#ovviamente cioè sfido chiunque
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Comunque io ricorderò sempre la puntata di ctcf con Matteo che ha voluto sottolineare che don Matteo è stato il suo primo set e la prima persona che ha visto è stata Nino Frassica (lui non se lo ricordava)
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Testo e foto di Fabio Alcini
Ghemon si presenta al PeM! Parole e Musica in Monferrato per parlare del suo primo libro, Io sono. Diario anticonformista di tutte le volte che ho cambiato pelle e nel farlo racconta di tutta l’evoluzione e di tutti i problemi che lo hanno visto protagonista.
Il rapper avellinese ha un bagaglio di successi ma anche di sofferenze che ha raccontato con pochissimi filtri all’interno, prima, di canzoni nelle quali spesso era anche l’inconscio a parlare. E poi di questo volume (pubblicato da Harper Collins Italia) in cui si parla anche, ma non solo, della battaglia con la depressione.
Nella serata, che vede come sempre il giornalista e direttore artistico del festival Enrico Deregibus a condurre le danze, si parte parlando del libro ma anche di rap e hip hop (con la distinzione in base alla quale il rap è la tecnica e l’hip hop è la cultura di riferimento). Ghemon racconta come ci sia “inciampato” da ragazzino finché non è diventato “le lenti a contatto con cui guardo il mondo“.
Non ha problemi nel dichiararsi “un secchione”, uno che ha lavorato tanto anche per effettuare tutti quei cambi di pelle di cui si parla nel sottotitolo del libro. Così racconta delle origini del rap, che definisce democratico, perché alla portata di tutti, e meritocratico perché se sei bravo vieni ricompensato. Perché funziona tra i ragazzi? Perché fornisce messaggi chiari, veloci e diretti. E’ come Whatsapp: parla sempre di cose vicine e immediate.
Certo ha le sue regole: per esempio per il fatto che parlasse un italiano corretto, che conoscesse la consecutio temporum e che sapesse mettere in fila due congiuntivi “Mi hanno messo all’angolo”, racconta, un po’ ridendo ma un po’ anche no.
Ghemon: quando un motorino non comprato ti salva la vita
Ghemon @ PeM!
Il fatto che il padre non gli abbia comprato il motorino si trasforma in un evento decisivo per la sua vita. Lo ha portato infatti a camminare per strada con il walkman. “Ero ad Avellino, però nella mia testa ero a Brooklyn a girare un video. Se mio padre mi avesse comprato il motorino ora sarei in galera”.
Si arriva a raccontare de La rivincita dei buoni, titolo del primo disco solista del 2007, come provocazione contro il gangsta rap che in quegli anni andava per la maggiore. Ma non bastava: così arriva l’impegno per imparare a cantare con i primi esperimenti non proprio perfetti (Ghemon parla apertamente di “gallina strozzata”).
Ma poi con l’impegno “da secchione” le difficoltà si superano. E’ in questa fase che arrivano le canzoni che parlano della depressione prima ancora che questa abbia un nome e un giudizio clinico.
Sullo schermo intanto scorrono le immagini di alcuni dei video della sua carriera, testimoniando la consistente evoluzione anche fisica, dovuta a un disagio spesso combattuto con il cibo.
Il rap, spiega, è fumettistico al punto da permettere di fabbricarsi una propria personalità del tutto inventata. “Io ho rovesciato il pentolone e ho deciso di dire la verità. A rischio di sembrare fragile“.
Si parla della depressione. Che, spiega, non è un problema “caratteriale” e neanche la mancanza di forza di volontà. Anzi forse è più la mancanza di ciò che sta a monte, all’origine della forza di volontà.
Arriva il trarttamento psichiatrico, affidato all’esperienza del padre dell’allora fidanzata. “Sfido chiunque ad andare a dire cose del genere a tuo suocero”.
Ghemon: 500 sneakers e Massimo Ranieri
C’è spazio anche per momenti più tranquilli, come quando si parla della collezione di sneakers. Ne ha oltre 500, dice di essere l’unico uomo che ha più scarpe della fidanzata e confessa: “Mi è servita in passato. Diciamo che “vuoi salire a vedere la mia collezione di scarpe?” è la nuova edizione di “Vuoi salire a vedere la mia collezione di farfalle?”.
Adesso sono qui, video e canzone d’apertura di Orchidee del 2014, è presentato come uno spartiacque, perché ha significato provare a mettersi in gioco cantando e non rappando, e su musica veramente suonata e non su basi.
Ghemon @ PeM!
E arriva il momento di una rivelazione veramente scabrosa. “Quando mi chiedono che cosa vuoi fare da grande? Rispondo: Massimo Ranieri, voglio fare Massimo Ranieri”. Questo per spiegare l’aspirazione alla versatilità del grande cantante e attore napoletano.
Ma non è la tradizione melodica partenopea alla base delle sue aspirazioni (benché confessi ascolti, conditi fra l’altro da episodi di canto, in stile neo melodico napoletano). Ma è più l’America il motore e il target dei suoi intenti, tanto che racconta come sia nato circa un anno dopo il viaggio di nozze dei genitori a New York: “Dai, lì un bacino se lo saranno dati…”
Si arriva chiacchierando a tempi recenti, per esempio proprio di Adesso sono qui e del suo arrivo, per vie traverse, sul gioco per Playstation e Xbox NBA 2K17, il massimo per un grande appassionato di pallacanestro come Ghemon. Proprio nel periodo in cui le major di casa nostra rifiutavano il suo disco perché il disco non era “strutturato” secondo i loro criteri.
Si chiude con qualche domanda dal pubblico, dalla quale emerge anche qualche dettaglio sull’esperienza sanremese a fianco di Diodato e Roy Paci. E Ghemon racconta di una grande tranquillità durante l’esperienza. “Non mi fa paura. In fondo sarebbe peggio essere a casa con la depressione, no?”
Ghemon: l’intervista
TRAKS è media partner di PeM! e ha ovviamente approfittato per rivolgere qualche domanda faccia a faccia a Ghemon, parlando del libro, di musica e di parecchio altro.
Come nasce il libro?
L’idea di fare un libro era una cosa che avevo io in generale, da appassionato della scrittura e dell’italiano scritto. Che capitasse quando è capitato è stata una coincidenza fortunata. Coincidenza e non caso: stavo facendo una chiacchierata pubblica con una giornalista e una scrittrice perché il Corriere della Sera aveva organizzato un evento per sottolineare punti in comune e differenze della scrittura su se stessi tra un autore di canzoni e una scrittrice.
Alla fine dell’incontro, una persona di quella che è diventata la mia casa editrice, Harper Collins, mi ha presentato un bigliettino, prendendomi effettivamente di sorpresa. Diciamo che me lo sono abbastanza guadagnato sul campo, per fortuna…
Sei molto aperto nei testi delle tue canzoni, anche quando si tratta di parlare di cose che ti hanno colpito molto da vicino. Aprirti nel libro è stato diverso?
Il libro ha dei tempi dilatati rispetto alla canzone, il racconto è più estensivo, si ritorna sulle cose. Io volevo raccontare con dovizia di particolari. Quindi anche soltanto ritornare con la memoria su un ospedale o su un’altra cosa spiacevole non è il massimo.
Ghemon @ PeM!
Però ero talmente tanto stanco, come persona, ma già fin da ragazzino, delle apparenze, che ho iniziato a usare quest’arma abbastanza scocciante della verità. E quindi niente, vado avanti con questa perché mi ha portato bene.
Nel libro dire la verità su determinate cose è stato un po’ più difficile da elaborare ma mi ha aiutato a mettere ordine. A me è tornato utile comunque. Per quello lo chiamo “diario” più che autobiografia.
Ancora più catartico delle canzoni?
Sicuramente ne ha fatto un bel pezzo. Non saprei dire se uno o l’altro. Le canzoni si portano appresso il vantaggio di essere cantate dal vivo, che conclude la catarsi iniziata in studio. Quella è più o meno l’immagine per me: nel momento in cui dal vivo esprimi la canzone e davanti c’è una persona che la riceve, l’energia è messa in maniera definitiva. Il libro ha avuto una vita tutta sua, ma sicuramente è molto catartico.
Da quando lo hai pubblicato quante domande ti hanno già fatto sulla depressione?
Tutte! Ma anche prima… Diciamo che l’argomento trattato ha avuto tre stadi: il “pre”, cioè “so che ce l’ho, ne vorrei parlare perché credo possa essere utile”; il parlarne, che ha portato tantissimi ringraziamenti. E più che solidarietà, perché non volevo la compassione, ma far aprire gli occhi su una cosa della quale si fa fatica a parlare, tantissima gratitudine molto discreta, che ho tanto apprezzato.
E la terza fase, in cui sono adesso: io sto decisamente meglio, parlarne è stata una grandissima responsabilità che andava utilizzata con molta cautela, perché non tutti i casi sono uguali, non tutte le persone sono uguali. Perciò non si possono dare false speranze né affossare le speranze.
Ma so anche che quella non è l’unica cosa che definisce la mia vita. Se fossi diabetico non credo che il diabete mi definirebbe come persona. Di conseguenza ora sono anche più tranquillo da quel lato: nonostante le tante domande, so che non è l’unica cosa che faccio, ho tante cose di cui parlare e non rimarrò intrappolato nel personaggio.
Quindi anche le risposte sono state tante…
Tantissime. E’ stato sorprendente, anche il tenore dei messaggi, dei “grazie”. Zero sono state le persone che hanno detto una cosa compassionevole o contraria. Ma anche perché ho soltanto promosso il fatto che se ne parli, che ci si informi, che si contattino persone competenti. E ho raccontato la mia esperienza. Spero di averlo fatto in una maniera dignitosa.
Ci sono anche persone che sono arrivate da lontano, magari leggendo qualcosa su internet e soltanto poi sono arrivati ad ascoltare i dischi. Mi è successo anche con il libro: ed è una gran fortuna che qualcuno abbia letto il libro e poi abbia ascoltato i dischi. Perché così si è proprio capovolta la prospettiva: qualcuno ha letto la mia storia e poi è andato a cercare riscontro nei pezzi.
Ghemon: essendo onesto mi faccio voler bene
A proposito di pezzi: come nasce “Criminale emozionale”?
E’ figlio di questo momento qua. E’ la canzone di uno che si è appena svegliato e ha una gran voglia di fare colazione e mentre sta preparando il caffè se la balla… Spero che la metafora aiuti!
Volevo toccare un argomento: la questione che anche tra amanti le persone si giudicano sempre per l’apparenza. Io lo dico che sono uno che è un po’ “rotto”, con qualche rotella fuori posto… Però sono onesto, e anche se non sono affidabilissimo, essendo onesto mi faccio volere bene.
“Mezzanotte” è uscito l’anno scorso: stai già lavorando a qualcosa di nuovo?
Ghemon @ PeM!
Non ho cose da parte se non un paio abbozzate. Il tour è finito la settimana scorsa, ma sento “brulicare”, c’è qualcosa lì a cui devo andare a dare ascolto. E’ una cosa che farò a breve.
Mi ha sorpreso leggere che uno dei primi dischi che ti ricordi è “… but seriously” di Phil Collins, forse uno non se lo aspetterebbe da Ghemon… Dischi non hip hop che stai ascoltando in questo momento?
Sono un po’ fregato dal fatto che piacendomi la black music, se non sto ascoltando una cosa rap sto ascoltando una cosa soul, oppure una r&b, oppure una jazz… E adesso vado tantissimo di playlist.
Poi ogni tanto mi alzo la mattina e mi dico: “Cavolo c’era quella canzone…” Oggi mi sono messo ad ascoltare le canzoni di un cantante degli anni Settanta molto bravo ma molto poco conosciuto che si chiama Norman Connors… Posso consigliare di andare a cercare le sue canzoni, ce ne sono tante molto belle e di molta sostanza.
E invece uno hip hop?
Uno che sto ascoltando in questo momento, e che in fondo non è neanche tanto hip hop, è di un ragazzo che si chiama Masego: rapper, cantante, sassofonista e anche produttore… Un miscuglio di rap, cantato, una cosa molto libera, che è quello che mi attira di più.
Confesso che avrei voluto fare tutta l’intervista parlando della reunion degli Articolo 31, ma ormai ho finito il tempo. Ma mi devi spiegare una cosa, da insider della scena hip hop. Perché nelle interviste alla domanda: “Chi dei tuoi coleghi ti piace”, ogni rapper risponde: “Nessuno”?
Dirò una cosa che non è proprio un complimento… E’ come se noi fossimo, non voglio dire la serie B, ma il campionato greco… Sappiamo che in Europa c’è già la Premier League, la Liga, la Ligue 1 che sono più avanti…
Parliamone in termini cestistici: l’Eurolega e la NBA…
Esatto, con il basket si riesce a fare meglio. Sicuramente guardi con rispetto e curiosità quello che fanno i tuoi colleghi ma quello a cui ti appassioni di più è quello che viene dalla fonte.
Però un po’ di ragazzi che fanno cose interessanti li ho trovati. Non mi dispiace Tedua, che sta riscuotendo dei buoni numeri. Sicuramente il resto verrà. A me piace Mecna ma si tratta anche di un mio amico.
La trap?
Ci sono tantissime cose che si somigliano tantissimo, ancora non si capisce bene… A parte appunto Tedua, IZI, ragazzi di Genova, che trovo bravi e molto “distinti”. Per il resto faccio fatica a capire chi è chi… Secondo me invece arriveremo tra molto poco a un artista magari giovane, nuovo che però può riprendere a livello di poetica o lirica le cose più rap che si facevano prima.
Come negli Stati Uniti possono essere Kendrick Lamar, Jay Cole: insomma qualcuno che rappresenti non soltanto la parte trap ma anche quella più classica, un volto fresco. Sono sicuro che a breve ce ne sarà uno che farà un buon successo. Quello lo aspettiamo a braccia aperte.
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Ghemon al PeM! 2018: a rischio di sembrare fragile Testo e foto di Fabio Alcini Ghemon si presenta al PeM! Parole e Musica in Monferrato…
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Trump’s biggest lie
Suona ancora incredibile, ma venerdì alle dodici (ora locale) ha giurato il più improbabile presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Più improbabile finanche di Silvio Berlusconi Presidente del Consiglio («Der Spiegel», però, scrive che sono esattamente uguali).
Al di là della sua tipica vita di miliardario spaccone e cafone, dallo zero in politica e dai molti scandali sessuali, possiamo meravigliarci solo di come quel sistema elettorale (mettiamoci l’anima in pace anche noi Italiani: il sistema elettorale perfetto non esiste. Punto) abbia incoronato il peggio, nonostante la meno peggio (Hillary) avesse sopravanzato ‘The Donald’ di più di tre milioni di voti. Da ciò possiamo solo ricavarne che il leggendario ‘voto popolare’ non conta mai una cippa.
(Trump, nel suo narcisismo che genera costantemente bugie e menzogne, ha osato twittare che quei voti appartengono ad elettori illegali. Sic.)
La chiave per comprendere Trump si trova unicamente nell’analisi della sua atroce e contorta personalità di paranoico vendicatore--come egli stesso dimostrò nel reality “The Apprentice”--che ammalia la parte viscerale di un popolo il quale si sente defraudato di maggiore ricchezza.
Tuttavia, il mondo è bello perché è vario. Sfido chiunque bookmaker ad aver mai immaginato di proporre una scommessa sulla possibilità che una semi-sconosciuta modella slovena potesse stringere tra le mani niente-poco-di-meno-che la Bibbia di Abraham Lincoln, su Capitol Hill.
Breve il discorso neo-presidenziale, in stile anaforico in un crescendo d’invettive contro chiunque (Severgnini ha detto che la faccia di Trump sembrava quella di chi sta dichiarando guerra alla galassia intera), principalmente contro Obama.
Secondo Trump, gli USA sono nel peggior stato socio-economico possibile. Ovvio che non è così. La loro disoccupazione è calata drasticamente e l’Obamacare ha aiutato molti, anche se gli Americans rimangono riottosi a pagare un’assicurazione sanitaria pubblica rapportata al reddito (noi Europei, invece, sì), sfidando sempre il destino, affinché li conservi sempre in buona salute.
La crisi che ha distrutto molte famiglie è lontana, i segni per molti rimarranno indelebili, ma l’hanno globalmente sfangata. Tuttavia, ha vinto Trump che descrive un Paese orribile.
Americani popolo ingrato?
No: Americani popolo avido. Gli USA descritti da Trump venerdì dal palco inaugurale non corrispondono alla realtà. Non c’è un’apocalissi in atto ed è inutile usare le storiche e secolari disuguaglianze di classe (molto vistose rispetto ad altri Paesi occidentali) dell’America spacciandole per il declino di una nazione in atto. Poi, da che pulpito! Un miliardario che ha fatto fortuna con i vizi umani (tette, casinò e televisione) mica con imprenditoria etica.
Eppure, sta lì, questo improbabile Presidente, avendo fatto leva sull’ingordigia di quella gente a voler star meglio, esattamente come quando la vittoria di Berlusconi venne decretata dal voto operaio: la promessa di un sogno di ricchezza per tutti. Votare come comprare un gratta-e-vinci dal premio certo: un lavoro/un lavoro migliore/uno stipendio maggiore/una pensione sicura/un futuro stupendo per i figli (magari calciatori o SWAG)/sanità di gran qualità/vacanze al mare/settimana bianca/tre-volte-Natale/Pasqua-tutto-l’anno.
Con Berlusconi andò così. Con Trump è andato così, ovviamente rapportato ai desideri dell’americano medio, condendo il tutto con più razzismo e più pistole, cioè, aggiungendo un nuovo nemico (ora il cima alla lista ci sono i Messicani e poi gli Stati parassiti aderenti alla NATO) in una farandola più vistosa di continue bugie, considerata la sua patologia narcisistica da manuale.
Ha affermato di non aver mai insultato nessuno, nonostante centinaia di testimonianze giornalistiche (e decine e decine di suoi tweet) lo smentiscano.
Scordiamoci l’ispirante e creativo ‘Stay hungry. Stay foolish’ di Steve Jobs, perché il motto di Trump è ‘Be paranoid’ e l’America si trova più comoda a pensare paranoide che diventare accogliente, ragionevole e matura.
Come venire a patti con gente come Trump?
Ci pensò già Esopo, nella favola del corvo e della volpe: compiacerli affinché anneghino nel brodo di giuggiole che amano tanto, perché alla fine puoi mentire a tutti per poco o a pochi per molto, ma non a tutti per sempre.
©Orticalab
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