci riesci. Neanche se ti ammazzi.
"Allora? Cosa facciamo adesso? Mica possiamo passare tutta la mattinata a romperci i coglioni su queste scale puzzolenti!" Disse improvvisamente Tonino. Aveva sempre l'argento vivo addosso. O, se preferite, i diavoli al culo.
"Quando? Adesso, dici?" Risposi distrattamente.
"No, non adesso, Pietruccio, tra una settimana! Guarda che oggi sembri proprio rimbecillito. Certo che adesso! Allora: cosa facciamo?"
"Adesso niente. Io, ieri sera, le ho prese di brutto. Sia per i vestiti bagnati, che per il ritardo. Se non torno a casa in tempo per pranzo, mia madre mi da una bella ripassata. Lo ha promesso. E lei dice che le promesse vanno sempre mantenute."
"Anch'io lo ho buscate di santa ragione. Mio padre si è tolto la cinghia dei pantaloni e mi ha lasciato certi segni sulle gambe che sembrano frustate. Nemmeno Gesù le prese così tante, prima di morire. Pure io devo tornare prima di pranzo."
Sapevo che tutti noi avevamo buscato la nostra razione giornaliera. In quei tempi era la regola. Le buscavi ad ogni occasione. Era un metodo in voga. Il non plus ultra tra i vari metodi educativi. Anzi, mi correggo, l'unico metodo testato scientificamente. Testato sulla nostra giovane pelle, naturalmente. C'erano si delle variazioni sul tema che riguardavano la durata, l'intensità, gli strumenti usati, ma il metodo non fu mai messo in discussione. Funzionava? Chissà, non ne conoscevamo altri. Fossero stati solo i tuoi genitori a dartele, mezza pena, ma te le davano tutti quelli che pretendevano di insegnarti qualcosa: il maestro di scuola, il parroco, i ragazzi più grandi. Loro lì ad insegnare e tu a prenderne. Interrompere questa specie di catena di Sant'Antonio, prosperante sul picchiare i bambini, toccò a quelli della mia generazione: una volta investita del ruolo di genitore. Si sostituirono le botte con fiumi di parole. Parole che avrebbero dovuto spiegare ai nostri figli quello che, troppo spesso, neanche noi avevamo compreso. Con risultati non dissimili da chi aveva usato il precedente sistema. Insomma, anche noi facemmo un bel po' di danni. Con il retrogusto amaro di chi dovette reprimere a forza la voglia di menar le mani.
"La mia bella idea ce l'avrei..." Disse Tonino, dopo averci rimuginato sopra a lungo, girando intorno alla fontana.
"Spara!" Lo esortò il Tasso, fissandolo con estremo interesse.
"Andiamo al fosso a pescare con le mani!" E il suo volto asimmetrico si illuminò tutto.
"Allora non hai capito un cazzo!" Rispondemmo in coro.
"Dobbiamo essere a casa per pranzo, se vogliamo arrivare vivi anche all'ora di cena." Aggiunsi.
"Siete voi che non capite un cazzo! Come sempre. Dicevo di andarci dopo mangiato. Anch'io ho la ritirata. Ci vediamo verso le due, le due e trenta e andiamo a pescare. Ma voglio che proviamo anche a richiamare Bomba, Hai visto mai che la madre abbia cambiato idea."
"Io col cazzo che vengo a chiamarlo. Se quella mi becca, sicuro che mi massacra." Disse il Tasso, con estrema decisione.
"Vacci tu, Pietro. Tu sei l'unico che stai simpatico a quella vecchia megera. Una volta ti ha persino invitato ad entrare in casa!" Mi supplicò Sergetto.
Era vero. Tra noi, ero l'unico che avesse varcato quella soglia. Una volta sola. E mi era bastata. Non avevo alcuna intenzione di farlo di nuovo. Non mi era piaciuta affatto quella casa. Mi faceva sentire a disagio. Quell'unica volta che lo feci ebbi l'impressione di essere entrato in una di quelle cappelle da ricchi che giganteggiavano nel cimitero del paese. Roba da farsela sotto dalla paura. Era successo l'inverno passato, poco prima del Natale. Ero andato ad aiutare Bomba con i compiti di matematica. Me la cavavo bene con i numeri, lui invece era una rapa. Completamente negato. La madre, in verità, mi accolse con un gran sorriso e mi trattò come se mi conoscesse da sempre; anche se era la prima volta che mi vedeva. Se fosse stata ubriaca, come dicevano tutti, non lo so, so che a me parve normale. Infatti non fu lei a non piacermi, fu la casa. Metteva paura! Sembrava quella della Famiglia Addams. Buia, finestre appena socchiuse, quasi ad impedire all'aria di circolare liberamente, e ad avvisare la luce ed il sole che lì dentro non erano affatto i benvenuti. Pulita da morire, luccicava, non un granello di polvere, neanche a pagarlo oro. Ordine perfetto, non trovai una cosa fuori posto, sembrava come se... come se fosse disabitata.
O abitata da cadaveri. Come una tomba, appunto. Neanche Bomba mi piacque là dentro. Aveva lasciato gli scarponi fuori della porta d'ingresso, indossava un brutto pigiama a righe e, ai piedi, portava delle stupide pantofole da vecchio. Ricordo bene che pensai: cavolo, sono solo le tre del pomeriggio e si è già vestito per andare a letto. No, quello imprigionato là dentro, non poteva essere il mio amico Bomba. Ma la cosa peggiore di tutte, quella che non potrò mai dimenticare, campassi anche cent'anni, e che mi sono sognato più volte, svegliandomi poi di soprassalto, terrorizzato e fradicio di sudore, fu quella specie di altare, come quello della Cattedrale, ma un poco più piccolo, sistemato in un angolo del salotto buono. Sopra c'era una foto della sorella di Bomba, quella morta di leucemia due anni prima e decine... che dico decine, centinaia, forse migliaia di candele accese tutto il giorno. Al solo vederlo mi si drizzarono tutti i peli delle braccia e fui percorso da un brivido gelido dai piedi alla nuca. Spaventosissimo! Altro che Belfagor, il telefilm che mandavano la sera del giovedì in televisione. Pure Belfagor mi spaventava, ma molto meno.
L'unico momento bello di quella indimenticabile giornata, fu quando, finito di fare i compiti e fatti i saluti di rito, aprii l'uscio di casa e l'aria fresca dell'esterno mi inondò la faccia e i polmoni. Mi ripulì il naso da quella puzza rancido che regnava incontrastata in quegli ambienti e ti si attaccava addosso come un esercito di zecche fameliche. Molti anni dopo, facevamo già le superiori, Bomba, che non era uno stupido, nell'invitare a casa sua uno che frequentava la sua stessa classe, ma che veniva da un altro paese, lo accolse con queste poche, sagge parole: Prego, entra. E non preoccuparti, questa casa è inospitale al massimo anche per chi l'abita. Descritta come se fosse stata fotografata.
"Va bene, io ci vado, ma lo chiamo da sotto, dalla strada. Se lo lasciano uscire, bene, altrimenti andiamo solo noi." Dissi, tornando dalla gita mentale.
L'accordo era stato stipulato. Ci attendeva un bel pomeriggio di pesca sportiva, senza attrezzi, mani contro pinne. Alla pari. Senza trucchi e senza inganni. e, forse, visto che si trattava di stare nell'acqua, ne uscivano avvantaggiati i pesci.
Fui l'ultimo ad arrivare all'appuntamento, come da copione. Erano le tre meno un quarto, avevo finito di mangiare per tempo, ma mio padre mi costrinse a lavare la sua auto. Lo fece passare come un supplemento di pena per il ritardo del giorno prima. In compenso, non giunsi da solo, Bomba era con me, sorridente più che mai. Per quel giorno l'aveva scampata. Non era stato troppo complicato, la madre, quando mi vide, lo lasciò libero senza opporre resistenza. Non posso negarlo, le chiacchiere e le malizie di paese, assorbite mio malgrado, mi indussero a supporre che avesse bevuto e, di conseguenza, avesse dimenticato tutto. Non dimenticò comunque le solite raccomandazioni, quelle tipiche di ogni madre di allora: state attenti per strada, guardate prima di attraversare, non accettate caramelle dagli sconosciuti, non fate tardi per cena, con l'aggiunta, ad esclusivo uso e consumo del suo pargolo, di: vedi di tornare bagnato un'altra volta e tuo padre ti scortica vivo! Ragazzino avvisato, mezzo salvato.
Il nostro arrivo fu accolto come una vera festa. Ci furano urla, abbracci, complimenti, baci...No, baci no, non ci si baciava tra noi, non spesso, era da froci! Fu soprattutto Bomba il festeggiato. Bomba il figliol prodigo. Anche se nessuno di noi sapesse, in realtà, cosa cazzo significasse prodigo.
"Cosa hai combinato, grissino? Sei scappato di casa?" Disse Tonino arruffandogli la capigliatura.
"Com'è che hai fatto? Ti sei calato giù per il discendente del tetto?" Lo punzecchiò Sergetto.
"Si, a rate!" Aggiunse il Tasso.
Bomba si voltò verso di lui a brutto muso e ringhiò: "Zitto tu, testa di cazzo!"
"Cosa vuoi da me ora? Cosa ti ho fatto?"
"E hai pure la faccia tosta di chiedermelo? Hai fatto incazzare mia madre, ecco cosa hai fatto! E quando è rientrata in casa me le ha date un'altra volta. Come se non le avessi prese già abbastanza. Si è incazzata con te, ma sono stato io a prenderle al posto tuo. Ti sembra giusto?" Bomba era furioso e triste, allo stesso tempo.
"Certo, sei bravo a dare la colpa agli altri! Mai che fosse colpa tua, sempre di qualcun'altro! Stammi bene a sentire, cocco di mamma: se tua madre è una matta, è ugualmente colpa mia?"
Bomba era vicino al punto di ebollizione. Si accostò minacciosamente all'avversario, con gli occhi iniettati di sangue e i grossi pugni serrati lungo i fianchi. Lo sovrastava di buoni venti centimetri e di almeno venti chili. "Senti, piccolo bastardo," Gli disse con tono calmo. "Tu prova ancora ad insultare mia madre e io ti butto via quei quattro denti storti che hai a forza di cazzotti!"
La tensione aveva raggiunto il livello di guardia. Il Tasso le avrebbe prese, sicuro, ma, di certo, non si sarebbe tirato indietro. Piuttosto si sarebbe fatto ammazzare. Era colpevole, vero, non si insultano le madri degli amici, mai, o, almeno, mai in loro presenza. L'aria era diventata irrespirabile, pesante, minacciosa. Fu Schizzo a dare una sterzata alla situazione.
"Sentite, voi due cazzoni," Disse rivolto ai belligeranti, "Se proprio ne avete voglia, potete pure rimanere qui a gonfiarvi di botte, ma noi non vi aspettiamo. Sicuro. Ce ne andiamo al Fosso di Campo per pescare. Fottetevi voi e la vostra voglia di menar le mani." Si alzò da dove era seduto e si avviò da solo verso l'uscita del paese.
"Ehi! Aspettaci, cornutaccio! Dove vuoi andare solo soletto? Cecato come sei, facile che ti perdi al primo incrocio!" Gli gridò dietro il Tasso. E, subito dopo, rivolgendosi al suo nemico:"Su, andiamo Bomba, che quel matto di un nasone è capace davvero di piantarci qui."
"Tanto lo raggiungeremmo giù al passetto, con la proboscide impigliata tra i fitti rami del biancospino." Rispose Bomba, cingendo le spalle del tasso con uno dei suoi enormi arti superiori.
Funzionava così da bambini: un attimo prima eri pronto ad azzannarti al collo per un nonnulla, l'attimo dopo andavi d'amore e d'accordo. Non c'era tempo da sprecare per rancori e musi lunghi. Certi atteggiamenti li avremmo imparati da grandi.
Dieci minuti dopo eravamo giù al fosso. Il nostro paesello era assediato dai corsi d'acqua. Ce ne erano per tutti i gusti e tutte le tasche. Una manciata di case su un pezzo di tufo con i piedi costantemente a mollo. C'era, appunto, il Fosso di Campo, c'era il Fosso del Pappagallo, Fosso Cupo, Rio Miccino e sua maestà il Tevere. Un altra categoria. Confronto al Tevere, gli altri erano delle misere pisciate di cane. Per essere belli, erano belli, niente da ridire, si snodavano tortuosi in mezzo ad una vegetazione rigogliosa ed incontaminata, si sporgevano da pericolosi strapiombi fino a cadere di sotto in splendide cascate, da dove tuffarsi era una gioia infinita, anche se, ogni volta il culo ti si stringeva dalla paura. Erano belli, ma il rubinetto da cui uscivano era ben misero. Non sarebbero mai passati di grado. Mai sarebbero diventati dei veri fiumi. Ci liberammo dei vestiti e delle scarpe ed entrammo in acqua. Gelida come la morte.
"Formiamo le squadre e facciamo a gara a chi ne prende di più!" Propose il Tasso, che era un pescatore formidabile. Imbattibile. Una volta, in tv, vidi un documentario dove c'era un orso che pescava salmoni. Beh, il Tasso avrebbe fatto il culo pure a quell'orso!
"D'accordo, ma tu ti becchi Schizzo. Schizzo era una pippa, ma, tanto, lui da solo valeva più di tutti noi. Anche con una mano sola.
Infatti."Per me non c'è problema, tanto non avete scampo. Vi mangio in un boccone come pescetti fritti!" Rispose il Tasso.
"Sei il solito sbruffone, voglio vedere quando ti toccherà mangiare Bomba!" Lo schernì Sergetto.
Formammo le altre due squadre, io con Bomba e Sergetto con Tonino, visto che stavano sempre insieme, manco fossero fratelli. Ogni coppia poteva scegliersi il tratto di fosso che avrebbe battuto, ma una volta scelto, non poteva sconfinare. Io e Bomba ci prendemmo uno spazio tra due curve, dove l'acqua scorreva sotto un fitto manto di crescione selvatico. Non era molto profondo e, allungando le mani, ci si arrivava abbastanza bene. Lo avevamo già battuto in precedenza e qualche barbo, o qualche cavedano, lo avremmo di sicuro preso. Tonino e Sergetto si appostarono tra le radici di un salice, che sprofondava nell’acqua calma e melmosa. Il Tasso, come al solito, si recò a passo deciso verso quella che era la sua personale riserva di pesca: una parete di arenaria profondamente scavata da un'ampia ansa del fosso. Era una miniera di pesce, lo sapevamo tutti, ma non c'era modo di incastrare le prede addosso alla parete. Per riuscirci dovevi, per forza di cose, essere un drago. E lui lo era. Una volta, l'estate scorsa, aveva persino tirato fuori una trota che faceva più di un chilo.
"Tu appostati qui, dove inizia la curva, Schizzo. Infila sotto le mani e cerca di prenderne almeno uno. Io mi immergo dove la buca è più profonda." Ordinò il Tasso al suo compagno di squadra.
"Col cazzo che ce le metto! Non si vede niente, ho paura di beccare qualche serpente!"
"Si che ce le metti, non ci sono serpenti, altrimenti che sei venuto a fare?"
"Ti ho già detto che non ce le metto!"
"Se proprio non vuoi metterci le mani, mettici l'uccello, basta che ci infili qualcosa. Tanto per partecipare." Urlò il Tasso, che, nel frattempo, ne aveva già preso uno e gettato sulla riva.
"Farò di meglio, userò questa!" Disse trionfante Schizzo, tirando fuori una forchetta nascosta nelle mutande.
Il Tasso lo fissò sbalordito, con un altro bel barbo in mano, poi scoppiò in una fragorosa risata. "Correte," Gridò "L'uccello di Schizzo ha tre punte!"
Lasciammo di corsa le nostre postazioni ed andammo a sincerarcene di persona. Schizzo stava piantato in mezzo alla corrente, a gambe divaricate, con indosso soltanto un paio di logore mutande a giro collo e la forchetta sollevata in alto, sopra la testa. Sembrava la controfigura di Nettuno. Non il dio del mare, ma il pescivendolo del paese, che tutti, per prenderlo per il culo, chiamavano così. Era un'immagine pietosa.
"Che cazzo te ne fai di quella forchetta? Cosa credevi? Che li pescassimo già cotti?" Lo apostrofò Tonino.
"Sollevo i sassi dal letto del fosso e ci infilzo le alborelle e gli altri pesci che ci trovo nascosti sotto." Rispose Schizzo tutto impettito.
Non starai dicendo sul serio, vero Schizzo?" Domandò Bomba con la bocca spalancata dall'incredulità.
"Certo, stupido ciccione che dico sul serio! Ed ora fuori dalle palle, che devo lavorare." Disse sollevando con cautela una grossa pietra. Non trovò che acqua. Acqua pure sotto alla seconda e alla terza e alla quarta. Stava perdendo le speranze e la pazienza, quando la trillante voce di Sergetto richiamò la sua attenzione. Si era calato le braghe fin sopra le ginocchia e, saltellando sul posto, cantilenava;" Schizzo! Guarda che bel pesce! Prendilo! Prendilo!"
Schizzo partì di scatto verso di lui, brandendo la forchetta come un pugnale d'assalto, ma io e Bomba fummo lesti ad afferrarlo al volo. Faticammo non poco per calmarlo, ma, alla fine, ci riuscimmo. Quel matto nasone era imprevedibile. Di sicuro glielo avrebbe infilzato davvero come una salsiccia. Sergetto, dapprima, sembrò non capire, pian piano iniziò a realizzare la gravità della situazione e fu assalito alla gola da quella fifa blu che era sempre in agguato dietro le sue spalle. Attese preoccupato la quiete dopo l'accenno di tempesta, si coprì con cura i genitali e disse con una voce incrinata dal tremolio. "Certo, Schizzo, che tu sei proprio suonato. Cosa ti ho fatto di male?"
"Niente." Rispose Schizzo, che, nel frattempo, era tornato quello di sempre: l'alieno incomprensibile.
"Allora perché volevi darmi una forchettata?"
"Perché te la meritavi. Mi stavi prendendo per il culo."
"E allora? Qual è la novità? Ci prendiamo sempre per il culo!"
"E allora la forchetta me l'ha data mio padre. Mi ha detto che lui, da piccolo, i pesci li prendeva con questa."
Questo era Schizzo. Un attimo con noi, l'attimo dopo perso chissà dove. Dire che era inafferrabile era dire poco. Capirlo era invece impossibile, ma a noi piaceva e non sentivamo il bisogno di doverlo capire per forza.
"Come faceva a prendere i pesci, tuo padre?" Chiese timidamente Bomba. Non riusciva a capacitarsene.
"Con la forchetta, idiota! Quante volte devo ripeterlo?"
"E come no! Con la forchetta, tuo padre, al massimo ci piglia le tagliatelle che cucina tua madre. Ma quelle non valgono, sono già morte!" Lo stuzzicò Tonino.
Improvvisamente un rumore alle nostre spalle ci fece ammutolire. Era come se qualcosa stesse colpendo la superficie dell'acqua con estremo vigore. Ci voltammo tutti di scatto. Il rumore proveniva da un piede che percuoteva insistentemente il fiumiciattolo. Il piede sembrava quello del Tasso, sembrava, perché il resto del corpo era come inghiottito dalla buca da pesca. Quel battere ritmico era un segnale, lo sapevamo bene. Il Tasso doveva avere per le mani qualcosa di veramente grosso e non lo avrebbe mollato neanche a costo della vita. Afferrare la gamba e tirarlo fuori era compito nostro. Ci precipitammo in suo aiuto, Bomba lo afferrò per bene e lo cavò in un istante da quella scomoda e pericolosa situazione. Una volta fuori, tossì tre o quattro volte di seguito, snocciolò una sfilza di bestemmie e ci ammonì: "Che cazzo aspettavate ad aiutarmi, brutti stronzi? Volevate farmi affogare?"
Scusaci, Tasso, eravamo distratti! Schizzo voleva fare la festa a Sergetto a forza di forchettate!" Mi scusai per tutti.
"Potevate lasciarlo fare. Uno di meno a papparsi questo ben di Dio!" Esclamò, facendo uscire anche le mani dall'acqua con un notevole sforzo.
Lo stesso sforzo che dovettero fare i nostri occhi per non schizzare via dalle orbite, tanto fu lo stupore e l'ammirazione. Quello sgorbio di ragazzino teneva ben saldo per le branchie un cavedano gigantesco. Faceva quasi paura, tanto era enorme. Sarà stato lungo almeno tre metri! Beh, forse non proprio tre, forse due! No, no, a guardarlo meglio forse... forse... non avrei saputo dire quanto fosse lungo, ma giuro che sembrava un pescecane!
"Sei un grande, Tasso!" Si complimentò Schizzo, dandogli una gran manata sulla schiena nuda, che quasi gli fece mollare la presa.
"Stai attento, stupido di un matto! Se me lo fai sfuggire, ti tengo sott'acqua finché non lo ripeschi! Ci volesse pure una settimana."
"Basta pescare, ora bisogna festeggiare. Facciamoci una fumatina!" Disse Tonino, strizzando l'occhio e facendo la faccia furba.
Lo guardai stupito. Evidente che ne stava sparando una delle sue. Nessuno di noi aveva mai fumato. "Stai cazzeggiando!" Dissi.
"Tu dici?"
"Sicuro! Cosa ci fumiamo? La vitalba secca?"
Si diresse verso la riva, dove avevamo abbandonato i vestiti, raccolse i suoi pantaloncini e ne estrasse sei sigarette: "Queste ci fumiamo! Altro che vitalba."
Ammetto che ero spaventato. Curioso e spaventato. Non riuscivo ad immaginarmi che effetto avrebbe potuto farmi. Oltre al non trascurabile fatto che, se per un mal'augurato caso, i miei fossero venuti a saperlo, mi sarebbe convenuto fare fagotto e scappare di casa.
"Come le accendiamo?" Lo sapevo, era un appiglio debole, ma anche l'unico che mi venne in mente. Volevo prendere tempo.
"Con questi!" Rispose ridendo e mostrando una manciata di fiammiferi da cucina.
"Va bene, fumiamo." Ero stato sconfitto. Ma ci avevo provato. La coscienza era a posto. Avevo tentato di resistere, si vede che era così che doveva andare.
"Ve lo scordate! Io non ci penso nemmeno! Quella roba fa male. E se lo sa mio padre, mi appende per i piedi fuori dalla finestra!" Fece Sergetto terrorizzato.
"Di che ti preoccupi? Tu abiti al pianterreno!" Rispose il Tasso, che aveva persino perso interesse per la sua preda straordinaria.
"Mio padre, stavolta, davvero mi scortica vivo!" Piagnucolò Bomba
"Che cazzo vuole tuo padre? Lui sta sempre con la sigaretta in bocca!" Disse Tonino, che, intanto, si era già rivestito e aveva preso posizione a cavalcioni su un grosso tronco ricurvo che sfiorava il pelo dell'acqua.
"Si, ma lui è grande. E può fare quello che vuole. Io invece sono ancora piccolo e devo fare quello che vuole lui. Non credo che questa faccenda gli andrebbe a genio."
"Piccolo? Hai detto piccolo, Bomba? Tu non sei mai stato piccolo. Sei il doppio di tuo padre. Forse dovrebbe essere lui a fare quello che dici tu!" Dissi, tanto per darmi un tono. Cercando di mascherare le mie paure, ridendo di quelle degli altri.
"Insomma, fate un po' come vi pare! Io ne ho portate sei, una ciascuno. La mia, ora, la accendo e me la fumo tutta. Cosa cazzo potrà mai farmi?" Tagliò corto Tonino.
Inutile dire che ci avvicinammo tutti. Ognuno recando con se il proprio bagaglio di eccitazione, di paura, di riluttanza, di trasgressione. Prendemmo in mano la nostra prima sigaretta. Non c'erano femminucce tra noi. tirarsi indietro non era previsto dalla legge. La nostra legge. Era una vera sfida da grandi. Tutti lì a romperci che non si doveva, che faceva male, ma, nello stesso tempo, tutti che fumavano come camini. Qualcosa non quadrava. Possibile che gli adulti fossero un branco di cazzari? I nostri genitori compresi? Non poteva essere. Probabilmente eravamo soltanto troppo piccoli per capire, o, a sentir loro, troppo stupidi. Prendemmo la nostra sigaretta e un paio di fiammiferi a testa, tanto per stare sicuri.
"Accendi prima tu!" Ordinai a Tonino.
"Perché prima io? Accendi tu per primo!"
"Sei stato tu a portarle. E' stata tua l'idea, quindi tocca a te!" Temporeggiavo. Avevo fifa, ma guai a farlo vedere.
"Accendiamo tutti insieme." Propose il Tasso.
La proposta fu approvata all'unanimità.
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È solo una storia d'amore, Anna Premoli
Scheda del libro
Autore Anna Premoli
1ª ed. originale Novembre 2016
Editore: Newton Compton (Anagrammi)
Pagine 320
Genere Rosa
Lingua originale Italiano
Sinossi Cinque anni fa Aidan Tyler ha lasciato New York sul carro dei vincitori, diretto verso il sole e il divertimento della California. Fresco di Premio Pulitzer grazie al suo primo libro, coccolato dalla critica e forte di un notevole numero di copie vendute, era certo che quello fosse solo l'inizio di una luminosa e duratura carriera. Peccato che le cose non stiano andando proprio così: il suo primo libro è rimasto l'unico, l'agente letterario e l'editore gli stanno con il fiato sul collo perché consegni il secondo, per il quale ha già incassato un lauto anticipo. Un romanzo che Aidan proprio non riesce a scrivere. Disperato e a corto di idee, in cerca di ispirazione prova a rientrare nella sua città natale, là dove tutto è iniziato. E sarà proprio a New York che conoscerà Laurel, scrittrice di romanzi rosa molto prolifica. Già, "rosa": un genere che Aidan disprezza. Perché secondo lui quella è robaccia e non letteratura. E chiunque al giorno d'oggi è capace di scrivere una banale storia d'amore... O no?
Dettagli
Inizio lettura: mercoledì 17 gennaio 2018, sera, intorno 23.30. Camera mia (anche se ho letto solo un capitolo, ma siamo fiscali).
Fine lettura: mercoledì 24 gennaio 2018, pausa pranzo, intorno 14.30. Camera mia.
Tempo di lettura: 6h per 258 p/m
Acquistato (quando, dove e perché): Acquistato prima di Natale da Libraccio.it, nel cofanetto “Il regalo perfetto: Batticuore. Tutta colpa del cuore”. Avevo un buono da spendere e la buona vecchia Newton mi uccide sempre con quei suoi 3x9.90€. La cosa divertente? L’ho letto in formato ebook.
Rating: ★½ (Voto IBS: ★★★★½ )
Questo libro è esteticamente troppo bello per il suo contenuto *sigh*
I say… Molte chiacchiere, troppi pensieri… sì, ma la sostanza?
Anna Premoli, siamo alla resa dei conti. Io ti do sempre un’altra possibilità, sempre una di troppo, ma questa volta hai decisamente toppato. Il tuo è stato un diminuendo, sei partita alla grande con “Ti prego lasciati odiare” e poi scendi in picchiata fino a quest’ultimo libro. Che ti è successo, cara Anna?
Molti – lei stessa – l’hanno accostata a Laurel, la protagonista di questo libro. Una prolifica scrittrice di libri rosa, autoironica e tagliente, con una sua opinione per qualunque cosa, ma a cui il termine “rosa” sta ormai stretto. Okay, fin qui ci siamo: Anna Premoli non è di certo una scrittrice ad alto tasso glicemico, la accosterei più ad un tiramisù, dolce e al tempo stesso amaro. Nessuna sorpresa. E poi, dal 2012 ha tirato fuori dal cappello ben dieci libri, quindi Laurel urla A-N-N-A a grandi e chiare lettere.
E poi c’è Aidan, il suo protagonista maschile. Come al solito, gli uomini risultano sempre più gradevoli delle protagoniste femminili premoliane. Sbruffone, egocentrico, a tratti paradossale. Ed è qui che comincia il divertimento: perché per me, la Premoli è più Aidan che Laurel. Aidan ha vinto un Pulitzer cinque anni prima dell’inizio di questo libro, un premio pesante che non ha fatto altro che aumentare le aspettative su un secondo libro che non è mai riuscito a scrivere.
Insomma, non ci serve disturbare chissà quale filosofo per capire l’antifona. La Premoli, dopo aver vinto il Premio Bancarella col suo primo libro, ha avuto gli occhi puntati addosso come dei fari su un cerbiatto sulla statale. La pressione si è fatta sentire, libro dopo libro.
Ora, però, il problema è che, anziché migliorare sé stessa, come ha fatto Aidan, e scrivere un libro rosa-ma-non-rosa, come ha fatto Laurel, lei non ci è riuscita.
Per carità, un plauso alla dialettica che l’ha sempre contraddistinta, ma dalle sue pagine traspare una pomposità ed una antipatia che – sebbene già presente negli altri suoi romanzi – qui è decuplicata. Non è “solo una storia d’amore”, perché la storia d’amore non c’è. Vi dico solo che l’e-reader segnava circa il 75% quando i protagonisti si sono scambiati il loro primo bacio! L’amore qui fa solo da misero sfondo, è un personaggio che intravediamo dietro il sipario delle sue costanti critiche, del suo punto di vista onnipresente, della sua voce narrante fin troppo prepotente.
La presa in giro sta nel far dire ai suoi personaggi determinate cose, e fare lei stessa tutto il contrario! Il rosa è un genere prima di tutto di intrattenimento, le seghe mentali di pagine e pagine lasciamole fuori.
“Io non credo nella crescita personale dei personaggi, la gente non cambia!”. E la “crescita personale” dei due personaggi avviene con una porta sbattuta in faccia per lui ed una chiacchierata sul divano con l’amica per lei.
“Io non ho bisogno di un uomo per vivere!” e capitola per un mazzo di fiori rosa.
“Io non confondo i miei personaggi con persone reali!” e “Ma chi sto baciando? Aidan (personaggio della Premoli), Adam (personaggio del libro di Aidan) o Andrew (personaggio del libro di Laurel)?”.
Li chiamavano Miss e Mister Volontà di Ferro.
Insomma, cara Anna, anche io sono stanca di libri che “io sono sua e lui è mio”, “solo io posso salvarlo”, “i nostri corpi combaciano alla perfezione”, ma pure tu… ci hai messo il carico da 100! Cos’è, avevi paura che scrivendo un saggio o un articolo, la tua onnipresente opinione non sarebbe stata ascoltata?
Anna Premoli aveva qualcosa da dire, e l’ha voluto fare a tutti i costi. Il suo Pro Rosa per riabilitare l’opinione contro “le donnine fragili e indifese” che leggono “libri superficiali e leggeri” dalle copertine fucsia ha toppato. Anche perché, se i validi rappresentanti del genere sono i personaggi di questo libro, con la loro confusione, frustrazione ed arroganza, non stiamo messi proprio bene, eh.
Chicca iniziale? Il libro di Laurel che si chiama “Ti prego lasciati odiare”.
Chicca finale? Anna Premoli che scrive:
… da oggi in poi non avrò alcun problema a pubblicare rosa in quanto tale. Lo farò a testa alta, perché ho tutta l’intenzione di difendere il fatto che anche le donne intelligenti possono leggere e scrivere rosa. E, sorpresa delle sorprese, non abbiamo affatto bisogno di giustificazioni per farlo.
E l’intero libro è una giustificazione per lei che scrive e legge rosa.
Mood: la noia. La Premoli si prende troppo, troppo sul serio.
Citazioni
«Quand’è stata l’ultima volta che ti sei innamorato?», mi incalza. «Chi, io? Ma io m’innamoro tutti i giorni!». E gli rifilo il mio sorriso più convincente. La palpebra tremante di Norman è un chiaro indizio del fatto che sta per perdere la pazienza. È a tanto così dall’esplodere e stringere direttamente il mio collo. O colpirmi con quel tomo fucsia. Dio, non posso morire ucciso da uno stupido libro rosa. «Aidan, sto dicendo innamorato sul serio! Lo so bene che sei infatuato ogni giorno di una donna diversa e che perdi l’interesse non appena questa apre bocca!», mi rimprovera. Come mi conosce bene. Purtroppo. Mai mettersi in affari con chi conosce i tuoi difetti, è uno svantaggio non da poco. «Motivo per cui cerco di non farle mai parlare molto». «Aidan…», sospira esasperato.
«Ma che diavolo è successo tra di voi?», mi chiede il mio agente, osservando le occhiatacce che continuiamo a scambiarci io e l’uomo più arrogante del globo. «Abbiamo solo preso un caffè insieme», gli rispondo. «Non abbiamo solo preso un caffè», si inserisce Aidan. «Che non vi venga mai in mente di andare a cena fuori!», esclama preoccupato Norman. «L’umanità non è ancora pronta per un evento così catastrofico».
Per fortuna la cena si rivela essere molto meno tesa dell’antipasto: Aidan rimane il bersaglio preferito delle critiche dei suoi genitori, ma è evidente che è stato messo in secondo piano perché stanno tutti gareggiando a fare domande sui temi più imbarazzanti possibili. Tipo il sesso. A cena. Con gente appena conosciuta. Un vero sogno.
Sospira, cercando di calmare la sua ira. «Senti, non ti pare di aver fatto già abbastanza?». Lo osservo curioso. «Io? Perdonami, ma a costo di farti notare l’ovvio, non ti ho mica spinto. Ho solo detto Alex. Cosa c’è, non possiamo più nominarla?». Lo so che sto giocando con il fuoco ma, appurato che per fortuna Norman sta bene, sono intenzionato ad andare a fondo della questione. Qui c’è puzza di bruciato… «Possiamo, possiamo tranquillamente pronunciare il suo nome», mi dice rimettendosi in piedi, con il tono più lugubre che io gli abbia mai sentito usare. «Ok, allora dillo». «Dire cosa?», chiede facendo finta di non capire. Sì, ho visto che si è fatto male alla caviglia e zoppica, ma non riuscirà a impietosirmi. «Il suo nome». «Aidan…», mi avverte. «Forza, cosa vuoi che sia, no? Passi le tue giornate a ripetere il mio…». È a tanto così dal prendermi a pugni. Lo so. Ma amo il rischio. «Alexandra», pronuncia infine, visibilmente esasperato e con una sfumatura roca nella voce. «Wow», commento sinceramente impressionato. «Wow cosa?» «Wow, mi sono quasi innamorato anch’io di te», lo prendo in giro. «Aidan…». Sempre quel tono cupo. Per non parlare dell’espressione tumultuosa. Sono quasi tentato di chiamare Laurel o almeno di fargli una foto: Norman sarebbe un meraviglioso eroe romantico, ora che ci faccio caso…
La sua risata rimbalza sulla mia guancia, tanto è vicino ormai. «Voi scrittrici di rosa siete un po’ fissate. E va bene il femminismo e la libertà sessuale, ma te l’hanno mai detto che c’è anche altro, oltre il sesso?». Lo fisso per nulla convinta. «Tipo?» «Tipo il secondo bacio», sussurra prima di decidersi finalmente a baciarmi.
Per gente come Laurel scrivere è facile. Per me è un processo complicato e pieno di ostacoli. E sì, sono cosciente di essere io stesso il primo ostacolo, ma questo non cambia le cose. Per dare qualcosa in pasto alla pagina bianca ho un disperato bisogno di nutrirmi di sensazioni, emozioni, intuizioni. In presenza di Laurel riesco a provare così tante cose che quasi non arrivo a scrivere tutto quello che sento. Ecco perché la sto rincorrendo per il Paese nemmeno fossi un drogato alla ricerca della prossima dose. E perché mi sono sentito vagamente offeso per essere stato tenuto all’oscuro dei suoi piani. Non che Laurel debba davvero condividerli con me, ma non sarebbe stato almeno gentile, visto il tipo di rapporto che si è sviluppato tra di noi?
«Non ti agitare», mi raccomanda Norman al mio fianco. «Chi, io?», fingo indignazione. «Sì, tu. Hai la brutta abitudine di far uscire da quella bocca un sacco di sciocchezze quando sei sotto pressione». «Ma io non sono mai sotto pressione!», esclamo sorridendo. Mi sto esercitando a fingere. «Uhm…», mormora il mio amico perplesso. «Conosco quel tono, caro mio», lo avverto. «Promettimi che rifletterai almeno venti volte prima di rispondere». «Ma non bastavano dieci?» «Dieci vale per la gente normale. Tu non rientri nella categoria», afferma imperturbabile.
«Andrà tutto bene», provo a rassicurarlo. «Non puoi saperlo», mi fa notare cupo. «In effetti non posso. Ma illudersi aiuta. Credo. Dicono». «Chi, chi lo dice?» «La gente che vive meglio di noi». «Tutti vivono meglio di noi, nel caso non te ne fossi accorto». «Sì, ci sto pian piano arrivando. E voglio tirarmi fuori dalla categoria dei derelitti umani». «Lavorando…». «Sì!». «Innamorato?» «Sì!». «Bene, vai con Dio», mormora incredulo, scuotendo la testa. «Ma tu non credi in Dio», gli ricordo ridendo.
Una volta uscito dall’ascensore mi trovo faccia a faccia con Laurel, che mi attende sull’uscio con la porta spalancata. L’ultima volta che ci siamo visti, due lunghissimi e deprimenti mesi fa, non mi ha permesso di mettere dentro casa sua nemmeno un dito. Motivo per cui oggi sono provvisto di fiori. Sì, spero che comportarmi secondo un cliché continui a funzionare o che sia almeno la mia buona stella a fare il miracolo. «Davvero?», esclama incredula, alzando gli occhi al cielo. Vuoi vedere che regalare fiori a questa donna non sortisce mai gli effetti sperati? «Ma sono blu!», le faccio notare.
«Lo sai che mi accuseranno di raccontare sciocchezze e che nessuna mia lettrice crederà mai all’esistenza di una persona come te?», lo accuso colpita. «Diranno che creo aspettative irrealistiche nelle donne!». «E tu di’ loro di aspettare. Prima o poi quello giusto arriva sempre…». E mi bacia ancora.
Note
Io ci vedo una costante dal 2014, voi no?
Ti prego lasciati odiare, 2012
Come inciampare nel principe azzurro, 2013
Finché amore non ci separi, 2014
Tutti i difetti che amo di te, 2014
Un giorno perfetto per innamorarsi, 2015
L'amore non è mai una cosa semplice, 2015
L'importanza di chiamarti amore, 2016
È solo una storia d'amore, 2016
Un imprevisto chiamato amore, 2017
Non ho tempo per amarti, 2018
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Che tristezza mi fanno questi Svedesi. Parlare parlare e non collaborare. Non mi espongo sulle questioni dell’Unione Europea perché non ne so nulla, ma su questa news, mi tolgo qualche sassolino dalla scarpa.
Noi italiani non siamo arrabbiati perché ci avete eliminato dalle qualificazioni mondiali; per quello abbiamo già dimostrato sul campo cosa sappiamo fare, vincendo 4 Mondiali, andando numerose volte nelle finali di tornei internazionali e qualificandoci a Euro 2020/21 senza nemmeno una sconfitta...
Siamo un Paese profondamente diverso da Voi; Voi siete conosciuti per H&M, Ikea, Vikings, Ibrahimovic, Millennium - Uomini che odiano le donne - e poco altro. Noi non lo sto neanche ad elencare, ci vorrebbero una ventina di post almeno.
Noi siamo il Paese dove la cultura occidentale ha preso forma ed è cresciuta, Voi siete quei barbari che arrivavano e distruggevano tutto quello che trovavano a portata di mano(per i lettori, non è un’opinione razzista, è Storia documentata dai fatti). Sono cambiati i tempi, ma IKEA e H&M hanno fatto la stessa cosa con gli artigiani/mobilieri/piccole attività...(ma questa è un’altra storia..)
Soprattutto Noi non ci arrabbiamo se un Paese sta male, subisce uno tsunami, una pestilenza, è il primo luogo di approdo di migliaia di migranti. Noi, quel Paese, lo sosteniamo, lo aiutiamo, fisicamente ed economicamente. Noi, per Voi, in casi come questo ci faremmo in quattro tra Protezione Civile, Misericordia, Croce Rossa, Verde, etc
Infine e dopo tutto ciò, Noi abbiamo preso delle decisioni, Voi delle altre. Cerchiamo di rispettarci, perché il #Virus non conosce ne NOI ne VOI, ma TUTTI!
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